Flussi di Sergio Benvenuto

La psicoanalisi come thriller11/apr/2019


Sergio Benvenuto

 

         Questo titolo basterà per indurre molti a non leggere questo articolo: perché paragonare la psicoanalisi al thriller è un trito luogo comune. Questo cliché dilaga in molta saggistica, in una quantità di romanzi, film, serial, imperniati attorno a qualche psichiatra o psicoanalista che ricostruisce un crimecome fosse un caso psichiatrico, oppure un caso psichiatrico come fosse un crime. Questa pletora soprattutto americana di opere attorno a Sherlock Freud o Sigmund Holmes ha persuaso molti psicoanalisti a rigettare l’equazione “analisi = indagine psico-poliziesca” come Kitsch hollywoodiano. 

Eppure spesso scrittori e cineasti vedono più lontano dei teorici. Più passa il tempo, più mi convinco della affinità profonda tra il modo in cui si dipana un’analisi e il modo in cui si sviluppa un giallo. È che entrambe sono forme toccanti, coinvolgenti, di ciò che dobbiamo intendere per scienze storiche. Di scienze che ricostruiscono eventi unici, occorsi una volta sola.

 

Edipo, Amleto, Dupin

 

         In effetti i modelli letterari a cui Freud ha detto di aver attinto per costruire la sua teoria dell’essere umano sono due celeberrimi proto-gialli dell’Occidente: l’Edipo tirannodi Sofocle e l’Amleto. (Dico bene Edipo tiranno- Ο?δ?πους Τ?ραννος – di Sofocle e non il bonario Edipo Re, come di solito si scrive.) Già Aristotele aveva indicato - nella Poetica- quella tragedia di Sofocle come l’opera teatrale più perfetta di cui egli fosse a conoscenza. In questa difatti due elementi fondamentali della narrazione tragica – la peripezia e il riconoscimento – coincidono. La peripezia (peripéteia) è il rovesciamento del senso delle azioni, quando ad esempio volendo fare il bene si fa il male o viceversa. Il riconoscimento (anagnòrisis) è il passaggio dell’eroe dall’ignoranza alla conoscenza della verità, per lo più insostenibile, e che chiude la narrazione tragica. 

Si è detto che Edipo tirannoci fornisce lo schema formale preciso del moderno poliziesco: qui, difatti, il concatenamento delle azioni (l’indagine del detective) coincide con il riconoscimento (la scoperta dell’assassino). La peripezia paradigmatica nel giallo moderno consiste nel fatto che l’assassino, il quale sembrava essersela cavata e aver raggiunto i suoi torvi fini, viene alla fine riconosciuto tale, e quindi – si suppone –punito. (Nel thriller classico non conta la punizione finale del colpevole, perché l’assassino non è oggetto di odio vendicativo, è oggetto di una sfida ermeneutica. Una volta scoperto il colpevole, nessuna passione vendicativa interviene.). Con ogni probabilità Aristotele avrebbe detto, oggi, che il poliziesco è il racconto più perfetto. In effetti, l’intreccio dell’Edipo tirannoconsiste in un’indagine poliziesca: occorre scoprire l’assassino del re Laio e quindi la causa della peste che affligge Tebe. Ma la tragedia sofoclea è un thriller a dir poco eccezionale: qui il detective scopre alla fine che l’assassino è lui stesso! Rarissimi polizieschi del Novecento hanno osato una soluzione così ardita. (Ed Edipo è “tiranno” per Sofocle proprio perché è un assassino.) Comunque, se per Aristotele Edipo tirannoè la tragedia più perfetta per ragioni formali, anche per Freud lo è, per ragioni però di contenuto: per lui ogni essere umano (maschio o anche femmina? il problema è tuttora dibattuto) è come Edipo. È come Edipo nel senso che anche se non ha ucciso il padre e non ha fatto sesso con la madre, per lo meno ha desiderato sia l’una cosa che l’altra.

         Quanto all’altro dramma-modello di Freud, Hamlet, siamo di nuovo nel proto-thriller. L’assassino ci viene rivelato all’inizio del dramma, grazie a un informatore sovrannaturale, un fantasma: il re di Danimarca è stato ucciso dal fratello, in combutta con la moglie del re. Per il resto Hamlet si articola come il romanzo Strangers on a Train[1]di Patricia Highsmith (da cui Hitchcock trasse un film nel 1951, meno bello del romanzo in verità). In questo romanzo il Nostro eroe deve uccidere uno a lui sconosciuto per sdebitarsi con un tizio incontrato per caso in un treno: difatti questo casuale compagno di viaggio gli ha fatto l’immenso favore di far fuori la moglie di cui voleva liberarsi, per poter sposare un’altra.  Nel racconto di Shakespeare come in quello della Highsmith tutto il suspense del racconto consiste nel chiederci “riuscirà il nostro eroe a diventare alla fine un assassino, come è necessario che sia?” L’eroe passa per un lungo dubbio amletico. Alla fine anche “il buono” commetterà il delitto dovuto – ma per entrambi gli assassini le cose non andranno lisce come dovrebbero andare. 

Per Freud Amleto è un Edipo moderno, cioè un Edipo mancato: un Edipo che non riesce a passare all’atto. (Gli analisti biasimano quando i loro pazienti passano all’atto, cioè agiscono anziché parlare: non devono comportarsi come Edipo, ma continuare i loro interminabili soliloqui come Amleto, “essere o non essere…” Amleto è il buon analizzante, Edipo quello cattivo.) 

Di fatto, esistono oggi due tipi di analisti: gli uni pensano che i loro pazienti siano davvero degli Edipo che vadano smascherati come tali, gli altri – più modernisti – pensano che siano piuttosto degli Amleto, cioè degli Edipi falliti. Da qui a pensare che la psicoanalisi stessa sia in effetti un’indagine fallita - e quindi un thriller mancato - il passo è breve, e molti lo compiono.

         Ma anche altri analisti notevoli hanno scelto come modelli teorici degli eroi di thrillers o quasi. W.R. Bion cita Sherlock Holmes. Jacques Lacan apre trionfalmente il suo unico libro pubblicato in vita, Ecrits – la Kabbalah della psicoanalisi modernista – con un commento al racconto di E.A. Poe The Purloined Letter (La lettera rubata). Poe, si sa, è il creatore del genere poliziesco. L’eroe di questo racconto, Dupin – il detective cartesiano, gelido genio matematico che ricostruisce persino i pensieri altrui attraverso implacabili inferenze – appare la derivazione updated di Edipo e Amleto. Per Lacan – anch’egli cartesiano – Dupin è il modello dell’analista, ma l’analista è a sua volta una vicissitudine dell’analizzante nevrotico (Lacan chiama ‘analizzanti’ quelli che altri analisti, più datati, chiamano ‘pazienti’). In Poe, un ministro - che a noi italiani ricorda irresistibilmente Giulio Andreotti - ha carpito una lettera compromettente della regina di Francia. L’ottusa polizia parigina – servizio segreto deviato a favore della regina – non riesce a trovare questa lettera malgrado perquisisca ogni millimetro della casa del diabolico ministro. Dupin – intelligente quanto il ministro, poeta e matematico proprio come lui – sa invece che il miglior modo di nascondere una lettera è di non nasconderla affatto: la sua stessa evidenza la camuffa. E seguendo questo criterio riesce a rubare a sua volta la lettera al ministro. Dupin permette a Lacan, come già Edipo e Amleto permisero a Freud, di dire l’essenziale di quel che aveva da dire: che l’inconscio è come una lettera rubata che noi crediamo nascosta chissà in quali recessi, e che invece ci penzola di fronte agli occhi, ignorata o fraintesa. L’analista, proprio come Dupin, ha da essere matematico e poeta con senso dell’humor.

         Ma è casuale che Freud e Lacan abbiano eletto a prototipi delle loro teorie proprio eroi che appartengono al genere proto-poliziesco? Queste scelte sono sintomatiche. Dietro le teorie ufficiali, la preferenza per questi detective o assassini – di solito sia assassini che detective – rivela metaforicamente la natura della psicoanalisi come inchiesta storica.

Ma è notevole che l’inchiesta storica analitica non porti a un vero colpevole, bensì a una sorta di forza che Freud ha chiamato der Trieb, la pulsione. Il primo vero romanzo giallo – I delitti della rue Morgue (1841) di E. A. Poe – è in qualche modo anche un anti-giallo; e forse per questo è il thriller più filosoficamente significativo che io abbia mai letto. Qui si deve scoprire l’assassino di due donne che appare dotato di un’intelligenza e perspicacia forse sovrumane. Ebbene, alla fine Dupin scoprirà che questo geniale assassino in realtà… è un orangutango. Quel che appariva diabolico progetto era solo cieca forza bruta. È questo il limite a cui ogni vera indagine psicoanalitica si trova confrontata: alla fine, il diabolico intreccio della nevrosi si rivela essere… solo forza casuale, accidente, mero evento. La nevrosi è voler darsi a ogni costo ragione di ciò che non ne ha – del fatto che si è nati e che si morirà, che si è maschi o femmine, dotati di certe qualità o meno. Da una parte la psicoanalisi è favola (thriller, telenovela): tende a farci credere che il dolore, il sesso e la morte abbiano un senso. Dall’altra – la sua faccia veramente moderna – essa mette a nudo la favola, ci disincanta: alla base, c’è solo l’orango della rue Morgue. Qualcosa dell’ordine della pura forza, allegoria della pulsione pura, non di una mente calcolatrice.

 

 

Kitsch versusChic

 

         Certo il thriller è un genere popolare, anche quando mette in scena raffinati psicoanalisti. Di contro, molti romanzi, film e opere teatrali del Novecento destinati all’élite colta riprendono il genere thriller operando però inquietanti amputazioni nel corpo del genere. Alcuni capolavori del Novecento eliminano dal giallo standard o il riconoscimento finale dell’assassino, oppure fanno “scoprire” fin troppi assassini; in alcuni casi eliminano addirittura il delitto o lo rendono problematico. 

Il pasticciacciodi Gadda[2], pubblicato nel 1946, appartiene alla serie ormai tipica del giallo modernista dove non si scoprirà mai l’assassino. Il commissario don Ciccio Ingravallo non scoprirà mai chi ha ucciso la frustrata e virtuosa signora Liliana di via Merulana.  Al contrario, nel romanzo forse più importante del XX° secolo – Il processo di Kafka – abbiamo comunque il colpevole (probabilmente assassino) ma non ci viene mai rivelato il delitto. Sembra non scoprirlo nemmeno Herr K., l’imputato, il quale forse condivide l’ignoranza del lettore. Ma possiamo immaginare che l’inquisito lo sappia, allora è l’autore che preferisce far stagnare il lettore nell’ignoranza. Il giallo di Kafka finisce come si deve – con la punizione del colpevole, K., condannato alla pena capitale – solo che Kafka “si dimentica” di rivelarci chi era stato ucciso. 

Invece, nel film di Lars Von Trier, Dancer in the Dark(2000), noi spettatori sappiamo in apparenza tutto (Selma, protagonista che scivola verso la cecità, è l’assassina del poliziotto) ma nessuno nel film viene mai a sapere che di fatto l’assassina è innocente, perché la vittima aveva deciso di farsi uccidere.

Nel film di Akira Kurosawa Rashomon(1950) il genere poliziesco viene distorto non per difetto ma per eccesso di colpevoli. Qui sappiamo chi è stato ucciso (un nobile samurai) e conosciamo i soli possibili colpevoli – la sua bella moglie e il brigante che lo ha aggredito per impossessarsi della donna – ma il punto è che ciascuno si confessa autore del delitto. Persino la vittima, evocata da un medium come spettro, dichiara di essere lui l’assassino di sé stesso. È una variante della tecnica Pirandello (Così è (se vi pare), 1925): ci sono fin troppi candidati alla colpa, e il detective – ovvero lo spettatore - non riuscirà mai a risolvere l’incertezza. In termini aristotelici: la peripezia non si compie perché si moltiplicano i riconoscimenti.

         Il Novecento in tutte le arti accanto al trionfo delle opere del Kitsch ha sviluppato un filone Chic - dei generi-ombra, degli specchi deformanti soprannominati ‘avanguardia’, che fanno il verso al Kitsch. I critici più acuti si sono chiesti perché il Novecento – che ha visto il trionfo del thriller come genere Kitsch – abbia sviluppato d’altro canto uno pseudo-thriller chic, da Kafka a Gadda, da Pirandello a Borges, da Robbe-Grillet a Eco. In effetti, il thriller popolare propone un enigma – “chi ha ucciso la vittima?” – e lo risolve, come Edipo risolse l’enigma della Sfinge. Il modernismo chic invece lascia aperto l’enigma – almeno fino a Il nome della rosa[3], dove si scopre che l’assassino in fondo è la Poetica di Aristotele; o meglio, la parte perduta di essa (i monaci muoiono grazie a del veleno nascosto nelle pagine del manoscritto aristotelico). La scelta di questo libro come assassino appare più che mai perspicace. Proprio quel testo di Aristotele che aveva descritto il perfetto thriller, con Eco – a cui non manca certo il senso dell’humour - diventa l’assassino in un thriller alquanto perfetto.

Un passo in avanti ulteriore si compie con il film Blow Updi Michelangelo Antonioni (1966)[4], ripreso dal racconto di Julio Cortázar “Las babas del diablo”. Qui un fotografo, come un voyeur, scatta foto notturne su una coppia che sembra apprestarsi a un rapporto sessuale. Più tardi, il fotografo si rende conto che quella scena era una messinscena, che probabilmente nascondeva un omicidio: l’uomo di mezza età della coppia risulta morto, e poi il cadavere scompare; così come scompaiono le foto da lui prese. Non si saprà mai né chi sia l’assassinato, né chi sia l’assassino. Abbiamo qui tutti gli elementi costitutivi del thriller, ma ciascuno ridotto a incognita, a x: la vittima, l’assassino o assassina, i possibili complici. Persino il delitto è incerto, dopo tutto quel cadavere nel parco potrebbe essere una messinscena o frutto di un malore. Noto che resta solo il detective-fotografo. Evidentemente siamo giunti alla punta estrema dell’insolubilità del thriller; non mi risulta di fatto che dopo Blow upci siano stati romanzi o film importanti come thriller incompleti. 

Resta però un nesso fondamentale tra Blow upe i proto-thriller, da Edipo tirannofino a Il pasticciaccio: che l’omicidio ha comunque un nesso con la sessualità. Nel film di Antonioni non sapremo mai chi è il morto né perché, ma una cosa è certa: ha relazione – se non altro di messa in scena – con un atto sessuale. C’è una rivalità edipica di fondo nel mistero: il fotografo, in effetti, conosce la donna implicata in quella scena (apparentemente) erotica, la quale sembra amoreggiare con un uomo più anziano, con una figura insomma paterna. È vero che tutti gli elementi del thriller restano qui incogniti, ma resta l’aura di fondo di ogni thriller: un triangolo di sesso e assassinio.

 

Perché nel Novecento la non-soluzione del mistero ci è apparsa più nobile, meno banale, più elevatadella scontata soluzione del mistero? Perché insomma nel Novecento-delle-persone-colte Edipo resterà sempre incerto: “ma sono stato io a uccidere il re? Ma davvero Giocasta, la mia donna, è la mia mamma?”? 

In effetti, letteratura, cinema e teatro d’élite del Novecento hanno dato forma estetica a ciò che la filosofia del Novecento aveva espresso in altri termini e senza riferirsi ai “gialli”. Martin Heidegger ha costruito tutto il suo pensiero attorno a una trovata molto precisa: che, a differenza di quello che finora abbiamo fatto, non bisogna pensare ogni ente come semplice essere-presente. Questo significa, applicato all’indagine poliziesca, che non bisogna pensare al delitto come a un fatto del passato che dobbiamo ricostruire come se fosse presente. In molti film, difatti, quando alla fine si ricostruisce come le cose sono andate, si vede in flash backla scena del delitto come veramente l’avremmo vista se fossimo stati presenti. Come se il passato fosse presente, e come se fossimo presenti in quel passato reso ora presente. Sia Heidegger che Kafka o Borges o Gadda o Peter Howitt (il regista di Sliding Doors, 1998[5]) ci invitano a non essere più “realisti”, ad abbandonare l’idea che i fatti possano essere ricostruiti nella loro presenza. Perché questa bizzarra rinuncia alla verità realista? Perché lasciare aperto il mistero? 

Una risposta a questa enigmatica scelta modernista di non risolvere l’enigma è questa: l’arte e la filosofia chic del secolo appena trascorso hanno puntato tutte le loro carte sull’apertura, sulla possibilità, insomma sulla libertà. Libertà soprattutto dal nostro passato storico. La soluzione dell’enigma – come già in Edipo– è tragica: non si può tornare indietro, quel che è stato sarà per sempre. Edipo sarà eternamente incestuoso e parricida, a Colono potrà riconciliarsi col proprio destino ma non cambiarlo. Lady Macbeth può diventare pazza, pentirsi, suicidarsi, tutto inutile: ormai è l’assassina del re, per sempre, e porterà anche nella tomba le sue mani sporche di sangue. E per secoli a teatro rappresentiamo il suo dramma, sempre lo stesso, come se fosse la prima volta. Il pensiero e l’arte del Novecento hanno invece voluto proiettare anche sul passato – quindi sulla storia – quell’incertezza che di solito mettiamo sul conto del futuro. L’utopia modernista è consistita nel dare anche alla nostra storia passata quell’apertura che – in genere – riconosciamo solo all’avvenire. Quel secolo che ormai tutti chiamiamo “breve” – che si aprì col futurismo di Marinetti – ha futurizzato lo stesso passato: anche il passato diventa aperto, da reinterpretare ricostruire e costruire, mai definitivo. In questo Heidegger si ricongiunge al suo opposto Popper: l’importante è che tutto resti aperto. Un heideggeriano direbbe che il thriller Kitsch è “metafisico” – ontico e non ontologico - perché crede in una verità storica definitiva da scoprire. L’arte chicinvece è oltre la metafisica perché non si rassegna alla realtà una volta per tutte. Il Novecento ha trasformato la tragedia dell’“accaduto irreparabilmente, una volta e per sempre” nell’interminabile commedia dell’infinita Apertura. Il secolo scorso è stato il secolo più disperatamente romantico, tragicamente ottimista.

         E la psicoanalisi, questa tipica e squisita creatura novecentesca?  Trovo che gli analisti a loro volta oscillino continuamente tra il Kitsch e lo Chic – secondo la nostra metafora, tra il thriller classico e quello modernista. Non è una questione di scuole o di tendenze: mi basta sentir parlare un analista qualche minuto per capire abbastanza presto se lui o lei fa analisi Kitsch oppure chic (non dico quale delle due io preferisca: come Kafka e Pirandello, lascio il lettore nel dubbio). La psicoanalisi è stata spezzata al suo interno, non meno delle arti e delle idee del Novecento. 

L’analista Kitsch - “popolare” - pensa che l’analisi sia una ricostruzione storica che giunga alla fin fine a qualcosa, anche se questo qualcosa è più dell’ordine della fantasia, dell’immaginario che dell’evento esterno: per lui o lei, l’analisi alla fine “scopre l’assassino”, per così dire, e il paziente vivrà poi felice e contento. Per molti l’assassino è la specifica relazione madre-bambino; una collana di thriller un po’ monotona, direi. Così, secondo la moda analitica oggi in auge, l’importante è che il paziente scopra che ha avuto una “madre non sufficientemente buona”. Invece l’analista chic pensa che l’analisi non giunga mai a un qualcosache chiuda la narrazione autobiografica, il destino storico del soggetto e l’avventura annosa dell’analisi: per lui l’analisi mantiene aperto un enigma, una non-risposta, una sospensione inconclusa. L’analista anti-Kitsch si consola pensando che accettare questa inconcludenza – come nel Pasticciaccioo in Rashomon– sia la condizione per sviluppare nel soggetto una qualche creatività(su cui insisteva D. W. Winnicott). L’analista Kitsch mira difatti a rendere il cliente felice e contento, l’analista chic mira piuttosto a renderlo creativo.

 

Telenovela edipica

 

         Edipo tiranno è un modello non solo del moderno poliziesco ma anche del pre-moderno romanzo d’agnizione. Chiamo così quel che un tempo si chiamava “romanzo d’appendice” o feuilletonseriell, e oggi si chiama piuttosto telenovela. In che senso l’Edipo di Sofocle è anche una telenovela antica? 

In effetti la colpa di Edipo è doppia, odiosa e amorosa: da una parte egli è un assassino (parricida), dall’altra egli è un baiseur (direbbero i francesi) improprio, in quanto fa sesso con la madre e ha da lei figli. Edipo da una parte inaugura il thriller, dall’altra la telenovela. Gira e rigira, l’arte dell’Occidente appare, malgrado i suoi innumerevoli epicicli, giravolte e ghirigori, alla fine sempre gravitante attorno a questo doppio astro: il buco nero del dare la morte e il sole incandescente del fare sesso e generare. Gli esseri umani paiono cercare – senza posa – nelle opere d’arte la moltiplicazione caleidoscopica di queste due sempre rinascenti domande: “chi ha ingravidato la signora? quale signora è stata ingravidata?” e “chi ha ammazzato il signore o la signora?” Per secoli romanzi colti e telenovelas, drammi e commedie, poemi favole e fotoromanzi, hanno girato attorno all’agnizione: alla fine, il nostro eroe – trovatello, orfanello, figlio adottivo, garzone, servitore, morto di fame insomma – scopre di essere figlio del Signore o della Signora (nei casi migliori: del re o della regina). È il finale che a Napoli viene chiamato a tarallucci e vini, cioè con una festa conviviale in cui si mangia e beve allegramente. Tutto gira attorno a un coito impertinente che alla fin fine il romanzo ricostruisce, attribuendo il vero genitore all’incerto figlio. Freud (che ha costruito la teoria scientifica più vicina alla telenovela) aveva chiamato Urszene – scena primaria – il coito dei genitori a cui ogni soggetto ha assistito o immagina di aver assistito. E anche in Freud l’enigma resta sospeso: la scena primaria è evento o fantasia? 

Il Kitsch picaresco e sentimentale ha avuto una lunga storia: dal Tom Jones (1749) di Henry Fielding fino alla Filumena Marturano (1946)di Edoardo De Filippo e al film Secrets and Lies(1996) di Mike Leigh. Questo genereappare ossessionato da questa domanda a cui, alla fine, c’è risposta: chi ingravidò la signora?Oppure, chi furono gli attori dell’atto d’amore di cui il frutto è qui presente? Il thriller tematizza invece un enigma che riguarda il dare la morte: chi ha prodotto il cadavere qui presente?

         Uno dei rari casi in cui è stata data forma di classico thriller alla domanda sessuale del romanzo d’agnizione è il racconto di Heinrich von Kleist La Marchesa Von O… (1808). Da questo Eric Rohmer trasse un film omonimo molto bello nel 1976. Sin dall’inizio sappiamo che la vedova, la bella marchesa italiana von O…, è incinta, ma tutti – marchesa inclusa – ignoriamo chi l’abbia ingravidata. Anche in questo caso, come nell’Edipo tiranno, l’intreccio coincide con il processo di riconoscimento: alla fine scopriamo che la bella è stata messa incinta da un giovane conte russo di cui, guarda caso, la Nostra si era segretamente innamorata. Non sapeva di aver già giaciuto con lui perché il conte aveva abusato di lei mentre era immersa, drogata, in un sonno profondo. La differenza col thriller è che qui il malfattore alla fine scoperto non è uno che ha dato la morte, ma uno che ha dato la vita. E vissero felici e contenti.

         È probabile che Dominique Aury, alias Pauline Réage, quando scelse il titolo del famoso romanzo pornografico Histoire d’O… (1954) pensasse proprio alla marchesa d’O... di von Kleist. La bella O del romanzo erotico SM si sottomette volontariamente alla schiavitù sessuale di un’organizzazione perversa maschile, e subisce le più varie umiliazioni e violenze. Nel caso di entrambe le “O” si tratta quindi di violenze inflitte da uomini, le quali però, in fin dei conti, risultano gradite alla vittima, la donna.

 

Ogni morte ha un colpevole

 

         Forse ora ci appare un po’ più chiaro perché sentiamo questa affinità tra psicoanalisi da una parte, e thriller e telenovelas dall’altra. È che tutte queste forme si occupano degli eventi fondamentaliper gli esseri umani, eventi che li appassionano. Gli eventi fondamentali sono dare la vita attraverso il godimento sessuale, e dare la morte. 

Si dirà: si può ricevere la vita anche casualmente (oggi per inseminazione artificiale) e si muore casualmente, per malattia. Eppure qualcosa di inconfessabile e ingiustificabile in noi interpreta ogni nascita come frutto di un amore segreto e proibito, e ogni morte come un omicidio. È come se, nel fondo, pensassimo che il nostro vero padre sia un altro - di solito, un principe (ai tempi nostri, una stardella musica o del cinema; in un film di Carlo Verdone, Gallo cedrone, il protagonista, un imbecille, dimostra che lui è figlio di Elvis Presley…). La psicoanalisi ha messo a nudo – contaminandosene a sua volta – questi “pregiudizi” straordinari del nostro rapporto al sesso e alla morte. E difatti, molte società primitive non accettano il concetto di morte naturale: se uno è morto, è perché qualcuno lo ha fatto fuori attraverso la magia nera. In culture diverse dalla nostra, il vero “padre” di un bambino non è l’uomo che ha inseminato la madre, ma lo spirito presente al coito, ad esempio.

 

 

         Ma c’è qualcosa anche di più sottile che associa la psicoanalisi al thriller (e alla telenovela): la sua pretesa di essere una pura ricostruzione storica

         Si dà il caso che i filosofi della scienza siano più che mai divisi sullo statuto da dare alla storia in generale. Nessuno può negare che la storiografia, la paleontologia, le scienze dell’evoluzione siano scienze serie – eppure i conti non quadrano. In effetti, per farla breve, si pensa che le scienze dette non a caso fondamentalimirino a leggi universali– mentre nelle narrazioni storiche non si enunciano leggi universali, ma si dice come una volta sola qualcosa è accaduto. Quando la termodinamica dice “l’acqua bolle a 100 °C”, non dice nulla di storico: “ogni volta che dell’acqua è stata riscaldata, in qualsiasi epoca e contesto, è bollita a 100 °C”. Basterebbe – almeno in teoria – che una volta sola dell’acqua bollisse non a 100 ma a 120 °C, e la legge termodinamica sarebbe falsificata. Invece la storiografia è una paradossale “scienza del particolare”, preconizzata dalla patafisica di Alfred Jarry. Se si scopre che la signora Tal dei Tali è stata uccisa in casa dal maggiordomo cinese, questo non implica affatto che sia valida la legge “ogni volta che in casa una signora è uccisa, allora l’assassino è un maggiordomo cinese”.  Questa differenza è al cuore della questione della validità scientifica della psicoanalisi, nella quale non entreremo qui.

         In effetti, un certo discredito della psicoanalisi oggi riguarda la sua pretesa di enunciare leggi universali sulla psiche umana, del tipo “ogni essere umano passa per l’Edipo”. Si racconta di un paziente abbastanza colto che va per la prima volta da un analista e gli dice “se lei, nel corso di anni, vorrà dimostrarmi che io ho desiderato da bambino mia madre e volevo fare fuori mio padre, si risparmi la fatica! Lo so già benissimo, e me lo ricordo perfettamente!” In effetti, se l’analisi ha un qualche impatto non è perché sfodera delle teorie – vere o sbagliate che siano – sugli esseri umani in generale. L’analisi pretende di poggiare anche su delle teorie, ma non ha nulla a che vedere con una scienza fondamentale. L’analisi è un’arte della ricostruzione storica, come quella di un delitto: ciò che produce effetti è la specificità irripetibile dell’esperienza che va ricostruita. Anche se il complesso di Edipo fosse universale, quel che conta è che non ci sono due Edipi eguali tra gli esseri umani. 

Marx disse che la storia si ripete sempre due volte, la prima come tragedia e la seconda come farsa[6]. Diciamo che le scienze fondamentali si occupano del lato farsesco della natura – cioè di tutto ciò che si ripete, seguendo sempre la stessa legge – mentre le scienze storiche si occupano del lato tragico della natura. È tragico ciò che accade una sola volta – o la prima volta, che è quella vera - e che determina il seguito della storia in modo irrevocabile. Se Freud ha fatto riferimento alla storia di Edipo, è perché il suo carattere tragico gli offriva su un piatto d’argento la dimensione dell’irreversibilità storica. Freud stesso paragonò l’analisi a una costruzione ricostruzionedi tipo archeologico (Freud era un appassionato collezionista di reperti archeologici) e l’archeologia è una ricostruzione storica. Nella costruzione analitica, prima o poi il soggetto si confronta con alcuni eventi irrevocabili e irreversibili. La sua nevrosi si fondava appunto sull’illusione che li si potesse revocare e rendere reversibili: l’essere nato, l’essere maschio o femmina, l’aver avuto quel padre, quella madre, eventualmente quelfratello o sorella – e un giorno l’essere morto. Nascita, sesso, morte sono accidenti insensati e irreversibili (quindi tragici) del destino umano. Con queste rocce biologiche il soggetto deve confrontarsi. È a questo confronto storico – simile all’allucinata ricostruzione di un delitto – che l’analisi spinge l’analizzante. 

 

 



[1]Tr. It. Sconosciuti in treno, Bompiani, Milano 2000.

 

[2]C. E. Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Milano, Garzanti 1957.

 

[3]U. Eco, Il nome della rosa, Bompiani, Milano 1980.

 

[4]La sceneggiatura è una ripresa dal racconto di Julio Cortázar"Las babas del diablo" (Gli sbavi del diavolo).

 

[5]In questo film si descrivono due vite possibili, e parallele, della protagonista, una giovane donna. Una è quel che le sarebbe successo se avesse preso in tempo un treno della metro di Londra a una certa ora, l’altra se per un pelo avesse perso quel treno.

[6]Il 18 Brumaio di Luigi Napoleone (1852).

 

Flussi © 2016Privacy Policy