Flussi di Sergio Benvenuto

La modernità e il reale (2004)02/mar/2017


 

          Alla mostra Dokumenta di Kassel del 1997, i visitatori erano particolarmente attratti da un’opera di Michelangelo Pistoletto: un ampio specchio rettangolare steso sul pavimento. La gente si guardava riflessa e ne restava scossa, perché mai ci guardiamo dal basso. La cosa più familiare del mondo – guardarci in uno specchio – diveniva un’esperienza unheimlich, spaesante.

Ora, lo specchio non può non evocare una certa ironia filosofica: questo oggetto è il simbolo eloquente di tutta l’arte rappresentativa, classica, che si voleva appunto riflesso fedele o verosimile del mondo, speculum mundi. Il fatto di incontrare questo specchio in una posizione inusuale ci ricorda certi vertiginosi scorci settecenteschi, ad esempio del Tiepolo: da soffitti affrescati, angeli, ninfe, icari, dee, putti paiono cascarci sgambettanti sulla testa in un profluvio di cosce, genitali e colori. Eppure c’è una differenza tra i vortici aerei settecenteschi e la disposizione eccentrica dello specchio di Pistoletto: in questa differenza consiste la modernità.

Ma che cosa è la modernità, o arte d’avanguardia che dir si voglia? Per rispondere, occorre niente di meno che riflettere sull’essenza dell’arte moderna.

 

  1. 1.    Idoli e idee

 

          Per capire il modernismo in arte – oggi, in un’epoca in cui si è avviato al tramonto – occorre prima di tutto capire che cosa era l’arte classica, quella che il modernismo ha preteso di sovvertire, decostruire, ribaltare o irridere. Per arte classica intendiamo quella che l’Occidente considera il proprio patrimonio estetico più alto, il proprio Canone: l’arte della Grecia e della Roma classiche, e poi, dal Duecento fino al Settecento, l’arte realista che ha avuto, come apici, soprattutto i grandi italiani e i grandi fiamminghi e olandesi. Il Canone musicale è la musica detta tonale, da Monteverdi fino a Wagner, passando per la rivoluzione mozartiana. Canone letterario è la narrativa realista che, dalle raccolte di racconti tardomedievali (Boccaccio, Chaucer), giunge fino ai grandi romanzieri dell’Ottocento. Quello teatrale va dal miracolo della Londra elisabettiana, fino a quando, con Cechov e Wedekind, una svolta si profila. E quello poetico, dai grandi poemi rinascimentali (Boiardo, Ariosto, Tasso, Milton) giunge fino alla grande poesia romantica dell’Ottocento.

Limitiamoci qui alla pittura e alla scultura classiche: a cosa esse hanno mirato? Risponderei con due parole greche: eidolon ed eidos.  Due parole che avevano due significati filosoficamente contrari, anche se hanno la stessa etimologia e si assomigliano come due fratelli: da una parte le immagini sensibili, le riproduzioni simulate, le raffigurazioni verosimiglianti (eidola); dall’altra la forma essenziale, profonda, l’aspetto intelligibile delle cose (eidos o idea). Dal primo termine vengono “gli idoli”, le immagini mendaci della divinità divenute oggetto di culto. Dal secondo termine vengono le nostre “idee”, anche se in Platone erano le essenze formali delle cose. Platone ci spingeva a diffidare di eidola – delle immagini che sembrano vere ma sono solo immagini – e di tendere all’eidos – alle forme essenziali che traspaiono nelle cose sensibili ma non sono esse stesse oggetti sensibili. Eppure la classicità è stata aristotelica non platonica: ha puntato sulla mimesis, sull’imitazione come eidola, insomma sulla simulazione o verosimiglianza.

          Infatti il nostro Canone artistico ha puntato sulla rappresentazione il più verosimile possibile del mondo visibile: per idolatrare, attraverso l’arte, il mondo degli oggetti visibili (non a caso le religioni iconoclaste, come l’Islam, considerano idolatrica la rappresentazione di qualsiasi cosa, non solo della divinità). L’Europa, uscendo dal ‘platonismo’ medievale, prima ha adottato la prospettiva lineare, quindi quella aerea. Già nel Seicento gli artisti europei sono capaci di rappresentare il sensibile con una verosimiglianza avvincente che sarà impossibile, anche per i successori, superare. Eppure, una riproduzione di tipo fotografico, idolatrico, non era affatto lo scopo unico delle arti del Canone. Anche oggi abbiamo forme di realismo minuzioso: ma giustamente consideriamo modernista – cioè provocatorio – questo iperrealismo. L’arte classica ha sempre preteso di manifestarci anche l’eidos dell’eidolon (della forma del sensibile): una forma segreta, un aspetto ideale del sensibile stesso, qualcosa di invisibile che organizzava il visibile, che compito dell’arte era rivelare e far splendere[1].

Si prendano le tante Madonne con Bambino della pittura cattolica. Quel che è da apprezzare in questi quadri non è la semplice riproduzione di una donna con un manto azzurro e del suo marmocchio: essi pretendono di darci l’eidos stesso della maternità, la sua forma essenziale, la sua divinizzazione. Si tratta di madre e figlio sacri perché, nel fondo, la pittura classica sacralizza il rapporto madre-figlio, come sacralizza tutti gli oggetti che trova degni da rappresentare. E’ quel che aveva colto Walter Benjamin[2] quando notava che in fondo tutta l’arte classica – secondo lui, era l’arte prima della riproducibilità tecnica delle opere – era teologica, sacralizzava.

Da Aristotele in poi si è fatto notare che l’arte non è solo mimesis degli enti sensibili, ma ci convince in quanto riesce a trasfigurare gli enti rappresentati o simulati. L’arte classica ha rappresentato di rado la Trasfigurazione di Cristo dei Vangeli, data l’estrema difficoltà di rappresentare in termini visibili qualcosa che sfida e supera la visibilità, ma in un certo senso possiamo dire che tutti i quadri e le sculture dell’epoca classica dell’arte europea sono Trasfigurazioni: non basta far mimesi del mondo visibile, occorre rivelare in esso un eidos che ipso facto viene identificato al divino.

Lo sguardo dell’artista classico scopre o inventa un senso e una forma al mondo - insomma, lo interpreta. L’arte classica, trovando la forma bella in cui rappresentare le cose, le spiritualizza. Nel Medio Evo questa spiritualizzazione era significata attraverso il fondo oro: questo tendeva a far slittare i colori degli idola in luce, ovvero in qualcosa che rende le cose visibili senza essere essa stessa visibile. Quanto all’arte rinascimentale e post-, essa non è semplicemente verosimigliante (idolica) è anche idealista (eidetica). L’arte classica non rappresenta certo questo eidos delle cose come fosse un oggetto, ma pretende manifestarlo. La bellezza – ad un tempo dell’oggetto rappresentato e dell’opera - consiste in questa manifestazione.

          Si dirà: ma la classicità non rappresentava solo oggetti belli o sublimi, si prodigava nel rappresentare al meglio anche Nature Morte o persone umili (soprattutto nella tradizione fiamminga), anche i nani e gli storpi di Velasquez o di Goya, oggetti dimessi. Un bicchiere, un limone, un vaso con frutta, posate, sono tutte cose che di solito usiamo senza ammirarle.  Come allora l’artista di Nature Morte riusciva a svegliare queste cose al nostro sguardo? Tutti quegli oggetti poco vistosi diventano interessanti grazie allo sguardo interpretante del pittore su di essi: sottolineando analogie tra le tonalità di colore della mela e della forchetta d'argento, per esempio, il pittore pare dirci "godete del mio sguardo d'artista su queste cose che vedete di continuo ma non guardate mai!"  Intento dell’artista è far risplendere questi oggetti bassi come se fossero immagini di Venere o dell’Imperatore. Perciò l'arte classica, figurativa, non è mai semplicemente verosimigliante: nella rappresentazione pretende di manifestare sempre, gloriosamente, un'essenza. La gloria dell’artista classico è ottenuta glorificando il mondo, per quanto umile o brutto esso possa essere.

 

  1. 2.    Riflessione del linguaggio

 

          La modernità comincia – più o meno con Rodin e Medardo Rosso nella scultura, con Cézanne e van Gogh nella pittura – quando l’artista cessa di avere come fine essenziale la rappresentazione dell’oggetto, ma riflette la rappresentazione stessa. Quando l’arte si impegna a essere autoreferenziale. Come vide bene José Ortega y Gasset già nel 1925[3], “l’arte dei giovani” – come la chiamava lui – prende per tema lo specchio, che perde così la sua trasparenza. L’arte classica, come riflesso della realtà anche se idealizzata, era come uno specchio: quando guardiamo in esso non guardiamo lo specchio, ma l’immagine da esso riflessa. L’arte del Canone è transitiva, ci porta verso l’oggetto rappresentato, cerca di farci dimenticare lo specchio, insomma, cerca di farci dimenticare l’arte, la propria artificiosità. Apprezziamo l’arte nella misura in cui questa, di primo acchito, ci fa dimenticare sé stessa. L’artista moderno invece, anche quando imita oggetti sensibili, attira la nostra attenzione sullo specchio stesso, ovvero sull’arte, non su ciò che esso riflette. Ci manifesta il lavoro dell’artista, i suoi materiali, le forme da lui scelte. L’arte moderna si riflette e riflette su se stessa come lavoro, techne, artigianato, scelta dei modelli, trucchi. Negli eventi artistici recenti è spesso l’artista stesso a offrirsi, come corpo materiale e vivente, in pasto al pubblico: l’artista quindi, e non più il mondo di fronte a lui, diventa spettacolo e opera. In termini più formali, diciamo che il vero tema dell’arte moderna non sono gli oggetti sensibili ma il linguaggio stesso dell’arte – Wittgenstein direbbe il suo gioco linguistico[4]. Il tema è il gioco linguistico specifico di ogni arte (pittura, scultura, architettura, musica, ecc.) ma anche l’arte in genere come linguaggio, come espressione di una forma di vita che diciamo artistica. Mentre la classicità intendeva manifestare l’eidos del visibile, la modernità intende manifestare l’eidos dell’arte stessa.

Questo diventa evidente nell’arte astratta, che rinuncia del tutto a evocare oggetti riconoscibili: presentandoci forme e colori che non rappresentano nulla, l’astrattista ci dice, in modo che più chiaro di così non si può, che quel che conta è manifestare l’essenza (eidos) della pittura: non è questa, essenzialmente, forme e colori su una superficie? Il quadro non si trascende più nell’oggetto che esso rappresenta, si ritira nell’immanenza di quello che è: l’arte diventa una meditazione sull’arte e non più glorificazione del mondo.

Chi non capisce l’arte moderna pensa che il modernismo sia “arte per l’arte”. In realtà il modernismo è meta-artistico, è arte dell’arte. Paradossalmente, l’arte moderna – proprio perché fiorita all’epoca dell’ascesa delle democrazie[5] - è arte aristocratica, in quanto si rivolge all’élite degli artisti: lo spettatore la capisce, può goderne, nella misura in cui lui stesso percepisce da artista. Fuori di questa aristocrazia – in cui lo spettatore si solleva al rango dell’artista, e non viceversa - c’è il Kitsch, ovvero l’arte per le masse consumatrici. Nell’arte classica l’artista era grande quando faceva un bel ritratto del principe, oggi è grande nella misura in cui lui stesso si offre come principe e principio artistico a un pubblico che ipso facto fa parte della sua corte. L’artista oggi poi ha bisogno del suo Lord Ciambellano, il grande critico.

          Basti pensare all’opera del principe dell’arte del 900 per antonomasia: Picasso. Nei suoi ritratti più noti il volto è stravolto: i posti del naso, degli occhi, della bocca, ecc., sono scambiati. Perché questa deformazione ci appare così paradigmatica della modernità? Perché rinunciando all’ideale di verosimiglianza Picasso ci dice “la pittura è solo artificio!” L’artista sceglie il suo “linguaggio”, che risulta così arbitrario come, per Ferdinand de Saussure, è arbitrario ogni segno linguistico: lo sceglie non perché sia il più adeguato a simulare gli oggetti del mondo, ma perché è il suo linguaggio. E così agendo arbitrariamente, il pittore parallelamente smaschera le regole linguistiche che regolavano segretamente anche l’arte classica: quell’eidos che essa pretendeva di svelare non era altro che il suo codice culturale, insomma, un insieme di convenzioni, un gioco linguistico. In fondo Picasso ci dice: “ogni vero artista, anche classico, è come me: non imita, è coerente con le proprie stesse regole”.

 

3. Andare verso le cose stesse

 

          Ma, come nella classicità il riflesso delle cose sensibili era solo un lato del suo progetto, analogamente nella modernità il riflesso dell’arte e dei suoi linguaggi è solo un lato di essa. Proprio perché la rappresentazione adeguata degli oggetti non è più essenziale, e va rappresentata piuttosto l’arte, il modernismo mira a presentarci qualcosa. Non si tratta di presentarci gli oggetti sensibili stessi, perché questi possono essere solo rap-presentati, imitati: aspira a metterci in contatto, finalmente, con la realtà delle cose.

Si prendano i paesaggi di Cézanne. Che cosa accade, ad esempio, nelle sue varie versioni della Montagne Sainte-Victoire, per cui diciamo che Cézanne opera un taglio rispetto a tutti i paesaggi dell’arte precedente? In apparenza si tratta pur sempre di arte imitativa: la montagna Sainte-Victoire in Provenza è comunque raffigurata. Ma sentiamo che Cézanne non mira più, attraverso questa rappresentazione, a manifestarci l’essenza (eidos) della Bella Montagna dietro quella specifica montagna: qui essa ci appare una figura geometrica priva di vita pittoresca, come un monte lunare che pare guardato per la prima volta da un essere umano. Ovvero, Cézanne cerca di rinunciare allo sguardo artistico – che idealizza e sublima – sul mondo per farci entrare in un contatto scabro, severo, duro con le cose stesse. E’ una rappresentazione disumana della natura in quanto non ancora colonizzata dall’uomo e dal suo sguardo: un’iniziazione mistica al reale prima o aldilà di ogni rappresentazione che la interpreti e la soggettivi. Come la fenomenologia filosofica (Husserl, Heidegger, Merleau-Ponty), anche Cézanne voleva andare verso le cose stesse[6]. Perciò Cézanne soleva dire, parlando degli impressionisti: “loro fanno un quadro, io faccio un pezzo di natura”.

          Eppure questa direzione verso il reale può avvenire qui geometrizzando la natura, facendola vedere come una composizione armonica di coni, cubi, cilindri. Come già Galileo, Cézanne vede la natura scritta geometricamente. Proprio riflettendo l’artificiosità della rappresentazione del mondo, Cézanne – come qualsiasi modernista farà, a modo proprio – ci fa intuire che la natura reale non è poi quella idealizzata, trasfigurata, “formattata” dalla tradizione artistica. Egli rompe con l’accademismo dell’arte classica, cioè con la tendenza a raffigurare come i Maestri, quando si pensava che i loro canoni rivelassero l’eidos stesso del visibile.

Mentre la classicità era un’arte delle rappresentazioni di oggetti che puntava a manifestarci l’essenza degli oggetti sensibili, la modernità è un’arte della rappresentazione dell’essenza dell’arte che punta a metterci in contatto con il reale. Nella misura in cui questo reale è innanzitutto il lavoro stesso dell’artista, le avanguardie sono una specie di “socialismo estetico”. Il socialismo ha detto in sostanza che non contano solo i prodotti di consumo: bisogna guardare al produttore, al suo lavoro, che costa tanta fatica ed è pagato così male. Analogamente, il modernismo spinge sul proscenio der Arbeiter[7], il produttore e la produzione, ciò che la classicità faceva di tutto per nascondere dietro lo splendore del prodotto finale. La modernità è quindi ossimoricamente ad un tempo aristocratica (arte per artisti) e socialista (il lavoro artistico viene in primo piano) – in ogni caso non è verosimigliante, oggettiva, insomma non è borghese. Il paradosso è che il modernismo anti-borghese fiorisce proprio nell’epoca del trionfo delle borghesie capitaliste (mentre i paesi del “socialismo reale” hanno sempre rigettato il modernismo come “arte degenerata”).

          Qui cogliamo la portata decostruttiva della modernità nei confronti del Canone: quell’eidos o essenza (al limite divina) delle cose che la classicità voleva manifestare in realtà... non è altro che artifici. Quella forma seducente del mondo che tanto ci ammaliava in Michelangelo o Caravaggio viene rivelata come linguaggio e storia, vale a dire semplicemente come arte.

 

  1. 4.    La prassi gloriosa

 

          Per capire la svolta dell’arte moderna, occorre riandare a una distinzione che risale ad Aristotele, ma che, in vari modi, gran parte della cultura occidentale ha ereditato: quella tra poiesis (produzione) e praxis (azione, attività). “La prassi non è produzione e la produzione non è prassi”[8]. Gli esseri umani liberi – ma anche uno schiavo o un animale – possono produrre oggetti, ma la cosa prodotta risulta alla fine slegata dalla prassi necessaria per produrla, nella produzione conta solo il risultato. Invece la prassi è una specificità dell’essere umano, in particolare dell’uomo libero e creativo: il fine della prassi è l’attività stessa, ovvero l’agire bene, eupraxia. L’attività politica e la ricerca filosofica della verità sono il paradigma della praxis – attività di esseri umani pieni, ovvero di cittadini liberi. Nella praxis l’essere umano (il cittadino libero) punta sì al piacere, ma al proprio; oppure alla gloria guadagnata con le azioni etiche e valorose; oppure alla contemplazione, tipica del filosofo, perché per gli Antichi anche la contemplazione è praxis.

Ora, si dà il caso che per Aristotele la techne – che in greco significa sia tecnica che arte – non è vera praxis, ma solo poiesis, produzione. Techne è ars in latino, che pure significava arte e tecnica. Allora, in quella che noi oggi chiamiamo arte non contava come il produttore fosse arrivato a produrre il prodotto. Non a caso Aristotele scrisse Poietiké, che noi traduciamo “poetica”, ma che significava appunto “modo di produrre prodotti”, nel caso specifico testi tragici. Insomma, Poietiké era un testo che riassumeva le condizioni per ottenere i prodotti della techne letteraria più riusciti, ma che non prendeva affatto in considerazione la praxis specifica dello scrittore. Quel che conta in ogni poiesis è il risultato; ovvero, gli effetti sullo spettatore. Il poeta (ma discorso simile potrebbe essere fatto per il pittore, il vasaio, l’architetto, ecc.)  è un produttore di testi che hanno come fine (telos) produrre certe emozioni specifiche, piacevoli, negli spettatori.

          E’ vero che, nel Rinascimento, la divisione tra poiesis e praxis sembra smussarsi: allora, la produzione artistica verrà esaltata, certo molto più che nella concezione antica in generale, la quale faceva dell’artista e dello scrittore semplicemente “un tecnico”. Ad esempio, ci si comincia a interessare al piacere dell’artista stesso, e non solo ai piaceri che il suo prodotto dà ai suoi spettatori. Così si diceva che Paolo Uccello non andasse nemmeno a mangiare quando dipingeva, ed esclamasse estasiato “com’è bella la prospettiva!”. E’ il godimento creativo dell’artista a entrare finalmente in gioco. Del resto, col Rinascimento anche il grande artista si assicura la gloria, come il condottiero antico. Inoltre la produzione artistica assume i caratteri nobili della contemplazione: Piero della Francesca è anche matematico, Leonardo è anche uomo di scienza, Michelangelo studia l’anatomia umana, l’artista è influenzato da scuole filosofiche, ecc. Non a caso le lingue moderne cominciano a distinguere nettamente “tecnica” e “arte”. Insomma, l’artista, dopo il Medio Evo, diventa anch’egli un uomo di praxis. Eppure il fine ultimo di questa praxis è pur sempre un prodotto artistico, per quanto mirabile e glorioso. Comunque, il piacere dell’artista è nel produrre la sua opera; la sua gloria è per la sua opera; e la sua contemplazione si materializza nell’opera. Dal Rinascimento in poi – fino all’arte popolare e industriale di oggi -, la praxis antica viene reinterpretata come attività produttiva, industria: la praxis più nobile è quella che produce cose nobili, come appunto le opere d’arte. La praxis è allora assoggettata – concettualmente e politicamente – alla poiesis. Si annuncia già la concezione tipica della borghesia capitalista, per la quale la praxis piena è produttiva. Occorre produrre cose – merci, opere, teorie, idee, ecc. – che abbiano un forte valore di scambio, che abbiano successo di massa.

          Con il cosiddetto modernismo si compie un’altra svolta: anche quando l’arte continua a produrre opere ammirevoli, quel che ormai conta è la praxis che ha portato a esse.  L’artista non è più, essenzialmente, un produttore che mira a suscitare un certo tipo di emozioni più o meno piacevoli nel pubblico: è il suo piacere nell’agire artisticamente quel che ora conta. E la sua gloria non deriva più dal riconoscimento da parte del vasto pubblico: deriva solo dal riconoscimento dei suoi pari, “artisti” di professione o di spirito. Da collezionisti, gallerie, musei, ovvero da una élite di speicalisti. Anzi, l’artista modernista può, e in certi casi deve, vantarsi di non essere capito, anzi disprezzato o deriso, dalla “massa”. Sono parte integrante della Saga gloriosa del modernismo tutti gli eventi in cui l’opera nuova, di rottura, fu fischiata dal pubblico inferocito: lancio di pomodori e insulti agli spettacoli futuristi italiani, fischi alla prima del Sacre du printemps di Stravinskij a Parigi, tafferugli a seguito della proiezione di L’âge d’or di Buñuel e Dali, reazioni scandalizzate quando Gino de Dominicis espose uno affetto da sindrome di Down alla Biennale di Venezia, ecc.

In questa prospettiva, la stessa opera finale perde importanza: il prodotto artistico propriamente detto viene ammirato ora solo come traccia, ricordo, dell’atto artistico stesso. Per questa ragione i casi estremi di avanguardismo sono quelli più significativi. Quando Duchamp espone l’urinatoio, o quando Manzoni vende la sua Merda d’artista, è evidente che il prodotto non conta nulla: conta l’atto – e il godimento - dell’artista, che osa proporre qualcosa di disgustoso al pubblico. Quando Malevich nel 1918 dipinge il Quadrato bianco su fondo bianco[9], o quando Cage “esegue” quattro minuti e 33 secondi di silenzio, l’opera si riduce a nulla o quasi. Per non parlare dell’elogio della pagina bianca di Mallarmé. Non c’è quasi più alcuna poiesis: il prodotto viene quasi completamente risucchiato dall’agire.

Ma anche in forme moderniste più moderate possiamo assistere a questo declino del prodotto in quanto separato dalla praxis, e all’irrompere in primo piano della prassi dell’artista. Si prenda il pittore italiano più importante del Novecento, Giorgio de Chirico. In apparenza i suoi sono quadri figurativi alquanto tradizionali, eseguiti con scrupolo accademico, gradevoli a guardarsi, divertenti. E in effetti è possibile fruirli nella chiave di opere tardo-classiche: come oggetti di produzione e non come tracce di una prassi. Allora, che c’è di specificamente modernista in questi dipinti? Il fatto che, ad esempio, al posto degli eroi classici appaiano manichini. Lo smascheramento è chiaro: le figure della classicità erano solo fantocci, artefatti, finzioni. L’irruzione del manichino in questi quadri che, per altri versi, rappresentano piazze e ambienti rinascimentali o classici, o altiforni (ovvero le cattedrali moderne), è un fatto di praxis: l’artista sembra dire, a voce alta, “i prodotti dell’arte classica sono solo manichini!” Non si tratta insomma di ammirare il modo in cui de Chirico ci rappresenta manichini e piazze deserte, si tratta di ammirare piuttosto l’atto osé di sovrapporre piazze deserte a manichini, cioè di denunciare l’artificio dell’arte classica, il suo voler far dimenticare l’atto e l’artista. Esibendo un prodotto che nel fondo ridicolizza il prodotto eccellente, il pittore metafisico mostra la prassi di ironizzare sul prodotto eccellente – e in questo consiste, appunto, la sua eccellenza.

 

 

5. Domesticazione degli specchi

 

          Torniamo allo specchio di Pistoletto. Grazie a quest’opera minimale se non minimalista, ci rendiamo conto dell’artificiosità degli specchi: del fatto che in fondo li disponiamo sempre per offrirci un idolo ideale di noi stessi. Perciò non ci imbattiamo quasi mai in specchi disposti sul soffitto (tranne che nei bordelli) o sul pavimento: li incontriamo sempre di fronte a noi, in modo da offrirci un’immagine frontale di noi stessi come nei mosaici bizantini, nei ritratti classici a mezzobusto o nelle fotografie formato tessera. I nostri arredatori fanno del loro meglio per risparmiarci scorci imbarazzanti di noi stessi. Al contrario di quel che diceva Cocteau[10] (“gli specchi dovrebbero riflettere di più prima di rifletterci”), gli specchi nel nostro ambiente abituale riflettono fin troppo prima di rifletterci. Gli specchi che ci circondano sono educati: la loro capacità puramente ottica di riprodurci è castigata da regole implicite nel disporli. C’è un linguaggio persino nella riflessione ottica, come ben sappiamo dagli stili fotografici. Ora, la modernità è innanzitutto denuncia di questa “educazione”: essa ci ripete senza posa che la riproduzione artistica, speculare, del mondo in realtà è gioco linguistico. Ma abbiamo visto che la modernità – anche lo specchio di Pistoletto – pretende in fondo di confrontarci con qualcosa di finalmente reale.

          Nella misura in cui ci guardiamo in uno specchio steso sul pavimento, ciò che consideriamo volgare di noi – i nostri piedi, gambe, genitali – risulta qui preminente, in primo piano (lascio solo immaginare che cosa succedesse a Dokumenta quando si specchiava una ragazza in minigonna larga…); ciò di cui andiamo più fieri, la nostra testa con cervello, ci appare qui invece in secondo piano, lontana. Come accade con le statue di Giacometti, grandi di piedi ma piccole di testa. Non abbiamo più un’immagine “ideale” del nostro corpo - quindi possiamo cessare di idolatrarla. Proprio perché questa immagine pistolettiana del nostro corpo non corrisponde alla nostra immagine del Corpo, allora è del corpo reale che abbiamo finalmente sentore. Con il suo specchio Pistoletto mira a rivelarci il nostro corpo come reale e non come ideale. Il reale è appunto ciò che non si esaurisce nelle immagini aggiustate che abbiamo di esso: è l’oltre-l’orizzonte che non cessiamo di scoprire, perché non si identifica all’idolo che ce ne siamo fatti. E’ ciò che non ci appare normalmente, che ci appare aldilà di ogni norma rappresentativa. A suo modo, anche Pistoletto prosegue l’utopia di Cézanne: non tanto darci una nuova immagine inedita, originale, del mondo, quanto iniziarci alla realtà del mondo.

          La modernità è quindi a un tempo denuncia dell’artificiosità dell’arte e iniziazione mistica al reale vero. Questo reale che ci viene come sbattuto in faccia varia da artista ad artista: può essere di volta in volta il lavoro dell’artista  o i materiali da lui usati, una qualità invisibile della natura, le macchine e la forma di vita tecnologica che ci dominano, la Vita che segretamente anima il mondo, il malessere dell’arte in una società divisa in classi, ecc. Tutte cose che non si possono rappresentare, ma che l’arte moderna mira a mostrarci attraverso il percorso ironico della riflessione dell/sull’arte stessa. Il reale è l’invisibile a cui la modernità mira attraverso la sua critica del visibile.

 

6. Toilettes

 

          Gran parte dell’arte più recente sembra essersi convertita alle installazioni: l’opera ormai non è più identificabile in una delle forme classiche (pittura, scultura, architettura, arazzi, fotografia, ecc.) ma si afferma come opera totale. Lo specchio di Pistoletto rientra in questo genere. L’idea dello specchio sul pavimento sarebbe potuta venire anche a Duchamp o a Man Ray, così l’affermarsi delle installazioni sancisce il trionfo del dadaismo come modello della modernità. In effetti, fu proprio Dada a rinunciare a ogni ideale di arte pura (pura pittura, pura scultura, ecc.), perché esso non si voleva una forma artistica nuova ma anti-arte.  Come allora queste opere di tipo dadaista possono ancora riflettere su/gli specifici giochi linguistici artistici?

          Soffermiamoci un istante su una delle prime installazioni: l’atto celeberrimo, compiuto nel 1917 da Duchamp, di esibire un orinatoio americano intitolandolo Fountain. Perché questo orinatoio ci appare un evento così cruciale ancora oggi? Che cosa Duchamp ha veramente fatto?

          Non bisogna dimenticare che Duchamp presentò il pisciatoio come una fontana: ovvero non come un’opera scultorea in senso stretto, ma come ”arte decorativa”. Siccome le fontane classiche sono anche oggetti d’uso, sono opere a metà strada tra architettura e scultura. Come un’architettura, la fontana svolge una funzione pratica: deve far zampillare getti d’acqua, dai quali ci si può anche abbeverare. Fellini in La dolce vita ha mostrato che in una fontana si può anche camminare e baciare. Ma la strategia dell’arte classica  consiste proprio nel farci dimenticare la faccia funzionale della fontana, il suo essere una dispensatrice artificiale d’acqua. Non a caso le fontane classiche evocano tanto spesso paesaggi naturali o mitici, Nettuno, Najadi, pesci, Sirene, cascate, fiumi, ecc. Questa pletora di referenze naturalistiche o mitologiche mira a distoglierci dall’artefatto per evocare un mondo di sorgenti naturali o di figure archetipiche. L’arte classica si vergogna della propria tecnica – di essere design - che copre con il velo pudico delle forme naturali o dotte.

Ora, esponendo un orinatoio, Duchamp sceglie al contrario un oggetto ancor più funzionale della fontana. Proprio quella funzionalità che l’architettura classica cercava di velare (tubi, travi, sanitari, pilastri andavano nascosti o camuffati) viene messa a nudo in modo provocatorio. Perciò l’atto di Duchamp è paradigmaticamente modernista: mette crudamente allo scoperto “la rimozione” ad opera dell’arte classica, che consisteva nel distoglierci dalla funzione per concentrarci sulla “bella forma”.

          Si dirà: ma anche un orinatoio può essere bello. L’industria oggi si avvale di designers raffinati per proporci tazze di cesso che soddisfino il nostro gusto. Ma se uno apprezzasse il design dell’orinatoio di Duchamp, forse l’artista stesso se ne sarebbe rallegrato, ma non diremmo che questo visitatore abbia capito veramente l’atto di Duchamp. Non si può apprezzare la “fontana” di Duchamp come si possono apprezzare design di WC in una fiera industriale.

Ma allora, a parte la critica ironica – svelare quella funzionalità che l’arte classica vela – che cosa apprezziamo in questo atto? Appunto, il fatto che sia un atto. In effetti, il gesto di Duchamp ha fatto epoca: è stato un evento. Come fu un evento la prima parigina del Sacre du Printemps di Strawinski, o i 4:33 minuti di silenzio di Cage. Dietro la riflessione (critica, o ironica, o satirica) del linguaggio dell’arte, un’installazione – come quella di Duchamp – fa evento. Non si tratta di un evento naturale, ma culturale: eppure esso è non meno reale. L’arte moderna, mettendo a nudo il paradigma dell’arte classica, mira a essere evento che irrompe nel reale.

          In effetti, quel che determina la fortuna di un artista oggi non è più tanto la sua abilità, nel senso in cui se ne parlava nell’epoca classica. L’importante per lui è che il suo atto faccia data nel percorso dell’arte. Ma questo successo dipende solo in parte dal suo talento: nella storia, gli eventi non hanno veramente un autore. Non c’è veramente un autore della Rivoluzione francese, di quella sovietica del 1917, della rivoluzione iraniana del 1979, ecc., anche se alcune figure ne sono state protagoniste. L’artista modernista, in effetti, è più protagonista della propria opera che veramente autore.

 

7. Dal concetto al reale

 

          Potremmo considerare lo specchio di Pistoletto come iperrealista.  L’artista iperrealista moderno riproduce in modo minuzioso oggetti quotidiani, senza tentare alcuna loro trasfigurazione artistica – anch’egli viene percepito come modernista. In una mostra vidi un quadro che riproduceva in modo scrupolosissimo – non amorosamente - un povero cesso sporco del Bronx. Quale gioco linguistico può mai riflettersi in una riproduzione così pedissequa di un oggetto così basso? Evidentemente la riproduzione di un oggetto tanto squallido può turbarci o farci ridere – comunque interessarci – proprio nella misura in cui essa rappresenta qualcosa che non ci appare degno di essere rappresentato. In effetti, il quadro ci dice qualcosa che va ben oltre la scelta di un oggetto umilissimo: che nessun oggetto in quanto oggetto è degno di essere rappresentato. Ci dice insomma che ogni oggetto pittorico, proprio in quanto oggetto, foss’anche il presidente americano o Carla Bruni nuda, è un cesso. Anche se in negativo, l’iperrealismo allora riflette il linguaggio della classicità: ci fa capire quanto questa idealizzasse i suoi oggetti-modelli, e perché quindi privilegiasse soggetti belli o sublimi o sacri. L’iperrealismo invece ci presenta beffardamente come idolo un oggetto niente affatto ideale: nella scia di questo atto, denuncia la perdita di reale dell’arte classica. O perché quest’arte classica rappresentava idolatricamente oggetti ideali (i signori della terra o del Cielo, le donne più belle, le città più opulente), o perché idealizzava il limone, il bicchiere o il povero storpio, essa comunque seguiva regole idealiste, non realiste: la sua rappresentazione non ci convocava mai a un incontro con la cosa stessa.

           Possiamo dire che l’orinatoio di Duchamp e lo specchio di Pistoletto sono opere “concettuali”? In un certo senso tutta l’arte moderna è concettuale: quel che conta in essa non è l’opera come oggetto né gli oggetti che rappresenta, ma “cosa vuol dire l’artista”. Per farlo capire bene, una parte della modernità rinuncia a rappresentare alcunché: punta decisamente al vuoto. La morte dell’arte – che Hegel aveva profetizzato – si realizza, nelle forme più estreme, nel risolversi dell’arte in puro concetto: al limite, nel vuoto di rappresentazione.

Si prenda il famoso quadro di Malevich, un quadrato bianco su fondo bianco: qui la rappresentazione sfuma nell’invisibile. Quest’opera si propone come una riflessione di ciò che dovrebbe essere essenziale della pittura: un’essenza che differisce da ogni cosa dipinta. Anche il tempo di silenzio di Cage esalta la morte della musica per rivelarne l’essenza: l’eidos della musica è aldilà di ogni suono. E che cosa può essere questo aldilà se non il silenzio? Come per Heidegger l’Essere è non-ente, è diradarsi degli enti e in fondo loro nullificazione, anche per gli artisti moderni l’essenza della pittura si rivela essere la tela bianca, l’essenza della musica si rivela essere il silenzio, l’essenza della scultura la pietra scabra trovata e non lavorata, l’essenza della poesia raffiche di parole.

Si dirà che sono casi-limite. Come è un caso-limite lo specchio orizzontale di Pistoletto. Ma questi limiti sono ciò a cui tutta la modernità tende: l’essenza dell’arte può essere manifestata, al limite, solo rinunciando all’opera. Ovvero, tuffandosi nel reale, che non rappresenta mai se stesso.  Il reale è quella realtà che non ha specchio in cui riflettersi.

Eppure, se malgrado tutto ricordiamo questi exploits di Malevich, Duchamp, Cage, Pistoletto come artistici, è perché sono stati eventi significativi, avventure ed emozioni, degli unica. Non avrebbe oggi senso rifare il gesto di Duchamp, esponendo magari un orinatoio rosso o di forma diversa – equivarrebbe a dipingere, oggi, Madonne come le raffigurava Raffaello. Alcuni artisti moderni sono famosi per l’irripetibile tempestività del loro gesto: il resto di sensibile è l’happening che impedisce il dissolversi dell’arte nella pura riflessione concettuale che si sostituisce all’opera. Anche se nel nostro secolo la faccia sensibile, esistenziale, dell’opera tende a non confondersi più con la cosa rappresentata, ma con l’evento stesso, in quanto accade al tempo giusto. I Greci avrebbero detto che quel che conta nell’arte moderna è il kairos. Al limite, direi, l’opera si confonde con il corpo e la vita dell’artista, con la sua carne, nella misura in cui si espone al rischio assoluto di un gesto che potrebbe risultare alla fine del tutto insensato, oppure invece gravido di storia nuova.

 



[1] Sull’importanza dell’idea platonica in arte, cfr. E. Panofsky, Idea. Contributo alla storia dell’estetica, La Nuova Italia, Firenze 1975.

 

[2] W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 1936; Einaudi, Torino 1966. Cfr. S. Benvenuto, “Le réel à l’époque de la reproductibilité technique. Notes en marge de Walter Benjamin”, Ligeia, juillet-décembre 2010, nn. 101-104, pp. 35-44. G. Lista, “Walter  Benjamin  et  le  déclin  de  l’aura”, Ligeia, juillet-décembre 2010, nn. 101-104, pp.

 

 

[3] José Ortega y Gasset, “La desumanisación del arte” ; tr.it. La disumanizzazione dell’arte, Lerici, Roma 1980.

 

 

[4] L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen; tr.it Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1967.

 

[5] Il fatto che i regimi totalitari – di destra, sinistra, o religiosi – finiscano con l’eliminare, prima o poi, le correnti moderniste non mi sembra un dato storico estrinseco. Probabilmente i modernismi sono possibili solo in democrazie liberali e capitaliste, vale a dire in epoche in cui prevale l’estetica di massa, e quindi un vasto mercato libero dei prodotti culturali. Le avanguardie del Novecento sono socialmente inscindibili dal Kitsch di massa di cui pur esse si vogliono antitesi.

 

[6] M. Merleau-Ponty, “Le doute de Cézanne”, Sens et non sens, Nagel, Paris 1948.

 

[7] Nel senso in cui ne parla Ernst Jünger in Der Arbeiter. Herrschaft und Gestalt, 1932 (L'Operaio. Dominio e forma, Parma, Guanda 1991)

 

[8] Eth. Nic., 1140a, 6-7.

 

[9] Esposto al MOMA di New York.

 

[10] Jean Cocteau, Essai de critique indirecte : le mystérieux laïc, des Beaux-Arts considérés comme un assassinat, Grasset, Cahiers Rouges, Paris, 2003

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