Flussi di Sergio Benvenuto

La speranza di Foucault (1988)25/ago/2019


 

La «dottrina» di un pensatore è ciò che nel suo dire rimane non detto, e a cui l'uomo è esposto affinché vi si prodighi.

M. Heidegger (1977, p. 159)

 

  1. 1.    Etica e verità

 

In un film documentario del 1965,Comizi d'amore, Pasolini intervistò gente di varie parti d'Italia e di vari ceti sociali sulle loro opinioni in materia sessuale. Si notava che gli italiani più urbanizzati, o più a Nord, tendevano a razionalizzare i loro costumi e credenze facendo appello a pretese ragioni obiettive, a «dati di fatto», facendo passare per veritài loro pregiudizi. Quando però Pasolini nel film chiede ad alcuni contadini in fondo alla Sicilia perché per loro fosse essenziale che una donna dovesse sposarsi vergine, questi rispondono solo: «Perché da noi si fa così».

In tutta probabilità Foucault avrebbe detto che i contadini siciliani eranostati i soli a dire la ‘vera’ verità, dichiarando la sola cosa che andava detta. In effetti per lui, a fondamento di certe pratiche e credenze umane ci sono solo degli usi, delle tradizioni, il fatto che «si fa così».Per Foucault alla base di istituzioni e credenze non ci sono le teorie che le giustificano, ma l'opaca e dimentica storicità di abitudini, di usi che hanno avuto successo sociale. Foucault si è assegnato il compito non di venderci una morale o una politica con copertura filosofica inclusa, ma di invalidare le razionalizzazioni, gli alibi più o meno scientifici, con cui nella storia si sono fatte passare delle specifiche strategie di potere, oppure semplicemente il fatto che, da un certo momento in poi, «si è fatto così». Come nota Paul Veyne (1986, p. 32), Foucaultnon ha mai detto «le mie preferenze politiche o sociali si basano su verità», egli si è limitato a dire: «Lerazionalizzazioni, con cui i miei avversari pretendono di affermare la verità delle loro preferenze, non si basano su niente». Del resto anche la scelta degli avversari si basa su niente. In un seminario lo stesso Foucault affermò: «Io non vedo, almeno per il momento, quali criteri permetteranno di decidere contro chi bisogna battersi, salvo forse dei criteri estetici».

Letta in filigrana, tutta l'opera di Foucault appare un dibattito, mai concluso, tra l’etica e la verità. Cosa significa dire la verità sull'ethos diuna società o di un'epoca? Trapela una verità, in quanto tale universale, attraverso le forme morali particolari — cioè attraverso la maglia dei rapporti di potere specifici — di un'epoca e di una società? Questo dibattito, inaugurato dalla reazione storicista all’Illuminismo, è al nocciolo del travaglio di Foucault. 

Ineffetti,dopo la svolta kantiana, abbiamo avuto due grandi filoni che hanno articolato due soluzioni etiche globali: 

a) occorre elaborare una scienza del dover essere, cioè della razionalitàpura, che abbia come modello le scienze empiriche e calcolative; questa razionalitàetica deve imporsi all'essere in divenire, in particolare negli scambi sociali (Illuminismo, Bentham, Mill, Carnap, Popper, ecc.); 

b) occorre costruire una scienza dell'essere in divenire, cioè dell'effettivo mutamento storico dei rapporti umani, in modo che dalle leggi di questo cambiare sgorghi una logica che orienti il dover essere nella nostra concreta esistenza (Hegel, Marx, Freud, Heidegger, ecc.). 

Illustreremo laparticolarità della «risposta» di Foucault, che trasgrediscequesta alternativa.

 

2.Storicismo relativista

 

Talvolta si pensa che l'opera di Foucault sia connessa in qualche modo al metodo degli storici delle Annales(Braudel, Duby, Le Goff, ecc.).Anch'egli, come gli «annalisti», fu lo storico degli aspetti estromessi dalla Storia, relegati ai margini dellarazionalità e della società — la malattia fisica e mentale, il crimine, le perversioni, la morte, la prigione, la sessualità, ecc. La scelta in sédi questi temi ha disorientato la storiografia italiana, dominata durante il Novecento da unavariante di storicismo, «idealista» o «materialista» che esso si dicesse. Questa storiografia tendeva a identificare sostanzialmente i processi storici con la coscienza, ideologicae critica, che i loro protagonisti avevano di essi; l'«inconscio» del dettaglio, del marginale, dell'abitudinario, ecc., non aveva alcun rilievo nella Storia dello storicismo nostrano. E non a caso, del resto, l'opera di Foucault — come quella delle Annales, di P. Ariès, ecc. — è fiorita in terra di Francia, in una cultura cioè che è rimasta relativamente immune da quello storicismo, per lo piùhegeliano – vichiano, crociano, gentiliano, gramsciano.

Eppure il pensiero di Foucault è rampollo della crisi — direi cronica— dell'Illuminismo. Deriva cioè direttamente dalla svolta storicista moderna, dalla reazione romantica al culto illuministico delle invarianti della ragione. L'interesse per il quotidiano, per una Gemeinschaft  (comunità) magari tramontata, per le mentalità, per le «lunghe durate» — per dirla alla Braudel — deriva in effetti dall’Heimkunft, dal ritorno a casa, dal rivolgersi romantico alla storia e al «pensiero vivente»[1]incarnato nelle lingue e nelle tradizioni, che nutre l'entusiasmo della reazione romantica all’Illuminismo. Rispetto a quel primo storicismo romantico, la posizione di Foucault, come già quella di Nietzsche, può essere definita allora post-storicista. In effetti, lo storicismo tradizionale scommette sul riconoscimento del Senso della storia, mentre quel che chiamo post-storicismo coltiva il fiuto per la differenza storica, il senso delle eterogeneità incommensurabili di culture e discorsi del passato e del presente. Lo storicismo classico, hegeliano o marxista, basato su un'idea progressista, ottimista della Storia e sul carattere umanistico della storiografia, cerca di guardare la storia dall'alto, pretendendo di riconoscerne il senso. Invece, i post-storicisti preferisconoridefinire i nostri problemi attuali più che alla luce, direi alla penombradelle opache pluralità storiche, come vedremo avanti. Il particolare senso della storia di Foucault — la sua inconfondibile grazia storiografica — deriva insomma dal suo rifiuto di attribuire alla storia un senso unico.

Strano destino, quello dello storicismo moderno. Esso si è sviluppato come critica al giusnaturalismo, contro la presupposizione dì un'identità dì fondo natura-cultura; inevitabilmente, esso avrebbe dovuto portare auna teoria della relatività storica dei valori. Eppure lo storicismo, terrorizzato dalla propria vocazione, ha investito tutte le sue forze speculative nel ristabilire e legittimare la fede in valori assoluti trans-storici. Come afferma Meinecke (1939; 1962) in particolare,lo storicismo non è relativista, c'è presenza dell'assoluto nella storia, il «senso storico» va distinto dal «senso della Storia». La miseria dello storicismo è consistita nel suo non essere stato storicista fino in fondo, nell'essersi impaurito dalla svolta che esso ha impresso al pensiero.

Possiamo definire allora quello di Foucault uno storicismo radicale, uno storicismo che non indietreggia rispetto alle conseguenze di estremo relativismo? Come vedremo, nemmeno questo si può dire. C'è dell'assoluto anche in Foucault: un senso ultimo non al di là, ma al di qua della storia.

Intanto,Foucault ci ha insegnato a non proiettarerozzamente le nostre categorie ideologiche nel passato, ma a cercare di cogliere il carattere événementiel,eventuale, delle svolte storiche. Proprio per questo egli ci ha dato un grande aiuto a liberarci dall'invadenza tentacolare del luogo comune, da intendere come il potere delle pigre e anacronistiche ripartizioni concettuali che ci fa comodoproiettare sulle società passate, aliene o esotiche. Egli ci ha raccomandato di cogliere l'altro non a partire dai tratti comuni con noi — per cui si crea il tipico trompe-l’oeil storiografico — ma a partire dalle sue differenze anche radicali con noi.

L'ermeneuticache possiamo chiamare «restauratrice»(rispetto ai libertinaggi emancipazionisti del post-strutturalismo) ha cercato di confutare l’impegno di non proiettare i propri idola nelle società altre. L'etnocentrismo è la condizione di ogni comprensione storico-antropologica: quest'ultima coglie l'altro in funzione degli interessi, dei pattern mentali e culturali, delle esigenze, insomma dei pregiudizi, di chi si occupa compassionevolmente dell'altro. Se questo è vero, si spiega perchécerte analisi foucaultiane produssero, quando apparirono, molti «affetti di verità» -nel senso che parevano evidentemente vere - in quanto parevano allontanarci, per molti versi, dal passato storico considerato, piuttosto che accostarcelo o addirittura identificarlo a noi (da qui la fortuna delle sue metafore archeologiche). Egli ha come antichizzato- il contrario quindi di attualizzato - l'epoca che va dal Rinascimento alla Rivoluzione francese.

Foucault ha riedito nei confronti delle origini delle scienze umane la stessa operazione antichizzante che Heidegger aveva effettuato nei confronti del pensiero filosofico greco: egli le ha altrifìcate,le ha distanziate da noi. Ma l'ermeneutica etnocentrica stenta a cogliere il fatto che proprio questa disidentificazione da noi — questa barbarizzazione — ci rende questi pensieri più ricchi e più stimolanti. Per esempio, quando Heidegger reinterpreta aition, la causa, in Aristotele nel senso della lingua allora parlata,come «responsabilità», «colpa», avvertiamo un senso di liberazione e di respirazione intellettuale non molto dissimile da quello che ci procurano le ricostruzioni da parte di Foucault delle idee già classiche di Pinel, Bichat, Cabanis, ecc. Egli relativizza storicamente quelle idee in relazione a certi paradigmi dell'epoca. Come avviene che il nostro etnocentrismo paradossalmente si soddisfa nel cogliere il malinteso etnocentrico che aveva filtrato la lettura di certi nostri classici?

Forse è solo allontanando da noi il pensiero di Aristotele o di Pinelche riusciamo a ri-conoscere qualcosa di noi stessi, del nostro modo di pensare, che ci risultava estraneo. Opacizzando i classici, ci divengono trasparenti certeopacità del nostro stesso pensiero, quelli che potremmo chiamare i pre­giudizi (i paradigmi) indiscutibili e schematizzanti della nostra cultura. Se il nostro accostarci all'altro è comunque governato dal nostro destino etnocentrico, comunque c'è da riconoscere che sono storicamente possibili due approcci all’eteros:uno che tende a descrivere l’altro a partire dai nostri stessi paradigmi, e un altro che tende invece a ricostruire i paradigmi dell’altro attraversospezzoni dei suoi testi. Foucault aveva adottato questo secondo tipo di etnocentrismo. È chiaro che la ricostruzione del paradigma dell'altro procede sulla base di criteri etnocentrici, come l'apprendimento di una lingua straniera avviene sulla base della propria lingua originaria; ciò che conta è che non si parli eternamente la lingua straniera in modo stentato.Ciò che importa è che il nostro etnocentrismo non ci risulti estraneo, ma che ci si riveli chiaramente. Grazie a Foucault, la nostra dis-identificazione dall'altro ci rende riconoscibile l'arbitrarietà dei nostri paradigmi, la particolarità del nostro egoe del nostro ethnos. Possiamo dire che le interpretazioni foucaultiane, allora, vanno in senso inverso rispetto a quelle freudiane: mentre queste ultime tendono a farci ri-conoscere come nostre certe formazioni che ci risultano estranee (sogni, sintomi, lapsus, ecc.), le prime mirano piuttosto a farci risultare estranee certe formazioni (manicomi, prigioni, medicina clinica, pedagogia e discipline, ecc.) che tendiamo a riconoscere come prodotti «naturali»della nostra razionalità.

 

 

Questa ipersensibilità di Foucault alla differenza è denunciata dai criticicome il corpo del reato del radicale relativismo storicista di Foucault. Intanto, comunque, questa sensibilità eventualista e differenzialista ha per corollario un esplicito anti-riduzionismo. Per riduzionismo intendo il compito, che il filosofo o lo storiografo si danno, di ricercare una realtà profonda essenziale dietro i processi storici e sociali, una assolutezza a cui fare appello come causa ultima di ogni fenomeno superficiale. Riportare la varietà del reale al lavoro di un solo quidfondamentale è stata la grandezza e miseria che le grandi concezioni moderne hanno ereditato da quelle del passato. Nel positivismo logico il sapere è stato riportato agli enunciati atomici e protocollari; nel marxismo le dinamiche storiche sono riportate ai conflitti di classe, definite queste ultime dai rapporti di produzione; nel neo-hegelismo la storia è riportata allo svolgimento dello Spirito e a processo verso l'auto­coscienza; nel freudismo le vicissitudini soggettive sono riportate alla dialettica di dieLust, piacere-e/o-desiderio; ecc.

Foucault invece ha fattonotare che «forse bisognerebbe interrogarsi sul principio, spesso ammesso solo implicitamente, secondo cui la sola realtà a cui dovrebbe pretendere di rivolgersi la storia è la società stessa». (Foucault, 1981, p. 50). 

Da questo dubbio discende il suo pluralismo: 

 

Un tipo di razionalità, un modo di pensare, un programma, una tecnica, un insieme di sforzi razionali e coordinati, degli obiettivi definiti e perseguiti, degli strumenti per raggiungerli, e così via..., tutto questo è ben reale, anche se non pretende di essere "la realtà" stessa né "la" società nella sua interezza. 

 

In rapporto a un tale asse di analisi della storia, secondo cui i fatti umani devono essere riportati a una struttura unitaria, necessariae implacabile, e la più esterna alla storia stessa, Foucault ammette che

 

quel che io pongo sembra essere sia troppo che troppo poco. Troppe relazioni diverse, troppe linee di analisi. E al tempo stesso un'insufficienza di necessità unitaria. Pletora dal lato delle intelligibilità — difetto dal lato delle necessità... Ma noi non ci troviamo e non dobbiamo porci sotto il segno della necessità unica (ibid.,p. 60).

 

3.  Potere, Scrittura, Sistema

 

Come obiezione ricorrente a tutto ciò, si fa notare come il progetto pluralista e anti-riduttivista foucaultiano sia contraddetto dal suo riferirsi a una sola forma di vita, quella del potere, come verità ultima di tutte le altre. Da una parte Foucault insiste sull'eterogeneità dei «tipi di razionalità», dei «modi di pensare», delle «tecniche», ecc., dall'altra invece lui stesso riconduce tutti questi aspetti a una fenomenologia del potere. Il ventaglio culturale entro cui il pensiero interpretante del nostro secolo ha pensato la propria discendenza e specificità, è la moderna Trimurti delle dottrine dell'interpretazione — Marx,Nietzsche, Freud. Foucault ha optato per Nietzsche, il cui lascito può essere sintetizzato, à la Heidegger, in questi termini: laverità dell'essere è Wille zur Macht, volontà di potenza. Foucault, distantesia dal marxismo che dal freudismo, non avrebbe fatto altro che applicare una variante nietzschiana di riduzionismo metafisico, secondo la quale essenza della vicissitudine umana èlavolontà di potere. Un pouvoir chesi collega all'altro grande tema nietzschiano, quello dell'Eterno Ritorno, attraverso un'etica dell'attualità. Quindi, la sua «microfisica del potere» sarebbe ancora inscritta in un progetto metafisico forte.

Certo, Foucault ha insistito sul fatto che il potere non va descritto in modo dicotomico, su scala macroscopica, che esso non si riduce a potere di una classe sociale sulle altre, o dello stato sulla società civile, o dell'Io sull'Es, ecc., ma che esso si articola come ragnatela di relazioni molecolari. Ciò non toglie che questo Potere ubiquo appaia anch’esso come una sorta di verità ultima dei rapporti umani, anzi (come ha insinuato Bonfantini, 1981) come una sostanza.

L'obiezione è giusta. Ma proprio a causa di questa sua opzione forte Foucault ha potuto essere un autentico testimone della nostra epoca: l’attualitàdi Foucault è dovuta al suo essere riuscito a illustrare e aesplicitare la «grammatica» della forma di vita predominante oggi, comunque negli anni in cui è vissuto.

Orwell (1949) in 1984 fece dire all'inquisitore O' Brien che il dispotismo del Big Brother si distingue da tutti gli altri dispotismi passati perché il fine del suo potere è il potere puro, fine a se stesso. Ben prima del 1984, il pensiero più influente degli ultimi decenni ha condiviso fondamentalmente questa convinzione: alla base delle relazioni tra gli umani, dalla famiglia allo Stato, non ci sono tanto le pulsioni cieche, o lo sviluppo delle forze produttive, o l'istinto di sopravvivenza, ecc., ma c'è in fin dei contila lotta generale di tutti e di ognuno per il potere sull'altro. Benché non tutti se ne siano accorti, è un fatto che in questi ultimi decenni anche in programmi di ricerca del tutto diversi tra loro — nel marxismo, nella psicoanalisi e nella psichiatria, negli strutturalismi più o meno sistemici o funzionalisti, nelle riduzioni fenomenologiche, nelle sociologie della politica, ecc. — si tende a trasporre i concetti fondamentali in termini di potere. Anche quelle antropologie che vedono la molla finale dell'attività umana nella ricerca del piacere, della felicità, nella massimizzazione dell’utile, o nell'accumulo delle ricchezze, tendono a ritradurre queste «cause finali» ultime, rispettivamente, in «potere di godere», in «felicità come poter fare», in «potere conferito dalle ricchezze», ecc. Questo primato della categoria del potere è insomma un dato di fatto storico; essa ha ricentrato la riflessione delle scienze umane, analogamente a come, a detta di Foucault (1966), le categorie moderne — i «quasi trascendentali», come lui dice — di Lavoro,Vita e Linguaggio ricentrarono completamente, alla fine del XVIII secolo e all'inizio del XIX, rispettivamente l'economia politica (con Ricardo), la classificazione biologica (con Cuvier), la linguistica (con Bopp). Possiamo anzi affermare che, anche grazie a Foucault, non solo in economia politica, in biologia e in linguistica, ma in svariate altre scienze (umane, dello spirito), dominano altri «quasi trascendentali»: il Sistema, il Potere e la Scrittura. Questi tre paradigmi hanno preso il posto, come categorie strutturanti la ricerca, della Vita, del Lavoro e del Linguaggio. Certo, autori come Saussure, Lévi-Strauss,Bateson o Luhmann hanno insistitopiuttosto sulla dimensione del Sistema; Lotman, Derrida e Chomsky hanno preferito mettere in primo piano la nuova centralità della Scrittura; Foucault, come Canetti, Bataille o Feyerabend, ha preferito puntare le sue carte sul Potere.

Il Potere in Foucault assume però forme che non poteva avere ancora in Nietzsche – oggi, infatti, pensiamo che i rapporti di potere implichino continuamente i pre-supposti, i «trascendentali» del Sistema e della Scrittura. E difatti, in Foucault la dinamica dei rapporti di potere non ha a sua volta fondamento in qualche verità più radicale — per esempio, come in Agnes Heller, nei «bisogni radicali»corporei o spirituali; oppure, come in Lacan, nel desiderio e nel godimento; o anche, come nella sociobiologia, nell'«egoismo del gene»,quindinell'istinto di sopravvivenza, ecc. Il fondamento del potere è allo stesso tempo il suo prodotto: è il Sistema dei rapporti di potere, e la Scrittura (in senso lato, come applicazione regolata di un sapere) generata da questi rapporti. Benché tanti autori moderni di rilievo privilegino, nelle loro genealogie, uno dei tre aspetti, nell'insieme della nostra circolazione intellettuale si rivela una certa circolarità di fondo fra Potere, Scrittura e Sistema.

Osserviamo che mentre i paradigmi del Lavoro, della Vita e del Linguaggio per Foucault erano specifici, ognuno, di tre scienze diverse ai loro inizi, invece Sistema, Scrittura e Potere paiono incrociare un po' tutte le scienze umane: sono «trascendentali» non specialistici, sono divinità intellettuali della modernità. Come la Trinità cristiana, paiono suddividere in tre persone una maestà concettuale unica, la cui qualità (e nome) attualmente ancora ci sfugge. In effetti, malgrado l'evidenza per cui ogni scienza umana, sulla scia delle scienze naturali, tende a specializzarsi progressivamente, sviluppando oggetti e categorie a essa peculiari, per altri versi tutte le Geisteswissenschaften – scienze dello spirito - paiono attraversate da paradigmi comuni, in particolare dalla Trinità di cui abbiamo parlato.

 

 

4. Attualità ed eternità

 

Sullo sfondo di questa opzione genealogica fondamentale, Foucault comunque insiste sulla pluralità irriducibile delle forme di razionalità, dei saperi, delle etiche e delle pratiche a seconda delle epoche e delle culture; nel senso che queste diverse configurazioni non possono essere a loro volta spiegate, perché bisognerebbe ricorrere a un'istanza unica e più fondamentale.

Da precisare però che questo senso della relatività storica non va mai disgiunto, in Foucault, da un acuto primato dell’attualità.Precisa Veyne (1986, p. 31):

 

Non bisogna opporre la verità eterna al tempo, e neppure identificare l'essere con il tempo; bisogna tranquillamente opporre, al tempo come all'eternità, la nostra attualità, cioè la nostra volontà valorizzante... La sola realtà è la volontà di potenza come volontà valorizzante, e tutto il resto è illusione razionalistica.

 

Così la «scelta» dei valori — e aggiungo: dei paradigmi scientifici e filosofici — è soggetta ai rischiradicali della temporalità: o questa scelta avviene in sintonia con l'attualità, oppure i valori scelti verranno spazzati via con la polvere delle falsificazioni. «Il cielo è sicuramente lacerato — aggiunge Veyne (ibid., p. 36) — ma tra dei alcuni dei quali ammettono precisamente l'idea dell'attualità, e altri che non l'ammettono». (E va detto che in questoFoucault non è così lontano dacerto neo-idealismo italiano, da Croce quando diceva che tutta la storiografia è storia contemporanea.) L'attualità degli dei dell'attualità è la sola forza dell'opera foucaultiana secondo Foucault stesso. Questa forza non è dovuta al suo aver guardato da un osservatorio sovra-conflittualedal quale poter giudicare, alla Max Weber, il chiasso e il furore dei conflitti mondani. Vivere l'attualità come se fosse un'eternità: questo èstato il modo in cui Foucault ha dato spessore storiografico al tema nietzschiano dell'Eterno Ritorno.

C'è da dire piuttosto che questo primato dell'attualità, del presente, più che una rottura inedita con la tradizione pare essere in accordo con tutto un primato ontologico del presente, che, come Heidegger ha mostrato, caratterizza un po' tutta la storia della metafisica. Questa centralità e prevalenza del presente sul passato e sul futuro hanno un'origine che risale almeno ad Aristotele, e vengono riprese dalla famosa tesi di S. Agostino sul non-essere del tempo; questa tesi riduce il passato a praesens de praeteritis e il futuro a praesens de futuris[2]. Quanto all'eternizzazione volontarista del presente e dell'attimo, potremmo rievocare tutta la tematica del nunc stans (ora stante) dei mistici, la meditazione teologica sull'attimo supremo come nunc aeternum (Eterno ora)[3]. Il fatto che si tratti in Foucault di un presente storico, e non specificamente di un'ontologia della temporalità, non mi pare differenza decisiva rispetto a questa tradizione metafisica;la concezione nietzschiana del tempo a cui egli si ispira era difatti intrisa di questi temi. A ciò aggiungiamo l'influsso su Foucault della teoria di Bachelard (1932; 1950) sull'intuizione dell'istante. Indubbiamente Foucault segna un ritorno a una prevalenza metafisica del presente in chiave di pragmatismo vitalista, in reazione a una promozione delle istanze del futuro — il progetto, la scelta, l'essere-per, ecc. — caratteristica della cultura fenomenologica, da Essere e tempodi Heidegger fino a Sartre. Questo ritorno al primato del presente ha il senso di una scettica ricusazione dell'idea della storia come sviluppo, manifestazione, come necessità che guiderebbe e orienterebbe gli eventi. La fedeltà agli dei dell'attualità in Foucault completa una ripulsa del dio escatologico cristiano, reincarnatosi nei millenarismi illuministi e marxisti.

Per i filosofi medievali occorreva distinguere tra l'aeternitas — il nunc stans, ciò che eternamente sta e non muta — e la sempiternitas, vale a dire il nuncfluens, ciò che muta e fluisceora, che appare e scompare«senza limite», per sempre. L'Eterno Ritorno è un modo della sempiternitas, cioè del fluire senza limiti e senza stabilità. Il pre-dominio foucaultiano dell'attualità è l'opzione per la sempiternitas del fluire — dove esiste solo ciò che è attuale, ciò che sta per mutare — contro ogni idea di aeternitas giusnaturalistica.

Eppure questo ritorno foucaultiano al primato del presentecome sempiterno, dell'attualità come modo privilegiato della volontà di potere, ha fatto gridare all'irrazionalismo. Si è detto, non a torto, che il suo modo di vedere aveva strette analogie con quello (dato per screditato) di Spengler e di altri nietzschiani[4]. Si potrebbe ribattere però che questa irrazionalità non è della teoria di Foucault, ma della vita e della storia dal momento in cui queste sono percepite nell'ottica dell'Eterno Ritorno — cioè comesempiternitas del fluire, come assolutezza sempre nunc fluens della volontà. Semplicemente Foucault non accetta l'applicazione alla Storia del fondamentale principio hegeliano — «ciò che è reale è razionale, ciò che è razionale è reale» — nemmeno nella sua formulazione più debole, prodotta da Hegel (1983, p. 51) stesso - «ciò che è razionale diventa reale, e ciò che è reale diventa razionale». Per Foucault il reale è sempre la forma fluida prodotta dal conflitto sempiterno, senza limite, tra diverse razionalità — il pluralismo delle razionalità illustra l'Eterno Ritorno della volontà dì potere.

Si potrà notare che in ogni caso i discorsi di Foucault si inscrivono in un'esigenza di verità. Ma siccome Foucault ha criticato il nostro bisogno di verità come bisogno di illusione di verità, non dobbiamo rivolgere questa stessa critica anche al suo sistema? Infatti, sostenere che ciò che conta è l'attualità non è avanzare una supposta verità eterna? «Tutto è attualità».Ogni relativismo storico cadrebbe in questa autocontraddizione. E Foucault meno degli altri vi sfuggirebbe.

In effetti, tutte queste opzioni teoriche, inclusa quella di Foucault, sono scommesse; la sola cosa seria che il filosofo possa direa se stesso è «abbi fortuna!». Certo, anche dire «tutto è attuale» ha una validità storica solo relativa — ma per Foucault è una relatività temporale che occorre rischiare e accettare.

Non abbiamo qui modo di approfondire la disputa sul relativismo storico[5]. C'è da chiedersi comunquese quello di Foucault possa chiamarsi relativismo, se non altro perché il termine viene usato — come giudizio negativo — da concezioni che auspicano l'applicazione di standard metodologici assoluti, che fanno appello all'universalità della ragione. Nietzsche stesso attaccò un certo relativismo storicista, in quanto secondo lui paralizzava la vita. La vita, nella sua attualità, ha sempre esigenze assolute. «In tutti i tempi fu diverso — dice questo relativismo decadente — non conta come tu sia»[6]. Il relativismo sarebbe l'alone di uno storicismo contemplativo, décadent, che si mette dal punto di vista di una aeternitas sovratemporale, non di uno storicismo che accetta l'assolutezza dei valori del presente. Invece, quello di Foucault è un relativismo della ragione, a cui si unisce, non contraddittoriamente, un assolutismo della volontào della forza. La volontà di potere non è mai relativista,a meno di non spegnersi nella contemplazione sub specie aeternitatis; ogni vera volontà vuole assolutamente. Il relativismo invece è il corollario dell'atto cartesiano, malinconico, di registrazione quasi contabile della pluralità irriducibile degli assolutismi delle volontà.

Restaperò che per Foucault le condizioni di verità dei discorsi delle scienze dipendono dalle strutture di potere da cui emanano questi discorsi. Quale sarà allora lo statuto del discorso, sedicente vero, di Foucault? M. Walzer (1984) ci fa osservare che non basta dire che le genealogie foucaultiane sono finzioni in attesa delle future «realtà sociali» in grado di renderle vere. Non si vede infatti come questa sua anti-disciplina genealogica possa essere convalidata dalle resistenze locali al sistema di potere oggi dominante finché queste resistenze non risultino vittoriose, esse stesse cioè nuovo sistema di potere.

Eppure,l'opera di Foucault ha fatto epoca proprio perché in realtà non è mai stata un'anti-disciplina, ma al contrario, perché è stata sempre riconosciuta e accettata, malgrado le ferventi polemiche attorno ai suoi libri, dalla Disciplina accademica. Non ha fatto Foucault una brillante carriera scientifica, non è stato ammesso al Collège de France, culmine di ogni cursus accademico in Francia? Se l'opera di Foucault ha indotto qualche trasformazione, non è stato direttamente tanto nel mondo delle carceri, degli ospedali generali o psichiatrici, dei costumi sessuali, ma nei paradigmi culturali universitari, nel modo di fare storiografia. Benché Foucault sia stato continuamente tentato — come molti altri intellettuali engagés — di fuoriuscire dalla Disciplina accademica, è nell'ambito di questa Disciplina che il suo discorso assume senso e valore. Foucault non è mai stato veramente un maudit, ma uno studioso di successo ammirato e seguito.

Il fatto che non abbia aderito alla morale politica prevalente del suo tempo è tratto secondario rispetto al fatto che egli abbia aderito, giocandovi impeccabilmente, alle convenzioni della cultura storiografica e filosofica del suo tempo. Ma proprio per questo non possiamo supporre che le scienze umane — in quanto hanno potuto assorbire, anche se con qualche trauma, l'opera di Foucault — posseggano un'autonomia rispetto alle pratiche sociali più concrete? Esse sono sì Discipline, ma non sono anche tutte prodotto di sviluppi interni, fini a se stesse? Peccato che Foucault non abbia analizzato le strutture di potere anche nella storiografia — avremmo allora capito meglio in che modo il suo pensiero si sia inscritto anch’esso, magari senza volerlo, in una particolare strategia di potere.

 

5.Sapere e potere

 

Questo rapporto tra verità e potere è il temaprivilegiato dell'opera di Foucault. La sua tematica generale non è costituita dalla società, bensì dal discorsovero/falso nel suo rapporto con il potere.

Talvolta questo suo programma venne scambiato per una demistificazione della «falsa scienza» — cioè dell'ideologia in senso marxiano — attraverso la costituzione di una «vera scienza», dialettica e critica. Eppure Foucault ha ripetuto moltevolte che lui non sapeva che farsene del concetto marxiano di ideologia. Egli non pensava che la psichiatria ecerte scienze umane fossero «falsa coscienza» — «errore e violenza», come dicono Bourdieu e Passeron (1971) — per mascherare i reali rapporti di potere: anzi, esse esplicitano e promuovono programmi che hanno avuto o avranno effetti nel reale, trasformando direttamente o indirettamente i nostri modi di vivere.

Eppure occorre dire che, se qualche equivoco si è prodotto, Foucault ne è stato in qualche modo corresponsabile, in quanto egli stesso ha oscillato. Quando ripeteva di voler fare in fondo una «storia della verità», talvolta questa verità appariva tra virgolette, altre volte no — e qui è tutta la questione.

 

Ma forse semplicemente Foucault non ha avuto il tempo di chiarirci, e di chiarirsi, questo rapporto tra la produzione della verità (delle scienze umane in particolare) e il governo degli esseri umani. In questo caso, questo stretto legame tra verità e potere è un'altra preziosa testimonianza di Foucault nei confronti della modernità. E’ uncorrispondente euro-continentale del pragmatismo americano; cioè della filosofia che, detto nei termini di Foucault, meglio ha testimoniato della vocazione al potere imperiale degli Stati Uniti. Spiega questo il particolare successo che il pensiero di Foucault riscuote negli USA? Perché, se è vero che ogni cultura, ogni forma di vita, può essere descritta in termini di relazioni di potere, è pur vero che la nostra civiltà— almeno dal '500 in poi — ha costituito il proprio specifico dominio, oggi quasi universale, soprattutto sulla preminenza della produzione da una parte e del riconoscimento della verità scientifica dall’altra. E il Novecento ha ulteriormente rafforzato la connessione, in qualche modo circolare, tra verità e potere.

Questo modernosapere-potere ha però due facce distinte, che spesso le filosofie del Novecento hanno contrapposto. Da una parte la riduzione della verità scientifica all'efficacia del calcolo predittivo (per cui la scienza moderna, a differenza del sapere dei Greci, tende a coincidere con il potere tecnologico); dall'altra la verità comesvelatezza, riconoscimento — o ri-conoscenza — di una realtà profonda di solito celata, situata per lopiù nel soggetto, realtà (dell'inconscio e/o della coscienza) a cui bisogna re-gredire per poter pro-gredire sulla via del sapere, cioè sulla via della verità intesa nella prima accezione, come calcolo predittivo. Ora, quando Foucault - nei tre volumi della Storia della sessualità (Foucault, 1977; 1984-a; 1984-b) - descrivela sessualità secondo l’Occidente non come una naturalità repressa da norme etiche e igieniche, ma come la supposta realtà profonda e verborgen, celata, pensata come verità del soggetto del sapere-potere, si riferisce proprio a quella pratica e a quella concezione della verità come riconoscimento (dell'Es, del Sé, del Sessoodello Scisso), comesvelamento, della verità in senso regressivo, che impregna con la sua contrarietà ogni progettomoderno di padronanza, di ricerca della verità in senso pro­gressivo e pro-iettivo, cioè di gettarsi in avanti.

Non a caso col tempo la ricerca di Foucault slitta da forme di sapere-potere che riguardano gli «altri» (matti, malati, criminali, pervertiti, ecc.) verso un sapere-potere che mette al centro, soprattutto negli ultimi due volumi sulla sessualità, la padronanza di sé. Anche questo slittamento è segno dei tempi, si è detto, perché è in risonanza con un'inclinazione etica più generaledella nostra cultura: dal politico al privato, dalla centralità del governo degli altri a quella del governo di sé. A parte questa consonanzastorica, è allora vero – come dicono alcuni - che la Storia della sessualità segna una svolta, sia teorica che etica, nella sua scrittura?

Ma potremmo anche fare l'inverso, leggere l'intera opera di Foucault attraverso il feed back costituito dalla Storia della sessualità. Quando, per esempio, in un'intervista Foucault (1984-c) dichiara che oggi la California è il laboratorio di nuove forme di vita sessuali, così come furono laboratori del nuovo le corti provenzali del XII° secolo dove fiorìl'amor cortese, egli mette in gioco certe strutture della cultura, come tali acentriche, che pervadono ogni privato, e quindi anche la paideia (formazione o edificazione) della sessualità. Un comportamento sessuale, esattamente come una rivendicazione riformatrice in una prigione o in un ospedale psichiatrico, può essere storicamente rilevante in quanto è sintomo significativo di una mutazionedi paradigmi culturali. Ciò che non capiscono in particolare certi suoi critici è che Foucault ha visto i manicomi, le carceri, la clinica, e poi anche la pastorale sessuale, come esempi di forme di vita più vaste, piuttosto che come fatti politici specifici.

Analogo discorso potremmo fare per l'analisi del soggetto: anche qui gli ultimi lavori, lungi dal correggere le primitive tesi foucaultiane, gettano una luce retrospettiva su quelle tesi. Rovatti (1986-b, p. 72) sostiene che man mano nella sua opera si verifica «uno spostamento, per quel che riguarda il luogo del soggetto, dall'esclusione verso l'inclusione». Nella Storia della sessualità il soggetto non sarebbe più un effetto dell'intersezione dei giochi di potere; qui nell'«esposizione di sé» il soggetto si sorprenderebbe in un movimento di rivolgimenti inattesi. Il soggetto rivelerebbe ora qualcosa di sé in un suo movimento di spostamento e sovversione rispetto all'assoggettamento. Diversamente da Rovatti, penso invece che nei suoi ultimi lavori Foucault precisi la sua esclusione dal soggetto come dato di partenza dell'analisi delle culture e delle forme di vita.

Non bisogna confondere il soggetto nel senso comune, divenuto oggi semplice oggetto di osservazione e descrizione delle scienze, con il soggetto inteso nel senso specifico della filosofia, che da Kant in poi è l'Io trascendentale. Foucault non ha mai negato l'esistenza di un campo soggettivo come oggetto di analisi e di sapere — egli ha respinto l'idea che le etiche sociali o individuali possano essere ricostruite partendo da un «soggetto puro», dalla soggettività assoluta. Nei suoi due ultimi lavori egli ci chiarisce in che senso il soggetto è il prodotto di un lavoro di padronanza, dì economia, di strategia problematica nei confronti dei piaceri e delle passioni. Il fatto che agente della disciplina che produce il soggetto del mondo antico sia il cittadino libero - e non le donne, gli schiavi, i meteci -è secondario rispetto all'essenza stessa dell'operazione.

L’operazione Foucault è consistita nel riconoscere la verità del soggetto nelle strategie di potere che questi mette in opera nei confronti degli altri e della propria «natura», e nel suo essere contemporaneamente «soggetto» alle altrui strategie di potere. Più in generale, il sapere non è di natura contemplativa,disinteressata, ma si costituisce come prassi di dominio, come una modalità di potere. 

(Così Foucault ha a suo modo applicato un punto essenziale della filosofia di Heidegger, secondo cui non c'è una distinzione radicale tra giudizio di fatto e giudizio di valore — la verità è inscindibile dai valori, e fonte dei valori per Foucault sono le diverse volontà dì potere).

 

6. Lo stupore storicista

 

Eppure, il suo impegno differenzialista ed événementialiste, relativista e pluralista, da qualche anno ci appare meno attuale. Sembra oggi, e non solo in Italia, che i cultori della filosofia e delle scienze umane coltivino un rinnovato interesse per le invarianti al di làdelle differenze, per la natura e il biologico al di qua o al di là delle culture, per i minimi comuni denominatori universalitra gli esseri umani. L’interesse crescente, spinto dalla massiccia invasione della cultura anglo-americana, per l'epistemologia, la biologia, l'etologia umana, la sociobiologia, ecc., è una spia di unanuova attualità post-storicista. Non a caso ha riscosso una certa eco, in ambienti molto lontani dai laboratori biologici, l'opera di E. O. Wilson, il cui libro più noto in Italia ha un titolo che è già tutto un programma: On Human Nature (1980). Così oggi molti, pur essendosi formati in clima post-strutturalista, hanno preso gusto a interrogarsi su questioni del tipo «che cos'è la sessualità?» senza vergognarsene, e non più solo a porsi domande del tipo «come si è formato il concettodi lussuria, o quello di carne, nella letteratura patristica medievale?»Sarebbe poco foucaultiano sottovalutare questo slittamento delle domande teoriche come semplice oscillazione delle mode culturali, proprio perché Foucault ci ha insegnato a prendere molto sul serio il potere, se non la tirannia, di ciò che è attuale, la forza della graziastorica contro la patetica arroganza del metodorazionalista.

Comunque, quel che delude diquesta letteratura universalista, extra-o anti-storicista, è proprio una sua ingenua insensibilità alle differenze — il suo non essere mai passata per la «differenza Foucault». Non si tratta tanto di condividere la concezione foucaultianadella «storiografia come ermeneutica delle pratiche, come una comprensione senza invarianti di linguaggio e senza grammatica generale» (Veyne, 1986, p. 11), ma di aver avuto l'esperienza, comunque, di questa differenza: e cioè la capacità di meravigliarsi di ciò che èe che ci circonda, senza darlo perovvio né per scontato. Per riprendere la distinzione di Musil tra «uomini del reale» e «uomini del possibile», possiamo dire che Foucault era un uomo del possibile. Non è evidente che i malati debbano essere messi a letto in grandi ospedali; non è evidente che dei matti debbano essere chiusi in una clinica; non è evidente che la stragrande maggioranza di chi commette un delitto debba essere rinchiusa in una prigione; non è evidente che la sessualità debba essere riconosciuta anche negli atti più anodini e incensurabili; ecc. Mettendole differenze al posto delle identità, Foucault ci ha fatto vedere certe pratiche oggi dominanti come non auto-evidenti. Questo stupore — ciò che abbiamo chiamato senso della storia, in quanto senso della relatività storica — è ormai, per chi scrive, un passaggio obbligato per poter andare anche oltre il relativismo storicista, per porsi finalmente domande più generali, per cercare di tracciare delle mappe di differenze più ampie.

In effetti, grazie a Foucault abbiamo esteso ad aspetti considerati prima puramente tecnici della vita la diffidenza storicista per le invarianti. Questo non toglie però che una volta rinunciato a cercare leinvarianti, possiamo tentare di ricostruire forme di trasformazioni. Non si tratta più, illuministicamente, dì cercare unapermanenza al di là delle trasformazioni, ma di descrivere le matrici di variabilità nelle trasformazioni. Non possiamo porre limiti a priori alle trasformazioni — appellandoci a qualche nostro giudizio, pre-giudizio, sulla natura umana — ma possiamo capirne meglio i processi locali, possiamo concludere che certe trasformazioni sono più probabili di altre, oppure possiamo ricostruire stati intermedi tra due forme distinte.

Per esempio, Foucault ha attaccato in modo convincente il luogo comune secondo cui le streghe processate dall'Inquisizione erano in realtàdelle isteriche non riconosciute come tali; per lui, la stregoneria e l'isteria non sono commensurabili, in quanto sono in relazione con due dispositivi di potere (rispettivamente l'Inquisizione cattolica, la psichiatria) alquanto diversi. Ma se streghe e isterichenon sono la stessa cosa «letta» storicamente in due modi diversi, sono comunque sempre esiti paragonabili (anche se non certo commensurabili) della femminilità, e poi entrambe sono paragonabili con la Sibilla e la Pizia dell'Antichità, e ancora con le mistiche e beghine rinascimentali, e queste ancora con le précieusessecentesche, ecc. Dalla serie di questi confronti possono venir fuori non delle invarianti, ma appunto delle trasformazioni, di cui è possibile perspicuamente mostrare la forma. Wittgenstein(1953, par. 66) parlava di «aria di famiglia» tra diversi giochi linguistici: A assomiglia a B, B per altri versi assomiglia a C, ecc., ma questo non significa che ci siano tratti comuni definibili tra A e C, a parte il fatto che si nota, tra A, B e C, un’aria di famiglia. Così, ci può essere un'aria di famiglia fra determinate apparizioni storiche della femminilità, non per cercare ciò che sarebbe absolutus, sciolto dalle condizioni storiche, e universale della femminilitàal di làdella storia, ma per ricostruirne ì passaggi e le trasformazioni nel tempo, per tracciare il quadro flessibile delle estensioni di questa categoria. Si tratterebbe di trasferire nella riflessione storica ciò che Wittgenstein (1953) proponeva come «rappresentazione perspicua» (übersichtliche Darstellung); nel suo esempio,far vedere come si passa dal cerchio all'ovale, non perché il cerchio sia causa dell'ovale, o perché geneticamente il cerchio sia venuto prima dell'ovale, ma perché tra queste due forme c'è trasformazione possibile, c'è una parentela ricostruibile.

In questa ottica è praticabile in prospettiva ciò che chiamerei un foucaultismo flessibile: proprio partendo dall'irriducibile relatività storica di ogni identità sociale o psichica rispetto ai dispositivi di potere — cioè ai «giochi» sociali che determinano queste identità — è possibile rappresentare perspicuamente il passaggio da un'identità all'altra. I passaggi dalla beghina alla strega, dall'isterica alla paranoica e alla depressa, ecc., non vanno visti come passaggi da causa a effetto, ma come specifiche interpretazioni storiche di una serie di elementi combinabili e trasformabili il cui orizzonte spostabile costituisce propriamente, sempre provvisoriamente, la femminilità.

 

7. L’oscenità del continuo

 

Così, un altro aspetto rispetto a cui Foucault sembra essere meno attuale — nel senso foucaultianodel termine — èla sua tendenza, diciamo strutturalista, a pensare malgrado tutto in termini di grandi discontinuità storiche, di grandi blocchi paradigmatici. Questa opzione struttural-sistemica certo si attenua nelle sue opere più tarde, ma non è mai del tutto assente. Foucault tende a pensare secondo il modello della discontinuità tra sistemi; e non, come Thom (1980; 1985) ad esempio, in termini di variazioni continue.

Certo, il modo di vedere secondo grandi discontinuità paradigmatiche è giustificato dalla struttura del linguaggio, che descrive il mondo continuo attraverso elementi discreti, attraverso una combinatoria. Esiste però un altro filone, un «formalismo» che ispira le proprie descrizioni al formalismo matematico: quando quest'ultimo si situa nel continuo, le sue descrizioni possibili introducono un infinito attuale. I cambiamenti possono allora essere ricostruiti non come salti da una Gestalt a un'altra irriducibile alla prima, ma come trasformazioni continue e virtualmente infinite, le quali possono essere opera di unità discrete, di vere e proprie molecole (individui, gruppi, soggetti, ecc.). Certo, lo stesso Foucault teorizza in qualche modo questa procedura che combina continuo e discreto nella sua «microfisica del potere». «Tutta la filosofia di Foucault — sottolinea G. Deleuze (1986, p. 90) — è una pragmatica del multiplo». Un po' come in Riemann, il matematico chedistingueva delle molteplicità discrete e continue (Deleuze, 1986, p. 22). Il principio foucaultiano è: ogni forma è un composto di rapporti di forze; e ogni rapporto di forze è definibile come rapporto di potere. Questi rapporti sono diffusi, avvengono in quantità infinitesimali, sono plurimi, e costituisconoveri e propri flussi. E’ il versanteeracliteo, sempiterno, di Foucault, combinato al suo lato strutturalista —una combinazione in lui sempre in qualche modo irrisolta, incompleta.

Questa micro-fisica risulta tuttora indigesta al modo di pensare corrente, che resta profondamente «concettuale»: siccome il nostro linguaggio è discontinuo, può risultare chiaro all'intelletto solo ciò che è chiaro e distinto; e il concetto è il modello di ciò che è chiaro e distinto. Dopo tutto, la passione moderna per concetti come sistema, struttura, Gestalt, ecc., non fa che prolungare — aggiungendovi un po' di estinzione del trascendente — questo penchant intellettualistico che proietta ontologicamente nel mondo le proprie forme discontinue e concettuali. Il coraggio di Foucault è consistito nell'introdurre — anche se a mio avviso in modo insufficiente e in parte involontario — nel nostro pensiero, tradizionalmente strutturale, l'oscenità del continuo. Una continuità dei discreti che resta però in lui ancora puramente concettuale, l'enunciazione di un programma non realizzato.

Considero importantequesta fedeltà di Foucault aun modello discontinuo e strutturale. Perché questa fedeltàipoteca la sua interpretazione del potere: essa distingue, irreparabilmente, chi esercita il potere da chi ne è l'oggetto, chi comanda da chi ubbidisce. La discontinuità fondamentale in relazione all'esercizio del potere è quella tra chi agisce e chi patisce. Questa discontinuità generativa è ciò che gli permette di legittimare la sua specifica denuncia del potere.

In effetti, ha voglia Foucault di precisare che ilpotere non è localizzato (nello Stato, per esempio, o nei sindacati degli industriali, ecc.), che esso non è posseduto da qualcuno (lo si esercita, non lo si possiede; è una capacità, non una cosa), che esso non garantisce un modo di produzione come pensano i marxisti (piuttosto lo costituisce), che esso non si riduce alla violenza né all'ideologia (in quanto il potere è anche formazione di un sapere). Ha voglia di precisare tutto questo;ciò non gli impedisce di partecipare, forse suo malgrado, auna certa predicazione emancipativa,di denunciare le concentrazioni di potere, di predicare l'emancipazione o la liberazione degli oppressi. La discontinuità funzionale tra il malato mentale e il suo psichiatra, tra il detenuto e il suo carceriere, tra il malato e il clinico, tra la sessualità agita o patita e il confessore o lo psicoanalista che la snida, ecc., in Foucault resta strutturante il campo del potere. Anche se diffuso a livello microscopico, il potere setaccia chi lo esercita, chi lo concentra in sé, da chi ne èsoggetto. Abbiamo detto che c’è una scissionetra il suo relativismo storico e la sua valorizzazione attualizzante; e cosìc’è scissione tra la faccia descrittiva della teoria e la sua faccia di azione emancipativa. Da una parte egli de­linea il potere come un fluido che sfuma i contorni di ogni struttura sociale, un nunc fluens;dall'altra allude a ciò che i Padri della Chiesa chiamavano il naòs, il tabernacolo, del potere. Se è vero che il potere si concentra in certi luoghi, questi luoghi costituiscono allora un tabernacolo, un santuario privilegiato del potere? Anche se non lo teorizza, Foucault ha parlato e ha scritto (soprattutto nelle sue interviste giornalistiche) come se egli situasse il naòs del potere nello sguardo di chi vede e sa. Da qui l'esemplarità del Panopticon di Bentham[7]: un solo sguardo, posto al centro, invisibile a chi è guardato, sorveglia gli altri a partire da questo centro celato. Foucault ha fatto del sapere, della scienza, il tabernacolo del potere. Le scienze dell'uomo sono la massima concentrazione intensiva della volontà di potenza. Occorre leggere Foucault tra le righe (come qualsiasi altro autore, del resto): non il capitale né la proprietà privata, non il governo politico né il controllo dei mass media sono il Palazzo d'Inverno del Potere, ma la scienza. Il Palazzo ubiquo è la direzione scientifica degli uomini, che il potere politico fa propria.

Se Foucault avesse dissolto del tutto il naòs del Potere nel gioco multiplo e continuo delle interazioni, allora il suo pouvoir in fin dei conti si sarebbe risolto nel concetto di «cultura» come lo intendono più o meno gli antropologi. Ma alla base delle ricostruzioni foucaultiane non c'è un'epistemologia, quanto una genealogia. Le genealogie — come quella di Marx, o di Nietzsche, o di Freud, o anche di Heidegger — operano non con spiegazioni causali degli eventi umani, quanto con interpretazioni del loro senso. Ciò che le interpretazioni interpretano non sono essenzialmente movimenti delle cose, ma valori, o meglio, atti del cuore. E il potere di Foucault, come verità dell'essere dell'uomo, è in fin dei conti un atto del cuore: in chi ne parla esso suscita azioni e passioni, cioè adesione odenuncia. L'interpretazione non è solo esplicativa, ma un'azione valorizzante, atto politico.

Se si vedono le cose dal punto di vista di un relativismo antropologico si arriverà presto alla conclusione che ogni cultura è sempre comunque un dispositivo di potere, quasiper definizione. Ogni cultura – e la società da essa impregnata - è una macchina in gran parte cieca che restringe, ancor prima della legittimità, la possibilità stessa di certi comportamenti e di certe azioni; una cultura èsempre anche un apparato di controllo (conoscenza, previsione e prevenzione) delle azioni. Ogni Kultur, fissando i suoi specifici criteri e standard di normalità, produce sempre e comunque dei devianti, soggetti «il cui volo è impigliato nelle sottili maglie delle reti del potere» specifico di quella società. Qualsiasi cultura, democratica o autoritaria che sia, che sia organizzata attorno al sovrano dispotico o attorno al consenso di una cittadinanza partecipante e virtuosa, mette anche sempre in moto una macchina dispotica che limita le possibilità (riduce lacomplessità), produce specifiche ineguaglianze, e quindi genera scarti e devianze irrecuperabili. Ma se alloraogni società umana è in questo senso inevitabilmente dispotica, dove si fonda la fredda passione della denuncia foucaultiana? Se non c'è un tabernacolo del Potere, correlativo alla perequazione tra gli agenti del potere e i soggetti che lo subiscono, che cosa legittima la critica del Nostro?

Si può rispondere semplicemente che questa critica non è fondata né legittimata, perché non vuole essere fondata né legittimata. E’ frutto di un'etica che discende da una certa configurazione storica della Volontà. Comeogni interpretazione che intende distinguersi sia dall’Erklärung (spiegazione) causale che dal verstehen (comprensione) esistenziale o fenomenologico, anche quella di Foucault non intende mascherare la propria, se non altro relativa, arbitrarietà. Che la volontà di potere non sia effetto di una qualche causa, ma che anzi essa produca effetti storici, è ciò che rende questi effetti interpretabili; e proprio per questo la volontà èin qualche modo assolutamente enigmatica, un'emergenza senza origine, un sopruso, una prevaricazione, un arbitrio.

Questo rapporto - tra il potere e il sapere - come tabernacolo del potere è il gran tema dell'opera di Kafka. Kafka certamente indica il naòs - America ricca e incomprensibile, Tribunale, o Castello che sia -ma probabilmente è vuoto. I romani vittoriosi, quando entrarono nel Tempio di Gerusalemme, si stupirono di vedere che il Tabernacolo non conteneva favolose ricchezze, ma era uno spazio del tutto vuoto. Ilcentro delle reti del potere è per lo più cavo, pura assenza di enti. Oppure, come in Kafka, si può dubitare persino della sua esistenza: il potere è una sequela fittissima di effetti, la cui causa originaria resta celata o è forse inesistente.

Sospetto allora che Foucault cada nella stessa ingenuità dell'agrimensore del Castello: non capisce che egli è escluso dal Castello (fuor di metafora, da un certo poter sapere) proprio perchécerca di farsi accettare da esso a ogni costo, di penetrarlo. La gente del villaggio che accoglie e rifiuta, allo stesso tempo, l'agrimensore, non sono certo il naòs del potere, dato che sono anche loro in qualche modo esclusi da esso; eppure, in fondo, sono loro la potenza dispotica. La forma di vita di chi maientra nel Castello è «castellana»: chi non vi si confà è messo da parte, come per un incanto crudele. Nel villaggio una ragazza, Amalia, non si concede sessualmente a uno dei sublimi burocrati del Castello; ma Amalia e la sua famiglia non sono puniti direttamente dal Castello inaccessibile, che in fondo non agisce mai; la punizione è messa in opera dai suoi stessi compaesani, che rigettano completamente ai margini tutta la famiglia. Ma anche Foucault, quando denuncia il despota oltre che il despotismo, non ripete l'errore che tenta il lettore di Kafka, dato che questo lettore può vedere le cose solo dal punto di vista del condannato e dell'escluso? Spesso Foucault non vede che il Castello non esiste, che esso è il villaggio che pare circondarLo e da cui pare sottomesso; che il vero despota èla forma di vita dei sudditi di un Despota inesistente. Insomma, Foucault non sembra compiere il passo oltre: che il vero potere non è quello del potente, ma proprio di chi lamenta la sua mancanza di potere.

 

8. Critiche americane

 

È ancora difficile capire perché lo sbandierato anti­umanesimo foucaultiano creò scandalo, negli anni '60, tra intellettuali e giornalisti. Probabilmente il suo nietzschianesimo minacciava la credibilità della figura ormai consacrata dell'intellettuale-anima bella e engagé, instancabile firmatario di petizioni per le buone cause, autore prolifico di articoli di fuoco sui quotidiani. Scioccava una sorta di suo pessimistico disincanto nei confronti delle possibilità concrete da parte dell'intellettuale di produrre mutamento sociale nel senso giusto.

La diffidenza per questo pessimismo foucaultiano guida anche il paragone sviluppato da Rorty (1986, pp. 194-210) tra gli americani W. James e Dewey da una parte, e gli europei Nietzsche e Foucault dall'altra. Questo sullo sfondo del fatto che, per Rorty, Dewey e Foucault rivolgono la stessa critica alla tradizione: essi sono «oltre il metodo», sentono la necessità cioè di abbandonare le tradizionali nozioni di razionalità, oggettività, metodo e verità: 

 

concordano sul fatto che la razionalità è il prodotto della storia e della società, che non c'è alcuna sovrastante struttura astorica... da scoprire». In effetti, «una volta affrancato il termine "potere" dal suo connotato "repressivo", le "strutture di potere" di Foucault non parranno molto diverse dalle "strutture della cultura" di Dewey. 

 

La sola differenza, quella per cui l'americano Rorty preferisce il pensiero del suo concittadino, è che il vocabolario di quest'ultimo dà spazio alla «speranza ingiustificata»e a un infondato ma vitale senso di solidarietà umana. In Foucault manca invece questo senso della solidarietà: egli non offre alcuna prospettiva politico-morale precisa, non rende la sua riflessione utile a coloro il cui volo è impigliato nelle sottili maglie delle reti del potere.

Una critica essenzialmente morale di questo tipo si trova in Walzer. Anch'egli si fa difensore della democrazia liberale, e afferma che 

 

abbiamo bisogno di quelli che Foucault chiama "intellettuali generici"... Sono necessari uomini e donne che dicano quando il potere statale è corrotto o quando se ne abusa sistematicamente; che gridino quando c'è qualcosa di marcio, ecc. 

 

In effetti Foucault, se non è certo un riformista, non è nemmeno un rivoluzionario, perché non crede allo stato sovrano e alla classe dominante, e quindi non crede alla necessità di impadronirsi dello stato. Non può esserci presa del potere se al centro non c'è nulla daprendere. Ricordiamo che Pietro Nenni, lo storico leader del partito socialista italiano, dopo che dall’opposizione entrò al governo attraverso il patto di centro-sinistra con i democristiani, dopo un po’ disse: «Credevo di essere entrato finalmente nella stanza dei bottoni, ma ora so che non esiste nessuna stanza dei bottoni». 

Anche Walzer, come implicitamente Rorty, si fa insomma difensore di quell’«intellettuale generico» che Foucault considera anacronistico, in quanto apparterrebbe all'epoca del primato dello stato e del partito, quando sembrava ancora possibile conquistare il potere e ricostruire la società. Ma per salvarne la funzione, occorre a Walzer ripristinare il mito di un centro del sistema politico; sia il riformismo che la cultura rivoluzionaria hanno in comune il presupposto di un centro, economico-politico, che detiene il potere, a cui fare appello per rimediare alle ingiustizie, e da conquistare per rifondare la società intera.

         Ma Foucault non ha mai contestato la possibilità di condurre lotte specifiche, settoriali, anche vincenti, nei confronti di un qualche centro del sistema o del sottosistema politici. Lui stesso è stato spesso affetto da «infondate speranze», partecipando a lotte che si sono poi rivelate perdentio velleitarie. Ancora gli si rimprovera il suo appoggio, in un primo tempo, alla rivoluzione khomeinista in Iran nel 1979 contro lo shah, errore in cui peraltro caddero molti all’epoca. Ma la possibilità delle lotte specifiche non è il punto rilevante della sua analisi. Semplicemente egli si è rifiutato di dare a queste lotte un «fondamento razionale»; a differenza per esempio di Sartre, non ha preteso di dare consacrazione filosofica a movimenti di riforma. Come abbiamo detto, in Foucault a un forte relativismo della ragione si accompagnava un assolutismo (ma non proprio un ottimismo) della volontà. Forse è proprio questa sfasatura tra ragione e volontà, tra disincanto storicista e cocciuto incanto valorizzante ilpresente, ciò che tanti commentatori, anche avvertiti, non colgono.

Per Foucault è una scelta puramente etica — una questione di Volontà in senso nietzschiano — interessarsi alle riforme locali oppure seguire i grandi processi storici di mutazione dei rapporti dì potere - o delle «strutture della cultura», se si preferisce la terminologia di Dewey. Del resto anche l'interesse scientifico di uno studioso per un settore della scienza piuttosto che per un altro è una scelta morale, un'opzione della volontà, e quindi come tale infondata. Ciò che Foucault trovava interessante in una rivendicazione, per esempio di carcerati, non era il richiamo al rispetto di certi diritti costituzionali o umani; a questo appello all'universalità astorica del diritto tende piuttosto l'«intellettuale generico», sempre infervorato dalla causa dei diritti, e preferibilmente dalle cause perse. Ciò che piaceva (che altro termine usare?) a Foucault in una rivendicazione di quel tipo era l'eventuale sprizzar fuori di elementi nuovi nei rapporti penali, era il segno di una mutazione possibile dei rapporti benthamiani di sorveglianza. Egli era interessato alla traccia di una mutazione, non alla restaurazione di un diritto o all'applicazione di un principio.

 

9. «Lui non si indignava mai» 

 

Sono possibili allora un’etica e una politica per Foucault? Questa domanda è centrale nel dibattito postumo sul filosofo, dato che le critiche al suo pensiero tendono oggi a basarsi sulla semplice ripulsa morale e politica delle sue conclusioni «pratiche». Un odore sulfureo aleggia tuttora attorno all'opera del pensatore francese, malgrado la sua straordinaria popolarità. Questa impresentabilità di Foucault è dovuta a mio parere al tono nietzschiano del suo pensiero.

In effetti Foucault non si limita a dire, come già molti altri hanno detto, che oggi la filosofia e le scienze umane sono incompetenti a giustificare di fronte agli esseri umani certe scelte etico-politiche, che insomma le strategie di potere non possono essere razionalmente fondate; dice anche che uomini e donne sono stati mossi da valori facendo magnificamente a meno di ogni fondazione teorica. Compresi i filosofi. Marx, per esempio, prima divenne rivoluzionario e solo poi, per giustificare la sua opzione di

 

fronte al gelido tribunale cartesiano della ragione, elaborò una teoria del capitalismo che sì potesse considerare scientifica, cioè vera. L'uomo concreto è costituito proprio dal conflitto infondato - nel senso di ingiustificato razionalmente -di valori. Non è la cura della verità a guidare le nostre strategie nella lotta ubiqua dei poteri, è la nostra posizione in questa lotta a produrre verità, cioè scienze e pratiche che generano regionalmente i loro criteri di verità. Lo stesso Foucault non ha mai cercato di dare un fondamento teorico al suo essere un libertario di sinistra non marxista. Possiamo dire, senza alcuna ironia, che era di sinistra perché allora era il suo modo di essere attuale — o anche perché era omosessuale, quindi predisposto alla dissidenzanei confronti della società «normale».

La critica foucaultiana delle discipline e dei panottici è consapevole della propria parzialità:è una critica che non poggia sul sussiego e l'arroganza della Verità e della denuncia morale universale. «Egli non si indignava mai» ricorda Veyne. Con Foucault, la critica della cultura ridiventa individualista, potremmo dire disperatamente aristocratica. A differenza di tanti intellettuali di sinistra, Foucault non sentiva il bisogno delle buone azioni teoriche quotidiane.

La sua denuncia partigiana di certi poteri, la sua simpatia per i «rottami sociali» che ha studiato per gran parte della sua vita, non aveva nulla della demagogia del parvenu, che vuol placare, facendosi anfitrione dei deboli, il proprio senso di colpa per la propria riuscita sociale; era piuttosto il tifo del vero signore, del philosophe, per le vittime della mediocrità. La sua simpatia spengleriana non andava affatto ai solerti «operatori» che pure lo elessero spesso, negli anni ‘70, loro maître à penser; parlo delle legioni ormai capillarizzate degli assistenti sociali, degli psico-socio-igienisti nonché educatori, di tutto l'esercito dei servizi welfare state che intasa, in Italia, i CIM, le USL, i CMAS, gli SPDC, gli OPP, i SAT, gli UOT, gli SSM, e tanti altri ancora, di tutti gli agenti e i mistici del quadrillage sanitario-burocratico del territorio. Foucault, spirito tragicamente libertino, non amava gli attivisti della neo-filantropia assistenzialista di stato — gli interessavano i grandi delinquenti, non gli psicologi che cercano di aiutarli. Il suo atteggiamento era insomma simile a quello dell'ammirazione aristocratica che nutriva l'Ulrich dell'Uomo senza qualità di Musilnei confronti di Moosbrugger, assassino seriale di prostitute. 

Ci si chiede allora se il pensiero di Foucault non abbia fatto scandalo perché ha fatto fare al nostro pensiero secolarizzato unpasso avanti nel disincanto; vale a dire, perché hadeclinato diversamente il senso della Speranza politica. Da quando, dall'Illuminismo in poi, il pensiero si è laicizzato, «sdivinizzato»diceva Heidegger, non si è mai smesso di paventare sciagure: si è detto che con la secolarizzazione si vanificavanola solidarietà umana, l'impegno politico, insomma, la Speranza storica. Cosa sperare più quando tutto è relativo ai tempi, quando non ci sono più vita né verità eterne, quando si sa che la natura non ci autorizza alcun valore assoluto, che la stessa terra un giorno finirà? Eppure la Speranza ha resistito. Anzi, il pensiero secolarizzato ha prodotto più che mai inattendibili (e in genere fallimentari) utopie di salvazione - il socialismo, il fondamentalismo religioso, il culto della nazione o della razza, il liberalismo…. Non era vero che le escatologie religiose compensassero un'inclinazione umana alla disperazione, che insomma esse promuovessero la Speranza: esse semplicemente La razionalizzavano. Le teorie che Foucault ha criticato cercavano in fin dei conti di accordare l'ottimismo della volontà al supposto pessimismo della ragione, pensavano cioè che la volontà di potenza avesse bisogno di giustificazioni, di alibi razionalisti. Togliendoci ogni specifica ragione di sperare, Foucault ha contribuito a farci toccare con mano, privi dei soffici guanti delle filosofie rassicuranti, l'insistenza scabra, rugosa, arbitraria, biologica, di quella che Rorty chiama «l'infondata speranza».

 

 

 



[1]Cfr. l'illustrazione fattane da Formigari, 1977.

 

[2]Agostino, XI, 20,26.

 

[3]Sul tema dell'attimo e dell'eternità, cfr. Bloch, 1978, Bd. 5, pp. 340, 1504, 1536.

 

[4]Vedi per esempio Bouveresse, 1987.

 

[5]A questo proposito, cfr. la descrizione del problema in Feyerabend, 1987, pp. 19-89, nel capitolo «Notes on Relativism».

 

[6]Nietzsche, 1967, Voi. I, pp. 299 ss; Voi. Ili, I, p. 317.

 

[7]Descritto da Foucault, 1976, in Sorvegliare e punire.

 

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Bibliografia

 

Agostino, ConfessionesTr. it. Le ConfessioniTorino, Einaudi, 1984.


Bloch, E., 1978. GesamtausgabeFrankfurt a. M., Suhrkamp.


Bouveresse, J., 1987. «La rivincita di Spengler», Lettera Internazionale, 13, pp. 62-68.

 

Feyerabend, P.K., 1987. Farewell to ReasonLondon-New York, Verso.

 

Formigari, L. 1977. La linguistica romanticaTorino, Löscher.


Foucault, M., 1976. Sorvegliare e punireTorino, Einaudi.


Nietzsche, F., 1967. Sämtliche Werke. Kritische Gesamtausgabe15 vol. a cura di G. Colli e M. Montinari, Berlin-New York, W. De Gruyter. Ed. it. Operea cura degli stessi, Milano, Adelphi, 1964 sgg.

 

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