Flussi di Sergio Benvenuto

GRÜNBAUM, E LA PSICOANALISI SENZA FONDAMENTI (1989)02/nov/2017


Sergio  Benvenuto

 

PROPONGO QUESTO TESTO SCRITTO MOLTI ANNI FA ANCHE SE ORMAI NON NE CONDIVIDO L’IMPOSTAZIONE GENERALE, CHE ALLORA DOVEVA ANCORA TROPPO A UN ASSUNTO ERMENEUTICO.  MI PARE PERO’ CHE ESSO ABBIA SPUNTI DI RIFLESSIONE ANCORA ATTUALI, CHE POTREBBERO ANDARE DISCUSSI.

 

                "Se le teorie sono utili non sono verificabili, e

                 se sono verificabili non sono utili..."

                     C. G. Hempel  

 

 

Il  libro di A. Grünbaum - tradotto come I fondamenti della psicoanalisi (Il Saggiatore, Milano 1988) - ha creato, anche in Italia, una certa maretta[1].  La conclusione di questo trattato è che la dottrina di Freud ha la struttura di una teoria scientifica: le sue proposizioni non sono inconfutabili, a differenza di quel che sosteneva Popper. Ma la psicoanalisi della scienza avrebbe solo la struttura. Essa è una cattiva scienza in quanto, proprio perché confutabile, non è provata. 

Ora, il primo dubbio che viene al recensore è: valida o meno che sia, questa confutazione epistemologica interessa davvero gli psicoanalisti praticanti?

 

 

1.   

 

Intanto, si potrebbe ritorcere la domanda: che interesse il filosofo porta alla psicoanalisi? Prima o poi, la filosofia non può non interessarsi alla psicoanalisi, certo più che a qualsiasi altra forma di psicoterapia, perché Freud pretendeva di curare attraverso il riconoscimento della verità. La psicoanalisi è una pratica che aspira non solo a dire certe verità sull'uomo, ma che invita l'uomo a dire la verità - e scommette sul fatto che questo dire la verità possa cambiare ipso facto la sua forma di vita. Ora, la filosofia, sin dall'Atene di Socrate, cominciò la sua carriera con un'ambizione molto simile: ri-conoscere la verità, soprattutto di se stessi, è il solo modo per essere saggi, cioè (si pensava allora) per guarire dalle passioni e vivere felici.

Ma proprio questa somiglianza tra le due forme - psicoanalitica e filosofica - può spingere il filosofo a vedere lo psicoanalista come un suo diretto concorrente - e viceversa. Da qui la combinazione di attrazione e repulsione che sin dall'inizio c'è stata tra filosofi e psicoanalisti.

La fenomenologia filosofica, quando ha sorriso a Freud, non si è spinta molto oltre un'assimilazione della psicoanalisi alla Gestaltpsychologie. "Liberata dei suoi dogmatismi - scriveva  Merleau-Ponty (in Sens et non sens, Nagel, 1948) - la teoria psicoanalitica è una variante della psicologia della forma".  Il dogmatismo che lamentava Merleau-Ponty comprendeva in realtà tutti i principali contenuti teorici della psicoanalisi. Quanto alla filosofia analitica, epistemologica, positivista e/o razionalista, oggi essa nutre un solo dubbio: se "massacrare" la psicoanalisi come falsa scienza in quanto irrefutabile (Popper), oppure se "massacrarla" come cattiva scienza in quanto non provata (Grünbaum). Se l'analista ha qualcosa da sperare dalla filosofia, non gli resta che la nebulosa ermeneutica; non gli passa altro, per ora, il convento filosofico. Ci sono anche le filosofie post-strutturaliste (in particolare quella di Derrida) ma non le esamineremo qui. Per questa ragione alcuni temono che l'attacco alla lettura ermeneutica della psicoanalisi equivalga in realtà a un suicidio filosofico. Da qui un certo accorrere di tanti analisti, oggi, verso l'ovile filosofico ermeneutico.

Certo, si può esercitare benissimo la psicoanalisi senza filosofia, come di norma si fa. Come si fa normalmente ricerca fisica e chimica, creazione artistica, adorazione religiosa, ecc., facendo tranquillamente a meno della filosofia. Le certezze "regionali" sul reale in gioco nella propria pratica - si tratti dei quarks o dell'esistenza di Dio, delle classi di classi o dell'inconscio strutturato come un linguaggio - possono ridersela della skepsis (ricerca) filosofica. Non ha detto William James che "la fede produce la propria verifica"? Il cosiddetto pragmatismo filosofico non sa bene che la forza di una credenza condiziona ciò che riconosciamo come verità?  Nella vita umana la forza del credere in una "verità" non è più forte della verità stessa, comunque la si intenda?  La coscienza filosofica pare essere un lusso che l'analista, praticante dell'inconscio che si guadagna così da vivere, non può permettersi; e nei casi in cui se la permette, pare che vi indugi solo per incoscienza.

Eppure, prima o dopo, la filosofia (anche pragmatista e nichilista) critica le fedi e le certezze più ecumeniche.  Sui tempi lunghi, come cantava René Char, "le philosophe châtie", il filosofo castiga. Perché, contrariamente a quanto si crede, molto spesso certi assunti filosofici diventano modo corrente di ragionare anche da parte di chi non è specialista, diventano credenza e persino evidenza per la moltitudine. Quindi il castigo filosofico potrebbe risultare particolarmente amaro per la psicoanalisi, alla quale sono spinte proprio persone che spesso indulgono in domande, riflessioni e malinconie che assapora proprio chi fa filosofia.

 

 

2.  

 

Grünbaum ha intrapreso questo suo lavoro non solo per privare la psicoanalisi di legittimità scientifica, ma soprattutto per attaccare la teoria della demarcazione tra scienza e non-scienza di Popper, a favore di un ritorno agli approcci induttivistici classici. L'induttivismo è la concezione secondo cui tutto il sapere deriva per generalizzazioni successive da esperienze empiriche specifiche. Insomma, la psicoanalisi è qui un semplice banco di prova, per dare prova della forza discriminativa dell'induzionismo. A Grünbaum preme dimostrare che il metodo ipotetico-deduttivo (tipico dell'induttivismo) permette di respingere una teoria anche quando è falsificabile, e anche quando non è stata ancora falsificata. Grünbaum si serve insomma della barba teorica di Freud come capro espiatorio per decantare il suo rasoio come non meno tagliente - anzi, più tagliente - di quello di Sir Karl. (W.O. Quine aveva detto che molto spesso il rasoio di Occam si spezza contro la barba di Platone.)

Quale criterio di convalida delle sue teorie proporrebbe Freud? Secondo Grünbaum l'effetto terapeutico. Ciò che discriminerebbe un'interpretazione analitica vera da una falsa, o non analitica, sarebbe il fatto che la prima di fatto cura i sintomi nevrotici, e la seconda no. Una volta stabilito che questo è il fondamento delle teorie freudiane, allora il Nostro ha buon gioco nel mostrare la patetica fragilità di questo fondamento.

Grünbaum riassume le "prove" della scientificità della psicoanalisi addotte da Freud in ciò che egli chiama "Tesi della Condizione Necessaria", determinata dalla congiunzione di queste due affermazioni:

 

1. Solo l'interpretazione e il trattamento psicoanalitici possono produrre o costituire il medium per una corretta visione da parte del paziente delle cause inconsce della sua nevrosi.

 

2. La corretta visione da parte del paziente della causa conflittuale che sta alla base della sua attuale condizione o della dinamica inconscia del suo carattere è a sua volta causalmente necessaria per una durevole cura della sua nevrosi.

 

In altre parole, dice Grünbaum: "Che cosa mi garantisce che l'interpretazione freudiana di un sogno, qualunque essa sia, sia la vera causa, efficiente o finale [nel senso della causalità  aristotelica: efficiente, finale, materiale e formale], di quel  sogno, e non una serie di fantasie associative, come avviene ad esempio quando ci si sottopone al test di Rorschach? Che cosa la distingue da una fine fairy tale, come Krafft-Ebing qualificò la psicoanalisi? Solo il fatto che la chiave interpretativa freudiana dei sogni ha dato prova di sé curando nevrotici. Ma siccome Freud non riesce mai a provare che le sue interpretazioni sono la causa dimostrabile delle guarigioni dei suoi pazienti (quando queste guarigioni ci sono state), allora la teoria che legittima le interpretazioni freudiane non è validata". Questo perché di fatto altri approcci terapeutici giungono a eliminare i sintomi nevrotici, e molte guarigioni avvengono spontaneamente. Quanto alle guarigioni documentabili attraverso l'analisi, plana eternamente su di esse il sospetto dell'effetto placebo.

Come si vede, la critica di Grünbaum ha basi semplicissime, che di fatto sono anche semplicistiche.

Ora, è un vezzo di molti analisti - a  cominciare dallo stesso Freud anziano - ammettere che il potere terapeutico della psicoanalisi sia molto limitato, ed esaltare invece la metapsicologia come un sapere illuminante sull'uomo.  Per Grünbaum però, dati i suoi criteri di dimostrabilità, l'abbandono dell'effetto terapeutico equivale a una rinuncia auto-distruttiva a legittimare anche il potere esplicativo della teoria psicoanalitica. Egli non si rende conto però del fatto che la relativa facilità con cui gli analisti, anziani o meno, buttano a mare il criterio terapeutico come condizione della validità della teoria analitica rischia di confutare anche la sua teoria anti-popperiana, secondo la quale la psicoanalisi sarebbe falsificabile. Una teoria che rinuncia così presto alla sua unica possibilità di essere verificata - secondo Grünbaum - è ancora falsificabile, oltre che, ovviamente, ancora verificabile?

Ammettiamo che Freud avesse escluso dalla sua dottrina questo aspetto della "prova terapeutica” sin dall'inizio, lasciando inalterato tutto il resto della propria teoria. In questo caso Grünbaum avrebbe detto che la psicoanalisi non è provabile, oppure che non è falsificabile? Se avesse detto che non è provabile, allora in questo caso sarebbe stato difficile distinguere questa non provabilità dalla irrefutabilità popperiana.

(Questo esempio sfocia in una domanda più ampia: fino a che punto le parti falsificabili di una teoria sono parte genuina della teoria, e non aggiunte ad hoc che servono unicamente a dar loro una cornice falsificabile?).

Una volta abbandonata la tecnica catartica e la teoria dell'abreazione, Freud si sarebbe limitato a considerare il superamento del sintomo - la guarigione - una semplice conseguenza dell'eliminazione della rimozione. Ora però è il togliersi (una Aufhebung, magari in senso hegeliano) della rimozione il punto che fa teoricamente e clinicamente problema - in altre parole, i criteri per valutare l'eventualità di questo "togliersi" non rendono confutabile questa eventualità. Per esempio, anche il più ingenuo degli analisti sa che non basta una accettazione "intellettuale" di un'interpretazione vera perché una rimozione sia sublata, tolta. Se un analista inonda l'analizzante con una caterva di interpretazioni corrette, e ciononostante l'analizzante non migliora affatto, l'analista può sempre dire "c'è stata un'accettazione puramente intellettuale delle interpretazioni, ma la rimozione resta". Ma allora, sono proprio i criteri del "togliere la rimozione" che diventano del tutto incerti. Insomma, il concetto di eliminazione delle rimozioni presenta tante e tali sfaccettature, da rendere di fatto inconfutabile la tesi "c'è risoluzione del sintomo nevrotico ogni volta che viene levata la rimozione connessa alla formazione del sintomo". Qui Popper pare vedere più lontano di Grünbaum.

Il ricorso di Grünbaum all'efficacia terapeutica come criterio rischia di diventare per lui un vero e proprio boomerang. La considerazione dell'efficacia esige infatti la chiarificazione di una nozione più che mai problematica come quella di sintomo. Che cosa significa guarire da un sintomo? Niente di meno semplice, tanto più oggi, da quando cioè la clientela degli analisti risulta costituita sempre meno da persone che denunciano un preciso sintomo isterico, od ossessivo, o fobico, ecc., e sempre più un generico mal de vivre, o una valutazione globale della propria esistenza come sintomatica, “perdente”, "insoddisfacente"[2].

E' vero d'altro canto che le analisi di cui l'analizzante si dichiara entusiasta molto spesso non portano a una vera eliminazione del sintomo. Ma è anche vero che in molti altri casi il sintomo per cui il soggetto va in analisi è ciò che più facilmente si toglie, aufhebt, senza che però a distanza di anni gli effetti prodotti da quella analisi si possano considerare terapeutici. Può succedere che la fobia per cui l’analizzante (il paziente) andò a consultare uno psicoanalista venga eliminata in pochi giorni, ma la vita del soggetto resta penosa per altri versi, per cui continua comunque l’analisi.

Possiamo dire addirittura (e questo mi sembra il sentiero su cui il Lacan più tardo si inoltrava) che l'analisi serva più a scoprire il vero sintomo, a dargli contorni, che a guarirlo. Questa scoperta del sintomo può essere addirittura un motivo di vanto per l'analista.

Del resto Freud si riferiva a qualcosa del genere quando in Analisi finita e infinita faceva notare che la guarigione dalla nevrosi dipende da una sorta di "scelta" che l'analisi non può operare al posto del soggetto stesso: detto in soldoni, la scelta, da parte del soggetto, di accettare o meno i propri limiti (benché Freud desse a questi limiti un contenuto sessuale, ovvero la castrazione). Un analista potrebbe dire che questo amor fati è la vera cura analitica. Ad esempio, un soggetto viene lamentandosi di perdere le proprie urine: l'analisi potrebbe essere considerata un successo se portasse il soggetto a rassegnarsi a quel limite segnato dal sintomo - il sorridere stoico o la risata nietzscehana nei confronti di una enuresia ineliminabile - piuttosto che alla scomparsa clinica del sintomo dell'enuresia.

Insomma, esistono soggetti in cui il sintomo specifico viene tolto rapidamente e che pure sono insoddisfatti dell'analisi. Ed esistono soggetti in cui il sintomo specifico non viene tolto nel corso di anni, e che pure sono contenti dell'analisi.

Tutto questo deriva anche dal fatto che il concetto stesso di nevrosi, e la strutturazione nosografica interna a questa categoria, non è qualcosa che Freud abbia trovato all'esterno.  Nevrosi - e quindi anche sintomo nevrotico - è una categoria inventata e definita da Freud. Quando si parla allora di capacità terapeutica, o meno, della psicoanalisi, si dimentica che siamo già in una circolarità: la psicoanalisi è in un certo senso allo stesso tempo giudice e parte in causa. Questa circolarità, come è facile intuire, può generare una irrefutabilità popperiana che Grünbaum non sospetta nemmeno.

Invocando il sintomo come criterio, perciò, Grünbaum si dà la zappa sui piedi, perché porta acqua al mulino popperiano: i criteri terapeutici della psicoanalisi sono infalsificabili, o debolmente falsificabili, perché comunque posso leggere un miglioramento dell'analizzante (persino nel suo abbandono dell'analisi). E ancor più porta acqua al mulino ermeneutico. Ci si accorge ben presto infatti che il sintomo stesso è un'interpretazione - e a vari livelli. Nel senso che esso è un evento che va comunque interpretato come sintomo nel senso freudiano, ma anche nel senso che esso dipende da un'interpretazione inconscia del soggetto.  Non c'è da una parte il sintomo, oggetto amorfo della interpretazione, e poi una terapia esterna capace più o meno di modificarlo; il sintomo è uno degli effetti della terapia stessa - "effetto" nel senso che una posta della cura è proprio la capacità di riconoscerlo e di manifestarlo.

Lo si vede bene nelle cosidette analisi didattiche. Come è noto, per diventare analista un soggetto deve sottoporsi ad analisi. Ma l'analisi non decolla finché non si scopre un sintomo, finché insomma l'aspirante analista non riconosce il suo lato nevrotico.

Questo ci porta nel cuore del problema dell'ermeneutica, nel senso più lato: se non la si intende semplicemente come una metodologia di interpretazione dei testi, ma soprattutto come una riflessione su ciò che fa di un testo un testo. Come nella narrativa di E.A. Poe (cfr. Lo scarabeo d'oro, o Gordon Pym, oppure I due delitti della rue Morgue), perché un testo cifrato venga decifrato occorre prima di tutto che esso venga ri-conosciuto come testo.  In mancanza di prove fattuali, questo mio ri-conoscimento di una testualità negli eventi è non falsificabile, è una para-noia.

In questo senso, il riconoscimento popperiano dell'irrefutabilità della dottrina freudiana è - come si rende conto lo stesso Grünbaum - l'anti-camera dell'interpretazione ermeneutica della psicoanalisi. Si sdrucciola dal popperismo all'ermeneutica non appena ci si rende conto che la falsificabilità di una teoria è qualcosa di diverso da un corollario logico della teoria stessa: essa risulta falsificabile quando piuttosto i suoi sostenitori se la lasciano falsificare.  Popper sostiene che, ad  esempio, il marxismo in origine era falsificabile - grazie alla previsione del crollo del capitalismo - ma poi i marxisti lo hanno reso infalsificabile per parare le falsificazioni: si sono messi a giocare d'astuzia con l'Astuzia della Ragione. Ma allora c'è da chiedersi fino a che punto la teoria originaria sia responsabile delle falsificazioni successive: il suo lasciarsi trasformare in teoria non falsificabile non la svela, retroattivamente, come ab initio non falsificabile? (Che cosa insomma è essenziale e genuino di una teoria, e che cosa è inessenziale e spurio? Per esempio, fino a che punto un analista che respinge la nozione di pulsione di morte può considerarsi freudiano?)

 

 

3

 

Perché diciamo che l'importante non è la falsificabilità intrinseca di una teoria ma la propensione che hanno i suoi  sostenitori ad accettare o meno le sue eventuali falsificazioni?

La via più comune è quella di indebolire la forza predittiva di una teoria, che appare falsificata, attraverso una reinterpretazione mistica o comunque metaforica dei suoi enunciati. Qualcosa di analogo è avvenuto, dopo Freud, con il concetto di sessualità nei post-freudiani: essi hanno fatto a gara nel dare un'interpretazione sempre più generica delle “pulsioni" freudiane – rieditandole come affettività, passioni, attaccamento, dialettica del Fallo, tenerezza, ecc. Questa metaforizzazione non è stata tanto l'effetto di falsificazioni della teoria, quanto un modo per superare l'ambiguità e la contraddittorietà della teoria freudiana della eziologia sessuale delle nevrosi[3]. Inoltre, questi interpreti "metaforizzanti" delle teorie falsificate ottengono un beneficio sociale secondario: la loro manovra concettuale, percepita come una sublimazione della teoria originaria, viene molto apprezzata dal pubblico intellettuale, che stimerà questi de-falsificatori come più profondi, più acuti, più intelligenti dei loro colleghi più piattamente letterali.

Un'altra strategia che uno può imboccare è quella nota come dialettica. Il prezzo però che la rielaborazione dialettica di una teoria contraddetta deve pagare è la rinuncia a conservare la teoria nella sua forma originaria. La ricostruzione dialettica ha anch'essa una dialettica, nel senso che essa manifesta sia una fedeltà che un'infedeltà alla teoria originaria aufgehoben, elevata-annullata-superata[4].

La soluzione dialettica quindi è da vedersi in modo anch'esso dialettico: essa è una combinazione suggestiva di inerzia teorica e di dinamismo speculativo.

Un primo esempio di riaggiustamento dialettico da parte di Freud si produce già con la sua teoria del sogno. In effetti, la tesi freudiana sull'origine dei sogni è molto, forse troppo, forte: ogni sogno (nessuno  escluso) è l'adempimento immaginario di un desiderio. Questa forza la espone però a una quantità di confutazioni. Su questo punto ha ragione Grünbaum contro Popper: le teorie di Freud si presentano come generalmente falsificabili, e difatti spesso Freud dà prova di preoccuparsi di eventuali confutazioni. Queste confutazioni, ancora prima che dagli epistemologi, provenivano dai pazienti. Costoro non si facevano scrupolo - ammette Freud - di portare sogni dove non si vede alcuna traccia di adempimento del desiderio. Freud scavalca dialetticamente la difficoltà affermando che questi sogni adempiono il desiderio di confutare la teoria dell'analista.  Con prodezze di questo tipo, osserva giustamente Popper, la teoria del sogno di Freud risulta non falsificabile, per lui insomma ridicola.

Ma così interpretando i sogni che paiono non soddisfare alcun desiderio, Freud finisce con l'allargare, oltre i limiti della metafora, il concetto stesso di soddisfazione di un desiderio. Qualsiasi pensiero, insomma, può essere visto come un desiderio. Si abbozza cioè una Aufhebung dialettica: il vero desiderio, anche nel sogno, è il desiderio che non si riveli il desiderio. L'annullamento del desiderio è insomma lo scopo vero del desiderio, che ha allora sempre se stesso come oggetto.  Persino il sogno più semplice, quello del bambino che sogna il gelato che non ha potuto mangiare la sera prima, può essere reinterpretato dialetticamente: se il bambino sogna proprio il gelato che non ha ingollato la sera prima, allora il desiderio qui adempiuto sarà piuttosto il desiderio di avere un desiderio, cioè di "sognare" il gelato piuttosto che consumarlo nella realtà.

 

Se mi sono soffermato su queste strategie generali per conservare, e magari rilanciare, delle teorie confutate, non è per concludere, come Popper, con una condanna senza appello di queste teorie come inconfutabili. Questo perché Paul Feyerabend e Imre Lakatos ci hanno mostrato che, almeno all'inizio, le teorie scientifiche sono tutte, o quasi, confutate. Da qui la pertinenza della tenacia, una qualità psicologica che diventa una condizione del successo cognitivo di una teoria. Se ogni scienziato inventore di una nuova teoria si arrendesse alle prime confutazioni, non ci sarebbe progresso scientifico. Fu il dramma di Gregor Mendel, che credette alle confutazioni che gli scienziati dell'epoca fecero al suo famoso esperimento con i piselli: in questo modo non capì di aver compiuto la grande rivoluzione genetica, che fu riconosciuto molto dopo.

Ma se una teoria confutata viene riaggiustata o nel senso di un suo sviluppo dialettico (come ha fatto Lacan nei confronti della teoria freudiana originaria) oppure nel senso di una sua metaforizzazione (come è avvenuto con l'ego psychology americana), a partire da quale momento possiamo dire che non ci troviamo più di fronte alla stessa teoria, ma a una sua derivata distinta? E soprattutto: a partire da quale soglia una teoria può conservare una certa verosimiglianza ignorando quindi sistematicamente le confutazioni?

Ora, quante confutazioni ci devono essere perché uno possa rinunciare ragionevolmente a una teoria? Se è bene che uno studioso non si arrenda alla prima confutazione - se occorre che sia tenace - è pur vero che sostenere pervicacemente una teoria confutatissima odora piuttosto di dogmatismo o di sclerosi intellettuale.

La verità è che la riflessione epistemologica non è in grado di fissare una soglia ragionevole, tanto meno in scienze imprecise come appunto le scienze umane o della mente. In questo senso il rasoio popperiano è poco fine, trancia in modo troppo netto. E’ del tutto inadatto alla finissima chirurgia post-moderna: mette tutta la scientificità da una parte, tutta la non-scientificità dall'altra. Il rasoio falsificazionista prescrive una soglia ideale di falsificabilità, che nella realtà non è mai univoca, ed è soggetta a una complessità di fattori (secondo alcuni epistemologi, è un taglio troppo netto, e quindi puramente ideale, persino nelle scienze fisiche). Se il teorico cede troppo presto alle confutazioni, come Mendel, rinuncia a far maturare una teoria che invece potrebbe rivelarsi utilissima; se però non cede mai grazie a manovre di difesa, rende la sua teoria sempre più infalsificabile.

 

 

4.    

 

Nel dibattito con i suoi critici - in Psicoanalisi. Obiezioni e risposte (cfr. n. 1 - Grünbaum risponde in modo inadeguato a un'obiezione pertinente dello psicologo cognitivo Matthew H. Erdelyi. Scrive Erdelyi (p. 80):

 

"Anche se le ricerche avessero dimostrato che solo la psicoanalisi e nessun'altra modalità di trattamento è efficace, che non esiste alcuna spontanea remissione dei sintomi [...], e che alcune prese di coscienza e non altre conducono alla guarigione, da tutto ciò non seguirebbe logicamente la conclusione che le prese di coscienza terapeutiche siano veridiche".

 

Sulla base del criterio di Grünbaum, si rischia infatti di avallare ragionamenti del genere: "Siccome solo la cocaina è capace di produrre un flash particolare nei soggetti, e siccome mai nessun soggetto giunge spontaneamente a questo stato, allora la cocaina è una scienza veridica..." Erdelyi pone qui un problema che lo strabismo convergente dell'induttivismo non riesce a vedere: la differenza tra tipi diversi di causalità, tra diverse strategie di intelligibilità, e quindi tra interpretazione e spiegazione come due distinti 'giochi' di intelligibilità.

Grünbaum risponde affermando che l'esempio portato da Erdelyi - una presa di coscienza terapeutica ma non veridica - non è probante. In effetti questi citava un lavoro di Pierre Janet del 1889, nel quale lo studioso francese

 

"aveva pionieristicamente messo in atto una terapia fondata sulla ricostruzione dei ricordi nel corso della quale i ricordi traumatici erano stati trasformati, mediante l'ipnosi, in gradevoli pseudomemorie. Si sosteneva che queste ricostruzioni fossero il risultato di lunghe cure. L'aspetto positivo del falso ricordo o presa di coscienza può essere terapeutico e non solo a causa dell'effetto della suggestione".

 

Grünbaum cerca il pelo nell'uovo in questa contestazione persino evidente, e che suona così: Se delle pretese rivelazioni sortiscono (o paiono sortire) su certe persone un effetto terapeutico, questo non ci fa concludere (almeno secondo la razionalità prevalente tra noi) che queste "rivelazioni" siano vere. Tanti adepti delle religioni mistiche più diverse affermano di aver trovato la pace spirituale (e sembra che l’abbiano trovata davvero) dopo aver riconosciuto "la verità" di certe Rivelazioni - ma questo non ci autorizza a riconoscere la verità di queste dottrine come condizione della loro efficacia.

L'esempio portato da Erdelyi non è altro che un caso estremo, particolarmente forte: si tratta cioè di una presa di coscienza che è sicuramente falsa, perché ce lo garantisce lo stesso Janet, mentre non possiamo essere affatto certi che il dogma della Trinità, la  beatitudine del Buddha, o la funzione strutturante dell'Edipo siano falsi. Ma anche se non esistesse questo esperimento di Janet - sulla cui validità non a torto Grünbaum getta dubbi - la distinzione di Erdelyi sarebbe comunque accettabile: nella nostra civiltà le estensioni semantiche di concetti intensionali come "presa di coscienza", "effetto terapeutico" e "affermazioni vere" sono distinte, anche se possono esserci delle intersezioni tra queste estensioni[5]. Come delle prese di coscienza terapeutiche non sono logicamente vere, così esistono prese di coscienza vere che non hanno effetto terapeutico (Erdelyi cita il caso di molte depressioni, dove la presa di coscienza della verità della condizione del soggetto non porta a un miglioramento, al contrario); così come esistono affermazioni vere e terapeutiche che non sono prese di coscienza.

Grünbaum se la cava dicendo che l'esempio della presa di coscienza depressiva falsifica l'asserzione "tutte le prese di coscienza vere sono terapeutiche" ma non quella che lui attribuisce a Freud "tutte le prese di coscienza terapeutiche sono vere" (anche se Freud ovviamente non ha mai detto nulla del genere, anzi). Ma non si rende conto che Erdelyi vuol sostenere altro: la non implicazione semantica, in generale, tra prese di coscienza, asserti veri, e discorsi a effetto terapeutico.

Il problema interessante da porsi è piuttosto: dato che alcune pretese prese di coscienza (non solo quindi psicoanalitiche) sortiscono effetti terapeutici, qual è la causa del fatto che questi discorsi che si proclamano veridici sortiscano un effetto terapeutico? Cioè, quale legame ci sarebbe tra il contenuto di queste pretese prese di coscienza e il modo specifico in cui le persone che prendono coscienza raggiungono una maggiore serenità spirituale? In particolare, l'effetto di veridicità - l'affetto di verità, oserei dire - di queste affermazioni nel soggetto è una conditio importante dell'effetto terapeutico?

 

5.     

Secondo Grünbaum, una teoria freudiana falsificabile, anche per mezzo di controlli al di fuori del setting clinico, è quella della paranoia come effetto di una rimozione dell'omosessualità. Se la teoria è vera - sostiene Grünbaum - in una cultura dove l'omosessualità è poco o punto repressa, e quindi largamente diffusa (ad esempio a San Francisco), la paranoia dovrebbe essere rara, o comunque meno frequente che in città dove l'omosessualità è fortemente repressa (tralasceremo qui, come inessenziale alla nostra argomentazione, l'equivoco in cui cade Grünbaum, quando scambia la teoria freudiana della Verdrängung, rimozione, con una teoria sociogenetica della repression; non è questo il punto dell'argomentazione di Grünbaum che ci interessa confutare).

In effetti, Grünbaum potrebbe anche fare a meno di scomodare i gay di Castro District a S. Francisco per invalidare eventualmente la teoria freudiana della paranoia, se non altro perché gli psichiatri sono a conoscenza di casi di paranoici che sono anche omosessuali attivi (io stesso ne ho conosciuti). Per falsificare la teoria gli basterebbe il saggio dello stesso Freud su Memorie di un malato di nervi di Schreber. Freud vede in effetti la "prova" del nesso tra attacco psicotico e pulsioni omosessuali nel racconto stesso del Presidente, che fa risalire la sua crisi al pensiero: "Come sarebbe bello prendere il posto della donna nel coito!"[6] Come si vede, è proprio quando un desiderio chiamato omosessuale cessa di essere rimosso che Schreber comincia a delirare. Del resto tutto il suo delirio ha contenuti omosessuali (e transessuali) espliciti e radicali.  In ogni caso ce n'è abbastanza per rilevare l'ambiguità della teoria freudiana delle paranoie. (Questa ambiguità, detto tra parentesi, spiega l'elaborazione di Lacan della forclusion psicotica come essenzialmente distinta dalla rimozione.) Il caso Schreber "mostra" la connessione omosessualità-paranoia proprio nella misura in cui la rende esplicita, cioè la rivela al di là della rimozione.

Perché Grünbaum non si accorge nemmeno di questa incoerenza di Freud? Perché non se ne serve come prova di auto-confutazione della teoria freudiana della paranoia? Perché tutta la sua scommessa - contro Popper - si basa sull'assunto secondo cui la teoria di Freud è difficilmente confutabile, proprio in quanto ha una struttura falsificabile.  Un'auto-confutabilità della teoria - ovviamente, sempre secondo il metodo ipotetico-deduttivo - fa planare minaccioso il sospetto che dietro questa auto-confutazione si annidi in realtà una inconfutabilità, cioè lo spettro contro cui Grünbaum intende battersi principalmente.

Quello della paranoia di Schreber è solo un esempio tra moltissimi altri passaggi e tesi freudiane che possiamo considerare auto-confutanti, e di cui maliziosamente o ingenuamente non si accorge Grünbaum. Per esempio, pare non accorgersi che nel caso di una paranoica descritto da Freud in Comunicazione di un caso di paranoia in contrasto con la teoria psicoanalitica[7] ci troviamo di fronte a uno squisito doppio diniego (Verneinung) teorico. Si tratta di una trentenne convinta che un fotografo nascosto ritraeva le sue effusioni erotiche con un collega. Qui Freud rintraccia in una donna più anziana della ragazza paranoica - e a lei gerarchicamente superiore - la vera istanza persecutrice per il soggetto. Questa signora a sua volta sarebbe un surrogato della madre, a cui la Nostra resta legata in tutti i sensi del termine. Ma Freud non spiega affatto questo specifico delirio come una fuga da impulsi omosessuali, bensì al contrario come un modo per non abbandonare il legame omosessuale (in senso lato) con la propria madre, e quindi con la signora persecutrice[8]. Anche qui, l'auto-confutazione è così plateale che, a meno di non considerare Freud alquanto stupido, siamo costretti a sospettare dell'altro (rispetto ai criteri di Grünbaum). In particolare, sospettiamo che la teoria freudiana - in quanto teoria non scientifica - sia inconfutabile proprio come lo è un delirio paranoico. Come provare alla ragazza delirante che non c'era alcun fotografo a ritrarre le sue effusioni nella garçonnière del suo innamorato?

Il punto è che nella teoria freudiana la rimozione è "confutata" sempre dal ritorno del rimosso. E' come la metafora, che a un tempo cela e manifesta il significato che essa esprime.  Per Freud la paranoia è sintomo di un'omosessualità rimossa proprio nella misura in cui la manifesta "metaforicamente". Ora, il senso metaforico di un'espressione è inconfutabile, soprattutto se si tratta di una metafora involontaria.

Insomma, Grünbaum fa di tutto per vestire e attrezzare Freud come un soldato dell'induttivismo scientifico, salvo poi a rendersi conto, subito dopo, che è un pessimo soldato, e condannarlo quindi a morte. Lo nomina positivista a tutti gli effetti, per escluderlo subito dopo per insubordinazione.

 

6.  

 

Demolendo la legittimità scientifica della psicoanalisi, Grünbaum si rende conto che così finisce con il portare acqua al mulino dell'interpretazione detta ermeneutica - di Habermas, Ricoeur, G. S. Klein.  Per questa ragione egli deve prima di tutto confutare le letture ermeneutiche di Freud - e non a caso chiama "Introduzione" un lungo capitolo zero, dedicato a questa confutazione. Per eliminare la prospettiva ermeneutica egli deve respingere la dicotomia tra essere e saperi, deve dimostrare che c'è una sola forma di intelligibilità legittima, e tutto il resto è nonsense.

In effetti, l'indirizzo ermeneutico nega anch'esso alla psicoanalisi, come Popper, la qualità di scienza fondata sul Metodo delle scienze naturali, per assimilarla alle Geisteswissenschaften, scienze dello spirito, alle scienze dell'interpretazione comprendente.  La psicoanalisi è stata anzi evocata spesso dagli ermeneutici come un modello per le altre scienze umane. La psicoanalisi occupa la posizione focale privilegiata che occupava la storiografia nell'ermeneutica precedente a quella modernista, quella di Dilthey e dello storicismo.

Comunque, bisognerebbe riflettere seriamente su questa centralità della psicoanalisi nel dibattito filosofico: essa viene invocata da molti filosofi ermeneutici (primo tra tutti Habermas) come il modello da emulare delle "scienze dello spirito", mentre al contrario viene spesso evocata da filosofi razionalisti ed empiristi come il modello di falsa scienza, di camuffamento riuscito della metafisica in scienza. Paradigma di ciò che è bene, o paradigma di ciò che è male, la psicoanalisi tende comunque a essere vista come paradigmatica, o esemplare.

L'ermeneutica per antonomasia, che chiamerei bene-detta, però può - come in Habermas - elevare la psicoanalisi a paradigma di scienza dello spirito in quanto questa ermeneutica ammette la dicotomia fondamentale tra scienze della natura e "scienze" umane.  Dicotomia del resto molto familiare alla cultura italiana, attraverso la lunga stagione del neo-idealismo crociano e gentiliano: che si tratti di Croce, di Gentile o di Habermas, ogni neo-hegelismo si fonda sulla divisione tra Vernunft e Verstand, tra Ragione e Intelletto. La psicoanalisi, come già dapprima la storiografia, sarebbe una "scienza di ragione" non una "scienza d'intelletto".

Questo approccio implica quindi una divisione netta dell'essere in due "sostanze", che oggi ci piace chiamare natura e cultura (un tempo si preferiva la divisione tra Natura e Storia). A quella prima fetta dell'essere compete la spiegazione delle cause naturali, alla seconda fetta l'interpretazione delle azioni umane. Essa accoglie insomma il vecchio dualismo, caro a una parte della tradizione filosofica occidentale: la divisione dell'essere in Materia e Forma, in Sensibile e Intelligibile, Corpo e Spirito.  Per l'ermeneutica quella scientifica è insomma solo una delle due forme possibili di intelligibilità del mondo.

Ora, per un positivista come Grünbaum il modello di razionalità è offerto dalla fisica moderna. La sua argomentazione contro l'ermeneutica non a caso esamina svariati esempi tratti dalla scienza-regina, per mostrare come il modello di razionalità derivato dalla fisica sia applicabile anche a eventi umani o "spirituali": la razionalità coincide con il metodo scientifico tout court. Non c'è alcuna separazione tra ragione e intelletto.

Dietro la disputa tra Grünbaum (e Popper) e l'ermeneutica si annida difatti un problema fondamentale dell'epistemologia stessa: c'è una sola intelligibilità possibile del mondo, oppure ce ne è più di una? Il sapere, in tutte le sue articolazioni e specializzazioni, mostrerebbe una fondamentale unità metodologica, oppure avremmo a che fare solo con vari "saperi" tra loro incommensurabili? Sospetto che ancor più della teoria, l'attività psicoanalitica può avere un senso - e vedremo in che senso parliamo qui di "senso" - solo se si accetta la divisione dell'intelligibile in una pluralità (cosa ben diversa dal dualismo classico dell'ermeneutica bene-detta) di saperi che non combaciano, se rinunciamo cioè al presupposto dell'unità del Sapere.

 

 

7.    

 

Grünbaum porta alcuni esempi tratti dalla fisica moderna per dimostrare che in realtà anche la fisica è una scienza storica - ad esempio, descrive l'isteresi nel magnetismo.

     E' però facile capire la svista di Grünbaum riguardo alla storicità in senso ermeneutico. Quando i filosofi ermeneutici parlano di "interpretazione storica degli eventi", parlano davvero delle stesse cose che possono avere un nome simile in fisica? E' questa interpretazione paragonabile all'ipotesi "storica" del Big Bang, per esempio?

Habermas sostiene ad esempio che una motivazione inconscia non è assimilabile alla comprensione di una causa perché la presa di coscienza di questa motivazione agisce sulla causa del sintomo, dato che ha il potere di dissolvere la causa. Si tratterebbe in questo caso della hegeliana "causalità del destino", non della causalità della fisica. Grünbaum di contro gli fa notare che, anche se questo avvenisse di fatto nella cura analitica, ciò darebbe al contrario ragione a un'interpretazione causalista della rimozione e del sintomo (che era appunto l'interpretazione di Freud, ben lungi dall'"auto-fraintendersi scientisticamente"). In effetti se, come sostiene Freud, la causa del sintomo è proprio la mancanza di consapevolezza (cioè la rimozione) del suo senso, allora l'efficacia causale della rimozione, vale a dire della mancata coscienza del desiderio inconscio, è confermata non confutata.

Pensiamo a un esempio molto più antico dell'isteresi o del Big Bang, caro agli Antichi: quello del fiume, come dispiegamento storico di un flusso di acqua (storico perché il fiume scorre solo in un senso, come accade col tempo). E' come se Grünbaum dicesse: la costruzione di una diga che devii il corso "storico" di un fiume non smentisce la teoria idraulica causalista dello scorrere del fiume, anzi, è una applicazione tecnica che ne conferma la giustezza. Non si vede quindi in che senso la tecnologia psicoanalitica (almeno nel progetto di Freud) sarebbe una smentita della causalità psichica: essa ne dovrebbe essere piuttosto una conferma (sempre ammesso, e non concesso, che si tratti di una tecnologia efficace).

Eppure si consuma qui un profondo malinteso. Che differenza c'è tra il fiume, come acqua storicizzata della fisica, e il fiume dell'ermeneutica?

A Eraclito - "non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume" - W.O. Quine obiettò che non ci si può bagnare due volte nella stessa acqua nello stesso punto, ma certamente sì nello stesso fiume. Il fiume è un'entità interpretata che non coincide con la sua acqua. Chiamiamo Po lo stesso fiume di 2000 anni fa, anche se tra quel Po e il nostro non c'è in comune nemmeno una molecola d'acqua. Lacan, lettore di Saussure, direbbe che il Po è, oltre che una massa d'acqua, un significante.  Un ermeneutico direbbe che è un'interpretazione. Sia sul fiume della fisica che su quello dell'interpretazione si può costruire una diga, ma si può mutare il corso del fiume dell'interpretazione senza bisogno di ricorrere a dighe. Per esempio, disegnando una nuova carta geografica con una diversa nomenclatura.

Il fiume fisico di solito si dà all'osservatore come unità:  cuore della verde vallata, pare unire le sue due sponde, fecondandole con lo stesso limo. Eppure il fiume dell'interpretazione serve spesso non a unire, ma a dividere. "Il Piave mormorò / Non passa lo straniero": qui il fiume mormora la sua identità di limite, scelto dal Generale Diaz per concentrare la resistenza italiana contro le truppe austriache, e la storia ha mostrato che quella fu una buona interpretazione (anche grazie al transfert patriottico che essa provocò in Italia). Tuttora un fiume solenne, il Reno, divide due nazioni, oggi pacifiche, che pur attorno a quel fiume lasciarono milioni di cadaveri, in forza del contrasto tra le loro rispettive interpretazioni patriottiche.

Insomma, con il fiume dell'interpretazione si può operare, come dicono i medici, sine materia. Il che non implica che queste operazioni siano puramente immaginarie, tutt'altro. I corpi crivellati di colpi ai bordi del Piave e del Reno sono stati una ben dura e concreta realtà.

Posso cambiare l'identità del fiume dell'interpretazione, per esempio distinguendo diversamente i suoi rami. Perché diciamo che la Dora Baltea è un affluente del Po, e non che il Po è un affluente della Dora Baltea? Così, gettando dadi come Cesare, possiamo trasformare uno sparuto torrente da confine dell'Impero a inizio della conquista epica dell'Impero. C'è insomma un'affinità ontologica tra il gioco dei dadi e i fiumi che circoscrivono gli imperi.

Possiamo definire allora il significante - l'interpretazione degli ermeneuti - come una causa sui generis che non muta gli eventi in quanto tali, ma che dà loro un senso diverso "regolandoli" in altro modo. Se dall'esempio dei fiumi passiamo a un esempio più matematico, possiamo farci un'idea di che cosa sia un sintomo in senso psicoanalitico - in che senso cioè il riconoscimento della sua "causa" è inconfutabile.

C'è una storiella in cui una spia deve entrare nella città assediata dall'esterno, ma deve imparare la parola in codice per farsi aprire la porta della città. Si apposta, vede avvicinarsi uno, dall'alto della torre gli gridano "Otto" e l'altro risponde "Quattro", così lo lasciano entrare. Si avvicina poi un altro, e dall'altro gli gridano "Dieci", a cui il nuovo arrivato risponde "Cinque"; lo lasciano entrare. Poi se ne avvicina un altro ancora, gli griddano "Dodici" e l'altro risponde "Sei"; lo lasciano entrare. A questo punto il codice sembra chiaro alla spia: occorre dire sempre la metà del numero che viene gridato dalla torre. Così si avvicina anche lui alla porta e gli dicono dalla torre "Quindici", lui risponde "Sette e mezzo", ma gli sparano. Egli non aveva capito che il codice era un altro: dire il numero di lettere di cui il nome di un numero è composto. Così a "Quindici" avrebbe dovuto rispondere "Otto".

Le prime tre botta e risposta non cambiano, cambia solo la loro interpretazione.Con queta nuova interpretazione, do senso all'insensatezza di un puro evento, trasformando ipso facto questo evento in un segno di un testo.

Questi esempi servono a farci capire come la storicità nel senso ermeneutico non consista nel fatto che, come in fisica, certi eventi vanno spiegati con altri eventi che li hanno preceduti. Per storicità si intende il fatto piuttosto che noi - come membri di una comunità morale - ereditiamo le interpretazioni che magari poi cambieremo, anche se certo con molta "analisi" e fatica.  E' la storia non di eventi, ma di interpretazioni di eventi, le quali hanno generato eventi che non sarebbero stati senza quelle interpretazioni. Le interpretazioni di tipo psicoanalitico sono allora interpretazioni di interpretazioni, sono della stessa "sostanza" del loro oggetto, esattamente come, in logica, un catalogo di segni scritti è esso stesso segni scritti.

Certo che la teoria del Big Bang è un'ipotesi storica. Ma essa ha potuto essere formulata a partire da questo presupposto: che le leggi della fisica che riconosciamo oggi valide sono le stesse di quelle di miliardi di anni fa, all'epoca della Grande Esplosione. Non è così della storicità in senso ermeneutico: essa parte dall'idea che le regole che muovono gli uomini all'azione, e anche al sapere su queste azioni, cambino col tempo; che insomma le teorie che gli uomini elaborano su se stessi, compresa la nostra teoria contemporanea sugli uomini, sono esse stesse parte di quelle azioni umane di cui sono appunto le teorie. Non è la stessa cosa della previsione "storica" per cui una barca mandata alla deriva nel Po a Torino, arriverà dopo un certo numero di ore a Piacenza - alla base di questa previsione c'è il presupposto che nel (frat)tempo in cui la barca va da Torino a Piacenza, le leggi dell'idraulica non cambiano. L'ermeneutica si occupa invece del divenire degli eventi in quanto effetti della mutazione delle leggi, delle regole. La storicità ermeneutica si interessa ai cambiamenti di regole, norme, interpretazioni, non ai cambiamenti di eventi.

 

 

8.    

 

Quando parlo qui di interpretazione ermeneutica dell'interpretazione psicoanalitica, dò un senso lato al termine ermeneutica. Vi includo anche ciò che chiamerei un'ermeneutica maledetta, così maledetta che non ne merita di solito nemmeno il nome. Per esempio il pensiero "maledetto" di Lacan. La sua affermazione "il n'y a de faits que de langage", "non ci sono fatti se non di linguaggio", non mi pare così diversa dal pronunciamento di Nietzsche, con il quale si fa iniziare per lo più la peripezia ermeneutica: "non esistono fatti, ma solo interpretazioni".

Possiamo dire che la proposizione "l'inconscio è strutturato come un linguaggio" rientri in un'ermeneutica largamente intesa? Possiamo dirlo. Se l'inconscio ha la forma del linguaggio, allora ha la stessa forma - se non la stessa sostanza - della teoria psicoanalitica la quale, come ogni teoria, è fatta di linguaggio.  Per ciò stesso la dottrina lacaniana suppone una circolarità ermeneutica: uno scambio delle parti tra soggetto e oggetto, tra interpretante e interpretato, che risultano essere quindi, in qualche modo, della stessa "natura".

Possiamo anzi dire che l'ermeneutica propriamente detta - o benedetta, per distinguerla dalla maledetta - è un'ermeneutica incompleta, timida. Essa trasuda le filosofie classiche da cui i pensatori ermeneuti sono emigrati, portando con sé, come ogni emigrato, reliquie e abitudini della patria d'origine: il neo-hegelismo di sinistra, o il neo-kantismo, o la fenomenologia.

E' perciò alquanto limitante ridurre l'interpretazione, in senso ermeneutico, alla sua formulazione fenomenologica o hegeliana. Per esempio, ridurla alla comprensione delle altrui intenzioni espresse nei testi. E' come identificare il figlio con il padre, portando come prova i tratti del padre che il figlio riproduce. La comprensione immediata e diretta di un testo, che pare non analizzabile, è un caso-limite "benedetto" da cui l'ermeneutica "maledetta" ci dovrebbe distogliere[9].

 

 

9.   

 

Ma questa reinterpretazione della psicoanalisi come interpretazione ermeneutica maledetta - si dirà - non equivale alla sua totale liquidazione come teoria vera, come ricostruzione adeguata di cause psichiche? La reinterpretazione ermeneutica non cancella la fondamentale distinzione fatta da Wittgenstein[10] tra causa e senso, che in qualche modo Grünbaum riprende? Il mio riuscire a trovare un senso in certi eventi (il mio ri-riconoscervi un testo) non mi consente di affermare che quel senso è stato pensato e voluto da qualcuno (foss'anche un soggetto inconscio). Insomma, la decifrazione di un senso non equivale a dimostrare che quel senso è anche la causa (che Aristotele chiamerebbe 'finale') di quel testo.

In effetti, la critica che Wittgenstein muove a Freud è ben più profonda di quella di Grünbaum; essa assomiglia, per certi versi, alla critica che Kant articolò della prova ontologica dell'esistenza di Dio. In Freud non si tratta, come in Anselmo di Canterbury - e come in Descartes o in Leibniz - di dimostrare l'esistenza di Dio a partire da un pensiero di perfezione, ma di dimostrare che il senso di un testo coincide con la causa di quel testo. Per Freud, se io invenio un senso in un sogno, sono autorizzato a pensare che il senso - cioè l'intenzione che vi colgo - è anche realmente causa di quel sogno.  Nel senso in cui, se colgo il senso di una frase, posso automaticamente affermare che nella testa di chi l'ha scritta c'era un'intenzione di scriverla mirando appunto a quel senso - che insomma quel senso intenzionale è causa dell'esistenza materiale del testo. In realtà, qui Freud compie un errore, in cui cade sostanzialmente anche Grünbaum.

Perché non posso dire che il senso che avevo in mente mentre scrivevo quella frase non è una causa, nel senso della causa fisica?  Perché la causa dello scritto coincide appunto con il suo senso.  Se dovessi dire qual è la causa (che Aristotele chiamò finale) della frase

 

"la causa dello scritto coincide appunto con il suo senso",

 

dovrei solo dire il pensiero "la causa dello scritto coincide appunto con il suo senso". Ma qui, appunto, per pensiero non intendo altro che il senso della frase. Il che equivale a dire che causa ed effetto sono la stessa cosa! L'effetto difatti, nel nostro caso, non può essere le macchie di inchiostro o i tratti sul computer della forma "la causa dello scritto coincide appunto con il suo senso": anziché scrivere questa frase, potrei pronunciarla, oppure digitarla in Morse, essa resterebbe la stessa. Il senso è causa quindi solo in senso pickwickiano - è una causa alquanto strana, che coincide con il suo effetto. Ma una causa che coincide con il suo effetto non è la causa di quell'effetto.

Dire che la frase suddetta è causata dal suo senso equivale a dire, in fisica, che la causa della dilatazione di una sbarra di ferro non è il calore, ma... la sua dilatazione. Il senso è causa di un testo, insomma, non diversamente da come per i medici di Molière il sonno indotto dall'oppio aveva per causa efficiente la virtus dormitiva.

Come Anselmo considerò una contraddizione il pensiero di un essere perfetto che manchi dell'esistenza, così Freud percepisce come contraddittorio un senso di un testo che non sia anche sua causa. In effetti, se dimostrassi che la Divina Commedia è il risultato di una combinazione casuale di lettere, essa perderebbe ipso facto tutto il suo senso. Wittgenstein mostra però che causa e senso devono essere logicamente scissi, che essi non possono implicarsi - così come Kant, dando ragione a Gaunilone, mostrò che le nostre rappresentazioni del mondo non coincidono con ciò che il mondo realmente è.

La legittimità delle interpretazioni psicoanalitiche non deriva dalla loro supponibile verità - nel senso metodico, di verità come adaequatio rei et intellectus - ma da qualcosa di diverso: dalla loro verosimiglianza; o da ciò che Ricoeur chiamò piuttosto plausibilità. Senonché, questa sostituzione della verosimiglianza alla verità non equivale a una forma di nichilismo interpretativo, del tipo "tutto può avere qualsiasi senso", e cioè "qualsiasi interpretazione va bene"?

Possiamo dire che un dipinto, metti di Tiziano, che rappresenta una bella Danae nuda, ha per causa la Danae (che peraltro non è mai esistita)?  Diciamo piuttosto, più correttamente, che la Danae non è causa del dipinto, ne è il modello. Nel senso che le vero-assomiglia. Ma la mia interpretazione non è abbandonata al mio capriccio, come paventano certi ermeneuti: non sono tanto libero dal vedere in quel quadro una formica. Se in quella ragazza nuda e paffuta vedo una Danae, questo accade perché questa è l'interpretazione più plausibile.

Certo, posso chiedermi che cosa volesse rappresentarmi Tiziano. Posso avere qualche indizio del fatto che abbia preso per modella sua sorella, ad esempio, oppure che volesse rappresentare invece Maria Maddalena. Ma se ignoro le vicissitudini di Tiziano all'epoca della composizione del quadro, che cosa mi fa supporre che la sua intenzione di raffigurare fosse causa di quel dipinto? Il fatto che io vi riconosco la Danae. Congetturo che Tiziano la pensasse come me, ma questa congettura ha come unica base il senso (la figura) che vi colgo. Suppongo che il senso che vi riconosco sia anche causa. A meno di non avere documenti storici che mi inducano a pensare che Tiziano in realtà volesse rappresentare Maria Maddalena, o fare il ritratto della sorella.

Questo risitua il valore probante dell'esperienza clinica, che Grünbaum pone nel contesto della giustificazione, e che io invece situerei in un contesto che chiamerei del conforto. Egli non si rende conto che la conferma terapeutica per Freud è certo importante, ma nel senso in cui in filosofia o nella critica testuale si ambisce ad avere anche un conforto corroborativo di certe ipotesi interpretative. Se l'autore di un testo è vivo, il critico si augurerà che questi confermi e dia supporto alla sua interpretazione - ma anche se l'autore non fosse d'accordo, il "mondo della critica" oggi gli consente di sostenere questa tesi contro l'opinione dell'autore.  Analogamente, la fuga di Dora dall'analisi con Freud non smentisce, per Freud, la validità della sua analisi dei sogni della paziente. Con Dora Freud ammette sì un errore, ma non di interpretazione dei sogni o dei sintomi, bensì di transfert (o meglio ammette di non aver tenuto conto del transfert).

E' vero, se un critico o filologo si trovasse a essere puntualmente smentito dagli autori, questo indebolirebbe a lungo andare le sue ipotesi, ai suoi stessi occhi. Habermas pensa, alquanto semplicisticamente, che l'analizzante sia il solo garante della validità o meno delle interpretazioni analitiche.  Di fatto, in molte pratiche ri-costruttive, l'assenso degli autori - o quello degli analizzanti - non è il vero e ultimativo criterio di prova della critica e dell'analisi.

Comunque, l'interpretazione analitica non per questo è un'interpretazione qualsiasi, arbitraria.  Nella vita concreta, è noto, un'interpretazione non vale l'altra: preferiamo certe letture come più felici di altre, nel senso che rendono più felice il nostro rapporto con gli atti, nostri o di altri, che prima ci apparivano inintelleggibili. Se nella ragazza dipinta vedo la Danae, anziché la sorella di Tiziano, questa maggiore plausibilità della mia interpretazione mi procura un rapporto più felice con il dipinto stesso.

Le cause finali identificate da un'interpretazione sono inconfutabili ? Popper ha ragione, e Grünbaum ha torto ? ma possono avere più o meno effetto, nel senso in cui "fa effetto" un'opera artistica, una idea politica, un atto, una visione filosofica, una relazione amorosa.  Criterio della verosimiglianza, insomma, è il peso concreto del successo, in tutti i suoi aspetti. Un successo che per lo più è verificabile, e ben poco ineffabile o soggettivo. Il che tra l'altro si accorderebbe ai presupposti pragmatisti che ormai orientano il nostro fiuto per la verità, in quanto la verità oggi è torta verso la "credibilità". Anche William James diceva che la filosofia autentica (non "vera", perché dopo tutto una filosofia non può essere, per costituzione, vera) è "una filosofia che ha successo su scala mondiale".

Un approccio davvero radicale ci porta inevitabilmente a rovesciare - in senso jamesiano - la teoria degli analisti che minimizzano gli effetti della psicoanalisi e celebrano le sue virtù esplicative. Il vero interesse filosofico della pratica analitica non è tanto nella sua visione antropologica (tutto sommato, non più interessante di altre antropologie moderne), nella sua metapsicologia, ma proprio nel suo fare effetto. Non parlo tanto degli effetti terapeutici - difficilmente valutabili - ma del suo fare effetto nel senso più ampio, come fanno effetto certi spettacoli nuovi o certe dottrine politiche o certe idee filosofiche. Una riflessione filosofica davvero interessante dovrebbe esser fatta sulla pratica analitica, più che sulla teoria.

 

 

10.    

 

Lo statuto problematico della psicoanalisi tra sapere ed etica - oppure, tra sapere delle cause e ricostruzione del senso - può essere toccato con mano se solo chiediamo a uno psicoanalista: E' possibile esplicitare un'interpretazione non per fini analitici puri - a fin di bene, potremmo dire - ma per fare del male all'altro? Si può interpretare qualcosa dell'inconscio per ferire una persona, per esempio, per deprimerla o per umiliarla? Oppure è nella natura stessa dell'interpretazione corretta il suo escludersi come strumento di attacco e di critica?

Qualcuno potrebbe rispondere che questo uso perverso della psicoanalisi è possibile, non meno dell'uso maligno della fisica atomica, ad esempio per costruire bombe. Non a caso ogni analista bravo deve saper dosare le sue interpretazioni, accompagnarle con tutta una tappezzeria di ammortizzatori, che eviti le letture squalificanti e mortificanti da parte dell'analizzante.  Questo savoir faire, o tatto nel dire la verità, inoltre, non discende dalla teoria ma è affidato all'intuito e al sapere empirico dell'analista. Il che dimostra che, essendoci continuamente il pericolo di questi effetti perversi, la possibilità dell'uso perverso del sapere analitico è sempre aperta.

Eppure un'impostazione analitica più profonda deve contestare la verità di un'interpretazione che venga male-intesa dal soggetto. Questo perché nell'interpretazione il modo di dirla è inscindibile dal suo detto - come in poesia, forma e contenuto non sono logicamente scindibili. La retorica e l'etica analitica coincidono proprio perché l'interpretazione non fa appello alle strutture logiche e razionali del soggetto; fa appello alle sue capacità di cogliere nessi e relazioni non logici ma efficaci. La retorica analitica è in sostanza un'etica del ben dire. Se l'analista irrita o ferisce il suo analizzante con un'interpretazione precipitosa, non si tratta solo di una sua deficienza secondaria, ma di un abbaglio squisitamente analitico: ha fatto emergere qualcosa del suo contro-transfert, si dice, ha reagito come un uomo qualunque più che interpretare da vero analista. Come ha precisato Lacan sin dal suo saggio sul "tempo logico"[11], è una mera astrazione la possibilità che l'analista arrivi molto prima dell'analizzante a capire il fondo di un sogno o di un sintomo: non è possibile capire fuori del tempo, fuori della scansione in cui il discorso dell'analista fa da contrappunto e punteggiatura al discorso dell'analizzante. La tempestività dell'interpretazione non è una qualità secondaria dell'interpretazione (così come sono secondari gli odori e i sapori dei composti per la chimica moderna) ma una condizione fondamentale della sua verità in quanto veracità, cioè della sua efficacia.

Possiamo allora dire che per un freudiano l'interpretazione veramente analitica - o l'interpretazione analitica vera - non può mai essere viziosa, deve essere sempre virtuosa. Il vizio, anche dell'analista, coincide con l'ignoranza, e la virtù sempre fondamentalmente con il sapere, come nella concezione platonica. In Platone le idee, modelli del mondo sensibile, non sono semplicemente l'insieme dei nomi astratti, ma sono veramente idee quando hanno insita, in loro, la bontà (le idee del male, del fango, della menzogna, ecc., non sono vere idee). Come nella metafisica platonica, anche in quella freudiana etica e scienza sono consustanzialmente implicate. Ma se il sapere coincide con l'operare bene - o con il ben dire, come nella psicoanalisi - siamo in un sapere fondamentalmente diverso dal sapere che si esercita nelle scienze moderne.

Per verità intenderemo allora qui la verità nel senso delle filosofie classiche e della scienza moderna: come scoperta ed enunciazione della causa dei fenomeni. Per verosimiglianza, o plausibilità congetturale, intendiamo invece un effetto di un discorso o di un'opera, qualcosa che mobilita l'ordine del senso e non necessariamente della causa. La verità sta alla verosimiglianza così come la causa dei fenomeni sta al senso dei testi.

L'interpretazione freudiana può allora essere descritta come la ricerca e l'inventio di un senso che sospende la causa, nel senso che se il senso è causa - ad esempio, un certo pensiero che è "causa" di un certo testo scritto - questa causalità non è provabile. Nell'interpretazione - non solo in quella freudiana - il senso è congetturato come causa. Questo è quel che Lacan chiama significante.

 

 

11.    

 

Ma che resta allora dell'ontologia (e quindi della necessaria metafisica) della psicoanalisi, della sua idea che senso e causa in qualche modo coincidono? Che cosa resta della teoria del realismo dell'inconscio?

In effetti, quando lo psicoanalista, nella sua pratica, pensa di incontrare qualcosa del puro reale? Quando gli pare di confrontarsi con le pulsioni, con ciò che ? come riconosce il fenomenologo Ricoeur ? non è riducibile a senso, e che si presenta con l'insensatezza ripetitiva della pura forza. Ciò che chiamo qui differenza tra causa e senso, Ricoeur lo chiama differenza tra "forza" e "significazione". Se il testo è il senso, c'è del non senso ? cioè del reale ? nel soggetto, ed è ciò che Freud considera energetico, vale a dire il reale del godimento insensato dell'uomo.

Ma questa è la teoria. In pratica, dove l'analista pensa di invenire, di incontrare, la  forza, il reale? In ciò che resiste all'interpretazione. Non è reale l'ostinazione del sintomo che non cede ad alcuna interpretazione? Il reale è sempre ciò che dell'evento resiste alla sua trasformazione in testo. Come ha ben visto a suo modo Lacan, il reale ? il Grund ? dell'interpretazione e della teoria analitiche è ciò che le resiste, e che in fondo la falsifica. E' ciò che de-testa l'interpretazione che at-testa l'inconscio.

Ma se l'analista accetta questa ricostruzione, egli deve sapere che dovrà pagare un prezzo alto. Egli si trova insomma di fronte a un double bind epistemico:

 

1) o accetta l'interpretazione ermeneutica, per quanto "maledetta", e così facendo perde il suo carattere di "sapere sul reale", proponendo una interpretazione efficace possibile tra altre interpretazioni, magari anche più efficaci. Il suo criterio non sarà più la verità ma la verosimiglianza.  Al criterio forte della verità o falsità (terzo escluso), egli sostituisce un criterio più debole di plausibilità, che va mostrata (più che dimostrata) volta per volta.

 

2) oppure rivendica il reale del godimento, e allora imbocca la via metafisica: la metafisica di Lust, del desiderio e del godimento.

 

In altri termini, la riflessione filosofica ricorda alla psicoanalisi che essa, epistemologicamente parlando, non può avere la botte piena e la moglie ubriaca. Non può cioè allo stesso tempo interpretare l'inconscio e spiegare il comportamento umano; non può essere allo stesso tempo una metafisica del godimento e una scienza falsificabile.  O interpreta e manipola senza spiegare granché, o spiega troppo (risolvendosi in una metafisica), nascondendo il fatto che essa, d'altro canto, interpreta e manipola.

Insomma, comunque si decida, l'analista manca la scienza. Rischia di oscillare tra una visione dogmatica metafisica e un'ermeneutica raffinata che è validata unicamente dal suo successo storico. Ma forse questa decisione, con il rischio assoluto che essa implica, può assicurare alla psicoanalisi anche il suo successo epistemologico. Forse solo la nostra fiducia semplice e non garantita nel valore di verità di certe costruzioni analitiche - per quanto questo valore di verità sia del tutto incerto e opinabile - è la sola forza in grado di produrre quel valore come suo risultato.

 

 

12.    

 

Prenderò un esempio, tratto da Lacan, che mi pare rivelatore. Un analizzante di Lacan, di origine araba, non poteva usare una mano, senza che fosse evidenziata alcuna causa fisica dell’handicap. Pare che il sintomo sia stato levato (o elevato?) quando l'analista ha tenuto conto della legge islamica, che prescrive di tagliare la mano ai ladri. Ora, l'analizzante era convinto (inconsciamente) che suo padre avesse una volta rubato.

La sola cosa che interesserebbe Grünbaum in questo esempio è chiedersi se il sintomo sia stato (e)levato proprio a causa di questa interpretazione, se la rimozione della fantasia, o ricordo, del crimine del padre era davvero causa del sintomo, e così via.  Ma prima di considerare qualsiasi ipotesi, occorre capire in che cosa consista un'interpretazione analitica come questa, efficace o meno che sia.

Lacan voleva dire che la legge islamica è qui causa dell'inibizione, o sintomo, del soggetto? Potremmo anche dire che era una causa, ma ciò che conta era che fosse una legge. La psicoanalisi afferma sostanzialmente che certe leggi (Lacan le ha chiamate "simbolico") causano certi eventi umani, che risultano quindi loro effetti, anche se non diretti. Ma in che senso diciamo che questa efficienza di una regola, o legge, non è la stessa efficienza di una causa naturale come in fisica?

Nel senso specifico che l'enunciazione di questa "causa" è inconfutabile, pur essendo verosimile. Come ci ricorda Grünbaum, non avremo mai le prove del fatto che il togliersi del sintomo sia stato causato proprio da quell'interpretazione, che resterà in questo senso sempre una congettura. Wittgenstein aveva detto che quelle di Freud non sono ipotesi, ma congetture. E' questo carattere congetturale dell'interpretazione ciò che l'analista deve assumere. Come sono congetturali le ricostruzioni dell'archeologo (al cui metodo, come è noto, Freud si ispirava) o quelle del filologo, quando interpreta allusioni riposte in un testo.

 

 

13.    

 

I lettori di Freud non hanno forse colto fino in fondo la circolarità ermeneutica in Freud: la teoria psicoanalitica de-scrive il soggetto come diviso, come altro rispetto a se stesso (questo è il senso dell'ipotesi della rimozione), ma così facendo divide performativamente se stessa come in-certa tra la scienza e l'interpretazione, tra il discorso delle cause e il discorso del senso che sospende la causa. La presupposizione della divisione del soggetto in qualche modo contagia la teoria della divisione: la psicoanalisi continuamente si de-stituisce come scienza (sapere sulle cause), senza mai però ridursi a mera esegetica, a fenomenologia e filologia umanistica. In questo senso l'interpretazione analitica si situa tra la spiegazione scientifica e la comprensione fenomenologica, senza mai coincidere con una delle due. Questa in-certezza dell'interpretazione è un tratto che molti ermeneutici non colgono, e che li espone alle critiche di Grünbaum: l'intelligibilità freudiana, in effetti, non è riducibile alla comprensione decifrativa di un testo.

Lacan è certo più sensibile di qualsiasi altro psicoanalista a questa questione della scissione tra causa e senso. Non a caso egli insiste sull'après-coup, sulla freudiana Nachträglichkeit, attribuendogli una particolare centralità. L'après-coup – termine difficile da tradurre in italiano - consiste nel fatto che un ricordo dell'infanzia viene rievocato e letto come traumatico e altamente significativo: in realtà il suo significato traumatico o sessuale gli viene retroattivamente dalla vita adulta, o comunque posteriore.

Della Nachträglichkeit si può dare un'interpretazione forte, giocando sul rapporto ambiguo tra causa e senso. Essa dice che l'interpretazione attuale ristruttura "miticamente" gli eventi del passato. L'après-coup non sarebbe altro, insomma, che un'operazione mitica: il mito descrive come atti in un passato memorabile azioni e "sogni" del presente. Ma come i miti di origine sono una falsa causa degli eventi attuali - perché se non fossero falsi sarebbero storia reale, e non mito - così le scene infantili, benché realmente occorse, sarebbero meri miti esplicativi dei problemi attuali. In questa ottica, l'après-coup descrive semplicemente lo scacco esplicativo della psicoanalisi: essa da una parte cerca delle cause infantili al senso (patologico, per lo più) di atti ed esperienze attuali, o comunque posteriori alle scene; ma d'altro canto essa è costretta ad ammettere che queste "cause" sono semplicemente effetti retroattivi di senso.

Immaginiamo che con un temperino io abbia eseguito degli intagli sul mio tavolo di legno, e che un amico mi dica a un certo punto: "Ma questi sono caratteri della scrittura araba. Tu hai scritto in arabo la frase '....'". La "spiegazione" psicoanalitica equivale a dire "quando li feci non avevo alcuna intenzione di applicare un codice, ma ora ri-conosco che gli intagli da me fatti casualmente in realtà obbedivano al codice della lingua araba".

La tesi dell'après-coup è insomma l'estremo limite a cui la teoria psicoanalitica può giungere nel negare il valore esplicativo delle proprie interpretazioni: essa ammette il carattere mitico delle proprie teorie, ma legittimando allo stesso tempo il valore conoscitivo di questi propri "miti". Questo perché la psicoanalisi non è solo interpretazione di segni attuali, ma descrive i segni attuali come a loro volta interpretazioni di eventi precedenti. Malgrado l'ammissione di miticità, la psicoanalisi può ciononostante rivendicare una certa verità solo in quanto sostiene (ma lo sostiene essa stessa implicitamente) che lo spirito umano è, come la psicoanalisi stessa, un'attività interpretante. La veridicità analitica è catturata insomma nella circolarità ermeneutica.

Vediamo così come con la psicoanalisi non abbiamo a che fare con una teoria interpretativa, ma con il riflesso di una ontologia dell'interpretazione. La nostra è appunto un'interpretazione della psicoanalisi in quanto essa è attività interpretante di una psiche umana che viene descritta come anch'essa interpretante.  Abbiamo quindi una diacronia sfasata di interpretazioni: interpretiamo la psicoanalisi come una teoria dell'interpretazione dell'interpretazione nello stesso senso in cui l'analista parla di après-coup, cioè di una reinterpretazione soggettiva della propria storia. E, forse, anche ciò che proponiamo noi qui è un après-coup teorico della psicoanalisi.

 

 



[1] Tra i volumi già usciti in Italia: Paolo Repetti, a cura di, L'anima e il compasso, Theoria, Roma 1985. AA. VV. e A. Grünbaum, Psicoanalisi. Obiezioni e risposte, Armando, Roma 1988.

Tra i saggi: P. Parrini, A. Pagnini, G. Fossi, P. Migone in "Il  Libro del Mese", L'Indice, n. 10, 1988, pp. 4-7.

 

[2] Questa definizione stretta del sintomo è anche il limite di molti approcci cognitivo-comportamentali. Ora, si dà il caso che buona parte dei clienti degli analisti siano persone che non soffrono di alcun sintomo nel senso specifico cognitivo-comportamentale, e quindi in-trattabili secondo questi approcci. So di molte persone che soffrivano molto e che sono stati rigettati da psicoterapeuti cognitivi in quanto "a-sintomatici"! Eppure queste persone soffrivano di svariati sintomi, secondo i criteri psicoanalitici.

 

[3] Ho approfondito il valore della teoria freudiana della sessualità, e il significato epistemologico della discussione tra psicoanalisti attorno a questo tema, nel volume La strategia  freudiana, Liguori, Napoli 1984. Anche in "Sessualità e  bricolage", Rivista di psicologia analitica. Letture dell'inconscio, 1984, pp. 57-76.

 

[4] E' quanto fece già Platone. Per lui si trattava di conservare la dottrina parmenidea dell'essere come qualcosa di eterno, immutabile, unico, e non coincidente con gli eventi sensibili. Questa idea dell'essere entrava però in contrasto con la nostra esperienza comune dell'essere come caratterizzato dal movimento, dal divenire, e dalla molteplicità:  la minaccia era quella di inabissare nel non-essere tutto ciò che si presenta come esistente.  Il parmenideismo - come più tardi la teoria freudiana della paranoia, ad esempio - era insomma troppo forte. La dialettica permette a Platone di restare parmenideo, anche se "indebolito", pur cessando di esserlo: ovvero integrando la filosofia di Eraclito, opposta a quella di Parmenide.

 

[5] Mi riferisco qui alla distinzione, importante in logica, tra semantica estensionale e intensionale.

 

[6] S. Freud, Osservazioni psicoanalitiche su un caso di paranoia (dementia paranoides) descritto autobiograficamente (1911), in Opere, vol. VI, pp. 339-409. D.P. Schreber, Memorie di un malato di nervi, Adelphi, Milano 1974.

 

[7] S. Freud, Opere, vol. VIII, pp. 159-170.

 

[8] Così il titolo stesso dello scritto di Freud ha il valore di un lapsus freudiano, e va preso quindi - come ogni lapsus - alla lettera: non come "un caso apparentemente in contrasto con..." ma come "un caso in contrasto con la teoria psicoanalitica".

 

[9] Prendiamo una qualsiasi serie, per esempio di numeri:  "4,   1,  5,  9,   2,  6,  5,  3 ...."  Interpretare questa serie significa scoprire - o costruire? - la regola che genera la successione. In questo caso, possiamo "scoprire" che questa sequenza è parte del numero p greco, dalla seconda alla nona cifra decimale. Questa regola della serie - che a un tempo scopriamo e inventiamo - è il prototipo del senso testuale dell'ermeneutica, qualcosa quindi di ben diverso da quel mero concetto con cui di solito identifichiamo il senso.  Certo, ai suoi inizi l'ermeneutica si è caratterizzata come esegesi di testi, quindi come ricerca del senso come "concetto" da comprendere. Ora, quando esplicitiamo la regola della serie dei decimali di p greco, ad esempio, possiamo dire che la "comprendiamo" solo nel senso che siamo in grado di continuare quella serie, all'infinito. Da questo esempio di testo puramente numerico è facile vedere che comprensione è solo il fenomeno psicologico di un processo più complesso di costruzione interpretativa.

 

[10] L. Wittgenstein, "Conversazioni su Freud" in Wittgenstein,  Lezioni e conversazioni sull' etica, l' estetica, la psicologia e  la credenza religiosa, Adelphu, Milano 1967. Cfr. anche A.  McGuinness, "Wittgenstein and Freud", in McGuinness, editor, Wittgenstein and his Times,

 

[11] J. Lacan, "Le temps logique et l'assertion de certitude anticipée", Ecrits, Seuil, Paris 1966, pp. 197-213.

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