Morire all'americana [1994]05/lug/2017
Sergio Benvenuto
Quando in Italia, o in Francia, incontro una psicologa, di solito apprendo che costei si occupa di problemi sessuali, o familiari, della gente. Quando in America incontro una psicologa, nella maggioranza dei casi scopro che si occupa di morenti. Ma non si tratta solo di una moda tra i laureati americani in psicologia: da qualche anno a questa parte l' intera società statunitense pare affascinata dal compito di "socializzare" la morte, la malattia e la menomazione fisica grave.
Prima di tutto, attraverso gli spettacoli. A Broadway trionfa la seconda parte del dramma-fiume di Tony Kushner, Angels in America. La prima parte si chiamava Millennium Approaches, e da tre anni tiene ancora il palcoscenico. Questa seconda parte si intitola Pereshtroika, e si impernia, come la prima, su due agonie per AIDS nella New York del reaganismo rampante. Può stupire un europeo che i newyorkesi spendano 65 dollari per correre a vedere uno show dove si ammirano il New York Hospital, piaghe di Kaposi, fleboclisi, e scene di sodomia in cessi pubblici alla ricerca dell'infezione. Ma qui il pubblico pare gradire, anche con grasse risate, questo humour degli impiccati.
Segno dei tempi anche Philadelphia, il film di J. Demme. Pure qui si seguono con cura le varie fasi di AIDS conclamato di un giovane avvocato omosessuale della metropoli della Pennsylvania. Questi, anziché passare gli ultimi mesi della sua vita mortale a meditare sull'aldilà, scatena un processo clamoroso contro il boss del suo studio legale, in quanto questi lo ha licenziato, illegalmente, perché malato di AIDS.
Sedotto dai temi mortuari è stato persino il vecchio Edward Albee, tornato in questi giorni al teatro dopo oltre un decennio di silenzio. Il suo nuovo spettacolo, Three Tall Women, si impernia tutto sull'ultimo giorno di vita della sua anziana madre, e sugli ossequi mortuari nei confronti della stessa. Persino Spielberg, mago del cinema che conquista i botteghini, si è cimentato con il tema mortifero dell'Olocausto in Schindler's List, premiato con l'Oscar. E' vero che è riuscito a ricavare un film a lieto fine persino da eventi che rappresentarono una brutta fine per milioni di uomini e di donne; ma certo il successo di pubblico di questo film mostra, ancora una volta, che l'orrore della morte di massa non respinge il pubblico americano. E gli esempi si potrebbero facilmente moltiplicare.
In generale, l'impero americano dell'entertainment pare oggi perseguire questo obiettivo: reintegrare nello Spettacolo, quindi nella Comunicazione, ogni forma di handicap. E così gli shows americani si riempiono di invalidi, malati mentali, eroi con volti mostruosi o sfigurati, afasici, sordomuti, affetti da mali incurabili. La Fabbrica Americana delle Immagini sa di aver ormai conquistato il pianeta, di aver creato per la prima volta nella storia forme di spettacolo davvero cosmopolitiche - Jurassic Park, per esempio, piace al contadino cinese come al beduino e all'operaio californiano. Inorgoglita dal suo trionfo, a questo punto la Fabbrica delle Immagini lancia a se stessa una sfida ambiziosa: fare delle condizioni anche più raccapriccianti, ai limiti della tollerabilità filantropica, un Grande Spettacolo da vendere ovunque. La Carità, grazie a questa transustanziazione yankee, cessa di essere solo un dovere e diviene consumo di massa, divertimento.
Spesso gli europei in questa vocazione americana a trasformare tutto in spettacolo vedono solo il cinismo di chi vuol fare soldi con ogni mezzo. Ma sfugge loro il fondo dell'American Dream: il sogno di socializzare l'ineffabile. L'America è una Olanda dei segni: da tempo impegnata nel prosciugamento progressivo dello Zuydersee dell'incomunicabile.
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Solo in America, credo, può diventare una specie di eroe popolare uno come il Dr. Jack Kevorkian, alias "Doctor Death". Questo medico del Michigan, dal volto alquanto spettrale, da tempo sfida le leggi dello stato assistendo in un "furgoncino a uso suicidio", da lui stesso messo a punto, le persone che vogliono farla finita, e dando a questa assistenza la massima pubblicità possibile. E quando in questo paese fu pubblicato Final Exit - un manuale che istruisce sui modi migliori per suicidarsi- esso divenne subito un best-seller.
In effetti, la malattia e la morte "tirano" anche nel dibattito giuridico e politico. Tutto questo attivismo centrato sulla morte fa entrare quasi sempre in scena un personaggio quanto mai americano: il lawyer, l' avvocato. Non a caso i protagonisti di spettacoli come Angels in America e Philadelphia sono avvocati. Alcuni buoni, altri cattivissimi, ma sempre avvocati. Gli americani sono visceralmente affascinati dal dibattito giuridico; in particolare dal dibattito attorno ai diritti. Non si parla d'altro che di diritti delle minoranze, degli omosessuali, dei bisessuali, delle donne, dei malati, dei sado-maso, dei bambini, della natura. In questo contesto, anche il suicidio, anche la morte, diventano diritti. Vale a dire, cose da mettere nelle mani di un avvocato.
Ma in questa Crociata del Diritto alla Morte non c'è solo l'infatuazione americana per i processi e le azioni legali. C'è un atteggiamento del tutto diverso - rispetto al nostro europeo - nei confronti delle disgrazie, delle catastrofi, delle malattie fatali, e quindi della morte. Kevorkian, quel medico alto, magro e allampanato del Michigan non sfida la mentalità americana, la porta solo alle sue logiche conseguenze.
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Al Policlinico di Roma invano si cercherà il reparto di Cancerologia. Esso è camuffato dietro la dizione "Radiologia". Questo per mistificare pietosamente i pazienti che colà vengono a farsi curare. Gli italiani ridiventano d'un colpo bambini non appena sono diagnosticati come cancerosi: non devono sapere che malanno hanno. Al contrario, è un diritto acquisito del paziente americano il fatto che egli non debba venire ingannato sulla diagnosi, anche se è la più infausta. Se il medico non osa dire la verità al paziente, rischia una denuncia per disonestà professionale.
Ma anche dopo che l'americano si sente dire che ha l'AIDS, o il cancro, o altra infausta infermità, egli non deve perdersi d'animo. Occorre che egli resti positive, altro concetto-chiave dell'American Way of Life. Positive è un termine che a molti europei suona antipatico, perché noi, hegeliani fino al midollo, invece siamo affascinati dal negativo (i nostri filosofi non simpatizzano solitamente per il "pensiero negativo" e per le "decostruzioni"?). Perché sia positive, il paziente americano si trova quindi bersagliato da numerose pubblicazioni, opuscoli, manuali, booklets. I titoli vanno da "Come Vivere Felici con il Cancro" fino a "Amore, Medicina e Miracoli", "Dalla Vittima alla Vittoria", "Come Evitare gli Effetti Collaterali della Chemioterapia", "Cancro e sessualità", ecc. Parenti e amici del malato, poi, si procureranno opuscoli e libri del tipo "Quando Qualcuno in Famiglia Ha il Cancro". In queste pubblicazioni si va dalle informazioni più concrete - dove trovare parrucche a buon prezzo, a quali medici o assistenti sociali rivolgersi - fino ai consigli spirituali e alle poesie che inneggiano al carpe diem. Dal canto loro, le Associazioni di malati di cancro o di AIDS, in competizione tra loro, cercano di attrarre la clientela, con proposte più o meno allettanti. Una di queste Associazioni invia al neo-malato un opuscolo zeppo di informazioni utili per chi deve intraprendere il Calvario della malattia; peccato che il primo indirizzo di questa lunga, e praticissima, lista sia quello delle Pompe Funebri. Un eccesso di senso pratico, evidentemente.
Poi, il malato o la malata parteciperanno a Gruppi di Auto-Cura o di Auto-Sostegno: un gruppo riservato a malate di cancro al seno, un altro a malati di linfoma, un altro ai sieropositivi, un altro solo con persone con AIDS conclamato, ecc. Questi gruppi possono rifarsi alle teorie più diverse, dal buddhismo zen alla psicoanalisi freudiana: l'importante è che delle persone che vivono un'esperienza medica omologa comunichino tra loro questa esperienza, e portino fino alla superficie della parola le profondità intime della sofferenza.
Chi scrive ha partecipato ad alcuni di questi gruppi. Siamo lontani mille miglia dal timorato pudore e dalla pietosa reticenza che circonda i malati italiani, in particolare. In questi gruppi regna il buon umore: volano battute, si scherza sulle proprie menomazioni, chi è avvilito viene spinto a battersi e a reagire in modo appunto positive, ci si scambiano informazioni mediche, si tessono amicizie. Le signore cancerose organizzano festicciole e cenette a cui invitano i "con-patenti" e i loro coniugi o amanti. E questi gruppi sono solo una varietà di un vasto menù di terapie eccentriche, a metà strada tra la psicoterapia e la liturgia religiosa.
La comunità omosessuale americana si è vistosamente mobilitata per l'AIDS: organizza mostre fotografiche, kermesse di protesta per chiedere più fondi al governo, assistenza a domicilio assicurata da gay sani. Mentre in Italia, ad esempio, i malati di AIDS sono tenuti nascosti negli armadi, in America vengono invitati nelle trasmissioni televisive. Chi sopravvive da molti anni con la malattia diventa un guru: tiene affollate conferenze per dire come fa a sopravvivere così a lungo.
Insomma, bisogna essere positive. Lo si è visto anche durante le grandi inondazioni del Mississippi, nell'estate del 1993. L'alluvionato americano, intervistato da una rete televisiva, dice sorridendo "Mi ricostruirò una casa più bella... e proprio sul bordo del Mississippi!".
L' American way of dying ha anche i suoi propagandisti e teorici. Sono i "tanatologi", Caronti specializzati che aiutano la gente a passare l' Acheronte nel modo più sereno possibile, e senza dar troppo fastidio a chi sopravvive. Questi psicoterapisti dell'agonia annoverano anche una star, Katherine Kübler Ross: i suoi best-sellers raccontano come essa riesca ad aiutare la gente a morire come si deve. E poi i lettissimi Obituaries sui giornali, dove - a differenza dei giornali europei - per prima cosa si dice di che cosa è morto il signore o la signora importante la cui scomparsa va resa pubblica.
Il pragmatismo americano non si ferma quindi nemmeno di fronte alle sconfitte clamorose dell'arroganza medica e della volontà di vivere. "Nulla per noi americani è ineffabile o irrisolvibile". Alla base di questa secolarizzazione della morte e della malattia c'è la filosofia di John Dewey (il cui profeta attuale è il filosofo Richard Rorty) per cui non c'è nulla che una società democratica non possa affrontare e migliorare, agonia compresa.
Invece in Europa - almeno nell'Europa Latina, per chiamarla così - la malattia, l'invalidità permanente, la morte sono ricoperte da una nebbia di discrezione: esse sono faccende personali, da affrontare tutt'al più con i familiari più stretti o con il prete. Consideriamo una volgarità investire tutto ciò con il Discorso. In Europa la malattia e la morte sono soggetti di pudica disperazione al di là del linguaggio. Come ha mostrato lo storico Philippe Ariès negli anni '70, con i suoi bellissimi studi sulla concezione della morte in Occidente, questa rimozione della morte e della malattia dal campo sociale è cresciuta enormemente negli ultimi decenni. Come il lutto di chi sopravvive diviene sempre più privo di insegne visibili (chi veste più a lutto oggi?), analogamente la preparazione alla morte di chi deve morire diventa un suo onere esclusivo. Così esclusivo che compito dei suoi cari sarà appunto di non parteciparvi, fingendo di ignorare la gravità del suo stato. Nell'Europa Latina la preparazione alla morte è diventata sempre meno tema di conversazione tra il malato e chi gli sta accanto. La morte resta fuori dalla comunicazione e dal linguaggio.
Noi europei siamo quindi inclini a disprezzare questa volontà americana di ottimismo, a lamentare la carenza di nobile tragicità in questo popolo troppo "pragmatico", quindi superficiale. Eppure questa scommessa per la speranza e per la lotta, anche quando c'è ormai poco da sperare o da lottare, ha un suo alone di eroismo: al silenzio della morte, si preferisce il chiasso della comunicazione sociale. Discussione, dibattito, argomentazioni, confronto, soprattutto understanding (altra parola-chiave della vita americana): le virtù retoriche non devono arrestarsi davanti alla pena profonda. La morte, punto fuori del cerchio, viene re-inscritta nel cerchio attraverso la febbre della Comunicazione. Tutto deve far festa nello sterminato Villaggio cosmopoltiico e mass-mediatico dell'America.
Infatti, oggi per l'americano nulla va taciuto, nascosto, rimosso - tutto va esposto pubblicamente, dibattuto, e spettacolarizzato. La cultura che ha inventato il concetto stesso di privacy è quella che, oggi, meno di qualsiasi altra rispetta la privatezza del dolore, della disperazione e della morte. Nulla in America deve essere sacro, nel senso originario del termine: intoccabile, tabù, nascosto, irraggiungibile.
In America, più che altrove, è saltata qualsiasi remora nel penetrare la vita privata della gente. Innanzitutto dei potenti: coorti di giornalisti spiano i flirt, le alcove, le amicizie, gli affarucci, la debolezze dei VIP. Ma i veli cadono anche sulla vita privata delle persone comuni. La campagna femminista contro il sexual harassment, la moltitudine di studi che documentano l'enorme numero di incesti, di violenza sui bambini, di abusi domestici, rientrano in questo spasmodico bisogno di mettere il naso nel privato di chicchessia, dal presidente della Repubblica fino al vicino di casa. Il recinto sacro del Focolare è ormai infranto dalla curiosità intrusiva di sociologi, psicologi, sessuologi, giornalisti. La democrazia americana si sta definendo sempre più come squisitamente voyeuristica. E anche il limite estremo della vita va visto, filmato, raccontato, rappresentato, discusso...
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