Flussi di Sergio Benvenuto

GOVERNO LIBERALE E BIOPOLITICA. COMMENTI A UN SEMINARIO DI FOUCAULT11/ago/2017


 

         Come descrivere ciò che è essenziale del liberalismo, oggi detto liberismo o neoliberalismo? E comunque, c’è un’essenza del liberalismo – come della sinistra, della destra, del radicalismo, ecc.?

Il progetto liberale sembra chiarissimo: meno stato, più mercato. Il motto liberale più celebre è che, in qualsiasi paese, “lo stato non è la soluzione, è il problema”. Il liberalismo, suol dirsi, crede che la Mano invisibile faccia sì che gli egoismi di ciascuno si combinino e si intreccino spontaneamente, senza alcun bisogno di programmazione, per produrre equilibrio economico e ricchezza. F.A. von Hayek parla non di Mano invisibile ma di catallassi, ovvero la situazione ordinata di mercato, nata dall’interazione spontanea di agenti economici che seguono ciascuno proprie finalità. Il liberalismo quindi autorizza e loda l’egoismo di ciascun individuo, dato che il vizio privato dell’egoismo porta alla pubblica virtù della società liberale, che è la società più ricca possibile.

 

         Commenteremo qui il modo in cui descrive il liberalismo un pensatore che certamente liberale non era, Michel Foucault; in particolare, il volume che raccoglie i suoi seminari tenuti al Collège de France nel 1978-1979, Nascita della biopolitica[1] . Di fatto si tratta di una lettura del liberalismo[2] inteso come strategia biopolitica. Note sul liberalismo classico, ma soprattutto sul neo-liberalismo moderno: in particolare sui neo-liberalismi tedesco e americano. Sui liberalismi teorici legati alle due economie nazionali che – assieme al Giappone – negli anni ‘70 facevano “da locomotiva”.

         Da allora, il filone di studi biopolitici, ispirati a Foucault, ha avuto un grande sviluppo. Una parte della sinistra è divenuta “biopolitica”. Ma qui non ci occuperemo di questo aspetto, pure importante. In effetti, il corso di Foucault sul liberalismo è di fatto una serie di note di lettura. L’idea di fondo, che svilupperà in seguito, è che il liberalismo – come qualsiasi altro sistema teorico socio-politico – è un modo di organizzare la vita biologica. La politica non è una sovrastruttura, ma consiste nei vari modi in cui certi paesi e certe epoche scelgono una certa strategia del come vivere e, anche, su chi deve vivere. Perché, anche se in modo inconsapevole, le decisioni politiche implicano sempre una scelta su chi deve vivere e chi deve morire. Basti pensare alle legislazioni sull’aborto o sul cosiddetto accanimento terapeutico. O se intervenire oggi in Siria a favore di chi e contro chi.

         Si considera Foucault uno dei campioni del pensiero libertario moderno. In effetti, la cura della libertà – la cui matrice in Foucault è nietzscheana – domina la sua intera opera. Ora, il pensiero libertario è una radicalizzazione del liberalismo: il primo estende a tutti gli aspetti della vita sociale un principio di iniziativa individuale che il liberalismo conservatore limita sostanzialmente (e come vedremo, artificialmente) alla vita economica.

E’ opinione diffusa che negli anni ‘80 – con il thatcherismo e la reaganomics – le concezioni liberali abbiano prevalso in Occidente, mentre fino agli anni ‘70 ancora dominavano i presupposti keynesiani. In effetti, dopo la Seconda guerra mondiale fino agli anni ‘70, le politiche economiche dei paesi occidentali erano formulate in termini di obiettivi finali (pieno impiego, crescita dei livelli di vita), per usare i termini stessi di Foucault. Insomma, le politiche occidentali erano “socialiste” in senso lato, la politica tendeva ad avere il posto di comando dello sviluppo[3]. Dagli anni ‘80 in poi invece le politiche economiche sono state formulate essenzialmente in termini di obiettivi intermedi: parità monetaria, equilibrio di bilancio, privatizzazioni, flessibilità dei mercati. Oggi, dopo la crisi del 2008 e del 2011, ai PIGS (paesi deboli dell’euro) si richiede ancora tutto questo per uscire dal marasma. L’Occidente, dopo la morte di Foucault, sembra essersi insomma ri-convertito al liberalismo, affidandosi alla catallassi affinché le cose, sui tempi lunghi, vadano per il meglio.

Eppure Foucault già all’epoca aveva intuito che il liberalismo aveva ormai assunto la direzione delle grandi economie occidentali. Come vedremo, anche il welfare state era per lui un corollario del liberalismo, e non – come tutti pensavano all’epoca - un correttivo innestato su di esso. Di fatto, in questo seminario esamina i presupposti fondamentali della “ragione governativa” o “ragione del minor stato” - che distingue dalla vecchia “ragion di stato” [p. 47][4] – dell’epoca in cui viveva, e in cui in parte, ancora, viviamo.

         [Nel corso di questo testo, inserirò tra parentesi quadre le mie personali osservazioni, estranee quindi al testo di Foucault.]

 

 

  1. 1.    Il governo frugale

 

         Foucault dichiara subito di voler esaminare il liberalismo non come una teoria e nemmeno come una ideologia, ma come una pratica di governo: un modo di fare orientato verso degli obiettivi e che si regola con una riflessione continua[5]. Ora, la particolarità, che può apparire paradossale, di questa “arte di governare” – oggi detta governance - è che essa per principio giudica che “si governa sempre troppo”. Il punto di vista squisitamente liberale, dal Settecento in poi, è che il miglior modo di governare le popolazioni è governare direttamente sempre meno, allo scopo di ottimizzare l’economia.

A differenza delle filosofie pre-liberali, il liberalismo

 

è uno strumento critico della realtà: di una governamentalità anteriore, da cui cerca di smarcarsi; da una governamentalità attuale che tenta di riformare e di razionalizzare rivedendola al ribasso; di una governamentalità a cui esso si oppone limitandone gli abusi [p. 325].

 

Da qui la doppia faccia del liberalismo: da una parte schema regolatore della pratica di governo, dall’altra principio di opposizione talvolta radicale al governare. [Diremmo noi italiani: il liberalismo è da una parte Luigi Einaudi, dall’altra il Marco Pannella degli anni ’70 e ‘80.]

Se il liberalismo conta per lui in quanto forma di governamentalità, questo non significa che il socialismo, ad esempio, ne sia un’altra. Secondo Foucault – sfidando così i luoghi comuni su questo tema - che si tratti delle socialdemocrazie scandinave o del comunismo sovietico, non esiste di fatto un’arte socialista di governare [p. 95]. Socialisti e comunisti hanno una teoria dello stato, non una teoria del governo. Così il socialismo si può combinare sia con il governo liberale (come è accaduto in molti paesi occidentali, ad esempio in Svezia) sia con lo stato di polizia anti-liberale (socialismo sovietico): alla pratica socialista manca quel che a Foucault appare essere la cosa più importante, la razionalità governativa. Andando oltre la lettera del testo, ma senza tradirne il senso, potremmo dire che per Foucault il socialismo in fondo non è mai esistito né esiste: è più un insieme di testi e di dottrine che una forma concreta, specifica di governo. Quel che è stato preso per “governo socialista” nei paesi dell’Est – il “socialismo reale” - era di fatto una combinazione di economia socialista e di stato di polizia.

         Foucault oppone due grandi vie della critica sociale a partire dal XVIII° secolo. Una via è quella rivoluzionaria, rousseauiana e poi marxista: è la via assiomatica, giuridico-deduttiva, che parte dal Diritto e quindi dai “diritti umani”. Un’altra via è radicale – così la chiama Foucault - ovvero liberale: qui la libertà viene pensata come indipendenza dei governati rispetto ai governanti [p. 43]. Il fatto che Foucault chiami “radicale” la via liberale non è irrilevante: per lui il vero radicalismo è il liberalismo. Due concezioni fondamentalmente diverse della libertà hanno quindi percorso l’Occidente negli ultimi due secoli. E lo abbiamo visto anche in Italia fino a poco tempo fa: da una parte il Popolo delle Libertà, dall’altra i liberals (Partito Democratico, i radicali).

Il liberalismo nasce con il Tableau dei fisiocrati e con la Mano Invisibile di Adam Smith, nasce cioè con la nascita dell’economia politica come disciplina. I destini del liberalismo e della scienza economica politica, da allora, risultano indissolubilmente intrecciati. [Anche i premi Nobel eterodossi in economia sono andati a pensatori economici - come Stiglitz e Krugman - che restano comunque nella tradizione liberale.] Ma sin dall’inizio i liberali invocano l’economia di mercato come test decisivo: la massimizzazione delle ricchezze della nazione e la massimizzazione delle procedure governative sono tra loro incompatibili. Il liberalismo nasce come una denuncia dell’eccesso di governo come irrazionale, per tornare a “una tecnologia del governo frugale” [p. 327].

[Sin da Smith, il liberalismo è quindi teoria della decadenza della politica[6]. In effetti, come Kenneth Arrow ricordò a Jean-Paul Fitoussi[7], il mercato appare non compatibile con alcun regime politico né con alcuna forma di governo, inclusa quella democratica. La teoria dei mercati perfetti considera infatti ogni intervento dello stato nell’economia – di qualunque tipo esso sia - come riduttivo dell’efficacia dell’economia stessa. Ma siccome ogni paese ha bisogno di un governo – la pura anarchia è utopica – avremo sempre mercati imperfetti. Il liberale è chi, considerando il governo un male necessario, intende comunque limitarne asintoticamente il dominio. Il liberalismo, non meno del marxismo, è una teoria in fondo utopistica, insomma irrealizzabile. Anche se Foucault nega che il liberalismo sia un’utopia. Ma credo che, se si accoglie la sua ricostruzione, la conclusione sia inevitabile: il liberalismo è una delle grandi Utopie occidentali. E’ impossibile insomma avere una società puramente liberale.]

L’appello al mercato è per il liberale – nota Foucault - un appello alla verità: in tutto il pensiero liberale, il governo viene chiamato non a rendere conto della sua legittimità giuridica, ma della sua adeguazione alla verità. E questa verità è l’economia, ovvero il mercato. “L’economia produce legittimità per lo Stato che ne è il garante... l’economia crea diritto pubblico” [p. 86]. Usando una terminologia marxista, diremo che per i liberali la struttura (la verità) è il mercato, la sovrastruttura (la finzione) è lo Stato.

Per fortuna Foucault di preferenza dice e scrive il contrario di quel che pensano tanti foucaultiani, vale a dire quella intellighentja radicaleggiante e “alternativa” che lo ha eletto proprio mentore, allora come oggi. E’ come se con questo seminario egli dicesse ai suoi aficionados: “denunciate così accoratamente gli apparati invadenti dello stato, ma non vi rendete conto che, così facendo, siete solo dei liberali!” Foucault infatti legge il predominio del liberalismo anche e soprattutto in una fobia dello stato molto diffusa all’epoca in Francia anche tra i foucaultiani, e che poi sarebbe cresciuta più che mai a partire dagli anni ‘80. Sia nelle versioni radicali di sinistra che in quelle tecnocratiche di destra (l’allora presidente francese Giscard d’Estaing) egli vedeva uno stesso motivo: l’orrore per il potere dello stato. All’epoca, a parte le frange comuniste, l’Occidente gli appariva fondamentalmente unito nella missione di limitare lo stato e i suoi poteri. Per lui, anzi, questa tendenza novecentesca a far deperire lo stato accomuna paradossalmente regimi totalitari (fascisti e comunisti) e regimi liberali. Un’altra sfida ai luoghi comuni. Nel totalitarismo, infatti, prevale non lo Stato – come si crede comunemente - ma una governamentalità del Partito; un partito domina, controlla, e quindi limita, lo stato. Questo è vero per il Terzo Reich come per l’URSS.

[Notiamo però che a questa vocazione anti-statalista del pensiero moderno si è sovrapposta nei fatti una tendenza opposta: l’espansione dello stato come redistributore, insomma come principale potenza economica di un paese. Nelle democrazie reali di oggi, i prelievi obbligatori sono molto elevati: possono andare dal 35 al 50%. I governi ridistribuiscono una parte importantissima dei redditi primari. Critica liberale e pratica della democrazia sono andate quindi in direzioni opposte: le nostre società industriali sono di fatto la risultante dell’interazione di queste due tendenze divergenti, democrazia versus liberalismo. In questo seminario Foucault non tiene conto di questa dinamica interattiva]

 

 

  1. 2.    Liberalismo tedesco e stato forte

 

         Foucault dedica molto spazio al neo-liberalismo tedesco che, nato verso il 1928 sulla scia della scuola di Friburgo, dopo la seconda guerra mondiale si è espresso soprattutto attraverso la rivista Ordo[8]. Questa scuola di fatto ha ispirato le politiche economiche della Repubblica Federale Tedesca all’epoca di Adenauer ed Erhard (Foucault ricorda di sfuggita che anche la politica italiana del Dopoguerra, promossa da Einaudi, si ispirò agli stessi principi). Questa scuola ha criticato allo stesso tempo – mettendoli nello stesso fascio – il socialismo sovietico, il nazional-socialismo tedesco e le politiche interventiste di stato ispirate a Keynes. Per loro il piano Beveridge (che nel 1944 lanciò il welfare state in Gran Bretagna) sfocia inesorabilmente nel piano Göring, cioè nella pianificazione economica nazista. Essa respinge sia il protezionismo dell’Ottocento che l’economia pianificata del Novecento: osa pensare un nuovo capitalismo.

Foucault nota che questa scuola parte da presupposti filosofici diversi da quelli naturalisti ed empiristi che ispirano il classico liberalismo britannico, considerato matrice di ogni liberalismo. I punti di partenza dei tedeschi sono la filosofia neo-kantiana, la fenomenologia di Husserl e Max Weber. Questi ordoliberali considerano i padri fondatori del liberalismo, di solito sudditi di Sua Maestà britannica, vittime di una “fallacia naturalistica”: costoro pensavano che l’economia di mercato fosse una sorta di stato naturale, autentico, della socialità, e che bastasse quindi eliminare certe sovrastrutture innaturali (stato, burocrazia, politiche dirigeste, ecc.) per ritrovare la felice spontaneità - la verità - dei processi economici. Per i liberali tedeschi invece l’economia di mercato va organizzata - ma non pianificata né diretta - all’interno di un quadro istituzionale e giuridico rigoroso. L’economia di mercato è effetto di un’attenta ingegneria politica, in modo che la libertà dei processi economici non produca distorsioni sociali. La libertà economica non è il ritorno a uno “stato di natura” dello scambio tra individui deviato dalla sovrastruttura politica, piuttosto è una macchina che va politicamente costruita come una struttura possibile del reale. Essa è una struttura dotata di proprietà formali, è un eidos – una forma essenziale - nel senso di Husserl.

Ora, questo eidos non è tanto lo scambio quanto la concorrenza – un gioco formale tra ineguaglianze. Questo liberalismo sofisticato implica “un interventismo sociale attivo, multiplo, vigilante e onnipresente” [p. 165] – insomma, un forte mercato esige uno stato forte. Credo che la storia del ‘900 abbia dato loro ragione: a capitalismi fortissimi corrispondono stati fortissimi. L’economia è un gioco, e, come tutti i giochi, esige arbitraggi, controlli, regole che vanno fatte rispettare da un potere fuori del gioco.  Per assicurare questo gioco di concorrenza lo stato non può perseguire il laissez-faire, ma deve assicurare la stabilità dei prezzi combattendo i rischi di deriva monopolista, e l’equilibro della bilancia dei pagamenti. [Sono i principi che ancor oggi la Germania e altri paesi nordici seguono, imponendo l’austerity ai paesi del Sud Europa. Il liberalismo tedesco resta bismarckiano: non crede affatto che il regno dell’Economia Politica segni il tramonto della Politica. Esso associa il liberalismo a ciò che di solito si percepisce come suo opposto: il culto dello stato forte.]

[Che un mercato florido e uno stato forte – anche nelle sue istituzioni economiche - siano due facce della stessa medaglia dovrebbe essere oggi un’evidenza indiscutibile. Si pensa che il grande sviluppo capitalistico dell’Inghilterra sia il risultato della riuscita della Banca d’Inghilterra, fondata nel 1694: la prima banca di stato ad aver avuto successo. Nel 1786 a Londra c’erano già 52 istituti bancari privati proprio grazie alla vicinanza della Banca d’Inghilterra e alla fiducia che questa ispirava. Oggi, gli Stati Uniti hanno uno stato federale formidabile, che è stato molto rafforzato dopo l’11 settembre.  Basti pensare alle sue forze armate, al suo apparato spionistico, alla Federal Reserve, al controllo capillare e globale delle comunicazioni che Edward Snowden ha svelato, ecc.

         Insomma, Foucault vede nel liberalismo tedesco una sorta di ribaltamento del liberalismo classico: perché il mercato possa dare il meglio di sé, occorre uno stato forte. Lo stato è la soluzione, quando il mercato ha un sacco di problemi. Dopo il 2008, lo abbiamo visto bene. In effetti, l’amministrazione Bush, che diceva di ispirarsi ai precetti liberali, non ha esitato a correre in aiuto delle banche a seguito della grande crisi del 2008. Quando scoppia una vera crisi, il “gioco” liberale va a farsi benedire.]

 

  1. 3.    Liberalismo americano e “capitale umano”

 

L’ordoliberalismo tedesco è sorto e insorto soprattutto contro il dirigismo prima bismarckiano e poi nazista. Il neo-liberalismo americano – riconducibile in gran parte alla scuola di Chicago – è sorto e insorto soprattutto contro il New Deal degli anni ‘30, contro la pianificazione di guerra e le politiche democratiche (Roosevelt, Truman) dei grandi programmi economici e sociali.

Foucault marca le differenze tra il neoliberalismo tedesco e quello americano. Per i tedeschi la regolazione dei prezzi attraverso il mercato – il “plebiscito dei prezzi” - è di per sé fragile; abbiamo visto quindi che questa regolazione va sostenuta attraverso politiche di intervento sociale. Lo stato, proprio per lasciar libero corso al mercato al di fuori del controllo statale, deve intervenire continuamente sul piano giuridico. E’ in fondo il grande paradosso storico del liberalismo. Per i tedeschi il liberalismo prospera in una società i cui elementi non sono costitutivamente liberali: il liberalismo va trapiantato in una ‘natura’ che non è liberale. Invece l’ambizione dell’anarco-liberalismo americano è di estendere il principio liberale a campi umani che di per sé sembrano sfuggire del tutto alla logica economica: alla famiglia e alla natalità, alla delinquenza e alla politica penale; in prospettiva, a tutto il bios umano. Da qui la teoria del “capitale umano” a cui Foucault attribuisce grande importanza, proprio come genuina teoria biopolitica. Il termine capitale umano è entrato ormai nel nostro linguaggio comune.

Nel liberalismo classico mancava un’analisi del fattore lavoro, ridotto a forza e tempo (si parlava di forza lavoro, e di tempo di lavoro). Invece nel neoliberalismo americano il lavoro e il lavoratore diventano finalmente oggetti di analisi economica: “il lavoro stesso va considerato come una condotta economica praticata, messa in opera, razionalizzata, calcolata da chi lavora” [p. 229]. Anzi, l’intera vita umana può essere reinterpretata come un processo economico di scambi e investimenti. L’economia tratta insomma della razionalità di qualsiasi Homo oeconomicus – tutto o quasi il campo delle azioni umane viene riportato alla strategia economica. [In seguito, la stessa biologia si impregnerà di metafore economiche: per il neo-darwinismo, la stessa evoluzione della vita verrà equiparata a competizione economica.] Quindi, il singolo lavoratore è considerato un’impresa, perché per questo modo di pensare

 

l’analisi economica deve ritrovare come elemento di base di queste decifrazioni non tanto l’individuo, i processi o i meccanismi, ma delle imprese [p. 231].

 

L’Homo oeconomicus per il liberalismo non è l’uomo che scambia e nemmeno l’uomo consumatore: è l’uomo-impresa. Economicamente parlando, ciascun essere umano è un’impresa. [Di recente, dei liberali italiani hanno proposto di aggiungere nell’articolo della Costituzione che dice “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”, le parole “…e sull’impresa”. Ma per il liberalismo biopolitico il lavoro stesso è sempre fatto imprenditoriale. L’operaio è un imprenditore del proprio capitale umano, come vedremo.]

Molta teoria liberale si proclama individualista - anti-olista, anti-collettivista, anti-strutturalista - ma in fondo l’individuo che conta per la teoria liberale è un’impresa. Non è più l’impresa a essere pensata come un individuo economico, è l’individuo che viene sempre più pensato come un’impresa. La società capitalista non è la società mercantile che vedeva Marx, ma è l’etica sociale dell’impresa così come Weber, Sombart e Schumpeter l’hanno descritta. E che cosa è la proprietà privata, in fondo, se non un’impresa?

Qualsiasi Homo oeconomicus, abbiamo detto, è un imprenditore di se stesso. Ma che cosa produce questa impresa? Soddisfazione. [In prospettiva, attraverso la soddisfazione l’homo mira alla felicità, di cui la Costituzione americana garantisce a ciascuno la ricerca. Ora, anche se non abbiamo qui modo di approfondirlo, credo che lo scarto tra soddisfazioni e felicità sia questione essenziale per la politica.] Anche il consumatore, in questo senso, è un produttore: comprando beni, produce la propria soddisfazione. Essendo ogni homo – nella misura in cui è oeconomicus – un’impresa, lei o lui utilizza un capitale: quello che lei o lui è, ha imparato a fare o sa fare. In questa ottica il salario, ad esempio, non è altro che la remunerazione o reddito prodotto da un certo capitale, detto “umano”. Chiunque lavora e produce reddito fa fruttare se stesso e le proprie capacità come capitale. Credo che oggi, sempre più, anche se crediamo di non essere liberali, tendiamo a vedere la nostra storia personale in questi termini economici.

Ma come si forma questo capitale umano?

A parte il capitale innato, geneticamente trasmesso, c’è un capitale acquisito – da qui l’importanza dell’allevamento e dell’educazione. Il famoso slogan di Blair “education, education, education” è in fondo l’applicazione alla politica delle teorie del capitale umano. Ma per i neoliberali non esiste solo la formazione scolastica: le cure genitoriali, i rapporti di vicinato, il tipo di svaghi, ecc., tutto contribuisce alla formazione di un capitale umano più o meno elevato. La classica barriera tra economia da una parte e le varie altre forme di vita dall’altra (puericultura, educazione, estetica, svago, sessualità, vita familiare, ecc.) finalmente crolla: tutto può essere interpretato in termini imprenditoriali. Ad esempio, una madre che si prende cura del proprio bambino è una che investe nel capitale umano del figlio, che si tradurrà un giorno in un reddito che questo figlio percepirà. Ma la madre, allora, è un agente puramente altruistico estraneo alla logica economica? No, perché prendendosi cura del figlio anche la madre guadagna un reddito psichico: la soddisfazione di vedere un giorno il suo rampollo remunerato adeguatamente per il capitale che lei stessa ha contribuito a formare.

Analogamente, la famiglia basata sulla coppia coniugale viene interpretata come una ditta: il contratto matrimoniale permette in effetti di scambiarsi soddisfazioni (di vario tipo) evitando di rinegoziare a ogni passo e senza posa gli innumerevoli contratti che costituiscono la vita domestica. Il matrimonio permette un risparmio dei costi di transazione, ad esempio, non si perdono tempo e soldi a corteggiare uomini e donne. Il marito fedele, si suppone, è più produttivo del donnaiolo.

Grazie a questa “analisi ambientalista”, secondo Foucault la politica si rivela finalmente come biopolitica: essa non si ferma alle soglie della mitica società civile, ma l’investe completamente – la politica è sforzo di governare tutti gli aspetti della vita umana, anche quella fisiologica. In effetti, Schumpeter aveva visto che il capitalismo non crolla – a differenza di quel che aveva preconizzato Marx – perché esso è in grado di produrre continuamente innovazioni tecnologiche: ma queste innovazioni sono rese possibili da un elevato capitale umano, costituito da inventori, scienziati, ingegneri, creatori, ecc. I paesi che non decollano economicamente sono paesi poveri soprattutto in capitale umano – e in effetti, i loro livelli di scolarità sono più bassi dei paesi prosperi. L’educazione diffusa non è semplicemente l’effetto del benessere economico di un paese, ne è anche una delle cause fondamentali. In effetti, tutte le indagini empiriche rilevano una forte correlazione tra livelli culturali di un popolo e livello di performance economica dello stesso.

Ma allora non solo, come dicevano le femministe, “il privato è politico”: l’insieme delle strategie private fa la politica economica di un paese. Sessualità, arte, amore, entusiasmi, svaghi… nulla è estraneo alla razionalità economica.

 

 

  1. 4.    Imposte negative

 

Sulla linea di questa analisi, Foucault scarta un’opinione diffusa, secondo la quale il welfare state – l’assistenza di stato ai cittadini in quanto esseri umani, non in quanto homini oeconomici – sarebbe stata una protesi trapiantata sulle “democrazie di mercato”[9] attraverso la pressione politica di forze socialiste e solidariste, comunque non-liberali. In realtà, afferma Foucault, lo Stato-Provvidenza – come lo chiamano i francesi – è un corollario della governance liberale. Assicurando la sopravvivenza di chi per una ragione o per l’altra (vecchiaia, malattia, disoccupazione forzata, svogliatezza, turbe caratteriali, follia, ecc.) è escluso o si esclude dall’economia produttiva, lo stato lascia libero gioco al mercato e alle sue selezioni. Proprio per questo lo stato liberale è biopolitico: mantiene una parte della popolazione in vita perché la vita economica possa svilupparsi senza eccessivi lacci “morali”.

In effetti, i liberali sanno bene che la miseria ha un alto costo economico e sociale: essa spinge alla criminalità, alle rivolte, alle tossicomanie, ecc. Dopo tutto, l’assistenzialismo è meno costoso di molte strategie di laissez-faire. [Ciò andrebbe ricordato a tutti quelli che – a sinistra come a destra – tuonarono concordi contro la Prima Repubblica italiana in quanto “assistenzialista”. Se per decenni il Mezzogiorno d’Italia non fosse stato “assistito”, il potere delle mafie varie sarebbe molte volte più forte di quanto non lo fosse a quell’epoca.] L’assistenzialismo è un corollario inevitabile del liberalismo, non ne è l’antitesi. Ma le politiche sociali dello stato – dall’istruzione pubblica fino al sistema sanitario gratuito per i meno abbienti – possono essere viste, nell’ottica del neoliberalismo, come utili investimenti per elevare il capitale umano: la società, via stato, investe risorse per elevare i livelli di istruzione e creatività dei propri cittadini, per elevare insomma il capitale umano globale del paese.

In Francia negli anni 70 si parlava di “tassa negativa”: della possibilità di fornire un reddito minimo a chi era assolutamente povero. E’ quel che oggi ha ripreso Beppe Grillo e il suo movimento rivendicando un reddito di cittadinanza. Come nota Foucault, la povertà considerata dai socialisti è sempre una povertà relativa, ovvero si identifica con le disuguaglianze nell’insieme della società. La povertà dei liberali invece è assoluta: solo questa povertà assoluta va assistita con imposte negative. Mentre i socialisti vogliono redistribuire globalmente la ricchezza nella popolazione per attutirne le sperequazioni, i liberali propendono piuttosto per la carità, insomma per l’assistenzialismo: occorre aiutare solo i più poveri, una minoranza. [Il sistema sanitario americano, ad esempio, prima della riforma Obama si basava proprio su questo principio: mentre i poveri avevano accesso gratuito al sistema di cure (Medicaid) e così gli anziani oltre i 65 anni (Medicare), molti dei ceti medi ne erano esclusi, a meno che non avessero provveduto privatamente ad assicurarsi l’assistenza medica. La riforma di Obama – innestare in America un sistema sanitario di tipo britannico – punta in effetti a tutelare i ceti medi, anche se imprevidenti, non i più poveri.]

Insomma, un governo liberale deve impedire che alcuni partecipanti al gioco economico perdano tutto e non possano giocare più: il welfare state è un modo per rimettere nel gioco chi ha perso tutto o non ha nulla, chi insomma dal gioco è stato escluso.

 

 

  1. 5.    Liberalismo senza libertà

 

Foucault sin dall’inizio dice di non voler considerare il liberalismo un’utopia. Ma se non ci fosse dell’utopico nel liberalismo, come esso produrrebbe applicazioni e risvolti auto-contraddittori? Come ogni concezione politica che privilegia principi assoluti, talvolta il liberalismo nella pratica si rovescia nel proprio contrario.

In effetti, l’atteggiamento di Foucault nei confronti del liberalismo appare ambivalente. Da una parte il progetto liberale di “vivere pericolosamente” seduce un emulo di Nietzsche: proprio Nietzsche, profetizzando una Umwertung aller Werte, una trans-valorizzazione di tutti i valori, proponeva il passaggio dal dominio della volontà di sicurezza al nuovo gusto per l'insicurezza e il rischio[10]. Il liberalismo come forma di vita sembra realizzare in qualche modo il progetto nietzscheano di sostituire alla timida volontà di conservazione una volontà che punti sempre a nuovi traguardi, a nuovi esperimenti, sempre oltre, senza limiti… Dall’altra però Foucault nota che, di fatto, il liberalismo si concretizza spesso in misure politiche illiberali (e anti-democratiche, come avvenne nel Cile di Pinochet o nel Perù di Fujimori). La rivoluzione permanente del liberalismo paradossalmente diventa la matrice di reazioni conservatrici. In effetti, anche se oggi i politici si accalcano nel proclamarsi tutti liberal-democratici, di fatto e di diritto liberalismo e democrazia – ovvero, libertà economica e libertà politica – spesso confliggono. Così liberalismo si rovescia in regimi anti-democratici il cui fine è liberare il “capitale umano” di ciascuno. La Cina di oggi, ad esempio, non è una combinazione di liberalismo economico e di dispotismo politico, un plutocomunismo? Da qui il paradosso per cui in America si chiamano liberals proprio quelli che contestano, da sinistra, il liberalismo. Ma questa tendenza di un progetto politico ad ammettere il proprio rovescio, a rovesciarsi nel proprio contrario, non è un tratto tipico di ogni progetto assoluto, quindi dogmatico? Di ogni progetto che escluda quell’opportunismo che la Storia continuamente richiede?

Abbiamo visto che l’estensione del welfare state è in fondo una misura inscritta nella logica liberale. Ma non è anche, oltre certi limiti (e dove fissare questi limiti?), un rovesciamento del liberalismo nel proprio contrario? Del resto, una logica squisitamente liberale può portare in molti casi al protezionismo. Foucault ricorda che all’inizio dell’Ottocento, proprio per difendere la libertà di commercio al proprio interno, il governo americano stabilì tariffe doganali protettrici per sfuggire all’egemonia inglese. Anche oggi economisti importanti pensano, in contraddizione con la dottrina di quello che una volta era il Washington Consensus, che sia necessario per molti paesi deboli proteggersi dal liberoscambismo proprio per riuscire a sviluppare un mercato al proprio interno. Ad esempio, proprio deviando dalle norme del Washington Consensus alcuni paesi latino-americani, come l’Argentina, hanno ricostruito il loro mercato. Del resto, la stessa America, che oggi si proclama liberista, anche prima di Donald Trump proteggeva l’agricoltura americana, alzava barriere doganali, sovvenzionava l’industria militare e aeronautica.

Foucault in questo seminario evita una critica della “ragione governativa” liberale, perché non è questo il suo obiettivo – eppure quello che dice ci spinge a formularla. Anche da parte di chi scrive, che si considera un liberal: ma essere liberali non implica accettare una visione del mondo liberale, così come essere socialisti non implica necessariamente essere marxisti. Qui mi limiterò, sulla scia della ricostruzione foucaultiana, ad accennare ad alcuni temi.

 

 

  1. 6.    Pétain e Berlusconi

 

Si diceva che il liberalismo può anche non coniugarsi con la democrazia proprio perché di solito – e qui il liberale si separa dal libertario – il liberalismo ha bisogno di uno stato forte. Ad esempio, il liberale Robert Barro[11] pensa che la dittatura illuminata, nella misura in cui reprime le richieste sociali, sia la forma di governo che meglio si adatta all’economia di mercato, in particolare alle economie emergenti: l’importante è che sia libero il mercato, poco importa che lo siano anche gli individui. Oggi sia l’India che la Cina godono di un grande boom economico; eppure è molto più facile fare affari in Cina che in India, proprio perché quest’ultima è una democrazia e la Cina no.

Mi si permetta un ricordo personale. Sin da ragazzo, mio padre – un intellettuale socialista che conosceva bene la storia politica d’Italia – mi aveva insegnato che, a differenza della corrotta Italia democristiana del Dopoguerra, la vecchia classe liberale italiana “aveva un forte senso dello stato”. Si riferiva alla leggendaria onestà della Destra storica, e anche a una tradizione liberale di rispetto meticoloso della separazione tra cosa pubblica e cosa privata. Ma non era contraddittorio indicare come specificità liberale il senso dello stato? Oggi vedo la contraddizione come solo apparente. Perché la dinamica spontanea del mercato produca i suoi effetti (che il liberale considera a priori ottimali) occorre una regolazione ferrea da parte dello stato, in modo che la vita sociale – che tende all’impuro – sia riportata costantemente nell’alveo della pura competizione. Questo, abbiamo visto, è stato concettualizzato dai liberali tedeschi, ma di fatto permea il liberalismo sin dalle origini. Così uno degli artefici della concezione liberale, Jeremy Bentham, è anche il progettista del Panopticon, che proprio Foucault ha reso celebre[12]: una società-prigione dove ciascuno è osservato e sorvegliato da un Grande Fratello centrale, a tutti invisibile.

Da Bentham a Bush Jr.: è una contraddizione il fatto che il laissez-faire economico dell’amministrazione Bush si sia associato a misure inedite di restrizione delle libertà personali, con il pretesto del terrorismo? O con la limitazione della libertà di ricerca scientifica in nome di principi bioetici e di pregiudizi anti-darwiniani? Ed è un caso che i politici liberisti – che invocano meno tasse, meno controlli sull’economia, insomma meno stato – trovino di solito i loro alleati nella destra conservatrice, nei fondamentalismi religiosi, nel moralismo repressivo, anziché nei libertari di sinistra?

Per ideologia di destra intendo qui quella che Pétain, all’epoca del regime di Vichy, aveva sintetizzato nel motto “travail, famille, patrie” (“lavoro, famiglia, patria”). E’ allora un caso che il liberalismo mass-mediatico di Berlusconi – che proclamava la triade delle tre I “impresa, internet, inglese” - abbia trovato alleati naturali nei post-fascisti e negli integralisti cattolici, il cui cuore batte per la triade di Pétain? Come accade che, sistematicamente, i produttori liberali di libertà si alleino con i communitarians, con chi afferma i valori tradizionali forti ostili alla disgregazione post-moderna delle identità? Da secoli la sinistra denuncia quest’Alleanza tra liberalismo e conservatismo, ma non riesce mai veramente a spiegarla; la dà per scontata, non la comprende nel profondo. A meno di non tirar fuori spiegazioni ad hoc di tipo cospiratorio del tipo “il liberalismo serve ideologie conservatrici, in particolare religiose, come strumento per tenere buone nel capitalismo le masse oppresse”. E lo stesso Foucault, dopo aver segnalato come il liberalismo di Bentham si associ al suo Panopticon, non ne sviluppa l’implicazione.

A mio parere, l’ideale competitivo funziona tra gente che crede nel “lavoro, famiglia, patria” proprio perché il liberalismo non è solo una teoria meta-sociale, non è vedere la Terra a partire da Marte, ma è esso stesso parte della società e delle sue dinamiche, parte tra parti. Ora, le società nelle quali prospera il liberalismo tendono anche spontaneamente a imbrigliare e modificare i puri processi di mercato, quando essi danneggiano alcuni o tutti. Insomma, il mercato non è mai un sistema chiuso – anche se gli economisti lo idealizzano spesso come tale – ma è sempre aperto sulle realtà globali, fuori del sistema economico. Per questa ragione dovremmo abbandonare del tutto quella che gli studiosi di Intelligenza Artificiale chiamano ipotesi del mondo chiuso: il mercato può essere separato dall’insieme delle altre forme di vita sociali solo per astrazione, di fatto tutte le forme di vita vi confluiscono. Ci riferiamo qui alla teoria biologica dei sistemi[13]: il sistema mercantile implica un ambiente a esso esterno, ma non è affatto detto che questo ambiente sia a sua volta mercantile. Così come una democrazia funzionante, in fondo, non implica necessariamente che i suoi partecipanti siano tutti spiriti genuinamente democratici: la democrazia è un gioco a cui partecipano anche individui niente affatto democratici, ma ai quali conviene partecipare al gioco democratico.

Il liberalismo è una teoria del governo sociale che nasce all’interno di un ambiente – di un ecosistema - che non è specificamente liberale, ma che rende possibile questo governo sociale e lo sostiene.

Abbiamo già visto che lo sviluppo capitalistico necessita di un livello culturale alquanto elevato della popolazione. Ovvero: occorre un ambiente colto perché vi si sviluppi un sistema mercantile efficiente. Altro esempio: quel che rende difficile lo sviluppo capitalistico di certe aree, africane o asiatiche, è la corruzione dei funzionari dello stato; il capitalismo ha bisogno, invece, di una certa diffusa onestà, cioè, come diceva mio padre, del “senso dello stato”. Occorrono funzionari kantiani, non utilitaristi come Bentham; occorrono impiegati ligi al puro dovere anche se potrebbero trarre facili guadagni dalle loro posizioni di potere. Il liberalismo tedesco aveva visto che il mercato non è laissez-faire ma implica un’azione continua da parte dello stato; ancor più a monte, il mercato implica non solo uno stato forte, ma anche un ambiente spirituale forte, una cultura diffusa della disciplina e dell’onestà, oltre che del rischio. Il declino economico dell’Italia da una ventina d’anni è verosimilmente connesso a un degrado della vita spirituale dell’intero paese, al diffondersi capillare di una mentalità corrotta. Per produrre libertà, il liberalismo ha bisogno insomma, spesso, di una certa militarizzazione della società, che proprio per questo esige i valori di lavoro, famiglia e patria – Pétain più Berlusconi. In effetti, il liberalismo vede la società di mercato come un tutto, mentre essa è solo una parte: ma le parti che non vede sono proprio le parti che rendono possibile il governo liberale, ovvero le condizioni ambientali per lo sviluppo sia del mercato che della sua teoria. Il punto è che queste parti che non vede, ma di cui ha bisogno come la terra su cui poggiare i piedi, comprendono anche l’anti-liberalismo politico ed etico.

In effetti, dice Foucault, il liberalismo è un regime di espansione del consumo di libertà; ma perché questa libertà venga consumata occorre produrla.

 

...Si instaura, nel cuore stesso di questa pratica liberale, un rapporto problematico, sempre diverso, sempre mobile tra la produzione della libertà e quello che, producendola, rischia di limitarla e distruggerla [p. 65].

 

In altre parole, il liberalismo pare ereditare anch’esso la famosa contraddizione del progetto di Rousseau – obbligare gli uomini a essere liberi – rovesciandosi spesso e volentieri in un’imposizione della libertà mercantile anche a chi non la vuole. Purché il mercato (“la verità”) sia libero, gli individui possono anche non essere liberi. Il Cile di Pinochet e la Cina di Xi Jinping lo hanno ben mostrato.

 

 

  1. 7.    Vivere pericolosamente

 

La critica liberale punta a interpretare l’attore sociale come fondamentalmente homo oeconomicus. Evidentemente Foucault non crede – anche se qui non lo dice - che homo sia solo e sempre, o principalmente, oeconomicus: sono molte le forme di vita umane. Per Foucault la vera essenza dell’umanità a partire dalla quale pensare le varie attività umane è chiaramente la Volontà di potenza (di Nietzsche), interpretata come bisogno di potere.

Si prenda l’homo disoccupato. Foucault ricorda che la piena occupazione non è un fine fondamentale di una politica liberale; questa, anzi, considera “fisiologica” una certa disoccupazione. Il disoccupato è un lavoratore in transito che semplicemente passa da un’attività meno redditizia a una più redditizia (se gli va bene). Foucault ricorda la bizzarra frase di Röpke, “l’ineguaglianza è la stessa per tutti” [p. 148]: chiunque può rischiare di perdere. Ma si prenda l’Italia, il paese dell’UE con il maggior tasso di persone che passano per lunghi periodi di disoccupazione; nel nostro Mezzogiorno, la disoccupazione di fatto non è un transito, è una condizione sociale stabile. Ovvero, milioni di uomini e donne sono di fatto esclusi dall’oeconomia – così alcuni optano per l’economia criminale, che certo non è ideale nemmeno per gli anarco-liberali. [Di fatto la criminalità non fa altro che estendere lo scambio mercantile ad ambiti che lo stato cerca di sottrarre al mercato. Questo è evidente nel mercato internazionale delle droghe, in quello delle armi o in quello illegale delle informazioni, ad esempio. Le multinazionali del crimine operano con criteri di promozione, distribuzione, calcolo del rischio, ecc., del tutto analoghi ai criteri delle multinazionali legali. Si dirà: ma la criminalità organizzata ricorre anche alla violenza, assassina i concorrenti, quindi opera con metodi non mercantili. Ma gli stati non ricorrono anch’essi, spesso, alla violenza militare proprio per favorire le loro aziende nel mercato globale? Quanti colpi di stato in America Latina sono stati finanziati e appoggiati da multinazionali americane, o dal presidente americano stesso? Da una parte i poteri criminali liberalizzano ambiti che gli stati vorrebbero escludere dal libero mercato, dall’altra gli stessi stati liberali operano talvolta con metodi e mezzi criminali. La criminalità è di fatto un’attività compensativa degli effetti sia del mercato che della politica: redistribuisce risorse e mercantilizza ‘beni’ che lo stato sottrae al mercato.]

Siccome le masse disoccupate votano, queste cercano di riparare alla catastrofe premendo (attraverso interposti politici, e talvolta anche direttamente) per quello che per molto tempo, con disprezzo, si è chiamato assistenzialismo. O semplicemente attraverso pratiche illecite ai danni dello Stato, come false pensioni di invalidità, evasione fiscale, mercato nero, ecc. Abbiamo visto che invece una certa dose di assistenzialismo, secondo Foucault, è una conseguenza necessaria della dottrina liberale: modo di mantenere in vita una popolazione perché l’economia viva. Eppure i liberali doc lo aborriscono! Le attività e gli esseri umani che il mercato espelle o esclude – vuoi in periodi di crisi, vuoi perché molti individui falliscono la competizione - non cessano di esistere biologicamente: quindi questi persistenti che si ostinano a esistere producono azione politica, che tende a controbilanciare, e a distorcere, gli effetti del mercato.

Foucault dice che il liberalismo è “vivere pericolosamente” - il che è ottima cosa per degli avventurieri nati, per dei nietzscheani, ma è pessima cosa per molti altri; e questi molti, che al rischio massimo preferiscono una sicurezza minima, prima o poi premono sul mercato politico. Gli homini non cercano solo di massimizzare il loro benessere economico, piegandosi così a una competizione permanente: cercano garanzie e sicurezza nelle rendite, nel welfare state, nella coppia, nelle pensioni, nell’acquisto di case, nella famiglia, nella religione, nei titoli di stato senza rischi come i Bund tedeschi, nella routine, ecc. E anche nella democrazia. Chi pensa che la democrazia sia un freno al liberalismo, tende a vedere la democrazia come una “sicurezza collettiva”, come una garanzia assicurativa: so che se le cose mi andranno molto male, avrò comunque sempre il voto e la libera stampa come strumenti per far valere i miei interessi e le mie rivendicazioni. La democrazia mi promette che non sarò mai completamente schiacciato (ma non è detto che questa promessa venga mantenuta).

Ad esempio, lo stato liberale dappertutto lascia la libertà a un genitore ricco di lasciare la propria eredità a un figlio, in modo che questi, se vuole, possa vivere bene senza mai lavorare (certi paesi come l’Italia, invece, poco liberalmente impongono ai genitori di non diseredare i loro figli). Ma allora perché considerare anti-liberale il fatto che una collettività decida di mantenere paternamente una parte della popolazione con sussidi? Ad esempio, manteniamo a spese dello stato tanti professori di filosofia, e sappiamo bene che la filosofia non ha applicazioni pratiche utili: ma, finora, certi popoli hanno pensato che mantenere filosofi fosse una cosa giusta. In molti stati si mantengono anche preti, monaci e monache, cioè persone che essenzialmente amministrano i culti, che non producono ricchezza materiale. Perché privare una nazione di questa libertà di accettare parassiti, filosofi o preti che siano? Perché è “liberale” per un ricco mantenere una amante e non, per un popolo, mantenere i propri poveri? La libertà di mercato significa anche che ognuno è libero di usare i propri soldi come vuole: quindi anche di darli nella carità o “per una causa”. Proprio la libertà del mercato implica che si possano impiegare le proprie risorse per fini anti-mercantili. Il mercato non si pronuncia sui fini di uno scambio, ma stranamente certo liberalismo sì: esso pretende di dire al mercato quali scambi sono “mercantili” e quali no. Quindi, l’attacco liberale a meccanismi di protezione dello stato è a suo modo, per altri versi, un attacco anti-liberale. Lo stato è esso stesso un agente economico che esprime delle preferenze, e il liberalismo parte dal presupposto che non si possono criticare le preferenze di chi spende.

L’ideale del “vivere pericolosamente” non è egualmente condiviso nella popolazione: il liberalismo, che proclama l’ottimalità della competizione, è esso stesso una concezione della vita in competizione con le altre. Il liberale, volendo mercantilizzare la società, non sempre si rende conto del fatto che la sua stessa teoria è un elemento di quel super-mercato o meta-mercato costituito dalle varie concezioni del mondo, della vita e della felicità presenti in ogni società. Non tutti pensano di essere felici nel liberalismo – come non tutti si sentono felici in una società socialista, o in una teocratica, o in una dispotico-paternalista, ecc. Chi non si sente felice nella società secolarizzata, pluralista, cosmopolitica e permissiva nella quale viviamo, sogna una società virtuosa, agro-pastorale e sempliciotta come quella vagheggiata da certi fondamentalisti cristiani. Quindi questi modernofobi competono nell’arena politica e ideologica proponendo altri modelli e “arti” di felicità. Il liberalismo non è una teoria meta-mercantile, ma parte relativa del ‘mercato’ delle idee.

Questo porta a contraddizioni che scandiscono le grandi crisi della governamentalità liberale, segnalate da Foucault. Ad esempio, si può dimostrare che lo svilupparsi di una cultura di opposizione al liberalismo dominante contribuisce a sviluppare di fatto il capitale umano. Non credo sia un caso che le migliori università anglo-americane siano piene di professori e studenti anti-liberali. Le grandi economie industriali del Novecento hanno sempre nutrito una vasta opinione – talvolta maggioritaria – decisamente anti-liberale, anti-capitalista e anti-tecnologica. Sulla scia di Hegel, possiamo dire che la modernità è sempre l’effetto dialettico della tensione tra tesi moderne e antitesi anti-moderne: entrambe concorrono, per così dire, al progresso sintetico. E’ davvero un caso che il boom industriale tedesco sia stato coevo della fortuna di filosofie sostanzialmente anti-tecnologiche e anti-capitaliste come quelle di Husserl, Heidegger, Adorno? O che il grande scrittore del miracolo economico nipponico sia stato Yukio Mishima, cantore del ritorno all’etica eroica del samurai?

Anche qui ci troviamo di fronte a un paradosso: lo sviluppo del capitale umano – che avviene attraverso la libera discussione e produzione scientifiche, artistiche e filosofiche – non può mettere in questione proprio questo liberalismo che ne celebra lo sviluppo? La libertà delle idee e del loro confronto non può portare a far prevalere concezioni che relativizzino questa libertà, o che addirittura la vogliano limitare? Il prevalere di idee anti-liberali non è un effetto possibile della libera competizione culturale? Così come, al contrario, il prevalere di principi liberali può essere felicemente sostenuto, in molti casi, da sistemi politici dispotici – si pensi sempre al Cile di Pinochet, alla Cina e a Singapore nell’ultimo mezzo secolo.

L’utopia liberale proclama “se un paese fosse integralmente liberale, tutto andrebbe bene” - ma appunto, nessun paese è integralmente qualcosa, nemmeno integralmente socialista, integralmente dispotico, integralmente teocratico, ecc. La vita sociale non è mai a una sola dimensione. Il gioco ‘puro’ del mercato viene distorto ogni giorno, fino al punto che è problematico dire se certi trucchi siano parte del mercato oppure no. Ad esempio, evadere l’IVA – come si fa comunemente in Italia – è un atto anti-mercantile o mercantile? Per molte aziende non versare l’IVA che dovrebbero versare è il solo modo, talvolta, per sopravvivere, quindi per restare nel mercato. Il mercato sopravvive perché attinge continuamente al non-mercato; e ciò che appare anti-mercantile per altri versi si mercantilizza. Le truffe, le pressioni politiche di lobbies e gruppi di interesse, le mazzette, i cartelli a tendenza oligopolista o monopolistica, la tentazione di condizionare i media e l’informazione a proprio vantaggio, l’insider trading, ecc. - tutto questo è liberale o anti-liberale? Sulla Fifth Avenue, ad esempio, uno stesso prodotto viene venduto talvolta a un prezzo quattro o cinque volte superiore al prezzo dell’identico prodotto in una strada laterale: l’ignaro compratore si lascia abbacinare dal glamour della Fifth Avenue e sborsa qualsiasi cifra. E’ questo gioco naturale del mercato o truffa? Lo strozzino che presta a un soggetto a cui nessuno farebbe credito del denaro con il 100% di interessi, è solo un delinquente oppure un prestatore di danaro ad alto rischio che cerca così di rimediare alla improbabile restituzione della somma? E se lo strozzino invia qualcuno a riempire di botte un debitore che non paga gli interessi, fa qualcosa di così diverso da quel che farebbe un Comune o lo Stato confiscando il mobilio di uno che non ha pagato le tasse, o staccandogli l’elettricità o il gas? La violenza economica dello Stato è poi tanto meno violenta della violenza dei mazzieri?

Tra il liberalismo ideale e la grande criminalità c’è un’immensa zona grigia che costituisce gran parte della vita degli scambi economici e politici.  Questa zona grigia è effetto del rifluire nello scambio mercantile di altre forme di vita. E le norme per rendere funzionante la macchina liberale non vengono da Marte o da filosofi-re, ma sono prodotti delle dinamiche sociali: ogni società produce naturalmente tiranni e libertà, norme rigide e anarchia, pianificazioni e liberalismo – nessuno dei due poli è la Verità dell’altro. Così, il mercato non è più vero dei regimi tirannici o delle guerre di religione: il mercato oppone ai dogmi la sua verità, e i dogmi al mercato oppongono le loro verità.

 



[1] M. Foucault, Naissance de la biopolitique, Gallimard-Seuil, Paris 2004.

 

[2] Il tema della biopolitica fu sviluppato nel corso dell’anno successivo, Du gouvernement des vivants, edito a cura di Michel Senellart, Seuil/Gallimard, Paris 2012.

 

[3] E in effetti, le politiche delle banche centrali e dei governi occidentali fino agli anni ’70 erano tese sostanzialmente ad assicurare la piena occupazione. Poi, fino al 2008, l’obiettivo fondamentale è diventato battere e impedire l’inflazione; lo stesso euro è stato concepito come moneta anti-inflattiva.

 

[4] Da ora designerò tra parentesi quadre il numero di pagina delle citazioni da Naissance de la biopolitique, cit.

 

[5] Di fatto, il suo seminario verte soprattutto su certe teorie liberali, ma viste come princìpi di arte di governare.

 

[6] Cfr. Pierre Rosanvallon, Le libéralisme économique, Seuil, Paris 1979, p. 3.

 

[7] Jean-Paul Fitoussi, La democrazia e il mercato, Feltrinelli, Milano 2004, p. 11.

 

[8] I suoi esponenti: W. Eucken, W. Röpke, F. Böhm, A. von Rüstow, H. Grossmann-Doerth, ma anche gli austriaci L. von Mises e F.A. von Hayek, e il francese L. Rougier.

 

[9] Riprendo questo termine non da Foucault ma da Fitoussi, op. cit.  Secondo quest’ultimo viviamo non in economie di mercato ma in democrazie di mercato.

 

[10] Volontà di potenza (III, 27).

 

[11] “Determinants of Economic Growth: A Cross-Country Empirical Study”, NBER Working Papers, n. 5698, agosto 1996.

 

[12] In M. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1976.

 

[13] Cfr. von Bertalanffy, Teoria generale dei sistemi. Fondamenti, sviluppo, applicazioni, ISEDI, Milano 1971. G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1976.

 

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