Flussi di Sergio Benvenuto

"Carne al cento per cento italiana!"03/lug/2016


Agosto 2014

              Molti canali televisivi italiani sono invasi da una pubblicità della carne in scatola Montana. Nella mente di ogni italiano la carne in scatola è associata immediatamente agli americani, e in effetti la pubblicità è di ambientazione western: un pistolero ci garantisce che “la carne Montana è al 100% italiana”. E spara addosso a un commerciante ambulante che cerca di vendere altra carne spacciandola per italiana. Lo straordinario ossimoro – un messaggio di patriottismo alimentare italiano ambientato nel Far West – si spiega col fatto che bisogna accalappiare due tipi di consumatori molto diversi: da una parte i giovani, che idolatrano l’America, e dall’altra le massaie che si fidano solo di cibi “di casa nostra”. “Mangiare italiano” è il fondamentale narcisismo degli italiani che li unisce dalle Alpi alla Sicilia.

              Ma la pubblicità della Montana non è un caso isolato. Sempre più le pubblicità – e non solo di prodotti alimentari – sbandierano l’”italianità”. Si vede che i persuasori pubblicitari hanno registrato una febbre nazionalista tra i miei compatrioti. Questo significa anche che il separatismo del Nord, interpretato dalla Lega Nord, perde colpi.

              E in effetti alle ultime elezioni europee l’exploit personale di Matteo Renzi (che ha avuto circa il 41% dei voti) ha messo in ombra il fatto che i due partiti anti-euro – la Lega Nord e il movimento guidato da Beppe Grillo – hanno avuto, sommando i loro voti, circa il 28% dei suffragi. Più di Marine Le Pen in Francia. Fino a pochi anni fa l’Italia era uno dei paesi più europeisti, oggi invece cresce, e non solo nella pubblicità, un nuovo patriottismo. Con cui cresce di pari passo la xenofobia. Secondo l’ultimo sondaggio (luglio 2014) , quasi il 70% degli italiani (anche il 58% di chi vota a sinistra) considera l’immigrazione un costo per l’Italia, solo una minoranza la vede come un vantaggio e un’opportunità (in Italia gli stranieri regolari sono poco più del 7% della popolazione).

Per lo più questo nazionalismo si coagula come anti-tedesco, in particolare anti-Merkel. La “narrazione” che prevale (anche tra tanti di sinistra) è che la Germania impone all’Italia e agli altri paesi del Sud un rigore finanziario che li strangola economicamente.  Questa teoria attinge a clichés anti-tedeschi rimasti sempre vivi dalla 2° guerra mondiale in poi, sotto le braci dell’ammirazione per gli exploits, soprattutto economici e calcistici, della Germania.  Così un editorialista del maggiore quotidiano italiano ha scritto, dopo che la Germania ha demolito a calcio la squadra brasiliana l’8 luglio 2014, “i tedeschi hanno dimostrato di essere sempre tedeschi, cioè crudeli”…

              Ma sia l’Italia che l’Europa sono dilaniate da logiche tra loro contraddittorie. Da una parte resta pur sempre un impulso aggregativo degli stati in un’Unione sovra-nazionale. Dall’altra abbiamo forti impulsi separatisti in Spagna (Catalogna, Paesi baschi), Gran Bretagna (Scozia), Belgio (valloni versus fiamminghi), Italia. Dall’altra, cresce un impulso a rifiutare l’Europa in nome di un nazionalismo isolazionista. Da qui un certo stato confusionale della dirigenza politica europea. Lo si è ben visto con la crisi ucraina.

              Quasi tutti in Europa si sono convinti che i russi oggi sono “i cattivi” e Putin è il nuovo zar o il nuovo Stalin, a seconda delle preferenze. Ma quando si parla con persone fuori dell’Europa si sente una musica del tutto diversa: l’Europa – dicono – usa cinicamente due pesi e due misure a seconda di come le convenga. “Voi europei vi siete opposti alla secessione della Crimea perché il governo ucraino è filo-europeo. Ma la Germania fu la prima a riconoscere la Slovenia, quando questa si staccò dalla Jugoslavia. E non si oppose affatto alla separazione di Estonia, Lituania e Lettonia dall’Unione Sovietica. Perché la Gran Bretagna e la Spagna accettano referendum separatisti, rispettivamente di Scozia e Catalogna, mentre si oppongono duramente alla separazione della Crimea dall’Ucraina? La politica dell’Europa è assolutamente incoerente.”

              Questa incoerenza è dovuta al fatto che gli europei sono lacerati da due modelli nazionali contraddittori. Un modello è quello ottocentesco e romantico, secondo cui uno stato deve corrispondere a una certa unità etnica, identificata per lo più con un’area linguistica comune. Ma molti stati, tra cui Spagna, Belgio e Ucraina, non rientrano in questo paradigma. L’altro modello, opposto, è quello degli Stati Uniti. Se anche i conservatori americani dedicano un culto al presidente Lincoln, è perché Lincoln ha difeso con una guerra spaventosa l’unità della nazione. Da allora, la norma fondamentale è che quando uno stato entra negli USA, è per sempre. Non sono ammessi ripensamenti. La democrazia americana ha un limite ferreo: nessuno stato può scegliere democraticamente di staccarsi dall’Unione. E’ stato questo modello “americano” a ispirare l’opposizione europea alla secessione della Crimea.

Ora, secondo Ernesto Laclau (morto nel 2014) questa contraddittorietà è insita nella politica stessa. Questo filosofo, nel suo libro The Populist Reason (del 2005), avanza una distinzione fondamentale tra logica delle equivalenze e logica delle differenze. La logica delle equivalenze spinge una plebs, una massa non determinata e non rappresentata di persone, a costituirsi in populus, istituendo così una cittadinanza nazionale. Ogni stato, come ogni partito, è una costruzione che rappresenta una somma di individui o di gruppi come una totalità al di là delle differenze tra i suoi membri.

Ma opera sempre anche la logica delle differenze: al limite, ogni cittadino fa differenza rispetto a qualsiasi altro. Molti cittadini detestano il loro paese, alcuni emigrano, tanti si sentono differenti rispetto ai loro compatrioti. Eppure queste differenze storicamente si aggregano costituendo “totalità”, grazie alle quali i differenti divengono equivalenti.  Ma Laclau scrive anche che questa totalità a cui aspira ogni entità politica di fatto è sempre una totalità mancata, fallita. Una nazione-stato è sempre un processo totalizzante ma è una totalizzazione sempre incompleta; lascia sempre fuori tanti. Questa incompletezza spinge certe aggregazioni di persone a “separarsi”. La logica delle differenze fa leva sulle varianti, qualunque esse siano. Accade così che tanti si sentano russi in Ucraina (anche se tutti gli ucraini parlano perfettamente il russo) piuttosto che ucraini. Che tanti scozzesi di sentano tali piuttosto che britannici, anche se parlano inglese e solo l’inglese. Che tanti si sentano fiamminghi piuttosto che belgi. Ecc. La prevalenza di certe sub-identificazioni risponde al fatto che la totalità incarnata da uno stato-nazione è sempre in qualche modo fallimentare.

              Secondo Laclau – e anche secondo me - ogni stato-nazione è “un significante vuoto”. “Significante” è un termine ripreso dalla linguistica e da Jacques Lacan. Ovvero, si coagulano in un nome una serie di progetti, desideri, rivendicazioni, identificazioni tra loro del tutto eterogenei, talvolta anche contraddittori. Insomma, i significanti detti “nazioni” sono arbitrari. Ma sono invenzioni che fanno storia.

              Per esempio, i vincitori della 1° guerra mondiale inventarono uno stato chiamandolo Iraq. Ci misero dentro curdi, sunniti e sciiti, anche cristiani e yazidi sparsi qua e là, come stato cuscinetto tra possibili potenze islamiche. Il patriottismo iracheno è stato un artefatto coloniale. Il guaio è che una volta eliminato il significante totalizzante Saddam Hussein, è stata la logica delle differenze a prevalere. Ma non possiamo dire che paesi come l’Italia o la Francia siano più “autentici” dell’Iraq. Tutti gli stati nazionali si basano su “significanti vuoti”.

Per gli italiani è più difficile capire quanto i significanti identitari siano vuoti, perché l’Italia è uno dei paesi più omogenei al mondo. L’italiano si parla solo in Italia (con l’eccezione degli svizzeri del Canton Ticino) e tutti gli italiani parlano italiano; abbiamo solo qualche piccola minoranza linguistica; abbiamo di fatto un’unica religione, più italiana che mai, quella cattolica. Al di là delle differenze regionali, abbiamo una “cucina italiana”. Essa si rappresenta attraverso il simbolo olio di oliva, di cui siamo fierissimi. La pubblicità della carne Montana fa leva su questo significante egemone tra gli italiani: “siamo il paese in cui si mangia meglio al mondo!” Tutto questo ci fa credere che Italia sia un significante pieno, a cui corrisponde un popolo reale. Eppure persino in Italia ci sono stati movimenti separatisti (della Sicilia, del Nord, del Sud Tirolo). 

              Ma quando nel 1861 venne fondato il Regno d’Italia, solo una minoranza colta parlava italiano. La stragrande maggioranza della popolazione, allora per lo più contadina, parlava solo il dialetto locale. Poi milioni di italiani emigrarono nelle Americhe, ma se un calabrese e un piemontese si incontravano nel New Jersey o a Sao Paulo non si capivano tra loro. Fu la scolarizzazione obbligatoria e, soprattutto, la radio a insegnare a tutti a parlare il dialetto toscano. Insomma, lo stato-nazione Italia fu un’invenzione di ceti colti, di una minoranza che si batté per riempire di contenuti questo significante vuoto, “Italia”. Nell’800 solo la Lombardia e il Veneto erano parte di uno stato straniero, tutti gli altri stati italiani erano governati da italiani. Perché era così importante riunire questi piccoli stati in uno stato più grande? Perché a un certo punto la logica totalizzante delle equivalenze ha prevalso sulla logica separativa delle differenze.

Ma gli irredentismi catalano, fiammingo, basco, galiziano, scozzese, “padano”, russo-ucraino mostrano che la logica delle differenze resta sempre operativa.

Il re Ubu di Alfred Jarry diceva: “Viva la Polonia! Perché se non ci fosse la Polonia, non ci sarebbero i polacchi!” - detto in un’epoca in cui la Polonia non esisteva ancora come stato. E’ che la Polonia, ancor prima che come stato autonomo, esisteva come significante; e la storia ha dato corpo politico a questo significante. Insomma, non dobbiamo presupporre l’esistenza di insiemi coerenti – classi sociali, etnie, aree religiose, ecc. – prima della nominazione che essi prendono all’interno del gioco politico. Non ci sono realtà sociali precostituite che poi si rappresentano politicamente, piuttosto sono le rappresentazioni politiche a dare una identità sociale a quella “plebe” eteroclita fatta di tanti individui tra loro insensatamente, stupidamente diversi.

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