Flussi di Sergio Benvenuto

LUNGIMIRANTI E CORTOMIRANTI (2003)[1]02/mar/2017


1.

          La finale della Coppa del Mondo di calcio nel 2002 fu giocata tra Germania e Brasile. Prima della partita, ero colpito dal fatto che la maggioranza degli italiani tifassero Brasile. Io invece affermavo di tifare Germania, e mi chiedevano perché; “perché sono europeo” rispondevo. Questa mia risposta stupiva i miei concittadini: pensavano che essere nato a Roma o a Napoli sia una buona ragione per tifare per la Roma o per il Napoli, e che essere italiano sia una buona ragione per tifare per le squadre italiane. Ma nessuno aveva mai pensato che essere europeo fosse una buona ragione per tifare per una squadra europea contro una non-europea.

Se il tifo sportivo è un forte indicatore di identificazione culturale o politica, allora possiamo tranquillamente dire che l’identificazione europea è alquanto povera, se non inesistente.

          Non è così futile evocare lo sport, se non altro perché per la maggioranza della gente – e non solo in Italia – lo sport è più importante della politica. Non a caso l’attuale primo ministro italiano ha vinto le elezioni con un partito chiamato FORZA ITALIA, un grido squisitamente sportivo. Berlusconi ha capito molto bene che l’”identità” italiana è forte soprattutto durante una gara sportiva. La nostra “condizione post-moderna” è sempre più connessa a una sorta di Logica del Gioco Universale, e le nostre stesse passioni politiche, che consideriamo eticamente gravi e serie, molto spesso seguono più una logica di tipo agonistico-sportivo che una razionale od economica. Eppure, storici e sociologi sottostimano l’importanza della dimensione sportiva e ludica nella vita sociale e politica.

          Ad esempio, moltissimi militanti da decenni “tifano” per il loro partito di riferimento, anche dopo che questo nel corso del tempo ha cambiato radicalmente programma e persino ideologia di riferimento. Molti sono fedeli a DS come continuazione del vecchio partito comunista: anche se gran parte dei dirigenti DS ha rinnegato il comunismo, e perseguono una politica del tutto simile (anzi, molto più moderata) del partito socialista di Craxi degli anni 80. Questi militanti DS continuano ad odiare Craxi perché negli anni 80 questi era l’avversario principale, anche se di fatto ormai il loro partito la pensa più o meno come Craxi allora. Un discorso analogo andrebbe fatto per gran parte dei sostenitori di AN: in privato continuano ad ammirare Mussolini eppure tifano per il loro partito, anche se questo partito ha rinnegato il fascismo. In fondo, “la base” di partiti come DS o AN è più conservatrice dei loro leader: sono i semplici iscritti quelli che mantengono una continuità col passato, che restano fedeli alle vecchie identità ideali e agonistiche. Ma queste identità non sono nominali?

Mi chiedo spesso se gli stessi schieramenti di sinistra e di destra, nei paesi occidentali, non siano ormai soprattutto schieramenti sportivi: di fatto, quando si governa una società complessa si devono fare molte cose che di per sé non sono né di sinistra né di destra. Si devono fare e basta. Eppure in tanti continuiamo a pensare secondo la dicotomia destra versus sinistra, anche se di fatto essa corrisponde sempre meno a modi di governare alternativi.

          Un’altra categoria quasi sportiva è essere pro-America o anti-America. E’ un’opzione viscerale che spesso viene compiuta nel corso dell’infanzia, per influsso dei discorsi degli adulti o per traumi precoci connessi più o meno all’immagine degli US. Chi ha deciso di essere sempre e comunque contro l’America farà il tifo per chiunque disturbi o sembri disturbare la potenza americana: che sia Castro o bin Laden, un gaullista francese o un monarca comunista della Corea del Nord, un peronista conservatore o un kamikaze palestinese, tutto va bene purché sia contro l’America. All’inverso, chi per tutta la vita tifa per il team America, tenderà a pensare che qualsiasi cosa facciano gli americani sia il Bene, e che chiunque per qualsiasi ragione si oppone loro incarni il Male. Questa è la faccia formale, cioè sportiva, delle ideologie.

 Dubito quindi che gli italiani o i tedeschi, per esempio, sostengano le loro rispettive squadre perché la loro identità è rispettivamente italiana o tedesca: piuttosto direi (come ha capito Berlusconi) che al limite si identificano come italiani o tedeschi perché delle istituzioni o squadre nazionali offrono loro l’opportunità di eleggersi una “identità” in quanto tale.

 

2.

          Non a caso uso qui il termine “identità” tra virgolette. Mi dispiace per gli amici che in questo convegno a Cadenabbia hanno insistito sulla decantata “identità europea” o sul modo di crearla. Io invece appartengo a quel tipo di persone che non crede che esista veramente un’IDENTITA’ socio-culturale. Il termine moderno identità non è altro che una riedizione di quello antico di essenza: chiedersi quale sia l’identità europea significa chiedersi aristotelicamente “qual’è l’essenza dell’europeità?” Non credo che questa essenza esista – si esiste come europei, ma non lo si è essenzialmente.

Non arrivo alla tesi estrema sostenuta da Sartre nella sua polemica con Aron sull’”essenza” dell’essere-ebreo: e cioè che quel che noi chiamiamo ebraismo non è un’identità culturale a cui l’antisemita si opporrebbe, ma l’ebraismo stesso è effetto dell’antisemitismo. Applicando questa tesi hegelianizzante al nostro caso, dovremmo dire che esiste l’Europa solo nella misura in cui i non-europei la considerano tale… In un certo senso è vero: i paesi che continuano ad essere esclusi dall’Unione Europea, dall’Ucraina alla Turchia, sono quelli che più credono nell’Europa. Non credo comunque che le identità politico-culturali siano dati di fatto: penso piuttosto che esistano delle identificazioni e delle idiotismi.

Per idiotismo non intendo l’essere stupidi: intendo tutto ciò che costituisce uno specifico modo di vivere di qualcuno, il suo ethos dicevano gli Antichi. Va criticata – o come si dice oggi: decostruita – la confusione tra identità da una parte, e idiotismi e identificazioni dall’altra. Porterò un altro esempio italiano.

          Dai sondaggi risulta che oltre il 94% degli italiani si dichiarano cattolici. Ma che cosa significa davvero essere cattolico? Di fatto poco meno di un terzo degli italiani frequenta con una certa regolarità le funzioni religiose e agisce in modi abbastanza consoni alle prescrizioni della chiesa cattolica. La maggioranza dei sedicenti cattolici va solo di rado a messa, spesso divorzia, abortisce, usa sistemi anticoncezionali, in molti casi non crede nemmeno nella vita dopo la morte oppure crede nelle reincarnazioni, ecc. Non a caso il filosofo Mario Perniola in un libro recente (Il sentire cattolico[2]) afferma che la cattolicità è un sentimento, non un sistema di dogmi o credenze: insomma, si può essere visceralmente cattolici pur essendo atei.  Insomma, quando andiamo a stringere nel nostro pugno concettuale l’”identità cattolica”, troveremo non dei minimi comuni denominatori, ma una dispersione di tratti in una popolazione. Ovvero, possiamo dire che gli italiani si identificano come cattolici, ma questo non implica affatto che la loro identità sia cattolica. Questo non toglie che possiamo interpretare come di matrice cattolica certi idiotismi o idiosincrasie di certi italiani – ad esempio, un certo disprezzo per la Scrittura a vantaggio dell’oralità, o anche, la riluttanza a divorziare anche quando è evidente che il matrimonio è a pezzi. Ma tra gli idiotismi, che derivano dalla propria educazione infantile e quindi da riflessi spesso inconsci, e le identificazioni che riguardano certi labels astratti, cade l’ombra del mito dell’identità.

          Del resto, noi italiani siamo alquanto esperti di creazione di “identità”. La Lega Nord ha inventato da anni una nuova nazione: Padania. L’Italia ha coltivato sempre una lunga tradizione di particolarismi regionali—ogni area ha il suo dialetto, la sua cucina, i suoi valori, spesso anche una musica e letteratura particolari. Lo chiamiamo campanilismo, matrice di tutti i cliché regionali. Identifichiamo quelle teste dure dei piemontesi come "falsi e cortesi"; i genovesi come avaracci; i veneti come fedeli al vino, alla grappa e ai preti; i romagnoli sono "comunisti e mangioni" e le bolognesi "libidinose dedite alla fellatio"; i lombardi sono un po' come gli svevi per i tedeschi; i bergamaschi sono narcisisti e spocchiosi ("se Londra vi ha deluso, provate Bergamo"), ecc. Ma mai nessuno ha parlato di qualche tara o virtù padana!  Fino a che Bossi, il leader della Lega Nord, non ha inventato il significante Padania. Per una intellighentzia storicista come la nostra, i soli miti seri sono quelli atavici, antichi: inventare miti nuovi, come fa Bossi, appare una truffa.  Pensiamo che il dovere della modernità sia demistificare, non inventare nuovi miti. Eppure questa nuova identità ha avuto un certo successo: oggi circa un milione di italiani si sentono padani. Insomma, non c’è bisogno di alcuna base previa per costruire una nuova identità: talvolta gli interessi comuni sono un alibi o una razionalizzazione per giustificare la creazione di un nuovo gioco, che implica attori nuovi.

Certo la storia è fatta anche di conflitti di identità, ma questo non toglie che l’identità sia sempre un mito. Dei popoli possono massacrarsi a vicenda perché non venerano gli stessi dei: ma questo dramma storico non dimostra ipso facto l’esistenza degli dei. Analogamente, alcuni possono anche farsi ammazzare per l’idea di Europa,  comunque questo sacrificio non dimostra l’esistenza dell’Europa. L’identità quindi va sempre decostruita, per far emergere le identificazioni (ideali) e gli idiotismi (fattuali).

 

 

3.

Persino in questo convegno abbiamo assistito a certi effetti dell’illusione identitaria, ad esempio quando si è parlato di cinema. Qua e là è emerso il cliché di un cinema americano fatto per le masse ignoranti e volgari, e proprio per questo di grande successo di cassetta, mentre il cinema europeo sarebbe un cinema raffinato per un’élite critica ed esigente. L’America fornirebbe l’equivalente mediatico della carne in scatola, il prodotto-base per sfamare la fame universale di immaginario ed entertainment, mentre l’Europa fornirebbe l’equivalente cinematografico dei ristoranti a tre stelle della Guide Michelin, un cinema da cordons bleus. Questa differenza sarebbe espressione delle identità profonde dell’America – paese della retorica di massa – da una parte, e dell’Europa – continente esangue per accumulo di cultura disincantata - dall’altra.

Ma, quando il cinema italiano – per esempio - era al culmine del suo prestigio culturale – l’epoca di Antonioni, Visconti, Fellini, Pasolini, Leone, il primo Bertolucci, ecc. – Cinecittà era anche una grande macchina industriale seconda solo a Hollywood. L’Italia negli anni 50 e 60 aveva prodotto tantissimi film senza pretese artistiche, ma di grande successo commerciale: il genere storico-mitologico, la commedia all’italiana, il western-spaghetti, ecc. L’Italia esportava in tutto il mondo i suoi cine-romanzi, prodotto lucroso di basso livello culturale, l’equivalente cartaceo delle attuali telenovelas. Questo cinema commerciale era il corpo massiccio su cui si innestava una testa estetica sottile. Insomma, è una sciocchezza pensare che cinema sofisticato e cinema commerciale si oppongano. In realtà sono due aspetti di una sola realtà complessa: il-fatto-che-in-un-paese-si-sappia-fare-cinema. Anche oggi i paesi europei producono film facili giusto per fare soldi: ma non godono dello stesso successo delle produzioni americane. Ovvero, piacciono tutt’al più ad un pubblico nazionale, ma non riescono a passare le frontiere. Sia perché sono fatti con meno soldi e con minore professionalità di quelli americani, sia perché la frammentazione europea penalizza la distribuzione del film Made in Europe. Come dire, abbiamo una grossa testa – Almodovar, von Trier, Moretti, e pochi altri – ma un corpo quasi inesistente. E’ una meraviglia anzi che questa testa possa vivere e affermarsi andando in giro senza corpo.

D’altro canto il cinema americano non è solo la macchina ben oleata di Hollywood: è anche Altman e i fratelli Cohen, Woody Allen e Spike Lee, Tarantino, Rebecca Miller e Van Sant, ecc. Ma questa produzione americana fuori-serie sembra non-identificare il cinema americano semplicemente perché la massa dei prodotti di largo consumo la fa apparire più un’eccezione che una regola. All’inverso, pensiamo che il cinema europeo si identifichi con un tipo di prodotto di qualità semplicemente perché la produzione di massa, che pure esiste, non si afferma. E’ facile allora cadere nella trappola di frettolose conclusioni sulle identità fondamentali dei popoli. Tutta una retorica sulla profondità aristocratica della cultura europea è semplicemente effetto di un trompe-l’oeil dovuto al fallimento della cultura commerciale europea.

 

4.

L’identificazione delle identificazioni con gli idiotismi – mi scuso per la costruzione lambiccata della frase – è tipica di ogni utopia o fanatismo. Ogni fanatico più o meno utopista sogna un popolo dove gli idiotismi di ciascuno coincidano con le loro identificazioni ideali: che insomma ogni cattolico viva al 100% da cattolico, ogni italiano al 100% da “italiano brava gente”, ogni marxista al 100% secondo l’ideale marxista, ecc. Ma sappiamo che questo non sarà mai possibile. Ho letto che alcuni islamici kamikaze che hanno realizzato le catastrofi dell’11 settembre si erano ritrovati la sera prima e si sono sbronzati. Ma bere alcool non è contrario ai precetti dell’Islam?  Persino dei martiri della causa mussulmana non possono essere del tutto mussulmani, almeno il giorno prima del loro supremo sacrificio.

          Anzi, direi che credere nella propria identità è un indizio sicuro di mediocrità. Se noi apprezziamo uno scienziato, artista, cantante, filosofo o anche solo un nostro amante ebreo, ad esempio, non lo apprezziamo mai per il suo essere ebreo, ma per quello che ha fatto lui singolarmente e per quel singolo che lui è, per quella differenza che lo rende unico rispetto a tutti gli altri, ebrei compresi. Qualcuno che faccia invece della propria identificazione ebraica tutto il proprio merito è qualcuno che non ha altro da dare agli altri che questo: la sua astratta genericità. Sartre nel suo pamphlet sull’antisemitismo ricordava un suo antenato noto per il suo odio per gli inglesi. Solo che di lui, nota Sartre, non si ricorda altro che questo: “quello che odiava gli inglesi”. Era la sua sola identità. Ovvero, si identificava a questa identità.    Invitarci a sentirci europei, magari perché abbiamo inventato l’Illuminismo e il Romanticismo, è quindi un invito alla meschinità. Ci si chiede insomma di sentirci europei come si sente greco il pater familias nel film The Great Fat Greek Wedding: secondo lui tutte le parole di tutte le lingue vengono dal greco, persino parole come kimono. E’ questo tipo di orgoglio che ci si chiede di praticare a noi europei?

 

5.

          Tutti sappiamo che l’Europa è solo un’entità geografica e, per i paesi dell’EU, economica, ma non certo culturale e politica (e ancor meno militare). L’Europa è una faccenda di banchieri, allevatori e commercianti, non certo di filosofi, scrittori, scienziati e nemmeno politici - i leader politici europei sono scelti dalle loro specifiche nazioni. Direi di più: l’EU è un’entità economica in lenta espansione su base unicamente geografica.

Questo può stupire molti: quando si pensa oggi al settore più globalizzato della forma di vita umana del 2003, si pensa prima di tutto all’economia. Ma la punta dell’iceberg delle grandi aziende all’avanguardia della globalizzazione non ci fa vedere l’iceberg non visibile delle piccole, che restano legate alle contiguità e casualità geografiche. Economia viene dal greco oikos, cioè la casa: a dispetto di Microsoft, McDonald, Versace o Nokia, l’economia resta in gran parte casareccia, cortomirante se mi si permette questo neologismo.

Ad esempio, da un secolo e mezzo si continua a dibattere sulle cause del persistente gap tra il Mezzogiorno e il Nord d’Italia. Molte ingegnose teorie sono state elaborate, alcune anche di tipo sciaguratamente etno-psicologico. Ma il buon senso ci dice che il Sud dell’Italia è più povero – come lo sono i Balcani, il Sud della Spagna e il Portogallo – semplicemente perché si trova a maggior distanza dal cuore economico dell’Europa rispetto alle Venezie o alla Lombardia. Questo “sole dell’economia” – come lo chiamava F. Braudel -  in europa fino a 10 anni fa era l’asse che, partendo da Stoccolma, scendeva giù attraversando la Danimarca, l’Ovest della Germania e l’Est della Francia, la Svizzera, la Lombardia, per fermarsi poi dalle parti di Bologna. Tutte le regioni europee, a parte quelle del sistema socialista, più vicine a questo asse erano più ricche, quelle più lontane – Scozia e Sicilia, Ovest della Francia e Scandinavia artica, Portogallo e Grecia – erano più povere. (La mia impressione da non-economista è che da qualche anno questo cuore dell’economia si stia spostando verso Ovest: l’Atlantico è ridiventato asse portante della ricchezza, per cui i paesi che si trovano più ad ovest in Europa oggi si trovano privilegiati.)

Insomma, per farla breve, la piccola economia – quella che decide del benessere delle singole aree – ubbidisce ancora alla semplice logica del lontano versus vicino. L’Europa è sempre più un’unità economica – e ben poco un’unità culturale – perché si tratta prima di tutto di un’”espressione geografica”, geographischer Begriff , come diceva Metternich dell’Italia all’inizio del XIX secolo. Quindi, a paesi spazialmente vicini conviene aggregarsi economicamente, anche se parlano lingue e hanno culti religiosi assolutamente diversi.

          Una riprova di questo è la decisione – anche se contrastata – di ammettere la Turchia nell’EU. Tra la Turchia e gli altri paesi europei non c’è alcuna affinità religiosa, culturale, linguistica o storica: se si pensa di ammettere nell’EU la Turchia, anziché la Nuova Zelanda o l’Argentina – certo nazioni culturalmente molto più affini agli europei - è semplicemente perché Istanbul è ad un tiro di schioppo da Atene. Tutto qui.

L’UE è da una parte una grande idea, nata per superare i secolari e sanguinosi conflitti europei. Ma dall’altra è una catastrofe per altre parti del mondo. Perché se l’UE è liberoscambista al suo interno, è protezionista verso l’esterno, con conseguenze micidiali per alcuni paesi poveri. E’ vero che in questa chiusura egoista l’Europa non è sola: USA e Giappone fanno lo stesso. Da qui il fallimento dell’incontro di Cancun a cui assistiamo proprio durante questo meeting [settembre 2003]. Ogni mucca allevata nell’UE riceve un sussidio superiore al reddito di milioni di contadini che abitano nei paesi più poveri. Ogni famiglia europea paga 80 euro l’anno per sussidiare l’agricoltura europea, ragion per cui ad esempio gli argentini non riescono a venderci la loro ottima carne, né altri paesi riescono a venderci i loro prodotti agricoli o tessili[3]. La retorica europeista, tra noi d’obbligo, non può cancellare questa semplice verità: che manteniamo nel benessere i nostri pochi agricoltori ed allevatori costringendo alla fame milioni di poveri nel mondo. E’ la faccia crudele, egoista, dell’Unione della nostra “espressione geografica”.

 

6.

          Si dirà che una certa affinità culturale esiste comunque tra i paesi europei, non foss’altro che per le comuni radici cristiane. E’ vero che l’Europa è effetto di una divisione culturale: dopo la rottura dell’unità mediterranea ad opera dell’avvento dell’Islam, abbiamo identificato come Europa quella parte del mondo che ha continuato ad essere cristiana. Quando il Vaticano insiste sulle radici cristiane dell’Europa, ha perfettamente ragione dal punto di vista storico. Ma oggi che il cristianesimo è anche di altri continenti, nell’epoca della secolarizzazione ha ancora senso parlare di una “essenza cristiana” della cultura europea? Un russo colto di Vlodivostok ha certo una grande affinità con una persona colta di Vilnius e Belgrado, molto poco con un giapponese o un cinese. D’altro canto, se si va Buenos Aires, si ha la sensazione di stare in una città del tutto europea: sembra un incrocio tra Roma, Parigi e Budapest. B.A. è molto più europea di Istanbul, Tirana o Agrigento.

          Del resto, l’epopea comunista ha riaggregato le somiglianze culturali secondo parametri non europei: un uomo maturo ungherese o ceco di oggi ha avuto un’educazione più simile a quella di un cinese di Shangai che a quella di un danese o di un italiano della stessa età. Hanno letto gli stessi classici marxisti, hanno cantato le stesse canzoncine, sono stati pasciuti dagli stessi miti politici.

Indubbiamente, c’è un’”aria di famiglia” in tutti i paesi europei nel senso che in qualsiasi città europea si vada, si vedranno McDonald, blue-jeans, film di Hollywood, e si sarà frastornati da musica rock. Certo i paesi europei sono molto più simili tra loro – più omologati, diciamo in Italia con un termine di Pasolini – rispetto a 30 o 40 anni fa: tutti si sono più americanizzati. Siccome gli europei – soprattutto giovani - guardano tutti verso i modelli anglo-americani, i loro costumi convergono. Per fortuna, per molti versi anche USA ed UK si sono europeizzati: per cui ovunque andiamo, in America o in Europa, ritroviamo le stesse cose. Ovunque vada, un italiano ormai troverà un caffè espresso, pizze, vestiti e vini italiani, e un arredamento milanese. Appunto, ovunque vada: un italiano può sentirsi a casa sua più in un paese extraeuropeo che in uno europeo. Io, ad esempio, mi sento molto più a casa mia a New York che a Londra o a Stoccolma.

          La ragione per cui l’Europa è lungi dall’avere un’identità culturale dipende dal fatto che nella cultura contano, a differenza dell’economia, non tanto le contiguità geografiche quanto le comunanze linguistiche. Basta passare la frontiera a Menton-Ventimiglia tra Italia e Francia per rendersi conto che, sul piano spirituale, si passa da un mondo all’altro (a parte la comune americanità). Tolti Chirac, Le Pen, Depardieu e Laetitia Casta, un italiano medio non sa altro dei francesi viventi. Sia gli italiani che i francesi sanno chi è la first lady americana e conoscono il nome dell’attuale sindaco di New York, ma quasi nessun italiano conosce il nome del sindaco di Parigi o di Berlino. I paesi europei non sono tanto etnocentrici o nazionalisti: sono glottocentrici.

Questo glottocentrismo si accentua man mano che dalle classi più colte e più cosmopolite si passa a quelle meno colte e quindi più localiste. Le persone colte e benestanti di solito leggono o parlano un’altra lingua - sempre più l’inglese - ma non è il caso per le persone più umili: l’orizzonte delle persone povere e poco colte è necessariamente meno ampio. Quando vado a Ginevra, a Lione e a Bruxelles, sento di avere a che fare con la stessa mentalità di fondo: la forma mentis – che in realtà è una forma linguae – è la stessa. E così persone di Zurigo, Amburgo e Graz bagnano nella stessa acqua culturale. Ma un fossato divide un intellettuale vallone di Liegi da un suo collega fiammingo di Anversa; di fatto in Belgio i valloni si rifiutano di parlare fiammingo, e i fiamminghi si rifiutano di parlare francese. Per ripetere una battuta di M. Walzer, “è più facile l’integrazione di un turco in Belgio che di un vallone nelle Fiandre”[4].

          Questo glottocentrismo è oggi confermato proprio dalla guerra in Iraq. E’ un puro caso che i tre paesi che hanno mandato più uomini e mezzi in Iraq nel 2003 siano US, UK ed Australia, cioè tre paesi anglofoni? Per tanti politologi il fatto di parlare una stessa lingua è quasi irrilevante; eppure, se andiamo a verificare le opinioni politiche diffuse nei vari paesi, ci rendiamo conto che la comunanza linguistica è invece un fattore determinante per la formazione dell’opinione politica. Ad esempio, negli ultimi due anni il sentimento anti-americano è molto cresciuto praticamente in tutti i paesi europei; ma mentre Germania, Francia e Russia guidano la classifica dei paesi occidentali meno simpatetici con gli USA, i britannici invece restano i più filo-americani tra gli europei. Da qui la larga adesione, almeno inizialmente, dell’opinione pubblica britannica alla guerra in Iraq, a contrasto della forte opposizione da parte dell’opinione pubblica nei paesi latini e in Germania.

          Ecco un buon soggetto di indagine scientifica: che cosa dispone uno che da bambino ha letto a scuola dei brani di Milton e Shakespeare piuttosto che di Dante, Goethe, Cervantes o Racine ad accettare la dottrina Rumsfeld, o comunque ad essere indulgente nei suoi confronti, più degli altri occidentali? Quale specificità l’acculturazione primaria di ogni cultura linguistica porta con sé, in modo da favorire certe opzioni politiche piuttosto che altre?[5]

 

7.

Mentre le élites dominanti sono globalizzate, le masse sono localiste. Oggi alla classica lotta di classe in senso marxiano sembra sostituirsi una lotta di orizzonti: molto spesso chi ha poca cultura, poco reddito o poche ambizioni rivendica il proprio orizzonte ristretto contro chi ha un più vasto orizzonte, vale a dire contro coloro che hanno più cultura, più reddito e più ambizioni. Questa differenza è illustrata dalla differenza tra due media oggi prevalenti: il cinema e la televisione. Il primo, grazie soprattutto alla produzione hollywoodiana, è un fattore di globalizzazione: le stars cinematografiche, sempre più anglo-americane, sono note in tutto il mondo e quasi tutti nel mondo hanno visto gli stessi blockbusters. Le televisioni invece si sviluppano su base nazionale o linguistica: le stars televisive sono note solo nel proprio paese o nella propria area linguistica, ma del tutto ignote all’estero. Mentre il cinema contribuisce ad unificare il mondo, la televisione contribuisce a frammentarlo. Non a caso le élites ricche, colte e ambiziose snobbano la televisione (a meno che non sia la CNN, ARTE o Al Jazira) e si vantano invece di seguire i festival cinematografici di Venezia, Cannes e Berlino: questa diversa preferenza per un medium è uno status symbol, è un modo di marcare dimensioni e qualità del proprio orizzonte.

          L’analisi del voto francese sull’Europa nel 1992 non lascia dubbi. Allora metà dei francesi votò per l’Europa, l'altra metà contro. Ora, la scelta pro- o anti-europea risultava assolutamente trasversale alle opzioni politiche tradizionali: il fatto di essere di sinistra o di destra non implicava nessuna preferenza in un senso o nell’altro. La variabile che contava invece era quella socio-culturale: man mano che si saliva nel rango sociale (verso i redditi superiori, verso i titoli di studio superiori, verso le posizioni di prestigio, verso la residenza nelle città più grandi e prospere) aumentava il favore per l’Unione europea; man mano che si scendeva nella stessa scala, il rifiuto dell’Europa aumentava. Come spiegare questa polarizzazione così specifica? Il sentimento di appartenere all’Europa è vivo nei ceti più ricchi e colti, ma non certo nei ceti sociali più poveri e meno colti. Perché chi è povero di danaro o di cultura o di ambizioni non sente di vivere in Europa, ma nel proprio stato e soprattutto nella propria area regionale o città.

Diciamo allora che le élites privilegiate sono più LUNGIMIRANTI, le masse dalle vedute corte sono CORTOMIRANTI. Gli orizzonti di appartenenza dipendono da dove ci si situa nella gerarchia sociale. Questo, precisiamo, non implica assolutamente un giudizio di valore: il cortomirante vede cose e dettagli che sfuggono al lungimirante; questi, proprio perché vede certe cose troppo da lontano, le sottovaluta. Ad esempio, i nostri lungimiranti non avevano visto affatto l’emergere della Lega Nord in Italia, e poi dei movimenti populisti e xenofobi. Essi vedono le cose solo quando assumono dimensioni macroscopiche: lo sguardo lungimirante è ipermetropico, vede bene da lontano e male da vicino; mentre lo sguardo cortomirante è miope.

          Certe volte la rivolta delle masse che spaventava Ortega y Gasset – oggi, quindi, delle masse cortomiranti – assume una forma chiaramente politica: il Fronte Nazionale di Le Pen, il partito Freiheitliche di Haider in Austria, e la Lega Nord in Italia sono gli esempi più celebri di questa rivolta dei nuovi fringe sociali. Quel che rende così scandalosi personaggi come Le Pen, Mégret, Haider, Bossi o Fortuyn non è, come si dice, la loro simpatia fascista – in molti di loro questa simpatia non esiste – ma il fatto che essi diano voce agli strati popolari cortomiranti. Il disprezzo per questi leader e partiti “populisti” è insomma un disprezzo di classe: è il rigetto di chi osa portare nella grande politica un orizzonte piccolo, provinciale.

 

8.

          Questa differenza di orizzonti divenne evidente anche quando alcuni paesi europei realizzarono la loro unificazione nazionale. L’unità d’Italia nell’Ottocento fu voluta dalla borghesia colta, mentre la maggioranza degli italiani – allora per lo più contadini – si sentiva del tutto estranea al Risorgimento. Del resto, i ceti popolari non parlavano nemmeno la stessa lingua: erano in maggioranza analfabeti e parlavano solo il dialetto locale. Un contadino veneto non capiva uno siciliano, e viceversa; e quando emigravano in America, se si incontravano non si capivano.

          L’unità culturale europea è quindi ben lungi dall’essere una realtà: è un ideale, un progetto cultural-politico, una costruzione ideologica. E’ un simbolo proposto per identificarsi, per nulla un’identità.

          Qualcuno può stupirsi che dica queste cose un italiano: gli italiani sono noti per essere tra gli europei più europeisti. Anche se ora forse un po’ meno, dopo la delusione dell’euro[6]. Ma che cosa significa essere europeista?

Recenti sondaggi mostravano che a 3 italiani su 4 non gliene importa nulla dei problemi dell'UE - il livello di interesse più basso tra gli europei. I danesi, invece, che risultano i meno europeisti di tutti, d'altro canto si mostrano interessatissimi alle questioni europee: 2 danesi su 3 lo sono. E così Renato Mannehimer, il Gallup italiano, ne ha concluso in modo lapidario che "gli italiani sono europeisti senza sapere il perché"[7] e "l'europeismo degli italiani è basato per lo più su aspetti emotivi e quasi per nulla su considerazioni razionali."

In generale, possiamo dire che l’europeismo di molti popoli è direttamente proporzionale alla loro ignoranza dell’Europa reale.

          Si dice che per gli italiani l’europeismo è un riflesso per compensare una lunga storia di provincialismo, di chiusura narcisistica nella loro lingua, cultura e “campanili”, insomma, per gli italiani l’Europa è un mito. Gli italiani sono molto europeisti e poco europei: lo sono per identificazione, non per idiotismo.

          Ovviamente i miti sono essenziali nella storia: le rivoluzioni sono non solo l’effetto di interessi economici, ma anche di miti, filosofie, passioni religiose, tropismi etici. In questi ultimi decenni tanti politici ed intellettuali hanno costruito e promosso il Mito dell’Unità Europea. Solo il futuro potrà dirci se questo mito si rivelerà storicamente efficace. (Per ora, c’è motivo di essere pessimisti su questa efficacia: cresce la divaricazione tra i paesi europei eurocentici e quelli americanocentrici.)

 

9.      

Il sogno dell’Europa federale immagina l’Europa futura come una sorta di grande Svizzera: un paese prospero dove si parlano lingue diverse, con ampie autonomie locali, ma con un forte senso patriottico comune ed un solo esercito. Appunto, quel che pare più difficile da realizzare è proprio un unico esercito europeo. Come disse von Clausewitz, la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi. Ma non si può avere un esercito per fare la guerra se non si ha una politica.

          Mentre sul piano economico gli interessi dei paesi europei tendono a convergere, sul piano politico questo non accade: questo perché la politica, in particolare estera, non è solo un corollario dell’economia ma mobilita presupposti culturali forti, diversi da paese a paese. Ogni paese europeo ha la sua politica internazionale, che è rimasta la stessa dal secondo Dopoguerra in poi. Fa parte delle identificazioni e degli idiotismi di ogni popolo.

La Gran Bretagna, non importa se governata dal Labour o dai Conservatives, da tempo ha deciso che seguirà gli americani ovunque costoro andranno. La Francia invece, sotto tutti i governi, si pone come leader di un modello alternativo di ordine mondiale: non dominato dai soli US, ma da tutti i grandi paesi occidentali. La Germania dal 1945 in poi persegue una politica pacifista per far dimenticare al mondo due secoli di militarismo prussiano. L’Italia ha avuto sempre la stessa politica estera: un filo-americanismo disimpegnato più che bilanciato da un forte europeismo e da una vocazione pacifista, una politica sostanzialmente filo-araba anche se non anti-israeliana. Il governo Berlusconi ha cercato di modificare un po’ questo modulo della politica estera italiana in senso più filo-americano e più filo-israeliano, ma finora con scarsi risultati; per esempio, nel 2003 l’opinione pubblica italiana si è schierata compatta contro l’attuale politica americana.

 

10.

Nonostante tutto, da buon italiano, anch’io sono europeista: proprio perché non credo nell’unità culturale europea. Non mi piace il mito europeo ma mi piace l’Europa.  Non credo nell’identità europea, ad esempio, non sento certi paesi europei più vicini o più interessanti o più simpatici di quanto non lo siano per me paesi dell’America o dell’Asia. Eppure mi piace la varietà irriducibile che l’Europa dispiega. Il fatto che essa possa essere tante cose, ma anche il contrario di queste tante cose.  

La ricchezza e la bellezza dell’Europa consiste proprio nella sua molteplicità, ovvero nella sua non-identità. L’Europa de facto resiste ad un modello uniformizzante di globalizzazione non per quello che gli europei pensano, ma per quello che l’Europa è: un patchwork di lingue, culture, storie e sensibilità molto diverse.

          Perciò, diversamente dai tanti, mi sono compiaciuto del fatto che i paesi dell’EU si siano trovati su posizioni opposte quanto alla politica americana in Medio Oriente, ad esempio. E’ vero che questa mancanza di unità politica indebolisce per ora l’Europa politicamente: ma ne fa un luogo di confronto, discussione e sperimentazione molto viva. Di solito si deplora la mancanza di monolitismo europeo: ma io lo considero, per molti versi, una ricchezza. In fondo, le divisioni anche cruente tra le città greche dell’Antichità e poi le divisioni tra regni nell’Europa cristiana non hanno impedito né alla Grecia antica né all’Europa di diventare le punte avanzate della civiltà. Analogamente, la debolezza politica dell’Europa potrebbe avere un suo risvolto di forza, un giorno.

 

 

Sergio Benvenuto

 

Pubblicato in “La trappola dell’identità europea”, Ideazione, 2/2004, pp. 113-124.

 

 



[1] Traduzione italiana dell’intervento del 13 settembre 2003 al think tank su “Europe Thinking! The Future of Europe in the transatlantic context” organizzato dal Bundeszentrale für politische Bildung a Cadenabbia (CO).

[2] Adelphi 2003.

 

[3] Alcuni obiettano che i paesi ricchi smaltiscono la loro sovrapproduzione agricola vendendola a prezzi di dumping nel terzo mondo: ma il fatto che molti poveri siano sfamati dalla produzione euro-americana in eccesso piuttosto che dalla loro produzione autoctona mina il loro futuro economico.

 

[4] M. Walzer, La libertà e i suoi nemici, a cura di M. Molinari, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 18.

 

[5] Forse, semplicemente, perché i paesi anglofoni sono di solito eredi delle democrazie più antiche e solide? Ma perché un’antica e solida democrazia dovrebbe spingere i suoi cittadini a credere nell’efficacia dell’embargo contro Cuba, ad esempio? Si prenda proprio questo esempio. Non credo affatto che gli europei non-anglofoni siano contro l’embargo a Cuba perché meno democratici: ma perché lo considerano un puntello al regime di Castro. Perché allora questa valutazione politica convince meno chi parla inglese come prima lingua? 

 

[6] Anche nella valutazione dell’euro scattano le differenze tra cortomiranti e lungimiranti. La gente del popolo spesso rimpiange la vecchia lira perché vede aumentare i prezzi degli alimentari e di altri beni di consumo quotidiani, immediati (oltre che per la delusione: alcuni credevano che passando dalla lira all’euro si sarebbe diventati per ciò stesso più ricchi!) . I lungimiranti sono più favorevoli all’euro perché hanno la possibilità di viaggiare all’estero e quindi notano quanto sia utile oggi cambiare euro anziché lire; inoltre accedono a consumi di beni i cui prezzi tendono a diminuire, come viaggi, prodotti di comunicazione ed high tech.

 

    [7]Su Il Corriere della Sera, 5 maggio 1997, p. 4.

 

Flussi © 2016Privacy Policy