Flussi di Sergio Benvenuto

Ritratti d'America nel 200003/mar/2017


Grassa America

 

Nel gennaio scorso, in California, incontro un giovane di 28 anni: mi annuncia che progetta di andare tra un paio d’anni in pensione, a settemila dollari al mese.  Per qualche anno ha lavorato a yahoo e ha guadagnato una barca di soldi, tanto da vivere di pensione per il resto della vita.  Tanti giovani, in California, sono nelle sue condizioni.

E’ nella West Coast che si tocca con mano quanto gli Stati Uniti siano davvero grassi.  Anche fisicamente: si vedono sempre più obesi.  Rattrista vedere tanti adolescenti, che potrebbero essere belli, tutti cicciottelli passare ore a manipolare videogiochi interattivi.  Ingrassare in America è inevitabile – anche per chi, come me, crede di mangiare come in Europa.  Il cibo americano è fortemente processed, strapieno di additivi – credi di mangiare poco e invece ingrassi.

Ma l’opulenza americana è soprattutto economica.  Quando chiedi a uno della California in quale settore lavori, uno su due ti risponde: computer, Internet, software, commercio on-line.  Se non vuoi o non puoi entrare nell’elettronico e connessi, rischi di restare povero.

        I Collins sono una famiglia media dell’area di San Francisco.  Lui cuoco in un ristorante, lei impiegata, elettori democratici da sempre.  Un paio di anni fa, seguendo il vento, fecero un esperimento educativo: regalarono poche centinaia di dollari ai loro due figli, allora di 12 e 14 anni, perché giocassero a giocare in borsa.  Adusi a Internet, i pargoli sapevano come investire allo stockmarket senza muoversi di casa.  Da bambini quali erano, hanno investito da bambini: Disneyland e Amazon (perché, andando a scuola, danno importanza ai libri).  Non potevano scegliere titoli più redditizi.  Dopo due anni, hanno decine di migliaia di dollari.  Anche i bambini, giocando, si arricchiscono.

        Quando arrivai a New York la prima volta, nel 1989, brulicava di mendicanti, di solito neri.  Adogni angolo di Manhattan qualcuno ti chiedeva can you spare some change?, ogni cinque minuti in qualsiasi vagone della metro passava qualche rottame umano a questuare.  In nessuna città europea la miseria si esibiva così sfacciatamente come allora in quella città.  Oggi certo i poveri non sono scomparsi a NY ma non sono molti di più dei soliti barboni delle grandi metropoli europee.  Il sindaco Giuliani si è preso il merito di aver ridotto a New York la criminalità del 60%, ma sospetto che più della sua politica repressiva abbia funzionato il boom economico degli anni 90.  Del resto, la criminalità è diminuita in tutte le grandi metropoli americane, anche quelle che non  applicano la “tolleranza zero”.

La nuova rivoluzione industriale basata sul virtuale probabilmente avrà un impatto simile a quella che ebbe nel XVIII° secolo la meccanizzazione dell’industria tessil, prima di tutto in Inghilterra – e, proprio come oltre due secoli fa, è un paese anglofono a guidare la nuova rivoluzione industriale.

 

Sexual abuse

 

        Giungo nel novembre 1998 in California; ci mancavo da dieci mesi.  Chi torna in un paese vede le cose meglio di chi ci è rimasto sempre.  Appena arrivato, una mia amica psicologa mi informa di essere stata denunciata all'Ordine degli Psicoterapeuti come propugnatrice dell'incesto.  In effetti aveva confidato a una persona di star scrivendo alcune riflessioni su una sua esperienza incestuosa subita nell'infanzia, ma non certo per proporla come modello.  La spiona aveva registrato segretamente la loro conversazione e la aveva denunciata.  La mia amica ha dovuto affrontare un processo e alla fine ha "patteggiato": ha accettato di sospendere la sua attività psicoterapica per un anno.  Il suo avvocato è specializzato nel trattare casi simili in tutti gli Stati Uniti.  E’ il nuovo maccarthismo: decimare psicologi e psicoterapeuti sospettati di indulgenza per l’incesto e la pedofilia.

        Il giorno dopo, apprendo che una mia amica della Virginia, emigrata bambina dal Belgio, da qualche settimana delira.  Racconta a tutti che sua nonna - ormai ultraottantenne - avrebbe approfittato sessualmente di lei all'età di tre-quattro anni quando viveva in Belgio.  Sconvolta da questa reminiscenza, dopo oltre 40 anni, era partita per Bruxelles per chiedere spiegazioni alla nonna perversa.  Ho parlato con questa amica, chiaramente in uno stato di eccitazione morbosa.  Come psicologo, ho visto tanti paranoici europei: eppure nessuno aveva deliri così politically correct.  Anche le paranoie seguono le mode nazionali.  Tutto quel suo turbamento - vero o falso che fosse il suo ricordo - era very American.  Infatti, il fondo della sua querela era che l'America dove vive è un paese puro, dove la gente persegue la felicità (come prescrive la Costituzione) e non il piacere, a differenza di quei porci europei come la sua famiglia originaria, inclini alle perversioni.  E poi, aggiunge, “quando racconto ai miei amici europei quel che mi successe da piccola, mi prendono per pazza – quando racconto la cosa agli amici americani, mi danno ragione”.

        Negli stessi giorni, mi si dice che in California molti insegnanti delle scuole elementari e degli asili infantili sono stati denunciati, o licenziati, per aver praticato riti satanici ai danni dei bambini loro affidati.  Si tratta di un altro delirio, questa volta collettivo? Ma ormai in America la differenza tra delirio e realtà si stempera, comincia a divenire irrilevante.  In quegli stessi giorni, nel 1998, in America tutti i giornali, tutte le reti televisive, commentatori, opinion leaders, columnists, vignettisti, elzeviristi, DJ, showmen, non parlavano d'altro che del caso Clinton-Lewinski.  Una valanga di commenti, analisi, riflessioni, invettive, insinuazioni, auspici.  Il contatto tra Bill e Monica c’era stato realmente, ma la valanga mi appariva tutto un delirio.

Qualche giorno dopo a Berkeley incontro una signora sui 65 anni.  Mi dice che da anni non può più vedere sua figlia, che ha oggi 25 anni.  Perché? "Mi ha denunciato per aver svolto pratiche sataniche, a sfondo sessuale, con lei da bambina." Guardo l'anziana signora: è una persona colta, di ampie vedute, simpatica.  Nella sua vita avrà fatto l'errore di seguire le tecniche educative no restraint del dottor Spock, ma non ha l’aria di chi pratichi riti satanici.

        “In quale paese sono finito?”, mi chiedo.  Possibile che la nazione più potente del pianeta sia tutta febbricitante di deliri e processi a sfondo sessuale? La maggioranza dei miei amici americani dice le stesse sagge banalità  che dicono i miei amici italiani: che l'America è un paese maledettamente puritano, malgrado il fatto che i film hollywoodiani siano sempre più spudorati.  Eppure loro stessi, a tavola, al bar, non parlano che del Sexgate di Bill e Monica, cosa di cui hanno parlato già altre centinaia di volte, con altre centinaia di conoscenti, facendo gli stessi commenti centinaia di volte.  Ripetendo fino all'ossessione che i loro concittadini sono ossessionati dal sesso, partecipano loro stessi all'ossessione che denunciano.

        Negli anni ‘80 fece scalpore un libello di Jeffrey Masson che denunciava Freud per aver ingannato i suoi contemporanei: Freud si sarebbe convinto che tutti i suoi pazienti nevrotici avevano subito abusi sessuali da parte di genitori e adulti, ma non lo aveva detto.  Continuamente in America mi imbatto in psichiatri, psicologi, educatori, predicatori convinti che se uno soffre di qualche turba psichica è perché nell'infanzia è stato molestato o violentato da qualche adulto.  Sempre più i film americani parlano di incesti – tra quelli in circolazione, Girl interrupted, Le regole della casa del sidro e Magnolia - che avrebbero marcato la vita di alcuni dei personaggi.  Chiunque abbia a che fare con l'infanzia, a cominciare dai genitori, è ormai sospettato.  Ferve la caccia all'untore, anche se non c'è alcuna peste di cui trovare i colpevoli.  O forse la peste c'è, gli americani ci vivono dentro: se fosse il malessere di essere americani?

        I rapporti tra le generazioni sono diventati un buco nero nella vita americana, una voragine nella quale si calano sospetti farneticanti, vendette e caccie alle streghe, falsi ricordi e colpi bassi politici, strascichi edipici e allucinazioni di massa.  Occorre mettere l'America sotto osservazione clinica.

        Ma, con ogni probabilità, tra poco faremo lo stesso anche in Europa.  L’incesto – tema tabù fino ad ora – diventerà tra qualche mese o anno un tema dominante sui media, nella letteratura, nei dibattiti anche da noi.  Non so se arriveremo anche in Europa agli eccessi americani, ma certo seguiremo a ruota.  Consiglio agli psicologi e psichiatri europei continentali: preparatevi a fronteggiare una valanga di anamnesi incestuose.  Ne sentirete delle belle.

 

 

Il popolo in armi

 

        Nel corso degli ultimi due anni è cresciuto in Italia un sentimento anti-americano, che unisce, come nella tradizione italiana, sia la destra che la sinistra.  Soprattutto dopo le esecuzioni di Joseph O'Dell e di Paula Tucker condannati a morte, crea ripugnanza il patibolo facile negli USA.  E la fabbrica US dei "morti di stato" appare solo un esempio della violenza sfrenata della vita americana.  Anche l'assassinio di Versace a Miami, nel 1997, è stato interpretato da noi in questa chiave.

        E’ indubbio che gli Stati Uniti sono uno dei paesi più repressivi al mondo.  Nel 1991, 504 cittadini americani su 100.000 erano in carcere, e 1704 su 100.000 erano sottoposti a qualche forma di libertà vigilata.  Cioè: quasi 1 maschio adulto su 100 è privo della libertà.  Gli USA sono al secondo posto nel mondo, dopo la Cina, per numero di incarcerati.  Anche Clinton sostiene la pena di morte – se fosse contro, si assicurerebbe l’impopolarità.  In effetti, i sondaggi sono spietati: malgrado una valanga di film hollywoodiani contro la pena di morte – da Dead Man Walking fino a The Green Mile – almeno due americani su tre sono per la pena di morte.

        25.000 persone vengono uccise ogni anno in USA, dove ribollono conflitti etnici e razziali violenti.  Ci vien detto che persino i ragazzi vanno a scuola armati.  E poi l'America non è il paese dove ci sono 300 milioni di fucili e pistole nelle mani di privati? Allora gli americani sono un popolo sanguinario?

        Eppure la diffusione privata delle armi è un retaggio ideologico: tanti americani sono convinti che il cattivo di turno - tedesco, fascista, giapponese, mafioso, comunista, libico, iracheno, fondamentalista islamico - possa essere ricacciato solo da padri e madri di famiglia pronti a tirar fuori lo schioppo dall'armadio di casa, come si vede nei western.  La convinzione originaria è che un popolo libero è un popolo armato.  Il culto americano del fucile in casa è un retaggio delle origini rivoluzionarie e direi libertarie dell'America, più che l'effetto di una morbosa voglia di sparare.  Per i conservatori il disarmo dei cittadini a opera di uno stato burocratico significa la fine del canto leggendario dell'America paese di cittadini liberi.

Sono convinto che l’inflessibilità americana nei confronti dei criminali dipenda dalle origini calviniste degli Stati Uniti.  Non a caso in un film americano del 1996 su un condannato a morte - Dead Man Walking - l'eroina compassionevole è una suora cattolica (Susan Sarandon) non un pastore protestante.

        La Riforma protestante si oppone alla concezione cattolica secondo cui l'uomo merita il Paradiso attraverso le sue buone opere.  Per il calvinista nessuno può comprarsi la vita eterna operando bene, e nemmeno facendo la buona azione di pentirsi sul punto di morte: l'imperscrutabile volontà di Dio ha scelto chi sarà salvo e chi non lo sarà.  La volontà umana è del tutto impotente nel meritarsi la Grazia.  Significa questo allora che il comportarsi bene è del tutto irrilevante? Niente affatto.  Come fece notare Max Weber nel saggio più famoso di tutta la sociologia, l'agire rettamente viene interpretato dal calvinismo come un segno del fatto che Dio ci ha scelti.  Insomma, non è facendo buone azioni, come pensano i cattolici, che si va in Paradiso, ma il fatto di essere stati scelti per il Paradiso si manifesta nell'agire bene.  Agire male è non la causa ma il segno della nostra perdizione.  E non sarà certo un pentimento tardivo a forzare la mano di Dio.  In questa ottica, chi assassina rivela di essere perduto.  Molti sistemi penali di paesi cattolici puntano alla riabilitazione del criminale perché alla loro base c'è la teologia cattolica del riscatto attraverso il libero arbitrio: per quanto possa esser stato orrendo il tuo misfatto passato, un futuro virtuoso potrà cancellarlo e tu sarai salvo.  Non c'è da stupirsi allora se in Italia un prete si prende cura delle anime di alcuni mafiosi, e se un capo mafioso, Aglieri, legge opere pie e Kierkegaard.  Invece la teologia di battisti, metodisti, presbiteriani, episcopali, puritani precisisti, terministi, pietisti, ecc. - di coloro che hanno fondato l'America e le sue istituzioni - non crede nel recupero del criminale.  Per il calvinista, nessun pentimento, nessuna conversione tardiva, potranno cancellare quel che il crimine significa attraverso i suoi atti - l'esclusione dalla Grazia, per sempre.

        Oggi gli Stati Uniti risultano sempre più un coacervo di razze, religioni, culture ed etnie diverse.  Così una parte dell'America reagisce al coacervo con un ritorno all’originario rigore del fondamentalismo protestante.  Certo molti americani si illudono che la pena di morte sia un efficace deterrente del crimine.  Ma questo ragionamento discutibile convince gli americani perché l'America è la creatura del fondamentalismo eretico dell'Europa del Sei-Settecento.  Non dobbiamo mai dimenticare la genesi eterodossa, "estremista" del primo paese democratico al mondo.  A differenza di noi europei, gli americani non sono figli della loro storia - sono figli di una fortissima ideologia.  Perciò sono fortissimamente repressivi.

 

Trattini e Grand Hotel

 

Un europeo negli USA trova ben presto fastidiosa, se non oppressiva, l’eccessiva petulanza americana in fatto di identità etniche, religiose e culturali.  Pare quasi che non si occupino d’altro.  Se si invitano delle persone a cena, ci si informa subito di quale religione siano – se risulta che qualcuno sia ebreo, ad esempio, si eviterà con cura di preparare cibi non kosher.  A parte i WASP, ogni americano si presenta come hyphenated: Italian-American, African-American, American-Jew, Chinese-American, Cuban-American, ecc.  Ogni gruppo hyphenated coltiva in modo parossistico tratti culturali “originari” - e quando questi fanno difetto, se li inventa.  Ad esempio, va forte tra i neri la Kwanza, una festa etnica celebrata come paradigma di africanità, ma in gran parte immaginaria.  I neri, che furono completamente sradicati, da oltre un secolo cercano di reinventarsi una continuità storica - alcuni come Malcolm X confluirono nell’Islam, perché lo percepivano come religione africana.  Per non parlare delle specificità sessuali: quando ti presentano un gay costui si etichetta subito come tale subito dopo averti detto il suo nome.  Se dici man anziché dire human being quando parli dell’uomo in generale, le donne subito ti danno del machista.  Solo in America molti ebrei sono riconoscibili subito – mai ho visto in Europa sette ebraiche, islamiche o cristiane esibire in modo provocatorio le loro fogge ortodosse.  E anche i fumatori – razza che sembra in via di estinzione – tendono oggi a fare gruppo semi-etnico: American-smokers.

Questa sopravvalutazione delle differenze non è una iper-reazione alla persecuzione delle minoranze.  L’Europa, più dell’America, ha una storia di persecuzione delle minoranze.  I molti ebrei francofoni e americani che conosco sono unanimi: in America non sentono la pressione antisemita che sentono in molti paesi europei, in particolare in Francia.  Di solito dicono “adoriamo l’Europa, peccato che sia tanto antisemita!” Certo conflitti etnici in America ce ne sono sempre stati e ce ne sono in misura crescente – ma vedremo se l’Europa, quando la massa migratoria aumenterà, riuscirà a essere più tollerante degli yankees.  Ho dubbi su questo.  Un partito xenofobo è al governo in Austria, e tra un paio d’anni un altro partito xenofobo (la Lega Nord) probabilmente andrà al governo in Italia.  Perché allora questa ossessione identitaria? 

Per molti americani gli USA sono un Grand Hotel.  Tantissimi americani trovano il loro paese brutto e noioso come lo sarebbe un albergo dove tutti cercassero solo compromessi per non pestarsi reciprocamente i piedi.  Non prevale un carattere etnico, l’America non ha UN cuore.  Ma proprio per questo chi vive nell’albergo trova essenziale esaltare le proprie radici, avere un PROPRIO cuore.  E se queste radici le ha perse, se le inventa.  Mentre in Europa tutti ci conformiamo all’etnia dominante – in Francia ci francesizziamo, in Inghilterra ci anglicizziamo, ecc. – in America ognuno è chiamato a “etnicizzarsi” sulla base del menù disponibile, pena la solitudine.  Nell’etnia includo anche la sexual orientation: è in America, non in Europa, che gay e lesbiche si sono concentrati in ghetti dorati, come Castro District a San Francisco.  Nel Grand Hotel qualsiasi tratto va bene per fare identità.

Siccome l’America è un albergo, tutti i problemi politicamente e filosoficamente importanti per gli americani riguardano sempre la convivenza tra diverse religioni, etnie, razze, preferenze sessuali, etiche.  La loro etica non è quella kantiana del puro dovere (etica che loro considerano pre-nazista) ma l’etica negoziata della solidarietà e coesistenza tra diversi.  Gli europei invece appaiono agli americani come gente che vive veramente a casa propria

Noi europei siamo così abituati a considerare gli stati in termini etnici, che ci ostiniamo a “etnicizzare” anche gli americani, li chiamiamo “anglo-sassoni” come i britannici, mentre per gli americani gli anglo-sassoni sono gli inglesi.  Un cino-americano o un italo-americano si metterà a ridere se lo si qualifica di anglo-sassone! L’America non è un popolo con radici storiche, è una formula politico-giuridica - e gli US citizens sono convinti che la formula sia la migliore per tutti.  Sono convinti che tutti potrebbero diventare come gli americani, se volessero.  Più e prima dell’URSS, gli USA sono stati e sono il forse unico stato puramente ideologico della storia.  L’Europa appare invece loro non-ideologica, quindi cinica, quindi romantic.  Gli americani vengono in Europa a cercare romanticism, che significa sia storie galanti che senso del radicamento storico.  E molti americani, eternamente occupati a costruirsi identità e definizioni, hyphenations e formule corrette, ci invidiano la nostra spensieratezza, garantita dalle nostre indubitabili radici.

 

“Valori familiari” versus “Compassione”

 

Fino a pochi anni fa, in Italia e in Europa si considerava quasi sconcio far entrare il tema fiscale nel discorso politico serio.  I pochi partiti europei anti-tasse venivano derisi come qualunquismi folkloristici.  Al contrario, da decenni in America l’elettore si sente soprattutto un tax payer.  Per lo più egli considera i politici dei lawyers (laureati in giurisprudenza) pagati con il denaro dei contribuenti perché spendano al meglio il danaro affidato loro da questi contribuenti.  Lo stato, per gli americani, non è l’entità mistica, etica hegeliana, quale appare ancora a molti europei: è solo un dispositivo tecnico che viene finanziato da chi paga le imposte nella misura in cui risulta utile ai contribuenti.  Ad esempio, in Italia si soleva dire “i politici rubano” – nel senso che si approprierebbero di danaro pubblico – quando invece un americano si lamenta dicendo “tutti i soldi che mandiamo a Washington sono mal spesi!” Il politico, per un americano, è soprattutto qualcuno che deve rendere conto di come ha speso i soldi affidatigli dai tax payers.  Perciò l’esecutivo scelto dal presidente viene chiamato Administration: di fatto il ruolo della politica è di amministrare danaro pubblico.

        Per un repubblicano, soprattutto se conservative (perché esistono anche republicans che si auto-qualificano moderate), quel che conta è low taxes e family values.  I due ideali sono connessi: per “valori familiari” il republican intende che l’azione dell’Amministrazione va giudicata se porta vantaggi alla sua famiglia.  Corollario fondamentale: il governo non dovrebbe sprecare danaro aiutando chi non paga tasse perché non lavora.  Certo, per family values un conservatore intende spesso anche una morale puritana (niente aborti, niente diritti speciali a gay e lesbiche, ecc.), ma al fondo egli intende soprattutto questo: “il benessere della mia famiglia è il metro con cui giudicare il mio governo”. 

Invece un democratico dice I have compassion, il che significa "mi rendo conto dei guai di chi sta male".  La sinistra americana più che di giustizia sociale, come quella europea, parla di compassion, che è un sentimento privato, un moto del cuore ancor prima che una strategia di stato.  Compassion non significa tanto pietà, quanto piuttosto che mi immedesimo nei problemi degli altri quando soffrono.  In traduzione politica: occorre che il governo spenda un po’ dei soldi dei contribuenti per aiutare chi sta male (minoranze etniche svantaggiate, ragazze-madri, anziani, malati, poveri).  Per un republican l’aiuto ai più poveri – in forma di welfare, che significa un’allocazione statale a chi ne ha bisogno – mantiene lazy guys, gente pigra, a spese dei contribuenti operosi.  Per un conservatore, c’è lavoro per tutti: se uno è povero o disoccupato, è perché è pigro o vizioso.  Il republican accusa il liberal di “tax and spend”: tassa le famiglie alacri per dare soldi ai pigri.  Il democrat accusa i republicans di mancare di compassion per i concittadini meno favoriti.  Clinton è riuscito, in parte, a riabilitare i liberals perché ha diminuito le tasse e non ha speso molto – prova ne sia che, dopo 50 anni, è riuscito a compiere il miracolo di pareggiare il bilancio federale[1]

L’appello alla compassion prima o poi mette i republicans in difficoltà, dato che di solito si rifanno ai valori cristiani.  Per questa ragione George Bush ha creato lo slogan con cui forse vincerà: compassionate conservatism.  Una quadratura del cerchio.  In America ogni uomo politico tende a includere nei propri slogan – non dico nei programmi politici, dato che essi sono inconsistenti e fumosi – parole-chiavi di successo che hanno fatto vincere l’avversario.  Anche in America contano soprattutto gli slogan.  Del resto, la politica economica degli States – vale a dire la cosa che conta di più – viene fatta dalla Federal Reserve non dall’Amministrazione.  E Clinton è stato eletto due volte grazie al motto “Economy, stupid!”, dicendo insomma agli americani “se mi eleggerete, vi farò uscire dalla crisi economica”, e siccome gli americani pensano che ci sia riuscito lo hanno rieletto.

 

Profitto, non imperialismo

 

Molti in Europa accusano la cultura americana di essere basilarmente imperialista.  Non vedo gli americani come costituzionalmente imperialisti - nel senso di espansionisti.  Loro sono convinti piuttosto che i loro values (democrazia pluralista, libera impresa, pluralismo religioso-culturale) vadano bene per tutti, ma non perché li percepiscono come valori americani: sono per loro valori universali.  In questo proseguono la tradizione cristiana, che chiamerei ideal-centrica – un’ideologia universalista - e niente affatto etnocentrica.  Chi vota repubblicano è piuttosto isolazionista –vorrebbe tornare alla dottrina Monroe.  Lo scudo spaziale di Reagan esprimeva il sogno conservatore più tipico: asserragliare l’America in una fortezza, e abbandonare gli alleati al loro destino.  I liberals sono invece più interventisti perché sono convinti che l’America debba portare dappertutto i valori universali.  Non a caso quasi tutte le guerre del Novecento sono state iniziate da presidenti democratici.  Il guerrafondaio americano è un crociato di sinistra.

        Una cultura invece imperialista è quella giapponese, ad esempio.  Questo imperialismo ha determinato la lunga crisi nipponica degli anni 90.  Gli imprenditori giapponesi hanno in effetti cercato di fare quello che i militaristi giapponesi della prima metà del secolo XX° cercarono di fare per via militare: conquistare il mondo.  La parola d’ordine era: conquistare crescenti quote di mercato ai prodotti giapponesi, a qualsiasi costo.  Invece, quel che conta per un americano è il profitto, non la conquista economica.  Il Giappone aveva dimenticato il profitto, perciò è entrato nel tunnel della crisi.  Oggi anche il Giappone deve americanizzarsi, cioè puntare al profitto, non alla conquista.  Anche i giapponesi devono rassegnarsi al consumismo. 

Oggi non sono i capitali americani a invadere l’Europa, sono i capitali europei a rovesciarsi in America – perciò forza del dollaro, debolezza dell’euro.  Gli americani consumano molti più prodotti stranieri di quanto non esportino i propri, da qui il colossale deficit della loro bilancia commerciale, che ha raggiunto il 130% del prodotto lordo.  Un paese povero con questo deficit sarebbe finito sul lastrico, ma non gli USA - perché, come dice il proverbio, “si presta volentieri al ricco”.  Ma questo è esattamente l’inverso dell’imperialismo economico.  Il popolo americano è un ricco indebitato fino al collo - non diversamente dai singoli americani.  Grazie all’uso sfrenato delle credit cards, quasi ogni americano vanta debiti.  Mentre in Europa essere indebitati è un segno di malessere, in America è un segno di prosperità: chi non ha debiti non conta nulla.  E l’America tutta si sente felice e grassamente indebitata.  Perché l’americano deve vedere il futuro roseo: è convinto che guadagnerà sempre di più e quindi pagherà tutti i debiti.  Questo ottimismo di fondo è il segreto psichico dell’opulenza americana.

Il buon americano – quello esaltato dai film di Frank Capra, per intenderci – è sorpreso e amareggiato ogni volta che si sente ripetere, da qualcuno del terzo mondo, “imperialista yankee”.  Egli è convinto di portare agli altri il Bene.  Ricordo un film boliviano degli anni ‘70, Sangre de condor: un gruppo di americani addetti alla cooperazione con gli indios a un certo punto prende l’iniziativa di sterilizzare alcune povere donne indie che avevano avuto già fin troppi figli.  Applicano a quei campesinos i criteri del Bene americano.  Ma i mariti sono furiosi della sterilità delle mogli, e quindi, alla fine, castrano i cooperatori americani. 

L’imperialismo americano è un malinteso planetario, di cui sono vittime proprio gli americani liberals e democratici, perché sono loro che vogliono portare Bene e Libertà al mondo intero.  Così gli anti-americani del terzo mondo ricordano tanto i patrioti spagnoli che, davanti al plotone di esecuzione dei soldati napoleonici invasori della Spagna in nome della liberté, gridavano furenti “abbasso la libertà!”.

 

Modernizzazione o americanizzazione?

 

In Europa si rischia sempre di identificare americanizzazione con modernizzazione.  Resta il dubbio: quando l’Europa si modernizza, possiamo dire che si americanizza solo perché quelle cose sono state sperimentate negli US in anticipo? Non vi si può dare una risposta in bianco e nero. 

Si prendano alcune misure recenti prese in Italia: l’introduzione della benzina verde, l’obbligo del casco per i motociclisti, l’allargamento degli spazi riservati agli handicappati e la progressiva eliminazione delle barriere architettoniche per favorirli, la separazione alla fonte dei rifiuti ai fini del loro riciclaggio, leggi severe contro i pedofili.  Si tratta di misure puramente tecniche, prive di valore ideologico? Eppure si dà il caso che queste misure fossero già moneta corrente negli USA una ventina di anni fa.  Come in tante altre cose, arriviamo in ritardo.  Ma ci orientiamo verso queste misure perché imitiamo gli USA oppure perché tutti i paesi industrializzati sono destinati a un percorso obbligato, e il privilegio degli USA è solo quello di percorrerlo per primi? Ad esempio, gli USA sono stati paese di immigrazione con un secolo di anticipo rispetto all’Europa, per cui certi problemi che affrontiamo oggi loro li hanno affrontati prima (commettendo tanti errori, ovviamente).  D’altro canto, possiamo dire che preferire una benzina meno inquinante, impedire che i motociclisti si rompano la testa, essere più gentili con gli handicappati, tollerare molto meno i pedofili, siano tratti specifici di americanità? E’ difficile, oggi, separare il grano della modernizzazione dall’oglio dell’americanizzazione.

 

 

Il divin Mercato     

 

I don't buy it!".  Questa comune espressione americana, oltre al senso letterale, significa “non ci credo, non mi faccio convincere”.  Non è una conferma dello stereotipo sugli americani, popolo venale che usa espressioni tratte dal business anche per parlare di fede religiosa e di filosofia? Il presidente Coolidge, negli anni 20, non pronunciò la frase-chiave "America’s business is business"?

In America non vige il tabù europeo per cui tra gente perbene non si deve parlare di soldi.  Quando una guida turistica americana ti accompagna per musei, cattedrali, dighe, mausolei, parchi, una delle prime cose di cui ti informa è il costo del monumento che stai visitando.  E non considera volgare rivelare alla comitiva turistica anche come le spese di manutenzione del monumento vengano ammortizzate.  In America, sbandierare il costo ingente di un'opera non è svilirla - anzi, è aggiungervi un’aureola. 

Questa franchezza è particolarmente shockante, per noi del Vecchio Mondo, quando ha che fare con cose religiose.  Il network televisivo che trasmette 24 ore su 24 prediche e meditazioni religiose trasuda pubblicità: di bibbie, cassette religiose, libri edificanti, oggetti pii.  In California, si vendono anche giardinetti buddhisti zen: sabbia, ciottoli, e un vassoietto; cose che si possono trovare gratis su una spiaggia vengono venduti a prezzi non modici via internet a chi pratica meditazione.

Da sempre circola in 'Europa un diffuso disprezzo per questo mercantilismo americano.  L'europeo crede di trovarne la conferma nella struttura stessa delle città americane, grandi e piccole.  Noi europei siamo abituati ad associare al centro delle nostre città la piazzetta con il Duomo, romanico o gotico, o il Palazzo del signore.  Certi europei aborriscono le towns americane perché sono prive di Centro.  Non esistono quasi città americane circolari: tutte si sviluppano come una scacchiera geometrica che può proseguire in tutte le direzioni, una rete squadrata senza un cuore.  Del resto la parte più rappresentativa della città non si chiama Center (come in Gran Bretagna) ma Downtown, la città bassa.   Cuore ideale del reticolo urbano non è il tempio religioso ma il Mall - il complesso commerciale coperto, una serie di shops, ristoranti, pizzerie.  Il crogiuolo dei contatti sociali non è occupato dal sacro o dal potere politico, ma dalle compra-vendite.  Questo significa che per gli americani la religione o i simboli ideologici sono poco importanti?  Niente affatto.  Proprio perché la fede è molto importante per l’americano, essa è poco visibile e non topograficamente centrale.

Se è vero che l'America è il paese occidentale più materialista, esso è per tanti versi anche il più spiritualista.  Intanto, la pratica religiosa è più alta che in Europa.  Le campagne contro l'aborto legalizzato hanno assunto qui forme radicali e violente che non hanno mai raggiunto in Europa.  Ancora una parte cospicua degli americani rifiuta il darwinismo perché in contrasto con la Bibbia e si dichiara creationnist.  Le charities, le grandi associazioni e catene solidaristiche su base religiosa, hanno raggiunto qui un'ampiezza ineguagliata in Europa.  Il West pullula di sette mistiche, di guru e predicatori fondamentalisti, di culti esotici, di credenze infondate, di sperimentazioni spirituali, di furori trascendentali.  Da una parte l'America appare così venale al nostro snobismo europeo, dall’altra essa appare alla trafelata ricerca di ideali, di novità spirituali, di civismi esaltati.  Attraverso l'opposizione materialismo versus spiritualità non possiamo cogliere l'essenziale del culto americano per il danaro e il mercato.

In effetti, se il tempio centrale in una cittadina fosse battista, cosa direbbero i presbiteriani, gli ebrei, i testimoni di Jehova, i mussulmani, i cattolici, i mormoni, gli avventisti del 7° giorno, ecc.?  L'America nacque come Eden della tolleranza religiosa, che significa l'eguaglianza  anche urbanistica  di tutte le confessioni.  Un secolo di immigrazioni da ogniddove poi ha radicalizzato il programma genetico pluralista dell'America.  Un certo tempio può essere centrale nella vita privata di certi cittadini, ma non degli altri.

Nemmeno gli edifici del potere politico possono essere centrali, perché l'America è nata democratica, quindi acentrica.  I Parlamenti o Senati eletti, in Europa, hanno occupato i luoghi che furono del Principe.  Invece in America solo a Washington il Palazzo del Congresso domina il vasto Mall (che qui è uno sterminato viale costeggiato da musei) perché Washington è stata pensata come la capitale politica e quindi extra-territoriale (al punto che fino al 1964 gli abitanti di Washington D.C: non avevano diritto di voto alle presidenziali; il privilegio di vivere a contatto col Presidente andava bilanciato dall’esclusione del diritto politico fondamaentale).  La vera città americana - pensata da sempre come insieme delle abitazioni di solitari cittadini democratici - non ha centro.  In Europa solo in Norvegia – paese senza passato feudale – troviamo città sparpagliate, acentriche, di questo tipo.  E proprio per questo la città americana trova il suo centro, spontaneamente, nel Mercato: luogo dello scambio simmetrico, non dell'Autorità asimmetrica.

In effetti il Mercato non privilegia nessuno a priori.  Come diceva Voltaire parlando della Borsa di Londra, lo scambio mercantile rende possibile l’intesa tra persone con credenze del tutto diverse.  Io credo in Dio uno-e-trino, tu indiano credi nel Lingam, ma per entrambi 100 sterline sono 100 sterline.  Le fedi e le idee dividono gli uomini, il denaro  sostanza squisitamente aritmetica  li unisce.  Solo che per Voltaire le sole verità erano il mercato e il denaro, le fedi erano illusioni o imposture.  Invece per gli americani il danaro, il mercato, la borsa, proteggono le fedi.  Perché  se io sono americano  la mia fede religiosa, così come i miei gusti sessuali o estetici, appartengono alla mia sfera privata, cioè alla sfera per me più importante.  Per me lo spazio del Self è quello che conta.  Come ha ben mostrato Harold Bloom nel suo libro The American Religion (Simon & Schuster, 1992), gli americani sono cristiani per modo di dire: essi hanno elaborato una sorta di mistica del Self, per cui è solo nella solitudine che il soggetto entra in contatto con il divino. 

Da qui l’attrazione che i deserti esercitano sugli americani: vivere in solitudine nel deserto è il fine ultimo di una vita riuscita.  Invece sulla piazza pubblica vige l'esperanto cosmopolita del mercato: nei Mall luccicanti, accarezzati da una soffusa musica rock – nei quali mi reco con la mia auto privata - io americano trovo nelle transazioni di compra-vendita il linguaggio comune con gli altri privati o Selves. Eppure la cosa più importante, per me americano, non è il mercato ma la privacy – la mia fede, la divinizzazione dell’intimo.

Questo culto, a suo modo mistico, del privato si concretizza nel cosiddetto American Dream: ritirarsi a un certo punto della vita in una villetta di campagna con i propri cari.  Il luogo sognato dagli americani non è la frenetica promiscuità di New York – città così poco americana per gli americani veri - ma la solitudine del focolare, la contemplazione attonita della prateria o del deserto.  Ogni tanto si producono ondate migratorie verso paesi alla moda, considerati modelli di desolazione: prima l’Arizona, poi il New Mexico, ora il Montana.  E chi non migra vive negli sterminati suburbs, nella disseminazione privatista di tanti e tanti American dreams sbrodolati sul territorio.  Mentre in Europa anche il villaggio più sparuto imita Roma, in America anche le metropoli imitano la dispersione campagnola: pura intensificazione spaziale di casette individuali, di riuscite private, di ripiegamenti paghi. 

 

L’America è provinciale?

 

        In questi anni gli Stati Uniti si aprono al mondo oppure si chiudono in se stessi?  L’essere rimasti, in quasi tutti i campi, la sola super-potenza li spinge a occuparsi del resto del mondo oppure si occupano solo di se stessi?  Difficile rispondere a questa domanda, le evidenze mi appaiono contraddittorie.

        Dalla fine della guerra fredda in poi, lo spazio che i media americani riservano alla politica estera si è drasticamente ridotto. L’interesse per il resto del mondo era attizzato dall’interesse per il partita planetaria tra America e Comunismo.  Una volta vittoriosi, gli americani tornano adoccuparsi soprattutto del cortile di casa.  Per dirne una, i film non anglo-americani sono visti da meno del 2% degli statunitensi - alcuni successi italiani recenti, come Il postino con Troisi e La vita è bella di Benigni, sono le classiche eccezioni che confermano la regola.  Punzecchio i miei amici americani che si piccano di essere cosmopolitici, ripetendo loro “di recente ho visto un magnifico film europeo… ma voi non lo vedrete mai, perché vi ingozzano solo di film americani.”  Ancora peggio poi per saggi e romanzi, le opere in inglese fanno la parte del leone.  Certo The New York Times dà molto spazio al mondo esterno, ma il Times è un unicum.  Fino a pochi decenni fa un americano colto studiava il francese, poi è prevalso lo spagnolo in quanto lingua americana.  Ma incontro sempre meno giovani americani che parlino bene una lingua straniera.

        Alcuni film hollywoodiani catastrofici – come Deep Impact di Leder, che narra della caduta sulla terra di due asteroidi con conseguente distruzione della vita sul pianeta – descrivono una minaccia fatale al nostro pianeta come se si trattasse esclusivamente di un problema interno americano.  E’ evidente: per gli americani gli Stati Uniti valgono per la terra intera.

        Ma c’è anche l’altra faccia.  In questi ultimi vent’anni l’America si è europeizzata – e soprattutto italianizzata.  In agglomerazioni sperdute si trovano ristoranti messicani, cinesi, italiani, giapponesi, thai.  Per decenni i viticultori californiani sono andati a scuola dai viticultori francesi e italiani: oggi sono capaci di produrre in Napa Valley e in Sonoma County vini al livello di quelli dei loro maestri e anche migliori.  Gli stilisti newyorkesi oggi sono in grado di competere con Milano e Parigi.  Hollywood continua a drenare talenti stranieri – l’ultimo è l’inglese Mendes, il regista di American Beauty.  A chiunque, venga dalla Bulgaria o dalla Cina, l’America gives a chance.  Ogni giorno penetrano negli US, legalmente o no, a nuoto o nascosti nei camion, migliaia di stranieri, soprattutto ispanici.  L’America è una spugna, non un riccio chiuso in se stesso.  Intere città negli States parlano solo spagnolo.  Se si entra in un bancomat newyorkese, si può scegliere tra tre lingue: inglese, spagnolo e cinese.  Le élites colte o avanguardiste delle capitali culturali americane sono curiosissime del mondo esterno, viaggiatrici, cosmopolite.  A San Francisco ho visto un film e ho assistito a un dibattito vivo su un paese di cui in Europa non avevo mai sentito parlare: Tuva, una nazione mongola oggi parte della Russia.  Dei musicisti californiani erano andati fin là a studiare il loro straordinario canto gutturale.  Ogni volta che in Europa parlo di Tuva a dei musicologi strabuzzano gli occhi, non ne hanno mai sentito parlare.

        Ma allora, l’America si apre al mondo o si chiude?  Come per tante altre cose, non si può parlare degli States in bianco e nero.  L’America è sempre in movimento, fluida, complessa.  Quel che maschera la chiusura nazionalista di tanti paesi europei è il fatto che essi sono ipnotizzati dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna – ma, al di fuori di questi due magneti, del resto si disinteressano o quasi.  Molti europei ignorano tutto dei paesi confinanti.  A parte le Capitali anglofone a cui guarda, molti paesi europei sono indifferenti alle altre periferie dell’Impero (lo “spirito europeo” è un’invenzione di burocrati e politicanti).  L’America non ha a sua volta un’altra America da cui è ipnotizzata: in questo è proprio come noi europei, guarda soprattutto all’America.  L’America è provinciale proprio come noi.

 

Pace con Cuba

 

        Oggi, l’America vuole riconciliarsi con Cuba.  Il caso del piccolo Elian, conteso tra i fuoriusciti cubani in Florida e il padre rimasto a Cuba, ha preso il posto del caso Clinton-Lewinski come soap opera che attira cicloni e anticicloni di passioni.  Dalla mattina alla sera, i media americani oggi (aprile 2000) non parlano d’altro.  Chissà perché da noi si dice che si tratta di un rigurgito di guerra fredda, mentre è il contrario: si tratta di un conflitto tra cubani a cui l’America partecipa in modo parossistico cercando con contorsioni il superamento della spaccatura.  E’ significativo comunque che la maggioranza degli americani sia per il ritorno di Elian nella Cuba di Castro - segno che l’America vuole riconciliarsi con l’America Latina anche quando si attarda nel comunismo.  Una parte crescente dell’America vuole cancellare l’embargo a Cuba.  Sulla scia del film Buena Vista Social Club di Wim Wenders, l’America impazzisce per la musica cubana.  A Manhattan esplodono le sale dove si balla la salsa, il merengue, la rumba – molto più che in Italia.  Tutti vogliono andare a Cuba – ma non possono legalmente, e trovano sempre più insopportabile che il loro stupido governo glielo impedisca.  “Andare a Cuba” appare oggi un ennesimo civil right per cui battersi.  Così, il piccolo Elian appare l’incarnazione metaforica della nuova Cuba, dilaniata tra la sua parte castrista e quella anti-castrista; in questa allegoria in carne e ossa l’America rivive la propria lancinante divisione, ma anche il desiderio di una riconciliazione.

 

Non si ricomincia da tre

 

Nel giugno scorso, il figlio sedicenne di una famiglia alquanto benestante della California ha detto ai genitori: “non verrò con voi in vacanza in Messico, preferisco passare l’estate a lavorare in città”.  Questa preferenza per il lavoro non ha stupito i genitori – compiaciuti che il loro ragazzo, peraltro più attratto dalle arti che dagli affari, preferisca lavorare anziché andare in vacanza.  In America a sedici anni, maschio o femmina che tu sia, devi già cominciare a pensarti indipendente, anche economicamente.  Se poi andrai in un college, di solito vivrai per anni lontano dalla tua famiglia anche migliaia di miglia. (Penso invece a una intraprendente donna di servizio romana, che ha messo in subbuglio il Ministero della Difesa perché suo figlio, che faceva il servizio militare a Terni, venisse trasferito a Roma!).  La tua separazione dalla famiglia è precoce, e già sai che i tuoi genitori ti daranno poco e ti lasceranno poco: la tua sfida di figlio o figlia consisterà del ricominciare da zero, come hanno fatto o avrebbero dovuto fare i tuoi genitori.  Che abissale distanza dalla famiglia italiana!  In Italia, del resto, la legge superprotegge i figli, che è impossibile diseredare.  In America invece puoi lasciare tutte le tue cospicue sostanze al tuo cane, nulla ai tuoi rampolli.  Così in America i rapporti tra genitori e figli sono fragili, non vincolanti, non meno dei rapporti coniugali.  Si divorzia facilmente sia dal proprio coniuge che dai propri figli, e tu figlio sai che, una volta maggiorenne, il tuo genitore non ti deve niente.  In America non si eredita necessariamente – né il danaro, né la religione, né la cultura.  Come disse Troisi, in Italia si comincia sempre almeno da tre – in America ogni generazione ricomincia invece davvero da zero.

Questo “ricominciare sempre da zero” spiega, a mio avviso, perché in America ci sono solo due partiti, mentre in Italia ce ne sono a palate.  E’ che i partiti in Italia sono ereditari: occorre che un partito sopravviva a se stesso, anche se ormai la realtà che ne aveva giustificato la nascita non esiste più e quindi quell’identità politica non ha più senso.  I tanti partiti e partitini riflettono il primato italiano del passato sul futuro.  Gli americani invece pensano che per fare una democrazia, due partiti sono necessari ma anche sufficienti.  Siccome in America quel che conta non è restare fedeli a un passato ma vincere nel futuro, conviene a ciascuno aggregarsi ai partiti più grandi: ogni politico usufruisce quindi della struttura politica più ampia possibile.

A mio avviso, la differenza di etica familiare spiega in gran parte le differenze tra l’economia americana e quella italiana (e in genere europea continentale).  In America abbiamo poca disoccupazione, forte crescita economica, impieghi instabili e incerti, e una massa crescente di working poors, lavoratori poveri perché possono essere licenziati a ogni momento.  In Europa abbiamo invece alta disoccupazione, debole crescita economica, impieghi stabili e inamovibili, gli occupati sono super-protetti sindacalmente.  L’Italia può sopportare un’enorme disoccupazione giovanile protratta perché la solidarietà familiare è forte, avviluppante come l’edera: nel Sud si può restare fino a 35 anni a casa di mamma e papà come in una confortevole pensione.  Siccome negli US invece i genitori ti sbattono fuori di casa al più presto, sei costretto ad accettare lavoretti insicuri e mal pagati per campare.  Ma proprio perché una massa di persone si accontenta di lavoretti – perché la mamma di certo non ti preparerà la pasta asciutta e non ti laverà i pedalini – l’economia va forte: la flessibilità agevola le aziende che hanno bisogno di riciclarsi continuamente.  E’ facile essere licenziati, ma è anche facile essere assunti.  L’economia italiana è piena di freni e stampelle, lacci e lacciuoli, perché la famiglia italiana è un confortevole freno, laccio e stampella della vita.

Il familismo è un aspetto dei riflessi profondamente conservatori degli italiani – mentre essere un americano conservatore è una specie di ossimoro.  L’America per definizione non conserva il passato, nemmeno quello familiare.  E vince nel mondo perché sin nel letto coniugale e nel cortile di casa non garantisce nulla ai parenti. Anche se, ovviamente, nel loro cuore gli americani ci invidiano: anche loro vorrebbero la sicurezza di matrimoni eterni, di famiglie eterne, di posti di lavoro eterni, di Città Eterne.  Ma sanno che è, per loro, un sogno irrealizzabile.  L’impossibilità di essere conservatori ha i suoi acidi costi.

 

 

Spesso mi sono chiesto quale sia la ragione profonda dell’anti-americanismo di tanti intellettuali europei, sia di sinistra che di destra.  Essere anti-americani non significa criticare le cose che vanno storte in America – come cerco di fare anch’io, nel mio piccolo – è un tropismo etico-filosofico.  L’America viene presa come paradigma del capitalismo moderno, della scienza e della tecnica sempre più invasive, e della fine dei valori comunitari a vantaggio dell’individualismo.  Insomma, l’America è l’Impero del Male, perché è il paese-guida della modernizzazione.  Più che un enorme paese complesso, con le sue luci e le sue ombre, viene considerato una figura dello spirito, l’emblema di una Modernità che, per varie ragioni, si rifiuta.  Tutto questo è ben noto.  Ma ci sono ragioni più sottili, quasi inconsce.

Mi colpisce infatti la virulenza del sentimento anti-americano proprio in paesi come la Francia e l’Italia – non so in Germania – che nel secolo appena finito hanno solo motivi per amare gli americani, non certo per odiarli.  Gli americani hanno fatto vincere “i buoni” in due guerre mondiali, e col piano Marshall hanno reso possibile la ricostruzione dei nostri paesi.  Attraverso la NATO, sono gli Stati Uniti che in gran parte provvedono, di fatto, alla nostra difesa, impegnandosi in guerre che altrimenti dovremmo fare noi.  La predominanza culturale e scientifica americana in Europa non si esercita in modo oppressivo, ma fa appello al consenso di massa: quote crescenti di italiani e di francesi disertano film, libri e canzoni creati da loro concittadini per frequentare, sempre più, film, libri e canzoni americane.  Altri paesi – come il Vietnam, l’Iraq o la Germania – hanno buone ragioni per essere anti-americani, ma noi italiani e francesi?  “Nulla di personale”, allora?  

Credo che ciò che rende l’America così odiosa, a tanti, è proprio il suo potere di farci godere.  Essere grati ci è insopportabile – sappiamo anche quanto questo sia vero nelle relazioni private.  L’America ci fa vincere le guerre, ci fornisce ristoranti a buon mercato tipo McDonald, ci elargisce divertimenti, circenses, buone cause (i movimenti dei diritti civili nascono quasi tutti in America), film eccitanti, ecc.  Ma sono tutti questi vantaggi che ci risultano insopportabili.  L’America opera con noi un potlac, come accade in certe popolazioni amerindie.  Nel potlac, chi cerca il potere riempie di doni e favori i suoi vicini: costoro si sentiranno difatti vincolati a un debito, a una gratitudine che non riusciranno mai a smaltire.

Questo accade anche in molti rapporti sessuali.  Ciò che mina sotterraneamente, invisibilmente, tanti amori è proprio l’orgoglio dell’uomo e della donna: è difficile digerire il dato di fatto che solo l’altro sesso, o comunque il partner sessuale, può darci piaceri che non saremo mai in grado di darci da soli.  In un angolo di noi, un’arroganza narcisista ci porta a sentire ostilità nei confronti di chi ci fa godere, perché sentiamo che questo ci lega a lui o a lei, ci fa dipendere dalla sua presenza e dal suo benvolere.  Perciò spesso le storie amorose prendono la piega di lotte di potere, in cui inconsapevolmente si sfrutta il bisogno che l’altro, amante e amato, ha di noi.  Qualcosa del genere accade tra noi e l’America: tutto il bene che essa ci rifila le fa meritare il nostro rancore.  Se Nietzsche rivivesse, ritroverebbe nell’anti-americanismo di oggi i caratteri specifici di quel risentimento che descrisse in modo così perspicuo.

Certo l’anti-americano si schernirà, e farà un lungo elenco dei disastri prodotti dall’America.  Altro che godimenti!  Ciò che ho considerato godimenti – ad esempio, i McDonald’s o certa musica rock di serie B – per lui sono in realtà barbarie esportata.  Ma il punto è che questa barbarie piace ai suoi concittadini, che corrono a mangiare da McDonald’s e a comprarsi CD di musica americana.  Certo si tratta di invidia: l’America seduce il nostro vicino, mentre noi stentiamo a interessarlo.  Del resto, questo vale anche per gli aspetti della modernità che l’anti-americano mette sul conto dell’America: la scienza, la tecnica, l’individualismo.  Di fatto, anche l’anti-americano usufruisce dei prodotti della scienza e della tecnica, altro che!  Quale anti-americano si sposta più su lunghe distanze in treno?  Chi non usa il computer per scrivere saggi o articoli contro la scienza e contro l’America?  Quanto all’individualismo, di fatto l’anti-americano europeo lo rafforza e lo conferma proprio nel suo essere anti-americano.  Egli di solito disprezza “le masse vittime dell’imperialismo culturale e tecnologico americano”, si distingue dalla massa, si ritira in una “torre d’avorio” anti-moderna che odora a mille miglia di individualismo!  Contro le masse sempre più sedotte dall’individualismo americano, lo snob anti-americano oppone la sua resistenza individualista.

L’America è così odiosa perché ci seduce tanto.  Umilia il nostro orgoglio europeo perché ci costringe ad ammettere che in molte cose gli americani portano molto più avanti valori e temi così squisitamente europei!  La stessa scienza, in cui gli americani eccellono, non è la derivata ovvia della grande scienza europea del ‘700 e dell’’800?  Esaltiamo le cose specificamente americane che ci disturbano per rimuovere un’evidenza che è insopportabile ammettere: che l’Europa ormai si fa in America, ancor più che in Europa.  Le accuse alla vita americana sono un alibi: ci rifiutiamo – per orgoglio – di ammettere che l’europeità prosegue in modo trionfale non da noi ma in America.  Esaltiamo le differenze tra noi e gli americani per non riconoscere una verità terra terra: che quegli aspetti inaccettabili della vita americana sono un prodotto europeo per eccellenza.

 

 

 

Sergio Benvenuto

 

 



[1] Di fatto, l’amministrazione Clinton ha continuato l’opera reaganiana: le imposte sul reddito sono scese a meno del 10% in media per la maggior parte degli americani (contro il 43,7% dell’Italia e il 43,9% della Germania). Erano 40 anni che il livello delle tasse non era così basso in America. I repubblicani hanno così perso con Clinton la loro principale arma propagandistica.

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