Flussi di Sergio Benvenuto

RICORDO DI UN PADRE DIFFERENTE01/lug/2016


 

Oggi, una scena che risale alla mia prima infanzia mi pare particolarmente importante per capire quel che mio padre, Mario Benvenuto, è stato per me. Scena privatissima, forse anodina per chi non è me, ma cruciale per me. Dovevo avere quattro-cinque anni. La sera, prima di andare a letto, “babbo” mi istruiva su varie cose. Noi figli da lui imparavamo tanto perché ci divertivamo, e ci divertivamo perché lui si divertiva a dirci, a darci quel che sapeva. Mi disse allora: “mentre ora stiamo parlando qui, in qualche parte del mondo sta nascendo un bambino. Ad ogni istante nasce un bambino”. Voleva con questo, credo, sprovincializzarmi: dirmi che il piccolo mondo nel quale viviamo è solo un frammento del vasto pianeta, che i bambini invisibili che nascono o vivono altrove non sono meno importanti dei bambini che ci circondano, visibili, bianchi e italofoni e biondi come io ero. Ma d’un tratto mi guardò fisso, e strabuzzò gli occhi che già erano grandi un po’ ipertiroidei, e mi adocchiò con una strana smorfia, qualcosa tra un sorriso e un ghigno, e aggiunse: “...e mentre stiamo parlando, ora, da qualche parte c’è qualcuno che muore!”

          Questa postilla mi dette un fremito di gelo. E’ come se d’un tratto dietro le forme rassicuranti del padre avessi scoperto la sua verità di vampiro. Forse perché mio padre, mentre la diceva, quasi se ne pentiva – “sarà il caso di dire a un bambino una verità così brutale?” Quella sua strana faccia esprimeva il suo conflitto: tra il desiderio di dirmi la verità e la paura di turbarmi.

Ma il punto è che mi disse la verità. Da una parte la nascita, dall’altra la morte – la dilacerazione, la simultaneità tra il mistero gaudioso della vita che emerge senza senso e il mistero doloroso della morte e della fine, anch’essa senza senso. Oscillazione perpetua, contrappunto senza fine, caldo e gelo, luce e buio. Le due facce inscindibili della parentesi di ogni vita.

Anche quando ero cresciuto, non ha mai cessato di dirmi che il nostro è un mondo in cui banalmente si nasce e banalmente si muore, e che in questa banalità della vita e della morte siamo tenuti a dare senso e passione alle nostre esistenze. Tutti i nostri valori sono ritagliati nell’interstizio tra eventi che non hanno valore: nascere e morire. Ancora oggi, credo che sia questa la questione etica e filosofica per eccellenza.

 

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          Mario Benvenuto ha avuto almeno quattro “identità” pubbliche: il professore-maestro, l’animatore socialista, il saggista filosofico, il cristiano inquieto e dissidente. Quattro identità non necessariamente in contraddizione né dilanianti. Eppure ho l’impressione che se ci si focalizza su una delle quattro identità, si finisce spesso col dare di lui, anche se inconsapevolmente, un’immagine coerente, armoniosa, senza chiaroscuri, senza faglie né discontinuità – l’immagine di qualcuno che mio padre, insomma, non è mai stato.

          Maio – come lo chiamavo io in modo un po’ infantile - era invece un uomo dilacerato; non solo tra le suddette identità, ma profondamente scisso dai paradossi e divisioni del nostro tempo. Hegel sottolineava che ogni uomo è figlio del suo tempo: in questo senso mio padre – uno che con ogni nervo del suo essere ha vissuto il proprio tempo - è stato quindi sempre, da capo a piedi, radicalmente, “un uomo”.

Quel che credo di aver veramente ereditato da Mario Benvenuto – quel che ancora oggi mi nutre e mi inquieta – in fondo non è nessuna delle quattro “identità” attraverso le quali è stato conosciuto e spesso ammirato: credo di aver ereditato la cosa che a me pare più importante di lui – la sua dilacerazione. Da tempo io non sono né socialista, né cristiano, non faccio politica attiva, e sono poco professore – solo nella coltivazione della filosofia l’ho seguito, anche se lontano dalle sue matrici “ambientali”, il neo-hegelismo storicista sedotto dal marxismo in cui si era formato. Ma anche se non vedo continuità diretta tra quello che mio padre ufficialmente “era” e quello che io “sono” o sarei, indubbiamente sono figlio d’arte. Quel che per me veramente ha contato di mio padre non è il socialista, né il teologo, né l’hegeliano, né la personalità di spicco a Napoli, non l’uomo “ben radicato nel territorio” - ma direi ciò che in lui faceva differenza da tutto ciò che egli “era”.

Delle sue varie “identità”, quella religiosa forse era la più debole come identità, ma la più forte come differenza. Talvolta diceva “che faccia farebbero i miei compagni di partito se sapessero che sono abbonato a Vita monastica?” - era la rivista dei monaci camaldolesi. L’inquietudine religiosa lo faceva differire drammaticamente dalle altre identità che lo rendevano tanto popolare.

Per me, mio padre è impensabile senza questa zona d’ombra, o sinistra, della questione religiosa. Dico bene religiosa e non cristianacattolica: prima ancora che cristiano, egli si sentiva travagliato dal desiderio di religiosità. Anche se di questo suo travaglio – o godimento? – non ne ha mai fatto né etichetta né bandiera: sarebbe stato impensabile per lui definirsi catto-socialista, ad esempio, o cristiano di sinistra, o gandhiano-marxista, o simili categorizzazioni. La sua interrogazione religiosa era pudica, riservata agli intimi – e all’intimità della scrittura.

Ognuna delle quattro “identità” di mio padre ha dato luogo a sequele diverse. Certamente tanti suoi allievi e amici – il suo séguito - sono rimasti più fedeli di me ai contenuti del suo insegnamento. Eppure la mia fedeltà filiale è comunque criptica, obliqua, segreta.

Perché questa scissione dell’io di nostro padre noi figli l’abbiamo assorbita, e costituisce, credo, il nostro orgoglio e la nostra ferita, la fonte della nostra saggezza ma anche della nostra dissennatezza, capacità di distanza critica ma anche di infedeltà e irresolutezza. Da lui mi viene, ad esempio, il piacere molto costoso a cui indulgo, quello di fare spesso il bastian contrario, il guastafeste delle Belle Unanimità, la stecca che rompe l’armonia zuccherosa del bel coro.

In questo differire da ciò che pubblicamente era gli sono restato fedele. Fedele a quel che ha fatto sì che io differissi rispetto a lui – forse realizzando egli quindi, attraverso di me, una differenza rispetto a se stesso – e quel che fa sì che io differirò sempre rispetto a me stesso, come lui ha sempre differito rispetto a sé. Quel che ancora mi lavora, mi buca, è direi non tanto il suo sincretismo – il suo “essere” ad un tempo marxista, e teologo, e pacifista, e oratore popolare, e combattente politico – quanto qualcosa che forse nemmeno lui sapeva di sé, e che forse solo ora comincio a credere di sapere. Come dire questa cosa difficile da definire e da descrivere, e che per me è la vera continuità tra lui e me? Ci provo.

Devo ricorrere a qualche orrido neologismo. Direi, aforisticamente, che prima di qualsiasi altra cosa, o dopo e in cima a qualsiasi altra cosa, mio padre era un esistenzialista della carne.

 

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Era esistenzialista non nel senso che seguisse allora la moda filosofica che portava questa etichetta. Amava particolarmente Merleau-Ponty e Le Senne, lesse Heidegger, Jaspers, Sartre e Camus, senza però diventare un aficionado delle loro maniere. Piuttosto era un esistenzialista viscerale, aldilà di quello che all’epoca si chiamò così. E non nel senso che mettesse al centro l’uomo in quanto per-sé o essere-parlante o Dasein: lo era in quanto, usando e ribaltando la terminologia di Heidegger, gli interessavano gli enti più che l’Essere. La finitezza e fragilità dell’ente vivente – non solo quindi di quello umano – era per lui la preoccupazione principale. Era un esistenzialista quasi allo stato brado.

          Eppure si era formato nel clima crociano di Napoli della prima metà del Novecento – aveva conosciuto bene Croce di persona e ne aveva frequentato il salotto. Ogni tanto ci diceva “come avrebbe detto don Benedetto...” e giù una battuta o un aforisma in napoletano – Croce parlava sempre rigorosamente in napoletano. Francamente, la mia immagine di quel crocianesimo che ha dominato la cultura italiana, e in particolare napoletana, fino al Dopoguerra, è di una visione ottocentesca della vita -  hegeliana, risorgimentale, romantico-nazionale, popolar-storicista. Croce e i suoi emuli ignoravano non solo la scienza moderna, ma trovarono il tempo di ignorare anche la grande filosofia del Novecento, da Husserl ad Heidegger a Wittgenstein. Le grandi avanguardie artistiche del Novecento erano per Croce e i suoi seguaci solo degenerazioni, bailamme. Le scienze umane, dalla psicoanalisi all’antropologia alla sociologia – che hanno trasformato radicalmente la nostra concezione di noi stessi – per i crociani erano “guazzabugli”, derisori cascami del positivismo e dell’americanizzazione.

Quindi mio padre - un uomo che ha vissuto nel cuore del Novecento - si è formato nella Napoli dell’epoca come un intellettuale dell’Ottocento. Così ha passato la seconda parte della sua non lunga vita a liberarsi, con tanta buona volontà e tanta gaia fatica, da questo imprinting. Direi in tutti i campi. Uomo maturo, ha cercato di recuperare il tempo perduto – perciò amava farsi suggerire le letture dai giovani. Ricordo che un mio amico studente una volta en passant citò Kavafis, un poeta allora quasi ignoto in Italia: si segnò subito il nome e poi si comprò un volume del poeta greco. Il suo pendere dalle labbra di certi giovani mi ricorda un altro maestro per me: Roland Barthes. Costui, a differenza di quasi tutti i professori che ho conosciuto, si interessava veramente al pensiero di certi suoi allievi, forse giusto perché erano più giovani di lui.

Più “il babbo” invecchiava, più dava importanza alle idee nuove. Quando, negli anni 60, lo spinsi a leggere gli autori post-strutturalisti francesi, li divorò con passione – gli interessarono particolarmente Barthes e Derrida. Fu molto impressionato da certi film di Pasolini e Buñuel. Alla fine degli anni 60 ebbe una corrispondenza con Luciano Anceschi, il quale voleva farlo collaborare a Il Verri - all’epoca questa rivista era un forum dell’avanguardia artistica e del Gruppo 63. La cosa lo tentava, anche se una volta mi disse “la vitalità d’avanguardia di Anceschi è bella, ma stride con la mia stanchezza di retroguardia.”

Mio padre aveva capito che la cultura napoletana – soprattutto la migliore – aveva perso un treno storico, che i fasti del neo-hegelismo storicista, malgrado il suo smalto, erano anche un indice di chiusura e di ritardo. Certo Croce e Gentile (come mente speculativa mio padre preferiva Gentile a Croce) erano giganti nell’Italietta fascistella della prima metà del secolo - ma questa è l’ambiguità dei grandi maestri, che da una parte ti fanno maturare in modo gigantesco, dall’altra ti chiudono nella gabbia d’oro del loro pensiero, della loro epoca, delle loro cecità.

La sua vita è stata uno scivolo a rotta di collo dall’Ottocento storicista al post-moderno tardo-novecentesco. Perciò la sua anima fu piena di fratture, lividi e ferite.

E’ vero, mio padre non si è liberato completamente del suo ottocentismo. Per esempio, non ha imparato mai a guidare un’auto né a battere a macchina né ad usare un registratore. Non ha mai preso un aereo. Quest’uomo che leggeva in francese e tedesco non è mai andato all’estero in vita sua. Dal 1967 studiavo a Parigi e avrebbe potuto approfittarne per visitare finalmente Parigi – città che sognava - ma non è mai venuto. Quando glielo si faceva notare diceva: “andrò all’estero, ma prima di tutto devo conoscere benissimo il mio paese”. Si sentiva un intellettuale cosmopolita, con disgusto vedeva colare fascismo dietro ogni esaltazione nazional-popolare, si vantava di non sentirsi affatto “un patriota”: ma non ha mai varcato le patrie frontiere. Altra contraddizione irrisolta, altra differenza, altro déchirement.

Quest’uomo che ha fatto sempre politica di fatto è stato sempre assolutamente – direbbe Roberto Esposito – impolitico nella vita. Questo professore-mago – riusciva a far entrare in testa Aristotele e Kant anche nelle menti più refrattarie alla concettualità - non ha mai tentato seriamente una carriera universitaria. Due volte ha concorso per la libera docenza, due volte era stato ammesso al colloquio, due volte non si presentò. O meglio, la seconda volta ci andò e aspettò che lo chiamassero per confrontarsi con la commissione: a quel punto, invece di entrare se ne uscì. Tornato a Napoli, lo vidi immerso – per consolarsi – nella Filosofia delle università di Schopenhauer, un pamphlet contro la filosofia accademica. Inibizioni nevrotiche? Certamente.

Ma credo che egli non abbia mai tentato seriamente un concorso universitario né sia mai andato all’estero, perché dall’università o dal paese straniero voleva essere invitato. Quando ero studente, ora lo capisco, avrei dovuto invitarlo esplicitamente a venire a Parigi. Non amava questuare posti né inviti. Ricordo che quando i conoscenti gli dicevano, ad ogni elezione, “ma lei si presenta?”, lui correggeva sempre: “mi presenterò se il partito mi candiderà”. Non era formalità: quel che contava per lui era essere presentato. Non ha mai sgomitato per farsi avanti nella folla.

Era intriso di cristianesimo eppure non ha mai recepito il detto evangelico “Bussa, e ti sarà aperto”. Non ha mai bussato – se non quando si trattava di aiutare altri.

          Questa frattura, o divisione, o molteplicità, è anche nei suoi interessi filosofici: ha scritto saggi filosofici sulla religione e sull’arte, molto poco sulla politica, che pure assorbì molto del suo tempo. Da una parte non ha cessato di interrogarsi sul mistero della fede, dall’altra adorava il Settecento e la nascita dell’estetica. Filosofi illuministi e Ragion poetica, il suo ultimo libro, è il suo atto d’amore per un’epoca ben poco religiosa: il Settecento illuminista e pre-romantico. Per anni, diceva in casa “Devo finire il mio libro sul rococò”, e si divertiva tanto perché la nostra domestica prendeva il rococò per un dolce natalizio e pensava che si trattasse di un libro di cucina… Come poteva mettere assieme la sua attrazione per la vita monastica ma anche per le corti settecentesche, il marivaudage e Diderot?

In fondo, sotto sotto, si sentiva un dandy, Oscar Wilde era stato tra i suoi autori preferiti - ma non si è mai travestito da dandy. Anzi, la sua trasandatezza nel vestire era leggendaria. Altra esaltante contraddizione: un dandy socialista e pio! Un pacifista anti-umanista che ama l’animale nell’uomo!

Comunque, gli amici filosofi con cui ha simpatizzato di più - Franco e Vera Lombardi, Paolo Filiasi Carcano, Giuseppe Martano, Aldo Masullo, Graziano Graziussi – non erano affatto cattolici (a parte Augusto Guzzo e Raffaele Pucci, ma era unito a loro da una simpatia non proprio cattolica). Un debole lo aveva soprattutto per “Filiasi”, come lo chiamava lui: lo attraeva quell’amalgama tra austera eleganza nobiliare, vocazione modernista e inquietudine nevrotica (la sua passione per la psicoanalisi ad esempio) – amalgama, non certo sintesi hegeliana, tra tradizione e innovazione. Quell’amalgama, non sintesi, che lui stesso sentiva di essere.

 

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La sua lunga e laboriosa separazione dal neo-hegelismo aveva comunque in lui motivi profondi, personalissimi. Alcuni aneddoti possono illustrare questa sua infedeltà alle proprie matrici più di lunghi discorsi eruditi.

Ero adolescente, all’epoca infervorato dalle magnifiche sorti e progressive della razionalità, del materialismo e della scienza. Ma una sera parlammo della morte. Anche questa volta evocò “don Benedetto”: quando chiesero a Croce cosa pensasse sulla morte, egli alzò le spalle e disse spazientito “ma io vivrò nei miei libri!”  Allora mio padre sollevò il suo ultimo libro, me lo sventolò davanti e disse: “anch’io vivrò nei miei libri? Vivrà di fatto solo un nome in neretto, Mario Benvenuto, scritto sulla copertina patinata di un volumetto.” Allora rimasi irritato e turbato. Che cosa voleva dire – di filosofico o di anti-filosofico – mio padre? Solo più tardi capii che si voleva separare da quello che, in seguito, Derrida avrebbe chiamato il logocentrismo metafisico della tradizione occidentale.

Quanto era logocentrico il neo-hegelismo! La storia, cioè le vite di uomini donne e bambini in carne e ossa, veniva identificata alla storiografia – cioè a libri. Il nostro rapporto alla realtà si risolveva in una dialettica di concetti, la contingenza – quel tavolo che mi sta di fronte, quella persona vicina che gode o che soffre – non contava granché. La Storia dello Spirito non ne tiene conto. Mio padre avvertiva un fastidio crescente per la “sua cultura, per la quale le cose più importanti erano pensieri, libri, istituzioni, Collettivi, Geist, idee-forza. In reazione alla prevalente cultura napoletana dell’epoca – un logocentrismo ottocentesco, come abbiamo visto, un po’ cavourriano un po’ garibaldino – si interessò sempre più, negli ultimi anni, agli animali. Il suo migliore amico divenne un naturalista, Eugenio Santojanni, uno che viveva ai Camaldoli in mezzo a uccelli e capre, appassionato di geologia. E non a caso il suo santo preferito non era né S. Agostino né S. Tommaso d’Aquino né Teresa d’Avila: era S. Francesco, soprattutto perché dava importanza ai lupi e ai tordi – ne apprezzava il tropismo creaturale.

          Mi colpì anche un’altra sua evocazione di Croce. Durante i furiosi bombardamenti che subì Napoli, Croce era riluttante a rifugiarsi nel ricovero. Non voleva lasciare incustoditi i suoi libri.... Qualcuno gli disse “porta con te nel ricovero i libri che consideri più importanti” e lui sbottò: “ma tutti i miei libri sono importanti per me!” Mio padre mi raccontava questo ma appariva un po’ indignato: “Lui pensava ai suoi libri, mentre tanta povera gente stava morendo sotto le bombe!” Che cosa motivava questo sdegno in un bibliofilo come mio padre? Non si trattava di facile demagogia umanitaria, ma di una presa di distanza ad un tempo etica e filosofica: che gli esseri umani non sono riducibili ai concetti e alle idee che loro pensano e con cui li si pensa. “…C’è un sapere nel vivere che non è un sapere concettuale, né invero ogni coscienza è o deve diventare coscienza concettuale”[1].

Per questa ragione aveva finito con l’abbracciare qualcosa che Croce e i neo-hegeliani non hanno mai abbracciato: socialismo e cristianesimo. Socialismo e cristianesimo gli restituivano la dimensione rimossa dell’incarnazione. La visione storicista e idealista a cui era stato formato mancava di carne.

In verità, fisicamente mio padre era ben poco carnale: magro, filiforme niente muscoli, tutto un nervo che sprizzava idee, non rivelava alcun crogiolo sensuale di sanguigne e animali passioni. Ma nel fondo egli sentiva che la filosofia in generale mancava la singolarità, la contingenza, insomma l’etica in quanto curarsi, stupidamente, dell’esistenza degli altri. Esistenzialismo della carne, appunto.

La sua religiosità quindi non era quella del Croce di Perché non possiamo non dirci “cristiani”, vale a dire un cristianesimo “tra virgolette”, collettivo, storico-culturale, ingurgitato dal Progresso: era piuttosto una religiosità che ha a cuore i singoli. Cristo e Marx erano gli antidoti di cui aveva bisogno in quanto questi mettevano il dito su qualcosa che la tradizione logocentrica si rifiutava di pensare, forse perché non è pensabile: la singolarità del corpo. Il corpo come Leib, cioè come corpo senziente e vissuto, che non è il corpo (Körper) né l’anima, ma qualcosa tra i due: il primato dell’essere vivente che soffre e che gode.

          L’essere vivente, appunto, non l’animal rationale. E perciò simpatizzava addirittura con l’ondata anti-umanista della filosofia francese degli anni 60. Ci mise del suo dando grande importanza al suo gatto, il famoso micio-micio.

So che parlava spesso del suo gatto con i suoi studenti e colleghi, suscitando una certa ilarità. A micio-micio permetteva tutto: mentre faceva lezione di filosofia, questi gli si accovacciava in cima alla testa, come se fosse un idolo egiziano. Ad esempio diceva: “I filosofi che mi hanno formato, da Hegel a Croce, parlano sempre di uomini, di spirito umano, solo uomini! Ma i gatti?” E poi: “Anche il cristianesimo cerca solo la salvezza degli uomini, sempre degli uomini. E micio-micio?” Gli amici pensavano che queste sue uscite fossero eccentricità, spiritosaggini, in realtà erano il segno di una crisi spirituale profonda. Certamente avrebbe salutato con simpatia l’ascesa del movimento ecologico e dell’animalismo, anche se non era vegetariano. Ma non si trattava semplicemente di estendere anche agli animali quei “diritti umani” di cui peraltro era politicamente sostenitore: si trattava per lui piuttosto di riscoprire l’animalità nell’uomo. Perciò negli ultimi anni questo cultore di teologia si diceva “naturalista”.

Oggi mi rendo conto che in questa rivalutazione degli animali precorreva i tempi filosofici. Egli avrebbe letto con molta soddisfazione gli ultimi approdi di due filosofi che oggi dominano la scena – Derrida e Agamben. Questi contributi lo avrebbero aiutato a portare sul palcoscenico del suo pensiero un’esigenza etica che egli allora riusciva a esprimere solo con paradossi provocatori.

Da anni, anche Derrida non perdeva occasione di parlare dell’animale – direi che ne era quasi ossessionato. Secondo lui la nostra civiltà si basa ancora tutta sul sacrificio animale. Aveva scritto di recente[2]: "Il fascismo comincia quando si insulta un animale, o anche l’animale nell’uomo. L’idealismo autentico consiste nell’insultare l’animale nell’uomo, o nel trattare l’uomo come un animale.” "Fascismo” è esso stesso un insulto: Derrida non esitava quindi a insultare chi insulta l'animale. Egli diceva chiaramente che la cosa più abietta non è dimenticare l’umanità degli esseri umani, ma piuttosto dimenticarne l’animalità. L’atteggiamento più umano nei confronti degli esseri umani è quello che riconosce anche la loro animalità.

Giorgio Agamben in L’Aperto[3] prende distanza dal suo maestro Heidegger, il quale pensava l’essere umano, Dasein, proprio per la sua differenza rispetto all’animale: "l’animale è povero di mondo (weltarm), l’uomo è formatore di mondo (weltbildend)”. L’animale, e la vita in generale, sono comprensibili quindi solo a partire dall’umanità: come carenza o povertà di umanità. Agamben intende invece superare questa opposizione accedendo "a una vita nuova e più beata, né animale né umana”.

          Derrida e Agamben, criticando i campioni del primato della soggettività umana e del logos, incontrano l’animalità come essenziale all’umanità, il nostro esser-altri-da-noi come essenziale a quel che noi stessi siamo. Credo che mio padre avvertisse, allora, un’esigenza molto simile. Ma a chi dirla, allora?

          Negli anni 60 mi disse, una volta, che gli piaceva Freud non come ermeneuta o filosofo del linguaggio – come lo si leggeva all’epoca – ma proprio in quanto aveva ricordato la fonte istintuale, appetitiva, insomma animalesca di ogni essere umano. Il naturalismo di Freud era per lui la vera coupure…. Ci ho messo vent’anni per trovarmi finalmente d’accordo con lui.

 

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          E’ su questo sfondo etico e filosofico che va capito anche il suo impegno politico, così spettacolare. Ma, si dirà, questo impegno – sempre discontinuo, “testimoniale”, mai professionale e routinario - non era anch’esso ambientale ed epocale? Per tutto il Novecento la Politica è stata, per il filosofo italiano di qualsiasi tendenza – da Gentile fino a Buttiglione, a Pera e a Vattimo, giusto per fare nomi - il coronamento di un travaglio filosofico, l’approdo ambito della propria Bildung spirituale. In questo il filosofo italiano resta “platonico”: proporsi come reggitore della Repubblica – di fatto, come consigliere del Principe - appare la vetta dell’ascesi filosofica. (L’Italia è il paese che conta più professori di filosofia tra le file dei suoi politici: li troviamo, soprattutto oggi, nelle segreterie dei partiti, deputati al parlamento italiano o europeo, amministratori locali, quadri politici intermedi, funzionari di partito.)

Mio padre, dandosi generosamente alla politica – generosamente anche perché portava sempre molti voti al partito di cui era candidato, senza mai godere degli appoggi sufficienti da parte dell’apparato per essere eletto – non seguiva quindi un copione fortemente radicato nell’etica dell’intellettuale italiano del Novecento?

Per molto tempo ho pensato che darsi così dispendiosamente alla politica fosse stata per lui una perdita di tempo: non sarebbe stato meglio che scrivesse più libri di filosofia? Ma oggi penso che queste recriminazioni siano egocentriche, quindi miopi: non bisogna pensare che il meglio per un altro – foss’anche per il proprio padre – sia quello che appare meglio per se stessi. Fare politica, competere, battersi, era per lui una fonte di godimento: e come si può resistere all’appello dei propri godimenti, soprattutto quando hanno come posta il benessere degli altri? Per uno che non ha mai praticato uno sport – a parte il poker e gli scacchi – la competizione politica era la sua delizia sportiva. A una persona aerea come lui piaceva venir giù di peso dalle Nuvole di Aristofane: “sporcarsi le mani nella politica”, come diceva lui con una smorfia quasi di schifo. Sporcarsi le mani nella vita.

 

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          Alcuni si chiedono perché mio padre non sia mai stato comunista. In effetti, lui mi ha educato nel culto e nell’ammirazione non solo per Marx ma anche – orrore! - per Lenin. Voleva credere che il “socialismo reale” fosse reale socialismo – e questo almeno fino alla fine degli anni 60, quando invece accettò la critica “da sinistra” del sistema sovietico. Posso anzi dichiarare sotto giuramento che egli mi ha insegnato sin dalla più tenera età a nutrire un franco disprezzo per la socialdemocrazia, secondo lui sempre pronta al compromesso e al tradimento dei princìpi: era socialdemocratico eppure non stimava la socialdemocrazia! Aggiungere il tassello di quest’altra contraddizione al mosaico... Ma mi chiedo se questa sua strana ambivalenza verso i socialdemocratici non sia stata la contraddizione paradigmatica, epocale, dell’intellettuale di sinistra non comunista in Italia: che da una parte non poteva che subire il fascino della cultura dominante (egemonizzata allora dal marxismo gramsciano) ma dall’altra aveva un orrore istintivo, visceralmente etico, per il socialismo così come si era concretizzato ad Est. Da una parte senso di inferiorità rispetto al rigore comunista, dall’altra un’inevitabile, “borghese” ripulsa per la realtà miserevole del socialismo. E’ stata la scissione di un’intera generazione: idealisticamente si era comunisti, realisticamente ci si rendeva conto del Gulag. Egli non è caduto però nell’errore inverso di tanti: per i quali invece era realista essere comunisti, ed era idealistico avere orrore del totalitarismo sovietico o maoista.

Mio padre, ammiratore di Marx, non fu mai marxista – se qualcuno crede il contrario, si sbaglia di grosso. Piuttosto pensava, come la Ortese, che a Napoli all’epoca il marxismo fosse un liberalismo d’emergenza. Capiva le emergenze, le tollerava, ma non vi aderiva. E del resto fu lui il primo a dirmi, quando ancora portavo i calzoncini corti, “Marx ha detto che non sarebbe mai stato marxista.”

In fondo, quel che ha mantenuto sempre lontano mio padre dal partito comunista era la stessa cosa che lo ha mantenuto sempre lontano dalla chiesa cattolica: si sentiva alieno a ogni disciplina ecclesiale. Si sentiva piuttosto un libertario, un socialista ironico e affettivo: ammirava la grinta dei militanti PCI, rideva del basso profilo della politique politicienne dei suoi compagni socialisti, ma preferiva in fondo la marginalità (l’eresia?) socialista alla Chiesa comunista. Analogamente, si sentiva un cristiano di spirito, un filosofo alla ricerca di Dio (o della morte di Dio?), ma si è tenuto sempre fuori della chiesa chiesastica. Era felice invece nel frequentare i cattolici dissidenti della comunità Shalom di Napoli: con loro partecipava a una doppia tonificante trasgressione, il loro essersi congedati sia dalla chiesa come Partito religioso che dai partiti come Chiese politiche.

Così, di fatto, ha sempre appoggiato le politiche anti-comuniste - sostenne con entusiasmo il centro-sinistra nei primi anni 60 - così come ha sempre simpatizzato con gli anti-clericali: questo teologo un po’ miscredente aveva una visione radicalmente laica della società. Era per il divorzio, per l’aborto, per togliere i crocefissi dalle aule scolastiche e non dare un soldo alle scuole cattoliche. Restare nella marginalità, politica e religiosa, gli sembrava il solo modo di conservarsi libero – cioè nobile. Perché certo la figura del nobile lo ha sempre segretamente affascinato. Il suo disprezzo andava piuttosto al piccolo borghese, al grigio egoismo spicciolo della “mezzacalzetta” come diceva lui, all’italiano messo in scena da Alberto Sordi, non certo al gran signore che ha saputo restare tale anche nella povertà. Del resto, che cosa è stato il socialismo – per molti della sua generazione - se non il solo modo che restasse per essere nobili? Essere dalla parte della povera gente era l’apoteosi di un’aristocrazia del cuore.

 

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          Non amava i “tomisti” del marxismo. Non apprezzava l’erudizione truce di certo radicalismo marxista degli anni 60 e 70. Quando alla fine degli anni 60 gli chiesi cosa pensasse dei Quaderni piacentini – la rivista marxista chic allora molto seguita – mi rispose: “Mi annoia tutta quella teologia marxista!” Gli ribattei che però lui si occupava proprio di teologia, di quella vera. “Trovo – rispose – che la buona teologia religiosa sia più divertente di quella scimmiottata dai marxisti”. Eppure gli era piaciuto leggere il “teologo” Althusser. Mio padre non è stato marxista non perché il suo socialismo fosse puramente sentimentale, di cuore e non di testa. Il suo era piuttosto un socialismo etico ed escatologico: era rivendicare l’irrilevante contingenza dei singoli nella grande Storia.

Non a caso, mi citava spesso la reazione di Marx quando gli si parlò di statistiche e quindi di un benessere matematico: “Dite che solo l’1% muore sul lavoro? Ma andate a dire a una madre che ha perso il figlio lavoratore che deve essere contenta dato che solo l’1% è morto!” Non era una risposta demagogica: era il fondo individualistico, anti-collettivistico, che gli piaceva di Marx (e che ha messo in rilievo, poi, un filosofo raffinato come Michel Henry nei suoi volumi su Marx).

Non gli interessava quindi il marxismo come pretesa scienza rivoluzionaria, amava il socialismo come deriva del cristianesimo: l’essere insomma, anch’esso, un Vangelo secolarizzato, una Buona Novella di speranza. Il cristianesimo promette il paradiso in cielo ai buoni, il socialismo promette un’approssimazione di paradiso in terra agli esseri umani diventati finalmente buoni. L’importante per lui era poter sperare di uscire un giorno dal’Inferno della vita e della Storia. Tutte le razionalizzazioni marxiste gli sembravano un arzigogolo timorato per dare rispettabilità scientista all’Escatologia socialista. (Ma che cosa ha detto poi di tanto diverso Derrida in Spettri di Marx, ad esempio?)

E’ ancora più rilevante il fatto che mio padre, proprio perché considerava il socialismo un cristianesimo secolarizzato e il cristianesimo un socialismo mistico… diffidasse di entrambi. Non mi ha mai detto di credere nell’immortalità dell’anima: segno che, anche se vi credeva, non ammetteva la sua credenza. La sua appunto non era credenza ma fede: la sua fede nel cristianesimo e nel socialismo non era insomma mai dogmatica, ovvero mai fondata. I dogmi sia cattolici che marxisti lo facevano sorridere: si sentiva più vicino alla fede affettiva della povera vedova che dà l’obolo che a quella dei teologi, e sentiva più fede e speranza nell’operaio che canta il socialismo che nelle discettazioni dei professori universitari marxisti (cosa che non gli impedì di frequentare Galvano della Volte, ad esempio, che stimava). Alle dimostrazioni tracotanti di chi crede di sapere, preferiva la speranza di chi semplicemente crede.

 

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Comunque, la sua frequentazione degli ambienti teologici – negli ultimi anni partecipava assiduamente agli incontri al convento di Camaldoli nel Casentino – non va interpretata come un tardivo riallineamento alla consolazione cattolica. Mio padre non mi ha mai detto, dico mai, “credo in Dio”. E nemmeno “sono ateo”. Dopo Kant un filosofo non può più dire “credo in Dio”, ma un uomo sì – eppure, da uomo, non l’ha mai detto. Forse perché era, come ogni spirito davvero religioso, sempre in dubbio su questo punto? Forse perché aveva il pudore delle proprie credenze, in un’epoca di decostruzione, la sua come la nostra, in cui ogni credenza convinta evoca (oggi) gli spettri arcigni di Bush e bin Laden?

In effetti, lesse molta teologia della morte di Dio – una teologia per la quale l’evento era la morte di Dio. Oggi penso che non potesse essere né ateo né credente confesso perché, nel fondo, viveva nel lutto di Dio. Anche in questo, lo travagliava la differenza: tra i cattolici established portava la differenza laica di chi sa che Dio è morto (almeno per ora), tra gli atei portava la differenza di una bislacca compassione per Dio.

          Compassione per Dio? E’ proprio quello che provava. Negli ultimi tempi aveva abbozzato una strana teologia – ne stava scrivendo, ma la morte lo interruppe – per la quale, diceva, Dio non è l’Onnipotente. “Dio non può tutto, cerca di fare, poveretto, quello che può!” Non teorizzava la morte di Dio, si limitava a enunciare una certa impotenza di Dio. Sentiva insomma la mancanza di un’onnipotenza ormai sfiatata. Ma questa mancanza non lo portava all’esaltazione feuerbachiana di un Uomo che si riappropria di quel che ha alienato in Dio: per lui Dio brillava per la sua mancanza, ma questa mancanza non era sostituibile.

 

Nel 1967, a un congresso filosofico a Pisa, mio padre e io pranzammo assieme a due filosofi di Napoli, Emanuele Riverso e un giovane professore marxista impegnato politicamente, Catenacci. Tutti e quattro eravamo a sinistra, ma tra noi solo mio padre sembrava indulgere alla fede. Il professor Riverso, prete che aveva gettato la tonaca alle ortiche, fece un discorso molto duro sul cristianesimo: che aveva sostituito all’etica pagana dell’uomo libero un principio di sottomissione all’Onnipotente e poi al potente, che aveva schiacciato per secoli le masse sotto una morale ascetica della rinuncia, ecc. A questo discorso da convertito – i convertiti, anche se all’ateismo, sono sempre i più severi contro ciò che hanno abbandonato – il giovane marxista oppose la visione di maniera dello spirito di sinistra equilibrato: diceva che invece il cristianesimo aveva lanciato un messaggio di fratellanza universale, che il socialismo non era pensabile senza il retroterra cristiano, ecc. Insomma, si trattava della classica controversia sul cristianesimo che allora come oggi divide gli intellettuali di sinistra: alcuni vedono tra loro e il cristianesimo una continuità, altri invece esaltano la discontinuità.

Ora, mio padre si schierò con l’arringa anti-cristiana di Riverso contro il “continuista”. Si trattava di un’attrazione che in lui esercitavano certe posizioni radicali, una specie di posa, di coquetterie dell’estremismo pour épater le socialiste? Non credo. Condividendo il bilancio disastroso sul cristianesimo, egli teneva a chiarire che il cristianesimo, inteso come esperienza storica, va buttato completamente in mare. Così come avrebbe convenuto che l’esperienza storica del socialismo realizzato era stata anch’essa assolutamente fallimentare. Insomma, cristianesimo e socialismo non gli interessavano come pedigree storico, come tradizione o Bene Culturale da salvaguardare, come album ingiallito di ricordi del bel tempo che fu da esibire nelle processioni, ma solo per la loro tensione escatologica: come speranza in una Salvezza, nel dar finalmente valore a ciò che per la tradizione onto-teologica non ha alcun valore – il singolo, la carne, l’animale, la cosa vivente.

 

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          Non credo che il suo ideale educativo per i suoi figli fosse diverso da quello che ispirava il suo insegnamento per gli studenti: soprattutto voleva formare dei buoni cittadini. Non a caso “o’ baffo” – così lo chiamavano i suoi studenti - in classe dava un posto molto importante all’Educazione Civica, una materia marginale che ben pochi professori prendevano in considerazione. Per lui era essenziale che il cittadino conoscesse il sistema politico del proprio paese, la sua Costituzione, la storia recente, l’economia. Ancor oggi credo, come lui, che la scuola non formi veramente cittadini perché non sono materie universali e obbligatorie la Politica e l’Economia, che invece bisognerebbe insegnare sin dalla prima media. A che serve che un bambino sappia i sette re di Roma o Dante o l’inglese se non sa la differenza tra esecutivo e legislativo, o tra corte d’appello e corte di cassazione, o se ignora il prodotto nazionale lordo del suo paese comparato a quello degli altri paesi? Noi, i figli di Mario, sin da bambini siamo stati abituati ad ascoltare cose di politica e di storia e a parlarne. Si pasteggiava politica e storia, si beveva politica e storia, andavamo a letto cullati in politica e storia. Certo mio padre amava anche molto la letteratura e le arti: eppure mi chiedo se non sia un’altra sua eredità il fatto che oggi io preferisca letture di storia a letture di letteratura. Il racconto degli eventi reali mi appare sempre più ricco ed emozionante del racconto di eventi immaginari, anche se questi sono stati inventati da un genio.

          Volle che noi figli conoscessimo bene anche la storia vissuta, ovvero, per dirla tutta, la trafila di disgrazie che loro, i genitori, avevano “passato” direttamente, attraverso il fascismo e la guerra. Forse per questa ragione ancora oggi vedo la famosa Storia, che i crociani esaltavano come una marcia irreversibile verso la Libertà, come una sfilza di massacri e di batoste, punteggiata da momenti di esaltanti belle feste che, ahimé, durano poco. Sin dalla più tenera età ho sentito parlare tanto del fascismo, delle adunate, dei bombardamenti, delle lunghe file affamate davanti ai negozi semivuoti nel dopoguerra, delle distruzioni, che oggi ho l’impressione di aver vissuto anch’io la Guerra.

Francamente, non posso dire affatto che la vita con mio padre sia stata serena – al contrario, egli era spesso teso. In tensione per la sua ipersensibilità, per la carica ansiosa che metteva nel proteggere i più fragili della famiglia, ma anche perché egli vibrava eccessivamente, spasmodicamente, ai fatti del mondo. Nella nostra famiglia non abbiamo mai goduto della tranquilla agiatezza spirituale di chi si sente sempre nel giusto, del notabile contento di sé che si gode i frutti di un prestigio consolidato: la nostra casa era bucata da cento porte attraverso cui entravano tutti i venti e gli spifferi, torridi o gelidi, le intemperie dello spirito e del dramma del mondo trafelato. Egli non si è preoccupato di proteggerci veramente contro il mondo – né ha fatto molto per proteggere il mondo da noi.

Non so se essergli grato o tenergli rancore per la sua mancanza di esitazioni nell’avermi sempre trattato “da grande” – anche mia madre lo rimproverava di dare troppo per scontata la mia maturità. Dovevo avere dodici anni quando mi parlò con entusiasmo de Il Processo di Kafka – autore che amava particolarmente, assieme a Samuel Beckett – spingendomi così a leggerlo. Non aveva dubbi che il Kafka andasse bene per un bambino che entrava nella pubertà!

          Dopo la sua morte, dissi al mio psicoanalista che era stato duro per me essere stato “figlio di un prete”. In effetti da giovane mio padre voleva farsi prete o monaco, sognava anzi di diventare un missionario. Dopo, ha fatto il missionario del socialismo. Comunque il desiderio missionario gli è rimasto – e anche, credo, un sottile senso di colpa per essersi piegato alla vita secolare, familiare, statalizzata. Non che se ne sia mai lamentato – eppure qualcosa in lui si sentiva deluso da se stesso, perché sapeva di essere l’uomo a cui era stata affidata una missione. Per questa ragione anch’io, da bambino, dicevo “sento che ho una missione da compiere”. Ma quale, appunto? Ho passato una vita intera, anch’io, a cercare di capirla.

 

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Certamente mio padre non è mai morto dentro di me, come credo che non sia morto per tanti altri che ne sono stati marcati. Chi è stato importante non muore: la sua voce è silenziosa, ma noi parliamo con lei o lui, sempre. Da qualche parte Heidegger dice che il filosofo dialoga sempre, dentro di sé, con l’amico assente o morto. Anch’io, da sempre, con mio padre ci parlo – diciamo che lo tengo al corrente delle cose del mondo. Così spesso mi capita di chiedermi chi avrebbe apprezzato, dopo il 1973. E’ un gioco per mantenerlo vivo, ma anche per sentirmi io più decentemente vivo.

So che quello che sto per dire scandalizzerà alcuni marxisti, comunque sono certo che avrebbe simpatizzato con il Marco Pannella degli anni 70: il coraggio di lavorare senza i grandi apparati di partito, su battaglie civili nel registro pacifista. Si sarebbe identificato certamente in Massimo Cacciari, uno che fa quel che lui aveva cercato di fare: mettere insieme denso engagement politico e filosofia teoretica, agire da uomo pubblico ma anche essere magnetizzato dalla teologia.

Sono convinto che avrebbe parteggiato per i no-global – anche a causa della loro inclinazione pacifista – ma ancora di più per chi lavora per Medici senza Frontiere o Amnesty International. La caritas per lui era non meno importante dell’uguaglianza.

La carità: una virtù ben poco apprezzata da chi ha il cuore a sinistra. “Eguaglianza, giustizia, equità, fraternità”: ma quasi mai la caritas – l’amore non sensuale per l’altro - una virtù snobata come troppo “individualista”.

Invece mio padre era caritatevole, insomma buono. Non perché aderisse a una buona etica corretta, o perché si battesse per delle cause buone: era buono nel senso spicciolo, direi stupido del termine – regalava soldi agli amici che ne avevano bisogno, aiutava i parenti più poveri, la sua casa era sempre aperta a chi aveva crucci, a eccentrici, follaccioni o sbandati. In certi momenti casa nostra mi sembrava quasi una corte dei miracoli. Ricordo che un giorno venne a trovarlo un collega dall’aria guardinga e avvilita. Dopo che se ne fu andato, mio padre mi disse sottovoce: “Questo collega lo conosco poco, si dice che si droghi. E’ venuto a chiedermi dei soldi [una bella sommetta], non ho saputo dirgli di no. Forse li userà per comprarsi la droga. Si può essere così stupidi?”

La bontà sincera è sempre un po’ stupida. Il rischio della filosofia è che, rendendoci tanto intelligenti, ci allontana dalla caritas, dall’amore. Egli avrebbe condiviso l’affermazione di Vattimo, secondo cui la vocazione della filosofia è il nichilismo. Il nichilismo dice che la nostra etica e la nostra estetica non possono essere fondate – si fondano nella carne e nella storia, non in argomentazioni. Ma – altra dilacerazione – egli proprio per questo cercava la risposta nel socialismo e nella religione; in fondo in cose, lo sapeva bene, alquanto stupide.

Incapace di ferire una mosca, non poteva ferire nemmeno per le cause sacrosante. Non era contrario alle guerre giuste – si rallegrava del fatto che la Seconda Guerra avrebbe portato comunque la fine del fascismo, del cui crollo mai dubitò – ma non avrebbe potuto mai combatterle. Non a caso evitava il termine militante anche come metafora: rigettava la militanza come “significante”.

 Non era militante nemmeno come pacifista: non era un fondamentalista della pace. Come lo era invece Aldo Capitini, con cui ebbe contatti: per Capitini ci saremmo dovuti far tutti massacrare dai nazisti per rimanere pacifici. Ammirava alcune guerre e alcuni guerrieri – ad esempio, mi ha sempre parlato bene di Garibaldi e gli era simpatico Che Guevara. Altra contraddizione: per questo pacifista fino al midollo c’erano guerre e guerre - insomma, non credeva nell’”esercito” pacifista…. Ovviamente era gandhiano, ma ammetteva che talvolta bisognasse anche sparare. Anche se lui personalmemnte non avrebbe mai sparato, nemmeno per uccidere il tiranno.

Mi raccontò che, durante l’occupazione tedesca di Napoli, due soldati teutonici gli si avvicinarono: pensò che lo volessero sequestrare per portarlo in Germania. Invece gli chiesero gentilmente “dove andare per piazza Vanvitelli?”. Lui senza battere ciglio li mandò verso piazza Medaglie d’Oro, dalla parte opposta. Si sentì fiero del suo piccolo atto di sabotaggio – piccoli atti che, sommati assieme, fanno una Resistenza. Ma poi si volse a guardare quei due giovani che si incamminavano dalla parte sbagliata, e li vide: stanchi, stracciati, impolverati, insomma perdenti.  E mi confessò che ebbe quasi un moto di rimorso…

Lui in quei due soldati non vedeva il Begriff Germania Nazista ma due poveracci che facevano, come lui aveva fatto a Milano, uno squallido servizio militare, due esemplari “incarnati” di un esercito sulla strada della disfatta.

          Per lui l’operaio non era la Classe Operaia; il prete per lui non era la Religione; uno di destra non era il Blocco Reazionario. Erano prima di tutto delle singolarità. Per quanto fosse stato sempre un anti-fascista doc, non disdegnava l’amicizia di alcuni rimasti fascisti: perché gli piacevano come persone. Aveva simpatia per Edmondo Cione, ad esempio, filosofo crociano passato alla Repubblica di Salò e poi impegnato nell’MSI. Contribuiva a questa amicizia la convinzione che Cione fosse professionalmente perseguitato per il suo pedigree politico: la sua simpatia andava istintivamente ai perdenti, fossero anche fascisti. Sapeva distinguere la persona dalla sua Ideologia[4].

 

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Altra contraddizione: questo professore di filosofia così smagliante non aveva una visione affatto professorale della filosofia. Ha evitato la carriera universitaria anche perché aveva un’immagine all’antica del filosofo: quando, nel mondo greco o latino, il filosofo non era necessariamente chi scriveva libri di filosofia o argomentava teorie, ma era chi viveva da filosofo. Ci si vestiva da filosofi, con il mantello bianco e la barba lunga – mio padre avrebbe gradito la restaurazione di questo costume. Per lui essere filosofo era soprattutto un certo modo di parlare agli altri: il richiamarli all’ironia e alla ragione.

Sul letto di morte, mi disse, “caro Sergio, non si può proprio morire da filosofi!” Io pensavo che non si potesse nemmeno vivere da filosofi: lui invece sì.

Dopo il Medio Evo, pochi filosofi hanno cercato di “vivere filosoficamente” – a parte alcune eccezioni come Bruno, Spinoza, Kierkegaard, e poi Wittgenstein, Sartre o Bataille. Gli altri sono stati sempre solo dei professori. Ma per mio padre la filosofia non era solo una specialità accademica: era un modo di essere migliori attraverso la ragione. Un aiuto per essere più intelligenti, più buoni, più onesti, più comprensivi. Non perché queste qualità siano metafisicamente fondate, ma perché la filosofia era per lui la migliore dieta a lui nota per acquisirle.

 

 

 

Sergio Benvenuto

 



[1] M. Benvenuto, Introduzione ad un discorso dell’Arte (vedi bibliografia), p. 14.

 

[2] Dal discorso di accettazione del Premio Adorno a Frankfurt-sul-Meno, 22-IX-2001. Cfr. J. Derrida, Il sogno di Benjamin, Bompiani, Milano 2002.

 

 

[3] G. Agamben, L’Aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino 2002.

 

[4] Anche le sue simpatie e antipatie nei confronti dei politici – alcuni li aveva frequentati – erano trasversali a ogni logica di schieramento precostituito. Apprezzava Ugo La Malfa (come intellettuale che faceva politica restando un intellettuale), Pietro Nenni (per il suo talento oratorio e per l’acutezza di certe sue analisi), Sandro Pertini (nei cui confronti aveva un affetto tutto particolare), Giancarlo Pajetta (per il modo eccellente in cui faceva il suo mestiere di oppositore), Aldo Moro (nel quale vedeva una passione di alto profilo) e pochi altri. Ma nell’insieme non aveva un’opinione molto alta della classe politica italiana. Diffidava anche di personalità come Giuseppe Saragat, ad esempio, che aveva conosciuto di persona quando era segretario della federazione napoletana del PSDI: lo considerava troppo opportunista e troppo pieno di sé.

 

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