Flussi di Sergio Benvenuto

PSICHIATRIA E CRITICA DELLA TECNICA. FRANCO BASAGLIA E IL MOVIMENTO PSICHIATRICO ANTI-ISTITUZIONALE [1]01/lug/2016


1.

          Certamente Franco Basaglia (1924-1980) è lo psichiatra italiano non vivente più noto agli italiani. Tutti o quasi nel nostro paese sanno che Basaglia ispirò “la legge 180” – approvata nel 1978 – “la legge che ha abolito i manicomi”; la si chiama infatti anche “legge Basaglia”. Egli gode in Italia della stessa mitica fama di cui gode tuttora Philippe Pinel in Francia: “il medico illuminato che liberò i malati mentali dai loro ceppi”.

          A dispetto di questa notorietà, però, il suo pensiero e il senso della sua azione – e quello dei suoi seguaci dell’associazione Psichiatria Democratica, tutt’oggi attiva – vengono di solito ampiamente fraintesi. Ad esempio, siccome le simpatie marxiste e radicali di Basaglia sono ben note, molti credono che egli abbia sostenuto una teoria sociogenetica della malattia mentale, del tipo “la gente esce fuori di matto perché la nostra società è cattiva” o cose simili. In realtà Basaglia non ha mai sostenuto teorie del genere – del resto, si è sempre ben guardato dal proporre qualsiasi ipotesi esplicativa sulle cause della malattia mentale.

Un altro equivoco consiste nel riportare l’opera di Basaglia alle tesi degli anti-psichiatri anglo-americani, come R. Laing, A. Esterson, D. Cooper, T. Szasz. Per questi anti-psichiatri, la malattia mentale in quanto tale non esiste, è una costruzione storico-culturale, è il risultato di una interpretazione sociale. Ora, Basaglia ha sempre respinto per sé l’etichetta di anti-psichiatra, anzi, ha ripetuto senza sosta “sono uno psichiatra, e quindi devo vedere la malattia mentale – che certo esiste – da psichiatra; solo che lotto contro le istituzioni psichiatriche”. Basaglia si è proclamato psichiatra anti-istituzionale, non anti-psichiatra – differenza cruciale.

Ma questo non significa nemmeno che, non proponendo alcuna teoria originale sulla malattia mentale, egli sia stato unicamente un uomo d’azione teoricamente ingenuo e cieco. In effetti, la sua azione riformatrice aveva come riferimento una concezione del senso della psichiatria che non condivido, ma certo altamente sofisticata. Questa sua concezione continua ad influenzare la pratica di molti psichiatri italiani.

 

2.

          Ho avuto modo di frequentare Basaglia nel 1971, quando egli mi accettò come stagiaire - in quanto studente in psicologia all’Université de Paris VII - all’Ospedale Psichiatrico (O.P.) di Trieste, di cui allora egli era (da poco) il direttore. Passai un paio di mesi in quell’ospedale. Devo dire che Basaglia mi dedicò molto tempo, discutendo animatamente con me le mie impressioni sulla vita dell’ospedale. Anche perché la sua stanza di direttore era sempre aperta, tutti potevano entrarvi.

All’epoca, Basaglia usciva dalla breve esperienza, sostanzialmente negativa, di direzione dell’O.P. di Colorno (Parma). A Trieste invece aveva trovato l’appoggio di un dinamico amministratore della DC dorotea, Michele Zanetti, presidente della provincia di Trieste, il quale – a differenza della “rossa” Parma – gli aveva dato carta bianca per realizzare i suoi progetti anti-manicomiali. Allora egli contava di superare il metodo della “comunità terapeutica” che aveva applicato all’O.P. di Gorizia (1961-69). Egli aveva ripreso quella formula comunitaria da Maxwell Jones, la cui esperienza aveva seguito di persona al Dingleton Hospital in Scozia. Soprattutto – questo va segnalato come fattore cruciale - aveva saputo dare una grande visibilità mediatica all’esperienza di Gorizia, che era già nota in Italia e all’estero[2]. Eppure ora per lui non si trattava più di applicare il metodo, democratico e tollerante, della comunità terapeutica al posto della struttura del vecchio manicomio gerarchico e burocratico: si trattava piuttosto di puntare all’eliminazione pura e semplice dell’O.P.[3] Rispetto all’epoca di Gorizia, la posizione di Basaglia, anche sotto l’influsso del clima del dopo-1968, si era radicalizzata.

          Ora, benché anch’io un po’ abbacinato dalla crescente celebrità di Basaglia, già allora non aderivo al suo sistema di valori. Gli avevo detto chiaro e tondo che tendevo alla psicoanalisi, che apprezzavo esperimenti come quelli della Clinique di La Borde (diretta da Jean Oury, a cui partecipava attivamente Félix Guattari)  – e Basaglia aborriva la psicoterapia istituzionale, proprio perché “istituzionale”. Secondo lui, difatti, non aveva senso sostituire le istituzioni psichiatriche tradizionali con istituzioni migliori, più aperte, più democratiche: un’istituzione curativa per lui era una contraddizione in termini. Eppure, benché non fossi sulla sua stessa lunghezza d’onda politica e culturale, frequentarlo in modo quasi quotidiano per un paio di mesi mi impressionò profondamente. Apprezzai in particolare le sue capacità - di psichiatra tradizionale - di entrare in contatto con i malati e di interagire allo stesso tempo con loro in modo fresco e competente.

 

3.

Basaglia si era nutrito a lungo della fenomenologia, sia filosofica che psichiatrica – autori come Husserl, Jaspers, Binswanger e Minkowski erano stati i suoi punti di riferimento. Da qui la sua ostilità alla psichiatria organicista e naturalista (all’epoca peraltro non così dominante come è oggi). Questa formazione, combinata a un’ispirazione in senso lato marxista - all’epoca di rigore in Italia – rende comprensibile la scelta del suo nemico essenziale: la tecnica.

          Basaglia diceva spesso che aveva dovuto superare la Grande Tentazione: quella di mettere a punto una nuova tecnica terapeutica delle psicosi – basata magari su una nuova, brillante, originale ipotesi sulla malattia mentale. In effetti, diceva spesso, anche se si inventa una tecnica più umanitaria, più relazionale, più democratica e permissiva, più interattiva, ecc., “sempre tecnica è”. La stessa psicoanalisi – di cui pur apprezzava il significato storico di svolta – veniva da lui considerata una tecnica, di cui diffidare quindi.

In effetti, il vero grande nemico contro cui Basaglia si è battuto tutta la vita non è stato tanto l’O.P., la psichiatria accademica o la società segregativa, ma è stata in fondo, da fenomenologo qual’era nel fondo, la Tecnica.

          Un giorno mi disse “sono convinto che l’elettroshock in molti casi è efficace; ad esempio nelle crisi di malinconia. Ma qui non lo usiamo per la sua connotazione violenta e repressiva”. Non era quindi l’efficacia terapeutica dell’elettroshock in questione. Eppure a Trieste si usavano molti psicofarmaci, e allora io, in modo impertinente gli chiesi “lei è contrario ad ogni tecnica? ma non a quella farmacologica”. Mi rispose che gli psicofarmaci erano un aiuto per superare la segregazione manicomiale. All’epoca non ebbi la prontezza di spirito di ribattergli “ma forse molte altre tecniche, psicoanalisi inclusa, possono aiutare a superare la segregazione manicomiale!” Insomma, a Trieste mi resi conto dell’importanza della psicofarmacologia; infatti, non sarebbe stata possibile l’eliminazione progressiva degli ospedali psichiatrici – e non solo in Italia – se non si fossero inventati psicofarmaci un tantino efficaci. La storia della psicofarmacologia e quella della demanicomializzazione, contrariamente a quel che si crede, sono tra loro indissolubili.

 

4.

          Si poteva obiettare che una cosa era il manicomio d’altri tempi – com’era il San Giovanni di Trieste che conobbi nel 1971 – e altra l’ospedale o clinica di tipo svizzero, efficiente, pulito, per terapie brevi ed efficaci. Eppure Basaglia e i suoi seguaci vedevano in tutte queste cose un continuum: quello del dominio tecnico. Ma che cosa c’era di così malefico nelle cure tecnicamente intese?

          Ora, quel che al fenomenologo rivoluzionario fa orrore della tecnica – e della scienza - è il suo potere di separazione. Tecnica, essenzialmente, è separazione - in genere, separazione dell’agente dal prodotto della sua azione. Ora, questa denuncia della tecnica risale per lo meno a Platone: Socrate aborrisce lasciare libri dietro di sé proprio perché il libro sopravvive al suo autore, è prodotto inerte, artificioso di un soggetto vivo, “se si fa una domanda a un libro, questo non risponde”. L’importante, da Platone ad Husserl fino a certi autori post-moderni (penso a Deleuze), è pensare l’avvento di produzioni che non si separino dal loro produttore o autore. Ora, se il mondo-della-vita viene pensato fenomenologicamente come tensione, movimento, dinamica, la tecnica sarà al contrario l’operazione che divide, incapsula in una stasi, isola un prodotto esso stesso alienato. Così, il manicomio viene pensato da Basaglia sia come prodotto della tecnica che come macchina (tecnica quindi) per separare. Questa separazione si consuma a vari livelli: il manicomio non solo separa il malato dal consorzio sociale vivo, integro, ma separa i suoi abitanti tra loro. Separa nettamente il medico psichiatra dai malati; al suo interno, il mondo dei curanti è gerarchicamente organizzato, e la gerarchia è forma di separazione. Inoltre, i reparti sono separati tra loro. Interpretava radicalmente il mondo ospedaliero come l’applicazione della forma di vita tecnocratica a ciò che, in quanto vitale ed eccentrico, vi sfugge.

          Quindi, la pratica dell’équipe di Basaglia si basava sulla promozione di una agitazione liberatoria: “creare il movimento”. Si facevano comunicare i reparti tra loro, quindi si aprivano le porte dell’ospedale, si favoriva un’osmosi crescente tra ospedale, quartiere e città. Si “aprivano spazi”: non solo fisici, ma anche di iniziativa sociale e di animazione. In seguito, attratti dalla popolarità dell’esperimento, sono venuti a collaborare a Trieste anche artisti e teatranti di grido. “Far circolare la gente”. Insomma, si opponeva al vecchio ospedale la libera circolazione del mondo-della-vita, della Lebenswelt, come temporalità e fluidità.

In effetti, Basaglia negava che l’istituzione ospedaliera – qualsiasi istituzione – potesse avere una storia: l’O.P., in quanto prodotto della psichiatria intesa come scienza-tecnica, è estraniante ed espropriante – senza storia. Difatti, all’epoca tutti gli orologi del San Giovanni erano fermi: come se l’istituzione fermasse il tempo astronomico. Per lui quindi l’O.P. era un’istituzione esemplare dell’universo tecnico: i pazienti, quei relitti umani, erano la follia che la società aveva separato da sé, messo fuori di sé, in un luogo rimosso dalla vista. Il manicomio era un prodotto che essa società tecnica si rifiutava di riconoscere come proprio: sotto-prodotto vergognoso di una cultura tecnoscientifica.

          Per un verso Basaglia denunciava l’ospedale psichiatrico e la vecchia psichiatria come “non curativi”. All’epoca egli convinse gli italiani che un malato nei manicomi di fatto non viene curato, ma solo depositato, controllato e custodito (cosa sostanzialmente vera, all’epoca). Ora, i più interpretavano questa denuncia nel senso che Basaglia proponesse invece una vera cura. Ma, come abbiamo visto, per un altro verso egli contestava le varie cure – dalle terapie di shock fino alle psicoterapie più interpersonaliste – come figure più o meno camuffate della mostruosa Tecnica. Eppure Basaglia pensava che i malati mentali andassero veramente curati. Curati nel senso inglese di care o di cure? Se ogni cure si rivela un’alienazione tecnocratica, quale care offrire allora a chi soffre? Come uscire da questa contraddizione?

Basaglia sembrava contare sul fatto che curare i malati dal manicomio – distruggendo così il manicomio, e qualsiasi istituzione ne avesse preso il posto – fosse anche ipso facto una cura della psicosi. Ma questo non implicava affatto una teoria assurda del tipo “i malati mentali vengono resi tali dal manicomio”. Basaglia ovviamente ammetteva che si diventasse matti anche al di fuori del manicomio. Ma lui pensava che, proprio nella misura in cui egli rinunciava ad ogni tecnica di cura (a parte gli psicofarmaci), potesse arrivare al nocciolo della cura, cioè a curare il soggetto da quella separazione in cui, almeno in parte, consiste la sua malattia. Egli pensava insomma che le malattie mentali fossero doppie: da una parte c’è la malattia vera e propria – sulla cui origine e natura si guardava bene dal pronunciarsi – dall’altra il “doppio” di essa. Il tema del Doppio gli veniva certamente da Antonin Artaud, poeta e psicotico. Basaglia vedeva quindi la malattia mentale come da una parte un prodotto della divisione tecnica della soggettività, dall’altra il doppio che la tecnica ha fatto della follia stessa. La follia con cui egli si confrontava era quel doppio che la società tecnocratica ha fatto di essa, segregandola non solo fisicamente in qualche ospedale, ma anche scientificamente – in qualche DSM ad esempio - separandola concettualmente dal flusso della vita. Per lui la priorità era la cura del doppio della malattia, prima che della malattia stessa.

 

5.

          Già allora, ero perplesso sull’applicazione sistematica del principio triestino di cacciar via i pazienti dall’ospedale non appena possibile. Avendo potuto vedere talvolta il luogo originario da cui molti di questi pazienti provenivano, mi sembrava che dopo tutto potessero star meglio nell’ospedale – dove avevano contatto quotidiano con persone sensibili, tolleranti e molto sollecite – anziché nel “territorio” insensibile e intollerante. Territorio: termine ubiquo, obbligatorio nel linguaggio politico e intellettuale dell’Italia fino agli anni 80.  Il territorio – termine poi passato alla burocrazia statale - era allora pensato come il luogo della vita autentica, della natura naturans che non è stata ancora separata, né divisa, né gerarchizzata dalle istituzioni.  Molto spesso però questo “territorio” dove bisognava rimandare il paziente era di fatto un inferno peggiore del manicomio – anzi, il vero manicomio da cui il soggetto fuggiva, magari grazie alla psicosi...

          Il voler rimandare ogni malessere soggettivo al luogo sociale originario mi appariva un modo di rifiutare una domanda individuale molto importante: quella del soggetto che vuole isolarsi e dipendere da altri, temporaneamente, per sottrarsi a un inferno. Mi sembrava che l’équipe basagliana non volesse affatto prendersi cura di un bisogno di allontanamento dal proprio focolare, di infedeltà alle proprie origini, insomma di scorbutica solitudine: la separazione individualistica, agita nella crisi psicotica, veniva moralisticamente condannata dallo “psichiatra democratico”. Da qui il mio sospetto che al fondo del basaglismo ci fosse un’etica segretamente autoritaria.

          A Trieste, inoltre, mi lasciava perplesso una certa pudica ritrosia degli operatori, coerenti col progetto del capo, nell’auto-analizzare i loro conflitti, e in genere tutto “l’irrazionale”, insomma tutte le dinamiche interpersonali ben note. Quando facevo presente questa esigenza di riflettere anche su se stessi come “soggetti in sofferenza” nel lavoro quotidiano, venivo benevolmente deriso come uno traviato dalla mentalità psicoanalitica. In effetti, a Trieste nell’équipe curante si poteva parlare solo dei bisogni dei degenti, del lavoro da fare, dell’attività che chiamerei centrifuga. L’azione e la riflessione andavano sempre in un senso solo, dal curante al curato, non andavano mai centripetamente all’interno del campo dei “tecnici” (come gli operatori di Trieste ironicamente chiamavano se stessi, come a voler sottolineare l’impossibilità di uscire dalle tecniche...) in forma di riflessione su se stessi come tecnici. Paradossalmente per una équipe che si voleva anti-tecnocratica, trovavo alquanto tecnocratica questa divisione per cui tutta la riflessione e l’azione andavano a senso unico. Solo i pazienti avevano bisogni, spesso anche elementari, ma “i tecnici” no…

Alla psicoanalisi si possono fare molte critiche, ma essa comunque da una cosa ci disincanta: dall’idea che la cura psichiatrica sia sempre transitiva e a senso unico, che essa vada dall’operatore al paziente come l’atto creativo va da Dio alla creatura senza mai fare feedback. La psicoanalisi ci convince che il terapeuta è egli stesso parte del processo i cui effetti possono essere terapeutici. Con i basagliani, invece, mi sorgeva il sospetto che si trattasse in qualche modo di un’impostazione “classista”: il paziente veniva assimilato al “proletario” e l’operatore “democratico” veniva assimilato al Partito della tradizione comunista – formato di solito da un’intellighentja borghese –, all’Intellettuale onnisciente che indirizza la massa proletaria verso la sua Liberazione.

Come spesso capita, sono gli allievi – meno brillanti del maestro – a rivelare meglio la verità non-detta dal maestro. Negli anni 70 uno dei migliori seguaci di Basaglia si separò dal mainstream del maestro e creò un’iniziativa di psichiatria territoriale, per così dire, in un piccolo centro dell’Italia del Sud. Mi parlò a lungo del suo metodo di cura di tipo socio-terapeutico, che consisteva sostanzialmente nel politicizzare il malessere individuale facendone un’occasione di coinvolgimento generale, evidenziando e sfruttando insomma il significato e il contesto socio-politico generale del sintomo patologico. Un approccio alla moda negli anni 70, in molti paesi europei. Ma la cosa mi puzzava un po’, per cui gli chiesi: “ma se io per esempio stessi male, se ad esempio io avessi degli attacchi fobici, il tuo metodo come funzionerebbe con me?” Il Nostro mi rispose che con me non c’era niente da fare, perché ero un intellettuale borghese, troppo smaliziato: il suo “metodo” funzionava solo con la povera gente di quel paese, con “la massa” - insomma con gli ignoranti... Chiaramente si trattava di una psichiatria classista, nel senso più puro del termine. Il presupposto tacito era questo: “Noi intellettuali borghesi non possiamo essere veramente oggetto di cura, ma solo soggetti politici curanti: siamo come i missionari cristiani, che vanno a convertire i selvaggi senza ovviamente aspettarsi di essere convertiti da loro.” Lo psichiatra illuminato, “democratico”, è pura Volontà Politica disincarnata che scende dall’alto verso le masse oppresse, ingannate e sfruttate. Non c’è loop, ritorno, del soggetto emancipandum sul soggetto emancipans. Certo Basaglia non ha mai sostenuto cose del genere, ma di fatto la sua pratica missionaria autorizzava e fomentava impostazioni simili.

 

6.

Alcuni basagliani di Trieste erano persone stimabili ed entusiaste, ma il grosso mi sembrava costituito, all’epoca, da comunistelli un po’ saccenti inclini alle simplifications terribles. Ricordo che una volta uno di questi in una riunione pubblica cominciò un’arringa per una strategia di liberazione, “dobbiamo operare affinché i ricoverati si rendano conto della loro realtà di sfruttati…” ma subito si fermò perché si rese conto che quei pazienti potevano lamentarsi di tutto tranne che di essere sfruttati (l’ergoterapia non era praticata), e continuò “…o per lo meno della loro realtà di poverelli”. Fosse il cielo se qualcuno dei pazienti avesse potuto essere “sfruttato” in una fabbrica con un regolare contratto e ferie pagate! Ma la retorica dell’epoca esigeva che un poverello dovesse essere anche uno sfruttato, e viceversa. Ogni epoca ha la sua retorica predominante, ma all’epoca quella che circondava Basaglia non mi piaceva.

Comunque, quel non voler riflettere l’azione su se stessi come operatori era coerente con quella metafisica della riappropriazione che permeava l’équipe di Trieste. In effetti, se gli psichiatri-militanti avessero riflettuto su se stessi come soggetti patetici (ovvero, con loro pathos) aldilà del loro compito o progetto, questo sarebbe stata già psicoterapia. Ma problematizzare se stessi era indulgere a quel che Basaglia chiamava estetismo.

L’estetismo per lui era soprattutto quell’atteggiamento che tende a vedere un valore proprio alla povertà e alla sofferenza, che fa di queste una “cultura” da rispettare come tale, che tende insomma a simpatizzare con povertà e sofferenza non per eliminarle ma per contemplarle e intenerirsene. Egli avvertiva questa simpatia compartecipativa per il mondo dei diseredati e dei malati come un pericoloso tranello. Probabilmente egli pensava a psichiatri-scrittori come Mario Tobino (1910-1991), che hanno saputo scrivere pagine commoventi su alcuni loro pazienti, restituendo anche il lato tragico, e quindi sublime, del manicomio. Egli citava come pessimo esempio lo “specialista in poveri” Oscar Lewis, ma forse pensava anche a Pasolini, che ha saputo rendere affascinanti persino le tetre e losche borgate romane dell’epoca (la denuncia tanto spesso slitta in poetica nostalgia). Egli portava piuttosto a modello il vecchio filantropo anglosassone – un po’ come il Maxwell Jones a cui si era inizialmente ispirato - che non aveva alcuna simpatia nemmeno estetica per la miseria, che aveva solo fretta di mitigarla o eliminarla.

 

7.

La mia impressione però è che l’azione in senso lato politica dell’équipe di Basaglia sortiva talvolta anche effetti che chiunque chiamerebbe curativi. Ma allora, perché non pensare che quella era pur sempre una tecnica, la “tecnica Basaglia” di cura delle psicosi? Eppure Basaglia sarebbe montato su tutte le furie se gli avessi detto che la sua azione era una tecnica. Sarebbe stato come elogiare un missionario presso una popolazione indigena per la sua “tecnica pastorale”: è la fede a convertire, non una tecnica... Basaglia auto-criticava la sua esperienza di comunità terapeutica a Gorizia che pur lo aveva reso celebre, proprio perché anche la comunità terapeutica era pur sempre una tecnica di cura. Per lui la cura consisteva nell’emancipazione, sociale e individuale, del malato. Certo Basaglia ammetteva che nella sua strategia giocava la seduzione: “devo sedurre un eroinomane se voglio parlargli e non fargli l’elettoshock”[4]. Ma la seduzione non era per lui tecnica, era parte della dinamica della vita, non separazione da essa.

Dunque, in Basaglia e nei suoi seguaci non c’era alcuna velleità di costruire una nuova scienza psichiatrica, foss’anche basata sulla libera dinamica intersoggettiva, tipo radical therapy o gestalt therapy; l’idea stessa di “scienza liberatoria” appariva loro una contraddizione in termini. Per loro, la sola scienza psichiatrica, dopo tutto, è quella che si impara all’Università (compresi magari Binswanger e Minkowski...). Il punto era sovvertire il prodotto della scienza: la separazione che essa socialmente produce. Questo punto sfuggiva e tuttora sfugge a molti intellettuali di sinistra che credono di conoscere il basaglismo. Spesso a Trieste arrivavano in visita frotte di turisti-militanti della Rivoluzione il cui leit motiv era: “contro la vecchia psichiatria, qui a Trieste si fa vera scienza psichiatrica, quella nuova!” Costoro venivano subito sconfessati e spesso apertamente derisi dall’équipe di Trieste.

Ora, per Basaglia, anche se ogni prassi può essere interpretata come (ridotta a) tecnica, quel che era importante è che non si consumasse un distacco del soggetto dal suo atto. Attaccando le tecniche e le gerarchie professionali, Basaglia denunciava appunto questo distacco, matrice di ogni frammentazione. Perché le tecniche sono anche tra loro separate. In effetti le tecnoscienze si presentano come reciprocamente emancipate, autonome, frammentate: sono specialismi. Contro il mondo frammentato e specializzato di quelle che de Carolis (2004) chiama tecnoscienze umane – che eseguono la volontà di controllare e manipolare gli uomini – Basaglia opponeva quel che la fenomenologia chiama “mondo della vita”: i bisogni, la storia, l’entusiasmo, il senso.

Ora, questo progetto romantico di totalità indivisa della Vita non poteva affatto sedurmi, in quanto già allora non amavo la Totalità. Consideravo le tecniche una parte della vita, non anti-vita che l’aliena. Anche se oggi la tecnica consente di manipolare la nostra stessa vita biologica, di modificarla come si modifica qualsiasi altro meccanismo, essa resta pur sempre parte di quella vita che osa modificare.

 

8.

Abbiamo detto che la pluralità e la frammentazione erano per Basaglia il doppio. Doppio di ciò che per un fenomenologo rivoluzionario è la realtà vissuta, l’esperienza della vita come Erlebnis. La separazione tecnocratica, duplicativa, della vita da se stessa – che priva di senso la vita e la sofferenza - produce qualcosa che possiamo vivere solo come merda. Nel discorso di Basaglia proliferavano le metafore scatologiche. Per esempio, si riferiva ai degenti dell’O.P. come a rifiuti o escrementi sociali; il suo insulto preferito era “merda”. In effetti, il sapere-potere tecnocratico, nella misura in cui crea forme frammentate, inevitabilmente esclude, rigetta, segrega qualcosa che quindi scade a reale escremenziale. La tecnoscienza è chiamata continuamente a gestire ciò che essa ha rimosso e quindi per ciò stesso prodotto, come l’O.P. E se ci fosse una dottrina basagliana dell’inconscio psicoanalitico, essa suonerebbe certamente così: il rimosso, l’inconscio, è solo in apparenza ciò che l’analisi fa emergere, è piuttosto l’effetto della psicoanalisi stessa che, in quanto tecnica, è rimuovente.

Ma il punto è: ogni atto de-separante e de-tecnicizzante a sua volta, nella misura in cui si “realizza”, non produce esso stesso effetti-rigetti, non tende a ricadere come esso stesso doppio, come forma inerte? Raggiungere il senso pieno – il flusso della vita indivisa – è in effetti sempre una prospettiva al meglio asintotica: ogni atto tende ad arrestarsi alle soglie della vera vita. La Rivoluzione è sempre aldilà, dopo, di là da venire, insomma escatologica. Nel presente, in fondo, abbiamo sempre e solo a che fare con quella merda del doppio. Potremmo dire che fuori della scatologia sociale c’è solo… l’escatologia. Questo è il tarlo che rode ogni vitalismo fenomenologico (anche degli psicoanalisti sedotti dalla fenomenologia): hai voglia di distruggere le istituzioni, esse si ricostituiscono sempre spontaneamente, come se la vita stessa avesse una particolare predisposizione ad alienarsi, a frammentarsi in separazioni. E questo vale anche se si tratta di manicomi: essi tendono diabolicamente a ricostituirsi, non appena l’entusiasmo e la febbre libertari dei liberatori si afflosciano.

 

9.

Ma come considerare la vita nella sua unità indivisa? Ovvero, in quale forma la vita si presenta in modo autentico, non separata da sé? Per Basaglia questo modo originario di manifestazione della vita erano i bisogni. E’ a questi che occorre finalmente rispondere e corrispondere. Il matto, diceva Basaglia, “è una persona che ha particolare bisogni che però potrebbero trovare risposte adeguate prima di arrivare a esprimersi nella forma codificata della ‘malattia’”[5]. La malattia psichiatrica è un doppio – un artefatto sociale - attraverso cui però si esprimono bisogni fondamentali.

Da notare: bisogni non desideri. Questa terminologia all’epoca creava qualche problema con i colleghi francesi, intrisi di pensiero post-strutturalista e di macchine desideranti deleuziane, i quali venivano in pellegrinaggio in Italia, un po’ invidiosi dei successi, politici e mediatici, dei riformatori italiani: a loro non piaceva che si parlasse di bisogni, preferivano parlare di désir. Questo perché gli italiani, a differenza dei francesi, erano stati permeati dal marxismo lukacsiano: questo parlava di bisogni, non romanticamente di desideri[6].

Di fatto il termine bisogno connotava quello che chiamerei un “desiderio socialmente legittimo”. Un certo moralismo sinistrorso portava gli operatori di Psichiatria Democratica a rifiutare i desideri come capricci piccolo-borghesi alquanto ridondanti: i bisogni invece sono cose serie, da cui non si può prescindere. Ma chi decide se un certo desiderio è un vero bisogno o è solo... desiderio? Ovviamente lo “psichiatra democratico”, che è in possesso del rasoio per discriminare.

Ad esempio, Basaglia mi disse una volta che “un vero bisogno” dei malati era quello di avere la carta igienica, non quello di avere carta igienica patinata o di color rosa; questi ultimi erano “bisogni ideologici”, insomma non vero bisogno. Certo che il desiderio di carta igienica raffinata può portare a disturbi intestinali, diceva, “anche una diarrea può essere ideologica”. Questa battuta della diarrea ideologica mi aveva molto impressionato. Dopo tutto, qualsiasi sintomo nevrotico, per un lukacsiano fenomenologo, esprime un bisogno ideologico. Ma perché quello di carta igienica basic sarebbe un bisogno vero? Perché non usare l’acqua, rinunciando anche alla carta igienica? Del resto, per i saggi taoisti o per i filosofi cinici greci, il bisogno per qualsiasi oggetto era inessenziale (“ideologico”) - salvo per un oggetto, la ciotola (ma Diogene gettò via anche quella). Insomma, a partire da quale momento un manufatto soddisfa un vero bisogno o crea desideri, ovvero bisogni ideologici? Il limite tra bisogno –  come desiderio che è legittimo soddisfare – e desideri non è mai assoluto, ma storicamente fluttuante: dipende da ciò che una società, in una particolare fase di sviluppo dei beni di consumo, considera bene indispensabile o meno. Oggi il comfort hi-tech è la nostra ciotola.

Insomma, l’appello ai bisogni significava, di fatto, che era il tecnico psichiatra a decidere quale bisogno fosse legittimo, e cosa fosse ideologia. Eppure i desideri sono quel che fa la differenza tra un soggetto e un altro. Certo Basaglia si batteva contro le disuguaglianze: ma la soluzione non mi sembrava, allora come ora, consistere in un’eguaglianza forzata, nell’eliminazione delle differenze di desideri e dei desideri come differenze, dello sciogliersi dei vari io necessariamente separati nella melassa di una Totalità sociale spessa, avvolgente, senza scampo.

 

10.

Ma una volta che, alla fine, l’istituzione sarà stata del tutto eliminata, come articolare il sospirato “lavoro nel territorio”? Basaglia è morto prima di aver potuto vedere l’applicazione estensiva della legge 180. Bisogna dire che la de-manicomializzazione è stata una tendenza largamente condivisa in tutto l’Occidente all’epoca. Di fatto, l’Italia ha partecipato al trend generale – anche nei paesi anglofoni il community care ha largamente sostituito le istituzioni ospedaliere. L’eliminazione degli ospedali psichiatrici pubblici era già cominciata in California quando Ronald Reagan ne era il governatore (1967-1975). Di fatto, senza legge 180, altri paesi hanno fatto meglio e di più dell’Italia quanto a demanicomializzare, senza mettere il carro di una legge davanti ai buoi della de-istituzionalizzazione di fatto. Ma è notevole che, a parte le star pittoresche dell’anti-psichiatria anglo-americana, solo in Italia questa linea vincente in tutto l’Occidente abbia avuto una formulazione culturalmente seduttiva e sofisticata: Basaglia è noto in tutto il mondo proprio per la sua straordinaria capacità promotrice brillante, intelligente, provocatoria delle proprie idee.

Quanto allo stato della psichiatria oggi in Italia, mi è difficile avere una veduta d’insieme esaustiva. La mia impressione è che la “legge Basaglia” abbia di fatto cambiato (soprattutto nel Centro-Nord) l’assistenza pubblica, ma ha probabilmente incrementato la privatizzazione dell’assistenza psichiatrica (proprio il contrario di quel che allora volevano i basagliani). La psichiatria italiana, grazie anche a Basaglia, si è “reaganizzata”.  Il che non è male: mi pare che il pubblico collabori in modo crescente con le cliniche o le iniziative private - sia con le migliori che con le peggiori. Ma mi chiedo se per un basagliano della prima ora questo non sia un “effetto perverso”, come si dice in sociologia: quando l’applicazione concreta di una Grande Riforma porta a risultati ben diversi da quelli auspicati. Ma forse questo processo – dove privato e pubblico collaborano in modo sempre più stretto - segna una tendenza che va ben oltre le ideologie di sinistra o di destra.

Che resta del basaglismo una volta che il suo progetto politico giunge a compimento? Di fatto, gli eredi di Basaglia si sono riciclati in quelle tecniche – dalle psicoterapie alla psicofarmacologia – che il loro maestro aveva escluso eticamente, anche se non praticamente. Se si vuole evitare che si ricostituisca il vecchio manicomio, un buon uso delle tecniche più efficaci diventa una condizione indispensabile. Col tempo Psichiatria Democratica ha perso quasi del tutto la sua carica anarchica, eversiva, visionaria: i suoi membri gestiscono in modo talvolta efficiente i servizi psichiatrici nel territorio. Dalla “lotta” si è passati alla “gestione dei servizi”. Il basaglismo è evocato con nostalgia, come un ricordo dei bei tempi radicali che furono, tipo La meglio gioventù. Ma come Basaglia avrebbe considerato questo rinsavimento tecnocratico del suo movimento?

Il problema se l’era già posto quando, nel novembre 1979, fu chiamato a Roma per gestire l’applicazione della “sua” legge 180 nella regione Lazio. Allora occorreva pensare a cure senza istituzione forte, ospedaliera – ma come pensarle aldilà delle tecniche? In pratica, la legge è stata applicata sostituendo il manicomio con case-famiglia: i malati sono alloggiati, di solito in piccoli gruppi, in case private, dove sono seguiti da una équipe curante dall’esterno.

Basaglia e i suoi seguaci aborrivano l’idea stessa di psichiatra privato. Tutte le cliniche psichiatriche private, soprattutto quelle con una vasta clientela e lauti profitti, erano oggetto di totale disprezzo: “industriali della follia” li si chiamava. Ma perché questa ripulsa etica profonda non valeva per l’intera medicina? Un famoso chirurgo che opera migliaia di pazienti agli occhi, non è anche lui un “industriale della cataratta”? Di fatto, ogni medico vive grazie ai malanni della gente. Ogni terapeuta, anche se umanitario, deve per altri versi augurarsi che molta gente stia male, altrimenti come potrebbe vivere? Basaglia e i basagliani avevano preso molto sul serio questa contraddizione: per loro, la medicina privata era implicitamente immorale.

Ma allora, come impedire che anche lo psichiatra pagato dallo stato diventi uno che viva della sofferenza altrui? Basaglia citava la norma che vigeva un tempo in Cina, dove il medico era pagato tanto più quanto più la gente era sana: per ogni malato, lo stipendio diminuiva. Insomma, il vero lavoro psichiatrico avrebbe dovuto essere preventivo: una sorta di bonifica ecologica per prevenire la malattia. Ma con quali strumenti, quali tecniche? Di fatto Basaglia stesso non ne aveva un’idea precisa.

 

11.

E’ facile dire oggi che, in Italia, il basaglismo è gesta del passato. Eppure, malgrado tutte le riserve che non ho nascosto in questo scritto, credo che Basaglia non sia solo una reliquia dei nostri anni ruggenti pieni di sogni e illusioni. In effetti, la sua sfida al primato delle tecniche ha una particolare attualità oggi: a differenza dell’epoca di Basaglia, la tecnica psichiatrica oggi davvero trionfa. La psichiatria del DSM si propone come scienza rigorosa del malessere umano che promette la soluzione tecnica dei problemi spirituali. Anche se la ripulsa della scienza e della tecnica da parte di Basaglia non è certo la risposta, indubbiamente però, anche se in altre forme, bolle un’insofferenza allo stesso tempo etica e filosofica per le pretese crescenti della scienza di risolvere tecnologicamente i nostri problemi e sofferenze spirituali.

 

Riassunto

 

Attingendo dalla sua esperienza di stagiaire all’ospedale psichiatrico di Trieste nel 1971 e dal suo rapporto anche personale con Franco Basaglia, l’autore ricostruisce i punti fondamentali del progetto di Basaglia e in parte dei suoi seguaci. Lega la sua missione anti-istituzionale, in apparenza squisitamente politica, a una prospettiva etica e teorica generale, quella della filosofia e psichiatria fenomenologiche, da cui Basaglia aveva attinto i presupposti fondamentali; in particolare, l’utopia di Basaglia consisteva nel cercare di eliminare gradualmente l’approccio tecnico (separante, frammentante) non solo dalla cura delle malattie mentali, ma dalla vita sociale in generale.

 

Summary

 

Key words: Franco Basaglia – Italian “Psichiatria democratica” – Criticism of the Technicality

 

Drawing on his experience as intern at Triest psychiatric hospital in 1971 and on his personal relationship with Franco Basaglia, the author reconstructs the fundamentals of Basaglia's project, and in part of that of his followers.  He connects his anti-institutional mission, only apparently purely political, to a general ethical and theoretical perspective, that of phenomenological philosophy and psychiatry, from which Basaglia himself drew the basic assumptions; more specifically, Basaglia's Utopia consisted in trying to gradually get rid of the technical approach (which separates and fragments), not only for the treatment of mental illness, but for social life in general.

 

 

Bibliografia

 

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[1] Versione italiana, rielaborata, dell’intervento al Xth International Meeting of the IAHP (Paris, 21-24th July 2004) "Psychoanalysts and Psychiatrists. A long and complex History ". Pubblicata come “Franco Basaglia e il movimento psichiatrico anti-istituzionale in Italia”, Psichiatria e psicoterapia, vol. XXIV, n° 3, settembre 2005, pp. 186-196.

 

 

 

[2] Alcuni mesi prima lo avevo presentato (e gli avevo fatto da interprete) in un pubblico confronto alla Città Universitaria di Parigi: e avevo potuto constatare, dal folto pubblico e dal tenore del dibattito, quanto egli fosse già popolare in Francia.

 

[3] La sua opera di smantellamento è stata portata a termine poi da Franco Rotelli, succedutogli alla direzione dell’O.P. di Trieste.

[4] Intervista a il manifesto, 7 settembre 1979.

 

[5] Intervista a Le Voci, 7, 1979, rivista dell’ospedale psichiatrico S. Maria della Pietà a Roma.

 

[6] L’intellighentja italiana degli anni 60 e 70, dominata dal marxismo, si era formata su Gramsci, e anche sul marxismo mitteleuropeo (soprattutto Lukacs) e sulla scuola di Francoforte (Horkheimer, Adorno, Marcuse). Non a caso negli anni 80 ebbe una vasta eco in Italia la teoria dei “bisogni radicali” della lukacsiana Agnes Heller. L’influsso del post-strutturalismo francese nella cultura italiana è stato tardivo e in fondo effimero; esso non ha alcuna misura, ad esempio, con l’influenza profonda che la cultura francese degli anni 60 e 70 ha avuto su quella americana fino ad oggi.

 

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