Flussi di Sergio Benvenuto

Biotecnologie e perdita del reale02/mar/2017


Wittgenstein disse che se fosse possibile scrivere un libro davvero essenziale sull'etica, questo farebbe esplodere tutti gli altri libri; li renderebbe irrilevanti. Esso ci direbbe difatti niente di meno come essere felici. E cos'altro cerca fondamentalmente ognuno di noi, se non essere felice? La Costituzione americana garantisce un diritto che ci siamo sempre concesso: cercare di essere comunque happy, pur nelle condizioni di solito unhappy della vita. C'è chi cerca la felicità curando i lebbrosi, e c'è chi la cerca consumando donne e champagne - ma è comunque sempre la felicità che si cerca. Anche se è molto difficile, spesso, sapere in che cosa consista.

Oggi, la biologia promette qualcosa di meglio anche del libro etico: dice di star trovando la soluzione al problema della felicità. Da anni si parla di certi antidepressivi come "pillole della felicità". Tempo fa dall'America fu lanciato il paxil, una sostanza che avrebbe dovuto trasformare anche gli agnellini in leoni: non più paura di parlare in pubblico, non più imbranati nel corteggiare le donne, non più studenti impauriti agli esami. Certo antidepressivi o paxil sono ancora farmaci un po' rozzi, ma siamo sulla strada giusta - controllare i sentimenti profondi degli esseri umani, i propri come quelli degli altri.

    Molti pensano che la più importante rivoluzione di questi anni riguardi le comunicazioni veloci: computer, internet, cellulari, satelliti, ecc. Ma la rivoluzione elettronica è una bazzecola rispetto a quella che ci preparano le biotecnologie, in particolare la chirurgia genetica e neurologica. Mentre l'elettronica cambia la comunicazione tra le anime lasciando in fondo intatte le anime, la biotecnologia prospetta invece di cambiare direttamente le nostre anime. Per la prima volta dall’apparizione di Homo sapiens, la Tecnoscienza si prepara a incidere veramente sulla natura umana, ovvero sulla struttura spirituale degli umani. Questo è il più grande e inquietante cambiamento nella storia dell'umanità, dalla rivoluzione neolitica in poi.

    La biologia sta già modificando qualcosa che appariva consustanziale alla condizione umana: la relazione tra amore fisico e generazione. Oggi una donna può avere un figlio - in età in cui il suo corpo non è più desiderato - da un uomo che non ha mai conosciuto, o morto. Col viagra si garantisce un'erezione anche a un vecchietto che non ha più tanta voglia. Si è scoperto che una proteina, Darpp-32, controlla il desiderio sessuale: non si tratta più di trovare un partner sessuale quando si ha voglia di sesso, si tratta di aver voglia di sesso quando si ha un partner disposto.

Il Genetics & IVF Institute negli USA determina già la scelta di una figlia femmina. Immagino un mondo in cui imperasse la moda di scegliersi figlie femmine: sarebbe una pacchia per la minoranza maschile. Il maschio diventerebbe biologicamente raro, quindi prezioso - si ritornerebbe a una società patriarcale, tipo Taliban. Il mondo diventerebbe necessariamente islamico, nel senso che sarebbe un dovere civico avere almeno quattro mogli. Così la biotecnologia cancellerebbe la storica vittoria di Carlo Martello sugli arabi a Poitiers.

    Ma la sconnessione tra sessualità, desiderio e riproduzione è solo il primo passo di una modificazione ancora più sconcertante: la possibilità di programmare esseri umani ottimali. E che c'è di più ottimale di un essere umano felice? In effetti, si giustifica la rete tecnologica che sempre più ci avvolge con un solo argomento: “essa ci renderà più felici”. Tutto è un mezzo, la felicità è il fine.

    Dario Fo agitava tempo fa in Italia attraverso i media il vero grande problema del futuro: quello bioetico. Solo che non mi pare che egli cogliesse il fondo veramente grave della questione. Si lamentava del fatto che, tra breve, ognuno potrà avere un fegato o un cuore di ricambio - non ci vedo nulla di così sconvolgente. Capitan Uncino aveva anche lui una mano di ricambio, noi possiamo permetterci protesi meno grossolane. Ma che dire invece della possibilità di avere un cervello di ricambio?

Nel film Face/Off, un poliziotto e un gangster (rispettivamente, John Travolta e Nicholas Cage) si scambiano il loro volto. Lo scambio non risulta poi tanto sconvolgente per lo spettatore, dato che le loro anime restano le stesse. Odiamo il gangster cattivo anche quando ha la faccia di Travolta, il buono; e vogliamo bene al poliziotto buono anche quando ha la faccia di Cage, il cattivo. Sarebbe ben più inquietante se il gangster e il poliziotto potessero scambiarsi anche parti della loro mente.

    Ancora di più potrà fare l'ingegneria genetica: programmare esseri umani con il massimo di QI, onesti e obbedienti, sempre e comunque felici, insomma degli esseri perfetti, o quasi. La competizione globale si svolgerebbe così tra questi Titani. In verità i biologi dicono che forse saranno in grado – tra non molto - di produrre solo dei cloni. Si è fatto tanto chiasso sulla clonazione, ma la possibilità di replicare un essere umano non mi sconvolge più di tanto. La natura ha già provveduto a produrre dei cloni, i gemelli omozigoti, che certo hanno sempre qualcosa di uncanny, di inquietante, ma non ci creano soverchie angosce filosofiche. Ben altre cose mi inquietano. Certa genetica punta a poter isolare tratti del genoma che corrispondono a caratteri psichici alquanto precisi, e quindi (come escluderlo?) di programmare esseri umani con i tratti spirituali voluti. Diventerà possibile progettare per esempio esseri umani con un insaziabile appetito sessuale (e abbastanza avvenenti da poterlo soddisfare, spero), o al contrario uomini e donne del tutto ascetici, sante e santi capaci di ogni sacrificio. Don Giovanni e Giovanna d’Arco, il marchese de Sade e Gandhi, non saranno più il frutto del caso o della storia, della combinatoria naturale o del modellamento educativo: saranno producibili in laboratorio, pianificati da qualche decreto ministeriale. E i paesi che domineranno il mondo non saranno più quelli capaci di progettare software o supersonici, ma quelli capaci di costruire i discendenti migliori. Le teorie razziste diventeranno per la prima volta vere: le economie più arretrate, avendo tecnologia inferiore, produrranno razze inferiori.

    Se la tecnoscienza, operando direttamente sul cervello o sul corredo genetico, riuscirà a creare degli esseri umani felici, l'umanità avrà allora superato i problemi etici che l'hanno tormentata, da sempre.

 

    Eppure l'idea di essere felici grazie alla tecnologia ci fa eticamente orrore. Per noi - ma i nostri discendenti la penseranno come noi? - una felicità non guadagnata, cioè senza libertà, è inaccettabile. Una felicità inevitabile, senza l'alternativa dell'infelicità, ci appare paradossalmente infernale. Come il terribile Nuovo Mondo immaginato da Aldous Huxley in New Brave World: un mondo in cui lo Stato ci rende felici per via farmacologica. E se il paradiso futuro consistesse proprio in questo inferno zuccherato? Esseri umani del tutto soddisfatti - perfetti libertini o perfetti santi - costituirebbero ancora un mondo che riconosceremmo come umano? Certo, non sarebbe più il mio mondo.

    La manipolazione biotecnologica porterà a un aumento vertiginoso del potere della politica. Prima i politici potevano disporre al massimo del destino degli esseri umani a loro sottoposti, non della natura umana. Nel secolo che sta avanzando sempre più il dibattito politico investirà la scelta del tipo di natura che gli esseri umani dovranno avere. Genitori e capi di stato dovranno decidere che tipo di anima dovranno avere i discendenti. Ad esempio, se dovranno essere piuttosto rivoluzionari o conservatori, con uno spirito matematico-scientifico o lirico-umanistico.

    Quindi esseri umani imperfetti - cioè umani tout court - saranno in grado di produrre esseri umani quasi perfetti. L'essere umano sarà presto in grado di approntare dei prodotti migliori di se stesso. Ma un mondo di esseri perfetti, o quasi, non potrebbe essere il mio mondo. Così forse siamo arrivati vicini alla fine dell'umanità, la quale non sarà stata distrutta da un Olocausto nucleare - come si paventava fino a pochi anni fa - ma dal fantastico progresso delle scienze biologiche. L'umanità non finirà per colpa degli ingegneri nucleari, finirà per mano degli ingegneri biochimici. Per fare posto a una specie diversa, ma che non sarà la mia.

    Talvolta mi dico: meno male che sono vissuto in un'epoca così tragica, piena di dolore e di menzogna, perché almeno avrò avuto esperienza diretta di una specie in via d'estinzione – di Homo sapiens sapiens. Un'umanità che per tanti versi fa schifo, ma che è quella che amo, e che odio. Godiamoci allora, noi viventi nel terzo millennio, questi ultimi sprazzi di umanità infelice e imperfetta.

 

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    Una serie di vignette del New Yorker (novembre 1993) erano intitolate "Se il PROZAC fosse stato inventato nell'Ottocento". Si vede Marx che, sorridente e ottimista, dice "Sono convinto che il capitalismo riuscirà a superare i problemucci da cui è affetto." Nietzsche, con aria mite, dice con la testa bassa a una signora in scuro "Sono rimasto molto colpito, mamma, da quello che il pastore ha detto sull'importanza dei piccoli uomini comuni."

    Molti diffidano degli psicofarmaci. Se Marx e Nietzsche fossero stati imbottiti di Prozac – dicono - forse non potremmo oggi usufruire delle loro celebri e celebrate lamentele. La miseria delle masse lavoratrici e così la volontà di potere che macera individui e nazioni sarebbero passate inosservate.

    Per altri, invece, i pericoli della psicofarmacologia – così come delle biotecnologie in generale – sono stati esagerati. Da che mondo è mondo, alcune persone trovano diabolica l’ultima invenzione tecnica. Quando fu inventato il treno, papa Gregorio XVI non disse che era un marchingegno di Satana? Per la mentalità ecologista, la Tecnoscienza ha preso il posto di Satana. Ma gli ottimisti dicono: da sempre gli esseri umani hanno fatto ricorso a droghe per alleviare il dolore psichico. I cuori infranti si danno all'alcool, chi si sente giù ingolla caffé, i peones della pampa masticano foglie di coca per sopportare le fatiche, chi è frigido in amore si prende il peperoncino o il corno di rinoceronte, ecc. Da sempre gli esseri umani hanno fatto uso di rozzi antidepressivi. La sola differenza, dicono, è che oggi non ci bastano le ricette delle zie e le saggezze erbaliste, occorre che le pozioni psicotrope vengano confezionate da laboratori chimici. Almeno dalla rivoluzione neolitica in poi, Homo sapiens ha sempre manipolato la natura – compresa la propria. Oggi è cambiato solo il grado di efficacia della manipolazione. Un ansiolitico venduto in farmacia è più efficace di una camomilla (ma non sempre).

    Oggi molti proclamano che siamo avviati al trattamento chimico di ogni disturbo psichico – quindi a una farmacopea della felicità – sull’onda del successo degli antidepressivi e dei farmaci che trattano i cosiddetti attacchi di panico. Tempo fa i neurologi hanno scoperto che quando ci sentiamo giù si produce una carenza di due neurotrasmettitori - noradrenalina e serotonina - nel nostro cervello; gli antidepressivi stimolano la produzione di questi agenti del buon umore. Così, dal 1988 è cominciata la marcia trionfale degli antidepressivi serotoninergici, il cui capostipite è il prozac.

Il guaio è che tutti gli antidepressivi hanno un limite serio: fin quando uno li prende sta meglio ma, una volta tolti, dopo un po' si torna nel precedente stato depressivo. Perciò allora molti devono continuare a prenderli vita natural durante, per prevenire ricadute. Non si tratta quindi di rimettere sul giusto binario un processo che per un po’ aveva deviato nella patologia: si tratta di deformare di fatto il carattere di una persona attraverso una gestione chimica permanente. Certo, i serotoninergici appaiono ancora rozze pillole della felicità, ma siamo sulla buona strada. La biologia è ormai in grado di agire direttamente sulla mente per via chimica. E’ un aspetto del trionfo del virtuale sul reale - la felicità certa data da artefatti chimici prende il sopravvento sulla felicità incerta data dall’azione nel reale.

    degli psicoterapeuti sono avviliti, perché in poche settimane e con poca spesa i serotoninergici sbloccano situazioni depressive che la psicoterapia è capace di migliorare (se le migliora) dopo mesi o anni di sedute costose. Ma le geremiadi degli psicologi contro i trattamenti farmacologici assomigliano sempre più alle cupe prediche dei pastori protestanti di un tempo, che raccomandavano la rassegnazione alla propria croce: la depressone è formativa, dicono questi psicologi, è bene che l’essere umano soffra. Con argomenti ascetici di questo tipo, in un’epoca di sfrenato edonismo di massa, questi psicologi sono destinati a essere spazzati via.

Eppure... Gli argomenti dei grilli parlanti, che seminano qualche dubbio sulle pillole che incantano l'Occidente-Pinocchio, non sono tutti speciosi. In effetti la depressione, come il dolore fisico, è una cosa spiacevole ma svolge anche una funzione vitale utile. Molte morti per droga avvengono perché la sostanza elimina tutte le informazioni spiacevoli provenienti dal corpo che dovrebbero mettere il soggetto in allarme. Molti stati di fatica cronica e di abulia – la yuppie’s syndrome – di cui si lamentano persone sempre indaffarate, sono probabilmente campanelli di allarme che, se ascoltati, possono prevenire infarti o ictus. Ma anche il nostro umore, che ci appare spesso capriccioso, ci fornisce informazioni utili. Per esempio, se un serotoninergico ci togliesse la capacità di provare noia e disgusto per tanti spettacoli televisivi, come potremmo difenderci da essi?

Come il mal di denti segnala al soggetto che qualcosa nel suo molare non va, così il sentimento depressivo segnala al soggetto che qualcosa nella sua esistenza non va, che insomma occorre cambiarla da qualche parte. Certo, una volta trovata la carie il dolore non serve più, e un anti-dolorifico non guasta; trovare quel che non va nell'esistenza di un depresso è di solito più difficile che trovare una carie. Data questa difficoltà, è allora sempre fortissima la tentazione, in psichiatria, di ridurre la cura all'anestesia: l'importante non è risalire alla causa “a monte” della sofferenza, basta che il cliente “a valle” non senta più la fatica di vivere ed esca dallo studio medico sorridendo.

    Non vorrei essere frainteso. Aborrisco le posizioni dogmatiche, sia di quelli che cantano le Magnifiche sorti e progressive degli psicofarmaci, sia dei puritani che moralisticamente gettano l’anatema su ogni intromissione chimica nella sofferenza spirituale. Una vera depressione è una delle esperienze più insopportabili che un essere umano possa patire, e sfocia non di rado nel suicidio. Se una pillola può aiutare a uscire dal tunnel, tanto meglio. Ma resta il dubbio etico di fondo: che ne sarà di una umanità incapace di rendersi conto di ciò che non va nella propria vita, perché ogni malessere viene sistematicamente cancellato da qualche marchingegno farmacologico? Di uomini incapaci, ad esempio, di vivere il lutto per una perdita, perché subito un artificio riporta loro il sorriso?

Ho notato che negli ultimi anni il comportamento di tante persone anziane è cambiato rispetto al passato. Data la frequenza delle depressioni in tarda età, gli ultra-settantenni vengono sempre più spesso impasticcati. Così passano intere giornate attoniti davanti al televisore e non rompono più, paiono disinteressati alla vita dei più giovani, non si lamentano ma non cooperano. Relegati nella beatitudine solipsista di un limbo chimico, nell’ospizio roseo della psicofarmacologia, vengono oggi traghettati dalla biotecnologia, nuovo Caronte, verso l’altra sponda.

    Come sono stati inventati i serotoninergici? Alcuni ricercatori, privando certe scimmie della madre nel primo anno di vita, hanno ottenuto uno stato simile a quello della depressione umana, associato a un deficit di noradrenalina nel loro cervello: le hanno "guarite" con antidepressivi. Poi sono passati all’applicazione agli umani. Ma cosa pensare di scimmie che sostituiscono alla madre naturale la Mamma Prozac? E che cosa pensare di esseri umani che, privi della libertà o dell'amore, vivono lo stesso felici e contenti amati dal prozac? Tra la felicità dovuta al successo e all'amore, e quella dovuta a una pillola, la sola differenza è che nel primo caso gli altri contano qualcosa. Ma questa differenza non è essenziale?

    Certamente certe psicoterapie non sortiscono gli effetti spicci e vistosi della manipolazione chimica, ma tentano comunque di rispondere a una domanda etica che per la biotecnologia non si pone nemmeno: “al mio malessere, alla mia astenia, c’è una causa a me comprensibile?” E’ vero che nel cervello delle scimmie che hanno perso la loro madre diminuisce la noradrenalina, ma la causa della reazione della scimmia è questa carenza di neurotrasmettitori o la perdita della madre? Se oggi François Fillon è depresso ( non so se lo sia, ma secondo me dovrebbe esserlo), accade questo perché ha meno serotonina del solito nel suo encefalo oppure perché sta percorrendo il calvario di accuse infamanti di favoritismo familiare? Se do a Fillon uno psicofarmaco per non sentirsi più colpevole e vivere giulivo, faccio qualcosa di veramente etico? La felicità non è qualcosa che dovremmo anche, in parte, cercare di meritare? La farmacologia aspira insomma a liberarci dai due fardelli che ci rendono così umani: il senso del lutto e il senso di colpa.

    I neurologi si rendono conto delle fastidiose domande etiche che la risposta farmacologica alle sofferenze solleva in molta gente, e spesso parano il colpo contrabbandando una pseudo-teoria che metta le coscienze a posto. Le depressioni, dicono, sono semplici disturbi organici che non hanno alcun senso né alcuna causa diversa dai meccanismi cerebrali. A differenza di Freud, che vedeva nella depressione una forma di lutto – simile a quello delle scimmie rimaste orfane – la psichiatria di oggi tende a escludere che siamo depressi perché ci manca qualcosa fuori di noi, perché riconosciamo la nostra vita come povera, meschina, deludente. Così la teoria riduzionista, che spiega ogni malessere spirituale con le cause efficienti neurochimiche, permette di tacitare gli scrupoli filosofici. Non è importante capire perché si è infelici, l’importante è essere comunque felici. La verità biochimica, operando sulle cause efficienti organiche, sloggia la cura umana per la verità delle cose e della vita. Dopo ventitré secoli, il programma di Socrate – “prima di tutto, conosci te stesso” – è finalmente accantonato. L’importante è conoscere la propria biochimica.

 

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Nel film Existenz di D. Cronenberg una serie di persone sono coinvolte in un nuovo game da lanciare sul mercato, intitolato eXistenZ. Esso porta a una perfezione allucinatoria i video-giochi interattivi oggi alla moda, operando la congiunzione definitiva tra mondo elettronico e biotecnologie. I giocatori, manipolando bio-macchine mollicce che ricordano il pollame crudo, entrano in un mondo del tutto fittizio – come se vivessero in un film – nel quale si incontrano e “giocano” in modo interattivo. In questo thriller, nel quale si vive come se si fosse reali, si perde quando si viene “uccisi” dal concorrente. Dopo un po’, però, né i giocatori né lo spettatore capiscono più quando i Nostri sono nella realtà oppure nell’universo programmato del gioco. Tra reale e virtuale l’intreccio diventa talmente denso che pare di vivere in un incubo senza fine. Ad esempio: d’un tratto, i due protagonisti – un uomo e una donna – si sentono irresistibilmente attratti l’uno dall’altro, e si lanciano in febbrili effusioni erotiche. Ma fanno così – si chiedono loro stessi - solo perché il programma del gioco li costringe a questo? Quando si svegliano da un sogno, è per entrare in un altro sogno, e alla fine disperano in un risveglio certo.

Existenz è una versione post-modernista de La vida es sueño di Calderòn de la Barca, capolavoro del teatro barocco: anche qui il protagonista – sin dalla nascita recluso in una lugubre torre - non sa fino a che punto la sua vita opulenta da principe, che si alterna con i periodi di ritorno nella squallida prigione, sia semplicemente un sogno che lui fa da prigioniero, o la vera realtà della propria esistenza. Quale vita è quella sognata, e quale è quella reale? Il manipolatore che rende incerta la distinzione tra sogno e realtà nell’apologo di Calderòn è un re, mentre nel film di Cronenberg è la biotecnologia, capace di innestare nei cervelli umani esperienze fittizie vissute intensamente come reali.

Ma c’è un aspetto che rende questo film indigesto a molti: questo mondo virtuale in cui le persone giocano non ha nulla di un paradiso artificiale, di un universo seducente e piacevole come le luminarie ipnotiche di Las Vegas, o come il mondo laccato di Star Wars. E’ piuttosto un mondo plumbeo che ricorda l’Europa dell’Est all’epoca del comunismo. E’ un universo vetusto, povero, grigio, sporco, insomma fin troppo ‘realista’, dove si svolgono operazioni chirurgiche nauseabonde. Il protagonista si chiede difatti, a un certo punto, che successo commerciale potrà mai avere questo game che getta l’utente in un universo squallido, intriso di angoscia e ribrezzo. Del resto, la posta del gioco è il dominio del gioco stesso: gli “attori” sono ossessionati solo dal continuare a giocare. Il fine vero del gioco virtuale è… rendere ancora possibile il gioco virtuale. Come per il tossicomane assicurarsi la droga, e non più il piacere che essa dovrebbe dare, diventa l'unico vero scopo della propria vita – la droga diventa fine a se stessa – analogamente per questi giocatori il gioco consiste solo nell’assicurarsi la continuazione del gioco. La tecnologia è una droga che, come quest’ultima, finisce con il dominare la nostra mente: la tecnologia finisce col colonizzare i nostri cervelli per integrarli nel suo gioco enigmatico.

Perciò questo mondo virtuale nel quale i giocatori vivono è neo-realista – ricorda la mesta Polonia socialista dei film di Kieslowskij - cioè noioso e cupo. Existenz in sostanza è un’allegoria del virtuale – del cyborg - come fondamentalmente brutto e ansioso. L’irrealtà tecnologica viene identificata alla bruttezza del realismo.

Questo film rappresenta perspicuamente il mondo dominato dalle biotecnologie. Se sono imbottito di antidepressivi e “mi sento da dio”, fino a che punto questa mia euforia è reale o è un indotto chimico? Che cosa nella mia esistenza sarà ormai più ‘realmente reale’ e che cosa sarà frutto del grande tutore biotecnico? Esisterà da qualche parte una mia verità, oppure ciò che ognuno di noi è non sarà altro che la risultante di una serie di aggiustamenti e manipolazioni tecniche tese a ottimizzarlo? E se stessimo cominciando già a diventare ciechi alla laidezza di un mondo dove non ci si occupa più del reale, ma solo dell’ansiosa ingegneria della felicità?

 

Sergio Benvenuto

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