Flussi di Sergio Benvenuto

A proposito del "Pinocchio" di Benigni (2003)19/mar/2017


 

Con il film Pinocchio – che ha battuto record d’incassi in Italia – l’ex-ribelle Roberto Benigni pare ripetere nella sua carriera il lieto fine di Pinocchio: anche Benigni, da “piccolo diavolo” qual era, è diventato un bravo ragazzo di cui fidarsi. Benigni ormai ha cominciato a fare Benigni, e non si ride più. In ogni caso, il suo film ha spinto molti illustri pinocchiologi a tirar fuori dai loro cassetti saggi e ricerche su questo eroe che attira non solo i bambini. Testo e mito di Pinocchio continuano a sedurre molti di noi, perché in essi convergono ciclonicamente la pedofilia e la pedofobia di noi moderni (che sono a un tempo la stessa cosa e l'opposto una dell'altra). Come i medievali, anche noi leggiamo vari livelli di senso di un testo come Pinocchio: i sensi che gli ermeneuti del Medio Evo chiamavano letterale e allegorico sono il racconto edificante di un bambino che non vuole andare a scuola, i sensi morale e anagogico sono sovversivi. Ai livelli di significato più bassi, il racconto di Collodi (pubblicato tra il 1881 e il 1883) è una morality volta a promuovere la scolarizzazione universale e obbligatoria nell’Italietta contadina e artigiana, quando la maggioranza della popolazione era analfabeta. Il Grand Renfermement dell’infanzia nelle scuole statali - di cui ha parlato lo storico dell'infanzia Philippe Ariès - segnò la fine epocale del gioioso analfabetismo per milioni di figli di contadini e artigiani. Subito dopo la morte di Garibaldi, doveva apparire un modernismo audace il fatto che Geppetto non tenesse in casa il figlio come apprendista falegname, come si faceva allora nei villaggi toscani, e lo mandasse invece a scuola. Sarebbe come se oggi un impiegato delle poste di Grosseto si rovinasse per mandare il figlio a studiare informatica in California. Eppure oggi Pinocchio piace soprattutto ad anarchici, radical-deleuziani, semiologi e a Benigni appunto, già interprete della rabbia scanzonata e beffarda del provinciale toscano di sinistra. Tutti costoro leggono la favola à l’envers, attraverso lo specchio ribaltante post-moderno: vedono Pinocchio come “macchina desiderante”. Il Pinocchio-desiderio si rivolta contro la patria potestà e la scuola di stato, contro la disciplina familiare e l’etica dei sacrifici, contro il Realitätsprinzip e la sottomissione alla Kultur. E quando alla fine Pinocchio si piega, non gli resta che lavorare come un somaro per la famiglia, ridotta qui al padre - solo modo per non finire somaro à la lettre. Così Pinocchio è solo ironicamente un burattino - una macchina povera senza volontà propria, manovrata da fili e mani altrui - è al contrario spontaneità selvaggia, libidica, pre-alfabetica; insomma, desiderio puro. Ci affascina come pseudo-umano indomabile e inaffidabile. Ora, ogni genitore tradizionale (ma chi non lo è, in fondo, se fa il genitore?) vorrebbe che il proprio bambino sia, appunto, un burattino: sempre pronto a fare e pensare quel che lui adulto desidera che egli faccia o pensi. Non a caso molti ai figli preferiscono i cani, che in un certo senso restano sempre obbedienti e bambini. Pinocchio è quindi un eroe-ossimoro, incarna l’anti-burattinesco che c’è in ogni bambino. Per cui quando, alla fine, viene premiato per la sua sottomissione alla Legge diventando un vero bambino, noi ormai leggiamo proprio il contrario: Pinocchio cessa di essere Io Pulsionale e diventa un burattino, che fa quello che l’altro vuole che faccia. Ma Pinocchio non piace solo ai post-moderni, piace anche ai bambini. Da piccolo io ne ero entusiasta. Perché? Indubbiamente Pinocchio, in quanto non è di carne, dà forma a una sensazione che rode ogni bambino: quella di non essere completamente umano. Di essere abbozzo non finito, brogliaccio goffo. Ogni bambino è alquanto avvilito dal suo essere bambino. E’ dilaniato da un double bind: da una parte l'adulto lo spinge ad approfittare ad libitum del comfort della dipendenza infantile, dall’altra lo spinge a crescere al più presto. Per questo c’è tanto spesso un’artificiosa affettazione in ogni bambino (il che peraltro incrementa la sua grazia): proprio perché egli sente di non-essere-tutto, non gli resta che fare, quasi istrionicamente, quel che dovrebbe fare un bambino, sia per compiacere che per tormentare gli adulti. Il desiderio fondamentale di ogni bambino è di cessare di essere bambino. Che cosa sono il 90% dei giochi infantili se non una messinscena anticipata del loro esser grandi? Attraverso il desiderio di Pinocchio di non essere più di legno risuona il tarlo che strazia ogni cuore infantile. Saggiamente Collodi scardina proprio la cosa più inquietante per ogni pargolo: la coppia genitoriale. Questa da una parte gli garantisce un provvidenziale adulto di scorta (come la ruota di scorta in un’auto), dall’altra è fonte di invidia e gelosia, l’Edipo di Freud. Altra strepitosa contraddizione dell’infanzia. La coppia dei genitori attualizza infatti quella sessualità genitale da cui il bambino è escluso. Invece il padre di Pinocchio (Geppetto) e la figura materna (la fata dai capelli turchini) non fanno coppia - non fanno sesso. Si ignorano reciprocamente. Certo a Pinocchio non è consentito di esprimere fantasie esplicitamente sessuali, ma il suo erede lubrico sarà il Pierino delle classiche barzellette italiane (non a caso forse ambedue cominciano con P): il bambino, a un tempo ingenuo e scaltro, che ne fa di tutti i colori del sesso, e che dice quel che ognuno di noi sotto sotto, maleducatamente, pensa. Pinocchio non procaccia guai solo a se stesso, ma anche agli adulti che gli vogliono bene. Certo tutti noi abbiamo simpatia per Pinocchio, ma d’altro canto il racconto, malgrado il miele deleuziano che succhiamo da esso, ci confronta con l’uragano delle passioni infantili. Campione del Principio di Piacere, il bambino-Pinocchio ci irrita profondamente, minaccia la nostra quiete. Per questa ragione, forse, Collodi faceva finire la prima versione del racconto con la morte di Pinocchio per impiccagione. I nostri sentimenti adulti nei confronti del burattino - come nei confronti di ogni bambino - sono a dir poco ambivalenti. Un'altra contraddizione che Pinocchio esprime è il nostro atteggiamento nei confronti della tensione tra piacere e dovere. Pinocchio si trasforma in un somaro, perché “essere un somaro” significa essere ignorante: chi non studia quindi “lavorerà come un somaro”, farà lavori pesanti e umili. L’asino nella cultura europea è privo di diplomi scolastici, e perciò sgobba come un somaro: è insomma la figura zoologica del proletario (per questa ragione l’asino è diventato simbolo del Partito Democratico americano?). Il dilemma fondamentale di Pinocchio sembra essere: devo godere come un proletario, o soffrire come un impiegato di concetto? Dopo oltre un secolo, ci è finalmente chiaro quel che allora era già chiaro: che chi fa lavori umili (immigrati a parte) è uno che non ha voluto studiare. Oggi, svezzatici dalla rabbia marxista, sempre meno pensiamo che l’indigenza, nei nostri paesi industriali, sia un’irreparabile eredità sociologica: sempre più la vediamo come un destino individuale, al limite come una psicopatologia. Quando il DSM, il Manuale Diagnostico di Psichiatria oggi egemone, inserirà “Fare lavori umili” tra i mental disorders da trattare medicalmente? Anche se votiamo a sinistra, vediamo ormai l'umile come un Pinocchio che da giovane ha seguito il principio di piacere e non quello di realtà - cioè non si è "inserito nelle istituzioni". La povertà ci appare oggi – come nell’Ottocento pre-industriale - il prezzo per una debolezza morale o psichica. In America ci sono programmi psicoterapeutici per i poveri: per guarirli appunto della loro propensione alla povertà. Nel mondo che fu, la miseria era un modo di testimoniare Cristo e/o lo sfruttamento capitalistico – oggi è il prezzo da pagare per stupidità, depravazione o psicopatologia. Così, paradossalmente, il Pinocchio ottocentesco - che preferisce le scorciatoie della gratificazione immediata - assume oggi una lancinante attualità. Ognuno di noi, infatti, è incerto tra la nobile fedeltà infantile all'immediatezza del proprio desiderio da una parte, e la borghese necessità di ritardarne la soddisfazione dall’altra. La nostra cultura non idealizza più il dovere contro il diletto, anzi il contrario. Ci rassegniamo a fare cose spiacevoli senza più idealizzare questa rassegnazione. Il dovere ha perso la sua aureola etica – lo chiamiamo oggi “carrierismo”, “alienazione nel lavoro”, “workholism”, “fuga dalla libertà”, e simili. Ma sappiamo che la gratificazione senza precauzioni avrà per noi un prezzo alto, per molti di noi troppo alto. Così Pinocchio da una parte ci fa parteggiare per l’incontenibile bambino desiderante in noi, che non vuol saperne di sforzi e sacrifici; dall’altra ci ricorda comunque qualcosa che non vogliamo sentirci dire, ovvero che tra piacere e dovere non c’è armonia prestabilita, come cercano di farci credere pedagogia ed etica progressiste. Tutti ci auto-idealizziamo proclamandoci edonisti, ma di fatto, se vogliamo "fare qualcosa nella vita", sappiamo che dobbiamo faticare, ingoiare rospi, frustrarci, rinunciare. Pinocchio ci seduce allora perché ci confronta con le nostre due opposte rimozioni: con la macchina desiderante che siamo e con il pedante grillo parlante che sa come va il mondo.

 

Sergio Benvenuto

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