Flussi di Sergio Benvenuto

L'allucinazione e la fenomenologia (2015)13/mar/2017


   

1. Non costruire, vivere

Proponiamo qui una rilettura delle pagine che Maurice Merleau-Ponty ha dedicato all’allucinazione nella Fenomenologia della percezione,[1] che ben illustrano l’approccio fenomenologico a un sintomo psichiatrico. Se non altro perché nel corso del Novecento la fenomenologia ha goduto di molta fortuna nel campo della psichiatria. Mostreremo come proprio da questa analisi dell’allucinazione emergano con chiarezza i limiti filosofici dell’approccio fenomenologico in psichiatria, e alla soggettività in generale. Abbozziamo una decostruzione del discorso fenomenologico che metta in questione il senso profondo della psichiatria fenomenologica, e dei suoi presupposti teorici.

Per Merleau-Ponty l’allucinazione svolge un ruolo filosoficamente strategico: la porta come “controprova” della riflessione da lui sviluppata nel capitolo “La cosa e il mondo naturale”. Controprova significa qui dimostrare in altro modo quel che si era già dimostrato prima. Siccome chiamiamo allucinazione la (apparente) percezione di cose che non esistono, per Merleau-Ponty questo caso-limite del nostro “essere nel mondo”, se correttamente descritto, comproverebbe la descrizione fenomenologica del rapporto percettivo di ciascuno col mondo naturale.

Merleau-Ponty contrappone la descrizione fenomenologica dello stato allucinatorio ai due approcci filosofici classici, che chiama “empirismo” e “intellettualismo”. Di fatto intende le propaggini dei due grandi filoni filosofici del Sei-Settecento: l’empirismo e il razionalismo cartesiano. Il primo punta alle spiegazioni scientifiche dell’allucinazione, il secondo si focalizza sul rapporto tra credenza allucinatoria e cogito.

Eppure, egli nota una parentela profonda tra “spiegazione empirista” e “riflessione intellettualista”: “Entrambe costruiscono il fenomeno allucinatorio anziché viverlo”.[2] Questa opposizione tra costruire e vivere va ben oltre il caso dell’allucinazione: abbiamo da una parte la costruzione delle filosofie classiche – empirista e razionalista –, dall’altra il vivere fenomenologico di fronte a ogni esperienza. Ovvero, la fenomenologia non ricostruisce mai la nostra esperienza perché non la dà come qualcosa di costruito, e che quindi potrebbe essere decostruito, scomposto: descrive la nostra esperienza nel suo darsi immediato, intero, indivisibile alla nostra coscienza. La formulazione di Merleau-Ponty è equivoca, tuttavia, in quanto certo il fenomenologo, da filosofo, non “vive” l’allucinazione più di quanto non la viva l’empirista e il cartesiano.

Comunque Merleau-Ponty non restringe il suo esame all’allucinazione negli stati psicotici, considera qualsiasi caso allucinatorio, anche di chi ha preso sostanze allucinogene o è alcolizzato. Il filosofo “vive” l’allucinazione nel senso che egli riporta l’esperienza allucinatoria alla nostra esperienza detta normale delle cose e del mondo; essendo “normale”, si presume che tale esperienza sia vissuta da tutti (o quasi). Perché, come si vedrà, anche se l’allucinazione è un’esperienza del tutto speciale, essa risulta comprensibile (non spiegabile!) se ci riportiamo a qualcosa che lui chiama il “mondo antepredicativo”. Questo mondo si era affermato in un’epoca (la prima infanzia?) in cui il mondo non era ancora stabilmente costituito dall’intenzionalità della coscienza.

Merleau-Ponty riconosce alla tradizione intellettualista in psichiatria il merito di una distinzione fondamentale: che le allucinazioni sono qualcosa di assolutamente diverso dalle percezioni. Ovvero, le allucinazioni non sono percezioni di oggetti inesistenti. (Va detto che le neuroscienze confutano questa tesi almeno per quanto riguarda le allucinazioni di non psicotici, dette sindrome di Bonnet: quando queste visioni o ascolto di voci si producono, si attivano le stesse aree e percorsi cerebrali di quando si percepiscono immagini e suoni.[3] Ma nella fenomenologia si tratta davvero della stessa "percezione" di cui parlano le neuroscienze? Si tratta dello stesso oggetto in entrambi i discorsi, o per il fenomenologo la perceziopne è in una categoria diversa da quella dell'oggetto osservato dallo scirenziato? )

È vero comunque che gli psicotici allucinati distinguono nel loro discorso percezioni e allucinazioni, non le situano sullo stesso piano ontologico. O le separano come appartenenti a due livelli del tutto diversi di contatto con il reale, o le descrivono come un contatto con realtà di ordine diverso dalla realtà con cui le percezioni ci mettono a contatto. “L’allucinato”, precisa Merleau-Ponty, “non può udire o vedere nel senso forte di queste parole.”[4] E scrive: “Se i malati dicono così spesso che si parla loro per telefono o per radio, è appunto per esprimere che il mondo morboso è fittizio e che gli manca qualcosa per essere una ‘realtà’”.[5]

Comunque, per Merleau-Ponty il razionalista cartesiano, anche se intuisce che gli allucinati non percepiscono, descrive però l’allucinazione come un giudizio o una credenza infondati. Invece, ribatte Merleau-Ponty, “i pazzi non credono di vedere” gli oggetti allucinati. Siccome l’allucinato non pone l’allucinazione come vera, non bisogna considerare quest’ultima un giudizio o una credenza.

Certo potremmo obiettare a Merleau-Ponty che il termine “credenza” è quanto mai problematico, ed esprime posizioni soggettive molto diverse. Merleau-Ponty dà a “credenza” una precisione semantica che nell’esperienza e nel linguaggio concreti non si dà mai. Per esempio, spesso gli allucinati descrivono quel che vedono o sentono allucinatoriamente come certezze. Che rapporto c’è tra certezza e credenza? Non è detto che la certezza sia un caso-limite della credenza, che sia una credenza senza dubbi. Del resto, se qualcuno si dice “certo” dell’esistenza di Dio, allora certezza ha lo stesso senso di quando lo stesso dice di essere certo del fatto che prima o poi morirà? Qui i ricorsi al termine “certezza” rimandano a “credenze” che non investono lo stesso livello ontico, possiamo insomma sospettare una omonimia nel qualificare esperienze diverse come “certe”. Allora, se è vero che gli allucinati non credono di vedere, l’evidenza allucinatoria per lo psicotico è qualcosa dell’ordine della fede? Nemmeno questo può essere detto.

Scrive Merleau-Ponty: “Quando l’allucinato dice di vedere e di udire, non si deve crederlo, giacché egli dice anche il contrario, ma si deve comprenderlo”.[6] Comprendere: ecco il progetto di ogni descrizione fenomenologica. E comprendere fenomenologicamente l’allucinato non significa affatto comprendere in che cosa egli creda. Cercheremo qui di comprendere il senso vero della comprensione fenomenologica.

 

2. Mondo geografico e paesaggio

L’allucinazione quindi non è una credenza, essa – ripete più volte Merleau-Ponty – è un’impostura. Non vuol dire ovviamente che l’allucinato sia un impostore, ma che l’allucinazione è essenzialmente impostura. L’allucinazione è impostura, per Merleau-Ponty, perché viene vissuta e descritta come se fosse una percezione, senza essere tale. Ma se non è percezione di qualcosa, qual è il suo noema? Il noema, appunto.

L’atto fondamentale della fenomenologia è l’epoché, ovvero sospendere l’assenso alle credenze del buon senso, sul quale si basa anche la conoscenza scientifica; ma quel mondo che il buon senso e la scienza – chiamerò entrambi il Buon Sapere – danno per realmente esistente e indipendente dalla nostra coscienza non per questo scompare agli occhi del fenomenologo. Sia questo mondo esterno sia la nostra coscienza sono dati originari della nostra intuizione, e quindi possono essere descritti rigorosamente a partire dalla loro evidenza, ovvero a partire dall’esperienza vissuta (Erlebnis) che abbiamo di essi. Allora il contenuto della fenomenologia è in qualche modo doppio: da una parte abbiamo il mondo quale si mostra all’interno del Buon Sapere e delle sue credenze (anche se la fenomenologia sospende le credenze a esso connesso); dall’altra abbiamo il mondo quale appare nella “visione originalmente offerente” (Husserl), il mondo così come risulta dal flusso delle Erlebnisse. Husserl chiamò noema il mondo tematizzato dalla fenomenologia. Da una parte quindi il mondo tematizzato dal Buon Sapere, dall’altra il mondo come “residuo” dell’epoché fenomenologica, il noema.

In verità, il mondo del Buon Sapere e il noema sono due gemelli che pochi distinguono; ci vuole mamma fenomenologia per differenziarli senza fallo. Di fatto, ogni analisi fenomenologica è sempre sul filo di un discrimine molto sottile, per cui da una parte abbiamo il mondo così come lo conosciamo e lo pensiamo tutti noi, filosofi e non, e dall’altra lo stesso mondo ma come raffinato, trasfigurato dalla riduzione fenomenologica che lo distilla in noema. Si rinnova così con la fenomenologia una specie di Aufhebung nel senso di Hegel. Ovvero, il mondo banale del Buon Sapere viene cancellato, sollevato e conservato nella trasfigurazione fenomenologica. Questa distillazione è l’orgoglio di ogni fenomenologo ma è anche, come vedremo, la sua miseria: il mondo super-purificato dalla riduzione trascendentale è pur sempre l’ombra esangue di quel mondo impuro, sporco, pre-giudicato, “superstizioso” nel quale tutti noi umani viviamo. Nel caso dell’allucinazione, quindi, il fenomenologo esercita un’Aufhebung delle concezioni empirista e intellettualista (espressioni del Buon Sapere) tematizzando l’allucinazione come noema. Ma il punto è questo: come descrivere in quanto noema un modo di coscienza privo di mondo – “mondo” anche nel senso del buon senso – qual è l’esperienza allucinatoria?

Se l’allucinazione non è una percezione né un giudizio, in quale luogo dell’essere prende posto? Non nel “mondo geografico”, scrive il Nostro – non nel mondo cartografato dal Buon Sapere – ma, dice, nel “paesaggio individuale”. Egli riprende la distinzione tra “mondo geografico” e “paesaggio” dallo psichiatra Erwin Straus.[7] Il paesaggio è una zona geografica davanti a cui siamo ma che ci tocca, è un mondo topografico vissuto; ovvero la parte di mondo che si dà specificamente a me a partire dalla mia posizione nel mondo.

“Una malata”, scrive Merleau-Ponty, “dice che al mercato qualcuno, che lei non ha visto, l’ha guardata: ha sentito questo sguardo come una botta, senza poter dire da dove venisse.” Ora, precisa Merleau-Ponty, “per la malata non si tratta di ciò che accade nel mondo oggettivo, ma di ciò che essa incontra, di ciò che la tocca o la colpisce. […] L’allucinazione non è una percezione, però vale come realtà, essa sola conta per l’allucinato. Il mondo percepito ha perduto la sua forza espressiva e il sistema allucinatorio l’ha usurpata”.[8]

Se l’allucinazione non è intuizione del mondo né giudizio che afferma una credenza, che rapporto ha allora con la percezione? In effetti, malgrado le loro differenze di struttura, allucinazione e percezione hanno comunque un tratto comune: quando un soggetto parla sia di una propria esperienza di percezione sia di allucinazione, in entrambi i casi egli si pone come testimone. Quando la malata di cui sopra dice di “percepire” uno sguardo che non vede ma che sente come una percossa, essa si descrive come oggetto passivo di un qualcosa proveniente da un mondo esterno, anche se questo mondo esterno non coincide con quello “geografico”. In effetti, scrive Merleau-Ponty, “allucinazione e percezione sono modalità di una unica funzione primordiale, grazie alla quale disponiamo attorno a noi un ambiente [milieu] dotato di una struttura definita, e ci collochiamo ora in pieno mondo, ora in margine al mondo”.

L’allucinato, quindi, si situerebbe ai margini del mondo che questa funzione primordiale costituisce. Questo essere ai margini si risolverebbe “nella costituzione solitaria di un ambiente [milieu] fittizio”. Da notare che qui il filosofo usa il termine milieu anziché environnement. In francese milieu significa anche centro e quindi “stare in mezzo a”, “stare al centro di” come in je suis au milieu de mes enfants. Il milieu non è quindi né il mondo né l’ambiente nel quale siamo senza averne sempre coscienza, ma è lo “stare in mezzo” a una parte di mondo di cui siamo necessariamente il centro. Il milieu, in effetti, essendo la parte di mondo che ci tocca personalmente, con il quale interagiamo, ricorda il “paesaggio” di Straus. Anch’esso difatti è connesso inestricabilmente a un punto di vista, che è sempre il mio. Sembrerebbe che per Merleau-Ponty il milieu sia una sorta di livello intermedio tra paesaggio e mondo.

Tuttavia, a proposito di ambiente fittizio, scrive: “Questa finzione non può valere come realtà se non perché nel soggetto normale la realtà stessa è colta in una operazione analoga”.[9] I corsivi sono dell’autore: segno, quindi, che questa frase gli appare essenziale.

In effetti, finora Merleau-Ponty aveva criticato ogni approccio che riporti l’allucinazione a esperienze normali di rapporto col mondo, come la percezione e il giudizio. Ma qui, per rendere conto del fatto che comunque nell’allucinazione opera un indice di realtà, è costretto a ipotizzare una “funzione primordiale” comune ai due tipi di rapporto con oggetti, per cui l’allucinazione esprime una possibilità di essere nella realtà da cui anche chi non è allucinato non può escludersi completamente. Anche il soggetto normale “porta quella ferita aperta attraverso la quale può introdursi l’illusione”. Il soggetto normale nasconde una ferita che nell’allucinazione si rivela apertamente.

Ma in che cosa consiste questa funzione o ferita primordiali? Dobbiamo intenderla come una primordialità temporale, come qualcosa che accade precocemente, nella prima infanzia? Una fenomenologia rigorosa dovrebbe escludere ogni interpretazione “evolutivista”, dato che l’evoluzione implica una storia oggettiva di cui invece dovremmo fare epoché. Ma vedremo che Merleau-Ponty farà appello proprio a una storia evolutiva del nostro essere-nel-mondo. E in che modo e in che senso questa funzione primordiale, universalmente operante negli esseri umani, costituisce una vulnerabilità di fondo di qualsiasi soggettività?

Questa funzione primordiale è semplicemente quella grazie a cui crediamo a ciò che vediamo. Il Buon Sapere dà questa credenza per scontata, anche se Descartes osò metterla in dubbio. La fenomenologia da una parte ha fatto proprio il dubbio cartesiano, riprendendolo come gesto di epoché di ogni sapere costituito; dall’altra lo ha rigettato, dato che la percezione ci accerta di un mondo che non ha senso mettere in dubbio, di cui possiamo “dubitare” solo intellettualisticamente, quando facciamo filosofia. L’esistenza del mondo nel quale viviamo non è un’inferenza a partire da sensazioni soggettive, ma un’evidenza immediata della nostra coscienza. Allora, la fenomenologia concorda con il Buon Sapere? Parrebbe di sì, eppure anche per la fenomenologia questa credenza nella realtà di ciò che percepiamo non è ovvia. E difatti – pur senza evocare specifici vissuti psicotici di “fine del mondo”, “sentimento di derealizzazione” ecc. – anche in una soggettività normale possono prodursi, di tanto in tanto, sentimenti di irrealtà o di “de-realizzazione” come si dice in psichiatria. Anche Freud descrisse un proprio sentimento di irrealtà, quando per la prima volta salì sull’Acropoli di Atene.[10] In ogni caso, crediamo nel mondo che percepiamo non certo grazie a qualche verifica intellettuale. È che “il soggetto normale non gode della soggettività, ma la fugge”.[11] Una frase cruciale.

Heidegger diceva che ogni grande pensatore ha costruito la propria opera attorno a un solo pensiero. “Ogni pensatore pensa soltanto un unico pensiero.”[12] Per me, questa frase – “le normal ne jouit pas de la subjectivité, il la fuit” – dice bene l’unico grande pensiero della filosofia di Merleau-Ponty. Un pensiero che prosegue il progetto di Husserl, “andare alle cose stesse”. Merleau-Ponty vuole “liberarci della vita interiore.”

La frase sopra dice, in effetti, che ogni “psicopatologia” è un restare nella soggettività, è un crogiolarsi in essa. Patologia è godimento “patetico” della propria soggettività. La normalità quindi è sempre vocazione a godere del mondo, e a godere di se stessi come proprio mondo. Comunque sforzo per goderne.

Il soggetto normale, quindi, passa continuamente dal paesaggio al mondo geografico, ovvero al mondo che anche gli altri percepiscono e abitano. Questo andar oltre il paesaggio soggettivo è la trascendentalità della coscienza, che va sempre oltre la nostra soggettività e ci tuffa nel mondo prima di ogni verifica e di ogni sapere costituito.

Questa trascendenza, dice Merleau-Ponty, rimanda comunque a una “funzione più profonda” – che aveva qualificato come “primordiale” –, la quale dà agli oggetti percepiti il loro indice di realtà. È un indice che manca negli schizofrenici, nota Merleau-Ponty (si riferisce evidentemente ai vissuti di de-realizzazione). Tale funzione è quella che Husserl aveva chiamato Urdoxa o Urglaube: una “fede primordiale” nella realtà del mondo che percepiamo. Da notare che Glaube ha il senso di fede di tipo religioso. Ora, sembra ammettere Merleau-Ponty, in questa “sfera dell’opinione originaria, l’illusione allucinatoria è possibile”. E questo perché, scrive, “siamo ancora nell’essere antepredicativo”.[13] “Ancora”, “ante”: termini temporali che sembrano indicare un momento originario in cui la differenza di fondo tra “paesaggio” (che può essere anche allucinato) e “mondo geografico” ancora non è emersa.

Merleau-Ponty sembra ipotizzare un tempo precedente questa separazione originaria tra soggetto e mondo, un tempo in cui l’essere si propone massicciamente senza alcuna differenza tra modi di essere, tra immaginato e percepito, tra soggettivo e oggettivo.

 

3. “Ho un corpo, ma non ci credo”

Tematizzare l’Urdoxa è una chiave fondamentale per capire la fenomenologia, dato che secondo altre filosofie moderne questa tematizzazione invece non può essere presa in considerazione. È il caso di Wittgenstein quando, nelle Ricerche filosofiche, parla del “paradosso di Moore”.[14] Secondo questo paradosso, solo di un’altra persona si può dire che abbia false credenze, non posso mai dirlo di me. Una credenza falsa può essere attribuita solo a un’altra persona perché se io descrivo quel che ho davanti ai miei occhi allora non posso dire che io vi creda; quindi la negazione di questa credenza non ha senso. Posso credere solo a qualcosa che può essere messo in dubbio, quando cioè viene a crearsi una certa distanza tra ciò che percepisco e ciò che dico. Questo, tra l’altro, permette a Wittgenstein di rigettare il dubbio cartesiano: non ha senso mettere in dubbio ciò che ho davanti ai miei occhi. Ma questo rovina alla base il concetto husserliano di Urdoxa perché quel che vedo non è oggetto di alcuna credenza originaria: posso credere che Dio esista ma non posso credere che io ora ho un corpo, per esempio.

Ora, per i fenomenologi i fenomeni psicotici sono così importanti proprio perché possono mostrare come quel che per Moore è paradosso sia invece un’esperienza concreta: molti vissuti dello psicotico possono essere infatti descritti da frasi del tipo “ho un corpo, ma non ci credo”. È quel che accade, di fatto, nella sindrome di Cotard, dove il soggetto, molto depresso, pensa di non avere più un corpo e di essere già morto. Questa convinzione lo porta paradossalmente a covare progetti suicidi, a voler uccidere un corpo morto. Insomma, l’esperienza e il linguaggio psicotici sconnettono ciò che l’analisi grammaticale di Wittgenstein afferma come inscindibili, il fatto che la mia esperienza immediata e il credere in essa siano talmente implicati che non ha senso il non credere a ciò che vedo immediatamente. Lo psicotico parla della propria esperienza immediata come se lui fosse allo stesso tempo un altro rispetto a questa esperienza.

Insomma, per Wittgenstein gli enunciati psicotici non sarebbero veri enunciati, mentre la fenomenologia li prende molto sul serio: perché essi esprimono un modo di essere-al-mondo grazie a cui si può provare il fatto che l’esperienza, per quanto possa essere immediata, abbia bisogno comunque di essere accettata dal soggetto. Bisogna insomma che il soggetto creda alla propria esperienza. Ciò che risulta insensato al non-psicotico, non solo ha perfettamente senso per lo psicotico, ma addirittura legittimerebbe la presupposizione filosofica di una nostra credenza originaria per cui crediamo non solo a enunciati altrui, ma alla nostra propria esperienza in prima persona. Perciò la fenomenologia non è semplice empirismo: per essa anche la nostra esperienza percettiva immediata non è recezione passiva ma la percezione e gli enunciati che la descrivono implicano un andare verso il mondo, una disposizione attiva a curarsi del mondo. Per la fenomenologia, in certe esperienze però – come quella psicotica – questa disposizione può venir meno.

 

4. Una coscienza primordiale?

Come descrivere questo pre-mondo, questa funzione primordiale, più profonda, la quale ci autorizza a parlare di nostra credenza nel mondo che ci circonda?

In un primo momento Merleau-Ponty dice che in ogni caso “la connessione dell’apparenza e dell’esperienza totale è solo implicita e presuntiva, anche nel caso della percezione vera”. Ovvero, l’allucinazione fiorirebbe sul terreno di un’imperfezione originaria della percezione che le impedirebbe di coincidere con la certezza assoluta sugli oggetti con cui siamo confrontati: per esempio, sono convinto dell’esistenza del tavolo su cui sto scrivendo, ma di questo tavolo vedo solo alcune parti e solo in certi momenti. In effetti, Husserl poteva parlare di “fede originaria” nella realtà del mondo proprio perché esisterebbe uno scarto tra percezione e credenza in ciò che è percepito. Eppure questa ipotesi di Merleau-Ponty è pericolosa per la fenomenologia: significa che l’allucinazione prende spazio dallo scarto incolmabile e necessario tra il percepire e il credere? Ma allora l’allucinazione non rischia di ridursi a una forma di illusione percettiva? Se così fosse, Merleau-Ponty banalizzerebbe drasticamente l’esperienza dell’allucinazione; ritorneremmo quindi a quell’empirismo intellettualistico che lui stesso non ha smesso di denunciare.

Subito dopo, però, Merleau-Ponty cita un dato di uno studio di Piaget: “Il fanciullo ascrive al mondo sia i suoi sogni che le sue percezioni, crede che il sogno si svolga nella sua camera, ai piedi del letto e che semplicemente sia visibile solo per coloro che dormono”.[15]

Ora, riferendo i risultati di un’indagine di psicologia evolutiva, Merleau-Ponty non viene meno all’impegno anti-psicologico della fenomenologia? Anzi, è mai possibile una “psicologia fenomenologica” o si tratta addirittura di una contraddizione in termini?

Non credo che Merleau-Ponty venga meno al suo impegno trascendentalista, in quanto Piaget non propone qui una teoria che spieghi l’evoluzione della rappresentazione dei sogni nell’infanzia: ci riporta semplicemente discorsi di bambini di età diverse. Ci informa, non spiega. In effetti, aggiunge Merleau-Ponty, in quella fase “il mondo è ancora il luogo vago di tutte le esperienze”.[16] Ritroviamo un termine temporale, ancora, connesso qui all’epoca infantile. In effetti, il riferimento a credenze e rappresentazioni nell’infanzia svolge la stessa funzione dei riferimenti a credenze e rappresentazioni di soggetti di epoche e culture lontane da noi: due modi di essere umani che però sembrano essere non umanità piena, risolta. Sappiamo quanto noi occidentali siamo stati a lungo inclini a leggere tante diversità culturali rispetto a noi in termini di “primitivismo”, ovvero di precedenza in un percorso evolutivo di cui noi saremmo il culmine; e sappiamo anche quanto oggi, invece, questa visione sia screditata. Comunque, Merleau-Ponty legge in questa credenza infantile sui sogni un “mondo antepredicativo”, ovvero un mondo indistinto in cui quel che conta – diremmo – non è che gli oggetti siano immaginari o reali, che siano oggetti soggettivi o oggettivi, ma che siano giusto oggetti: “Avere allucinazioni e, in genere, immaginare significa mettere a profitto questa tolleranza del mondo antepredicativo e la nostra vertiginosa vicinanza con tutto l’essere nell’esperienza sincretica”.[17]

Come ci si aspettava, l’allucinazione viene riportata nello stesso piano dell’immaginazione. L’esperienza sincretica – nella quale gli oggetti non hanno ancora trovato il loro statuto, in quanto non sono “o immagini, o percezioni” – accomunerebbe allora i bambini piccoli e gli allucinati. Quella ferita e vulnerabilità a cui egli accennava una pagina prima si rivela essere, semplicemente, una “vicinanza vertiginosa” tra gli oggetti in un mondo primitivo, in un pre-mondo diremmo. Una vicinanza in cui i modi di essere degli oggetti (e dei soggetti) si confondono, non risaltano come tra loro eterogenei, mentre essi appaiono radicalmente eterogenei alla nostra mente di adulti occidentali, razionalisti.

Ma allora per i fenomenologi c’è una storia evolutiva della coscienza? La coscienza intenzionale che descrivono rimanderebbe a una sorta di Urbewusstsein, di coscienza originaria, da cui la possibilità dell’allucinazione prenderebbe radice e possibilità? Dobbiamo insomma supporre una sorta di coscienza primordiale che tematizzerebbe un qualcosa che non è ancora distinguibile come immaginario o reale? O ci sarebbe un godimento primitivo della propria soggettività che non sarebbe ancora separato dalla fuga dalla soggettività, come se il godere – infantile o allucinato – della propria soggettività coincidesse con la fuga da essa?

 

5. La denuncia fenomenologica

Si sa, la fenomenologia non intende spiegare, ma comprendere. Comprendere chi, che cosa? Evidentemente l’altro; e noi stessi quando certe volte – se allucinati – diventiamo altri rispetto a noi stessi.

E, per la fenomenologia, che cosa comprendere della comprensione dell’altro? Direi che la comprensione più interessante è quella che viene sfidata da discorsi che possono apparirci incomprensibili, nel senso in cui si dice comunemente a qualcuno “non ti capisco”, modo eufemistico per dire “non sono affatto d’accordo con quel che fai o dici”.

Credo che chi sta scrivendo non sia allucinato, né nazista, né fondamentalista islamico, né stalinista, né cannibale, né psicotico. La fenomenologia mi dice che però devo comprendere l’allucinato, il fascista, il fondamentalista islamico, lo stalinista, il cannibale, lo psicotico, volendo dire con ciò che questi modi umani di pensare, di essere e di fare sono modi inscritti nelle possibilità essenziali grazie a cui ogni essere umano si rapporta al mondo, magari al “mondo antepredicativo”. Ma se tutto dell’umano – anche la psicosi, l’allucinazione, la crudeltà ecc. – è ricondotto a un rapporto ancora sincretico con l’essere che è intelligibile “a monte”, allora il rischio è che la comprensione fenomenologica diventi una notte in cui tutte le vacche sono nere. Per evitare una “comprensione” banale e piatta, la fenomenologia quindi, nello stesso movimento grazie a cui afferma di comprendere anche l’incomprensibile, distingue e separa. Come abbiamo visto fare Merleau-Ponty con l’allucinazione: alla fine questa è resa comprensibile, ma al prezzo di escluderla radicalmente dal campo della normale percezione. La comprende sì, ma come impostura; e siccome l’allucinato non la comprende affatto come impostura, l’allucinato è così, in modo profondo ed essenziale, discriminato dal normale, così come lo è sempre stato nella nostra storia. Questa discriminazione essenziale tra normale e patologico diventa, alla fin fine, quel che la fenomenologia “si porta a casa”. E dico questo non per rivendicare un’anti-psichiatria non discriminativa politicamente corretta, oggi datata; ma per smascherare il compito discriminativo a cui la fenomenologia indulge proprio nella misura in cui dà forma al suo progetto di comprensione, anche dell’incomprensibile.

Discriminare è fornire uno strumento per differenziare legittimamente delle cose, mentre la differenza tra allucinazione e non-allucinazione si dà d’emblée, chiunque è in grado di distinguere un’allucinazione da una percezione se questo “chiunque” non è psicotico. Mi chiedo se non sia invece importante, più che dare un fondamento trascendentalista a queste differenze, piuttosto partire da queste differenze – che di fatto si danno tra gli umani – per situare i vari modi di essere-nel-mondo nella loro diversità. Mi pare che sia importante non stigmatizzare l’allucinazione come impostura – identificandola a una sorta di malafede essenziale, dove descrizione fenomenologica e biasimo morale si sostengono tacitamente a vicenda –, ma assumerla come una genuina possibilità dell’essere umano che può essere spiegata o compresa, compresa e spiegata, e che soprattutto va correlata a tante altre cose che viviamo e sappiamo, e che riguardano sia noi stessi che altri.

In effetti, la comprensione fenomenologica si risolve, di fatto, in una denuncia dell’altro, allucinato, o nazista, o fondamentalista islamico, o cannibale ecc. che sia. Lo scacco dell’altro è evidenziato rispetto alla mia (di me fenomenologo) riuscita esistenziale.

Evoco qui un esempio preso da uno psichiatra che andava nella stessa direzione di Merleau-Ponty, Ludwig Binswanger. Nella sua descrizione della “stramberia”, cita questo caso: “Un padre mette sotto l’albero di natale, come regalo per la figlia malata di cancro, una bara”.[18] Come “comprendere” questo comportamento che per noi, come dice Binswanger, è “come un pugno in un occhio”? L’autore ricorda che in ogni dono autentico c’è un’apertura della comunicazione e della coesistenza (in questo caso tra chi dona e chi riceve e accetta il dono), ma regalando una bara alla figlia – sulla base del ragionamento incontestabile “la sola cosa che le possa servire ormai è una bara” – vengono annullate sia la comunicazione che la coesistenza. Eppure, risolvendosi a un dono natalizio, quel soggetto sembrava proprio accettare l’apertura comunicativa, che qui “si torce” però verso un’occlusione comunicativa. Insomma, per me fenomenologo questa stramberia non sarà mai un modo genuino di essere-con-l’altro, in quanto per la fenomenologia il nostro rapporto con l’altro è un rapporto sempre, originariamente, di comunicazione e coesistenza (Dasein è Mit-sein). Per la fenomenologia, l’altro soggetto non è una costruzione culturale, non è l’effetto di inferenze, né un giudizio generato dalle mie esperienze ripetute con altri esseri umani: è qualcosa che colgo originariamente nel mio essere-con. Essere-con esplicitato qui come “comunicazione” e “coesistenza”. Comprendere lo strambo si risolve allora nel comprendere d’emblée che egli non comprende affatto la comunicazione tra soggetti, che insomma egli è un “Dasein mancato”. E difatti Binswanger descrive qui la stramberia – assieme all’esaltazione fissata e al manierismo – come tre forme di missglückten Daseins, di “esserci fallito” (“esistenze mancate”, recita la traduzione italiana). Ovvero, le sue descrizioni fenomenologiche di soggetti “patologici” sono anche e soprattutto denunce di fallimenti esistenziali.

Ovvero, per la fenomenologia la possibilità che quel signore eccentrico attualizza è anche lo scacco di un autentico essere-con-l’altro. Quel che appariva uno sforzo possente, da parte della fenomenologia, per comprendere ciò che ci è più incomprensibile, si risolve di fatto in una condanna del “compreso” in quanto non comprende umanamente. Mutatis mutandis, si potrebbe mostrare qualcosa di simile anche per le altre forme di vita che “non capisco”: io fenomenologo alla fine concluderò che si tratta sempre di Dasein mancati. Insomma, tutta la psichiatria fenomenologica è una subdola condanna filosofico-morale dello “psicopatologico”. E non a caso Binswanger stesso, parlando di quel padre “insensibile e brutale”, scrive “noi giudichiamo in base a quella totalità di appagatività che qui è la ricorrenza natalizia”.[19] Io invece sottolineerei “giudichiamo”, nel senso che l’analisi fenomenologica si risolve sempre, come in questo caso, in una descrizione giudicante.

Capiamo allora perché la fenomenologia continui a sedurre – più della psicoanalisi – lo psichiatra: perché gli fornisce degli strumenti nobili – filosofici, ontologici – per continuare a fare quello che lui psichiatra ha sempre fatto da quando esiste la psichiatria, ovvero – ancor prima di curare – separare il patologico dal normale, chi ha bisogno di cura psichiatrica da chi ne può fare a meno. Dopotutto, che importa che la psicopatologia venga spiegata attraverso processi causali (per esempio attraverso lesioni cerebrali) o che venga descritta attraverso la riduzione trascendentale? L’importante è che poi, alla fine, si giustifichi, si fondi, la separazione tra normale e patologico. L’ideale di comprensione, quindi, portato nella pratica psichiatrica (e politica) si risolve in una forma indiretta, mascherata, raffinata, di etnocentrismo. Il mio modo “non strambo” di essere-nel-mondo diventa il criterio a partire dal quale discrimino il mio modo di essere autentico rispetto all’“inautenticità” e all’“impostura”.

Quale tipo di approccio dovremmo avere invece con l’a-normalità psicotica o etica o politica? La risposta a questa domanda esigerebbe un lavoro a sé. Mi chiedo: l’essenziale deve essere dedicare i nostri maggiori sforzi a dare un fondamento trascendentale (nel senso di Husserl) a questa a-normalità, a trasfigurarne la patetica diversità in uno scacco dell’intenzionalità? O non deve essere invece il cercare di ricostruire come e perché una possibilità di vita e di essere nel mondo assuma proprio queste forme? Tornare alla scienza insomma, anche se non riduzionista.

Occorre “mettere tra parentesi” il progetto di comprensione dell’altro. Dovrei impegnarmi piuttosto ad accettare il fatto che l’umanità sia fatta di differenti, che ogni forma di vita sia un esperimento, un tentativo di essere umani che si articola in fedi, certezze, atti, passioni, persino stramberie o allucinazioni. La differenza rispetto a me, qualunque essa sia, non va recuperata, azzerata su uno sfondo antepredicativo. Magari nel caso delle patologie etiche (come nazismo, cannibalismo ecc.) si farà appello piuttosto a una dimensione antevalutativa, quando bene e male non erano esclusivi. Invece l’importante, per me, è prendere atto dell’irriducibile molteplicità delle forme di vita. Non si tratta di comprendere l’atto strambo: si tratta piuttosto di riconoscere la possibilità “stramba” di essere nel mondo e con gli altri come una delle possibilità umane, anche se è socialmente penosa e va quindi evitata.

 

6. Lo iato tra essere e mondo

Ci sarebbe molto da dire sugli esempi di allucinazioni portati da Merleau-Ponty. Si potrebbe insinuare che la differenza di rappresentazione tra allucinati e bambini piccoli da una parte, e adulti normali dall’altra, potrebbe risiedere in una differenza nel loro linguaggio, ovvero, in una differenza di ontologie implicite in linguaggi diversi.

E in effetti Merleau-Ponty nota: “Il sole si ‘leva’ per lo scienziato come per l’ignorante”,[20] insomma la scienza moderna ci impone credenze di tipo diverso da quelle dettate dalla nostra percezione spontanea del mondo. Ma è poi vero? Dopotutto, credo di vedere che il sole sorge solo perché la lingua italiana usa ancora il termine “levarsi”: se non usassimo più questo termine, non so se vedremmo ancora il levarsi del sole. Davvero, come scrive Merleau-Ponty, certe nostre credenze si basano sulle nostre percezioni e non invece sul modo in cui ci è stato insegnato a parlare di certe nostre percezioni? Quel che la fenomenologia interpreta come credenza immediata, prima di ogni sapere socialmente costituito, in moltissimi casi altro non è che credenza mediata attraverso una visione del mondo incastonata nel nostro linguaggio. Forse, parlare dei sogni come se si svolgessero nella stanza in cui si dorme registra semplicemente il fatto che al bambino non è ancora chiara l’ontologia implicita nella lingua che sta ancora imparando. Quindi, non gli è chiaro lo statuto ontico dei sogni nella sua cultura. Dopotutto, è il linguaggio a offrirci possibilità di “errori” infantili quando ci fa dire “stanotte ho fatto un sogno”. Se il nostro linguaggio ci facesse dire, invece, “stanotte mi è stato inviato un sogno”, bambini e adulti lo percepirebbero in tutt’altro modo.

Quanto alla malata che sente lo sguardo come una botta, come non pensare a tutte le metafore come “sguardo respingente” o “penetrante” o “aggressivo”? Non si tratta qui del fatto che quella signora prende delle metafore alla lettera?

Sia la malata che sente uno sguardo anonimo come un attacco, sia il bambino che parla della sua stanza da letto come di “una stanza piena di sogni”, raccontano così quello che vivono. Ma il loro racconto registra fedelmente il loro modo di vivere come qualcosa che risulta molto diverso da quel che viviamo noi? Oppure il loro racconto è così perché il loro rapporto al linguaggio è tale che ne possono parlare solo così?

Un’antica e venerabile tradizione moralista aveva intuito che sentimenti e passioni non sono del tutto originari, spontanei, ma sono – almeno in parte – plasmati dalla cultura. Già La Rochefoucauld diceva: “Delle persone non si sarebbero mai innamorate se non avessero mai sentito parlare d’amore”.[21]

In un’ottica non fenomenologica, da una parte ci sono pulsioni senza nome che cercano la loro forma, dall’altra la forma della nostra Erlebnis è data – in una misura ancora tutta da determinare – dai nostri linguaggi, ovvero dalle interpretazioni storiche da cui anche i nostri sentimenti più privati e delicati sono catturati. Il modo di nominare uno stato affettivo non è ininfluente sulla forma o sulla forza che prenderà questo stato affettivo per noi. E questo ogni psicoanalista lo sa bene.

Al di là della fenomenologia, mi sembra necessario porsi questa grande domanda (non risposta): i diversi linguaggi con cui parliamo del mondo e dei soggetti umani sono solo stadi di evoluzione linguistica, o la spia del fatto che i mondi in cui gli esseri umani vivono – o potrebbero vivere – sono diversi? Non assolutamente diversi, come vuole un certo relativismo caricaturale, ma abbastanza diversi per impedirci di universalizzare frettolosamente il nostro modo di essere-nel-mondo. Si tratta, dopotutto, della stessa domanda che, in modi diversi, aveva mosso Kant: il linguaggio (le categorie dello spirito, le chiamava) è un medium neutro tra mondo e soggettività? E rispose che quel che chiamiamo “mondo” non sono le cose-in-sé, ma oggetti a cui abbiamo già dato una certa forma. In questa prospettiva, non la coscienza quindi, ma il linguaggio (Kant direbbe l’a-priori) sarebbe trascendentale. Insomma, occorre riconoscere uno iato tra essere e mondo. Riconoscere che il mondo è sempre, in fondo, storicamente costruito. In questa prospettiva, la descrizione fenomenologica appare in altra luce: come una forma di etnocentrismo. Essa pare generalizzare sull’essere-nel-mondo a partire da una configurazione storica precisa della soggettività, la nostra attuale.

 

 

 



 

 

[1] M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, Gallimard, Paris 1945, pp. 391-402; trad. di A. Bonomi, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2003, pp. 434-445.

[2] Ivi, p. 394; trad. p. 436.

[3] D.H. Ffytche, Visual Hallucinatory Syndromes: Past, Present and Future, “Dialogues in Clinical Neurosciences”, 9, 2007, pp. 173-189.

[4] M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, cit., p. 393; trad. p. 436.

[5] Ivi, p. 391; trad. p. 434.

[6] Ivi, p. 394; trad. p. 437.

[7] E. Straus, Vom Sinn der Sinne, Springer, Berlin 1935.

[8] M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, cit., pp. 399-400; trad. p. 442. L’ultima frase (e altre simili) di Merleau-Ponty rischiano di creare fraintendimenti: non sempre, e nemmeno di solito, la forza espressiva dell’allucinazione prende il posto dell’espressività del mondo percepito; piuttosto notiamo che spesso l’espressività allucinatoria riprende, continua, “interpreta” l’espressività del mondo percepito, come vediamo appunto in questo esempio.

[9]  Ivi, p. 400; trad. p. 442.

[10] S. Freud, Eine Erinnerungsstörung auf der Akropolis. Brief an Romain Rolland (1936), in Gesammelte Werke, Fischer, Frankfurt a.M. 1999, vol. xvi, p. 250 sgg; Un disturbo della memoria sull’Acropoli: lettera aperta a Romain Rolland (1936), in Opere, Boringhieri, Torino 1979, vol. xi, p. 473 sgg.

[11] M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, cit., p. 400; trad. p. 443.

[12] M. Heidegger, Nietzsche, Neske, Pfullingen 1961; trad. a cura di F. Volpi, Nietzsche, Adelphi, Milano 1994, pp. 394-395.

[13] M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, cit., p. 401; trad. p. 443 (corsivo mio).

[14] L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, a cura di G.E.M. Anscombe e R. Rhees, Blackwell, Oxford 1953, cap. x; trad. a cura di M. Trinchero, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1967.

[15] M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, cit., p. 401; trad. p. 443. Cfr. J. Piaget, La représentation du monde chez l’enfant, Alcan, Paris 1926; trad. di M. Villaroel, La rappresentazione del mondo nel fanciullo, Bollati Boringhieri, Torino 1966.

[16] Corsivo mio.

[17] M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, cit., p. 401; trad. p. 444.

[18] L. Binswanger, Drei Formen missglückten Daseins, Niemeyer, Tübingen 1956; trad. di E. Filippini, Tre forme di esistenza mancata, il Saggiatore, Milano 1964, p. 58.

[19] Ivi, p. 63.

[20] M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, cit., pp. 401-402; trad. p. 444.

[21] F. de La Rochefoucauld, Maximes, 136.

 

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