Flussi di Sergio Benvenuto

Il manicomio chimico (2015)03/mar/2017


Piero Cipriano

Il manicomio chimico. Cronache di uno psichiatra riluttante

Elèuthera, Milano, 2015. Pp. 255.

 

 

           Piero Cipriano, nato nel 1968, non ha potuto essere conquistato, per ragioni anagrafiche, dal carisma personale di Basaglia, né ha potuto seguire da vicino il suo lavoro. Proprio per questo il suo libro mi ha interessato: capire quel che di Basaglia è passato alla terza generazione della cosiddetta Psichiatria Democratica. Da notare che Cipriano è un convertito, fulminato sulla via di Damasco; aveva cominciato la carriera come farmacologo nel quadro della psichiatria prevalente. E in effetti trovo che le parti migliori del libro siano proprio quelle in cui parla del modo in cui oggi si usano i farmaci – ovvero in cui se ne abusa.

           Secondo Cipriano il manicomio non è più quel museo degli orrori che erano i manicomi prima della legge 180, oggi esso è soprattutto chimico, grazie all’indiscriminato e spesso sadico uso degli psicofarmaci. Ma Cipriano denuncia lungamente anche gli altri due manicomi all’antica, che chiamerei il “manicomio shocking” (terapie convulsivanti) e il “manicomio lettereccio”, ovvero l’abitudine di legare al letto i pazienti agitati o scomodi. Il che significa: la riforma della 180 è riuscita solo in parte. Perché, come lui stesso scrive (p. 222) “fatta la legge, trovato l’inganno”.  E così l’80% degli SPDC sono a porte chiuse. Eterogenesi dei fini.

           Cipriano riprende le tesi di Robert Whitaker, autore nel 2010 del famoso Anatomy of an Epidemic[1]. Whitaker si chiede quale sia la causa dello straordinario aumento dei mental disorders in America. Per esempio, nel 1955 in USA era ricoverato con diagnosi di schizofrenia un americano ogni 617 abitanti; nel 2010 è diagnosticato come schizofrenico un americano ogni 125 abitanti. La sua risposta documentata è: la causa è la psicofarmacologia stessa. Buona parte delle malattie mentali sarebbero effetto dell’(ab)uso dei farmaci. Mi appare però verosimile anche la tesi di altri (come Daniel Carlat[2]) i quali spiegano l’esplosione delle malattie mentali in Occidente piuttosto con l’abbassamento delle soglie diagnostiche, in particolare a opera dei DSM. Oggi bersaglio preferito di questa patologizzazione di massa sono soprattutto bambini e adolescenti. Un tempo, se un bambino andava male a scuola, era classificato come somaro; oggi invece è diagnosticato come dislessico o afasico o affetto da ADHD, e quindi impasticcato. Cipriano fa appello sia alla teoria di Whitaker che a questa alternativa, le quali certo possono combinarsi senza contraddirsi.

           La tesi secondo cui i disturbi mentali sono iatrogeni attualizza la tesi che Basaglia sosteneva all’epoca: che gli internati negli ospedali psichiatrici erano malati più di ospedale che della psicosi “vera”. Egli soleva dire che in psichiatria - in quella pubblica, l’unica che gli interessasse - abbiamo a che fare col doppio della malattia mentale. Ma qui cominciavano i problemi della posizione basagliana. Perché eliminare “il doppio della malattia” – quel che lo psichiatra ha fatto del suo paziente – presume che ci sia una malattia primaria, per così dire, che andrebbe finalmente affrontata senza “doppi”. Ma la dialettica basagliana – che Cipriano illustra con lo slogan “la libertà è terapeutica” - tende, de facto, a ridurre la cura alla liberazione dalla psichiatria contentiva; il che, ahimè, non basta. Oggi gran parte degli psicotici sono liberi (anche se sempre meno dai farmaci) ma non cessano per questo di essere psicotici.

           Che cosa fare allora con questi malati senza “doppio”? Cipriano lo ammette: dar loro farmaci. Insomma, pur riluttante, anche lui partecipa al manicomio chimico. “Basaglia – scrive Cipriano (p. 218) – ha accettato la contraddizione di prescrivere psicofarmaci, e di continuare ad avere persone legate…”, e anche il suo emulo ammette di contraddirsi. Certo, Cipriano tiene a dirci che dà i farmaci solo quando sono indispensabili, non li prescrive a vita. Ma allora, bisogna per forza essere basagliani per poter usare il farmaco in modo oculato? Dando farmaci con parsimonia, non si tratta di fare, semplicemente, della buona psichiatria? Se non si riesce a far altro che legare i pazienti, questo è segno che non si fa della buona psichiatria. Ma allora la soluzione è ribadire il mantra “la liberazione è terapeutica” oppure cercare di formare gli operatori in modo diverso?

 

           Dell’epopea basagliana ci sono molte cose gloriose, ma anche molta zavorra che altri chiamerebbero “ideologica”. Per cui voglio indicare un po’ di zavorra anche nel libro di Cipriano.

           Una è il disprezzo per la psicoanalisi. Cipriano si vanta di non aver passato nemmeno mezz’ora nello studio di un analista. Così l’autore ammette di non avere alcuna esperienza di psicoanalisi, ma come giudicare di cose che non si conoscono? Quando parla di cose che conosce bene – gli SPDC, i farmaci – è più convincente.

           Egli cita anche (pag. 176) alcune acute osservazioni di Fulvio Marone. Marone, scomparso nel 2013, era un mio caro amico. Formatosi in Psichiatria Democratica, ha lavorato come psichiatra nelle aree più malconce del Napoletano, in particolare a Scampia, famoso santuario della camorra. Nel suo lavoro si è confrontato con una popolazione dove il degrado morale era persino maggiore del degrado materiale. Eppure la sera, rientrato a casa, faceva lo psicoanalista, di scuola lacaniana. Non trovava una contraddizione tra la sua pratica privata e il suo impegno di psichiatra nel pubblico perché anche nel pubblico faceva funzionare l’ascolto e l’etica psicoanalitiche. Non so come avrebbe reagito alla suggestione di Cipriano secondo cui il terapeuta privato è una specie di puttana. Fulvio accettava il fatto che non tutti si rivolgono al pubblico perché richiedono una cura, per così dire, personalizzata; e non è detto che la richiedano solo signore annoiate e benestanti, secondo la macchietta di psicoanalisi che Cipriano accetta. Molti analisti prendono in cura persone povere per pochi soldi; alcuni sono specializzati in psicosi e in casi gravissimi. E poi, pensare che tutto il disagio spirituale della popolazione vada convogliato nel pubblico è un’idea un po’ stalinista. Un percorso privato di cura è un fondamentale diritto.

           Sergio Piro, altro caro amico di Napoli, morto nel 2009, è stato il leader di Psichiatria Democratica nel Mezzogiorno. Non era psicoanalista, ma non era ostile alla psicoanalisi. Poco prima della sua morte mi disse che, secondo lui, la legge 180 era fallita. Ne era stato colto il vero spirito, diceva, in un posto solo, al DSM di Pordenone. Si dà il caso che il responsabile di questo Dipartimento, Francesco Stoppa, sia psicoanalista, anch’egli di tendenza lacaniana. E non credo che lui, come Marone, veda contraddizione tra le due attività.

Nel fondo, i basagliani pensano che le cure per ricchi - tra cui la psicoanalisi - non siano vere cure. Pensano che i poveri siano curati meglio, dato che danno loro cure gratuite migliori di quelle, inutili e costose, che vengono date ai ricchi.

           Basaglia chiamava “industriali della follia” gli psichiatri che lavorano privatamente con molti pazienti. Effettivamente un paradosso morale si pone per chiunque lavori in un campo di riparazione di danni. Nel fondo, un medico deve augurarsi che ci siano abbastanza malati in modo che lei o lui possa guadagnarsi da vivere. Così, potremmo chiamare gli oncologi di successo che lavorano privatamente “industriali del cancro”, o i dentisti “industriali della carie”, ecc. E’ vero, la cura privata comporta nel fondo una contraddizione, che non mi sembra però peggiore di quella che riconosce Cipriano, quando ammette che trova utile dare farmaci e fare TSO.

 

 

           Il rigetto della psicoanalisi, da parte di Basaglia, era solo un aspetto del suo rifiuto delle tecniche di cura. Anche se di fatto le tecniche non si possono evitare, come Cipriano ammette. E’ strano però che tecniche come gli psicofarmaci fossero per lui accettabili, mentre non lo erano tecniche più soft come le psicoterapie.  La libertà è terapeutica, ma cerchiamo anche “tecniche” che rendano un po’ più liberi. Perché questo è il punto: la malattia mentale “primaria” non può essere curata soltanto eliminando ciò che la cattiva psichiatria ha fatto di essa.

La prescrizione terapeutica di Cipriano si riassume in: “Pochi farmaci. Molta relazione. No fasce” (p. 78) Di questi tre caposaldi il solo veramente positivo è “molta relazione”. Ma che tipo di relazione? Anche la psicoanalisi è un tipo di relazione. Ci sono tanti modi di relazionarsi. A meno che non intenda semplicemente essere gentili e disponibili coi pazienti, ma sappiamo che questo, con molti sofferenti, non basta. Bisogna elaborare delle relazioni, per dir così, speciali.

           Qualificandosi di psichiatra riluttante, Cipriano lascia intendere che in fondo essere psichiatri, in sé, è qualcosa di repressivo. Al contrario degli anti-psichiatri, che sognavano un rapporto non medico con i pazienti, l’autore, da basagliano, sa che ci deve essere un rapporto psichiatrico (ovvero, almeno in parte, contenitivo e dissuasivo) nei confronti dei pazienti. Di rado un basagliano si sente un buon psichiatra, piuttosto si sente uno buono malgrado il fatto di essere psichiatra. Qui è la differenza con l’etica psicoanalitica: per quest’ultima, lo psichiatra dovrebbe richiamare a una legge, quella della convivenza. Ed è proprio nella misura in cui lo psichiatra riesce ad affermare questa legge etica che riesce a contenere i malati facendo a meno di legarli al letto e di rimbecillirli chimicamente.

 

 

           Basaglia era completamente intriso di pensiero fenomenologico, da Husserl a Binswanger. Cipriano ce lo ricorda, anche se confessa di aver trovato sempre sospetta la fenomenologia (p. 179). Sostiene che Basaglia a un certo punto avrebbe “fatto epoché” delle sofisticate analisi esistenziali a suon di parole tedesche e si sarebbe buttato nella pratica, insozzandosi le mani nella Riforma.  Non condivido questa ricostruzione. Il guaio di certe teorie filosofiche è che sono all’origine di pratiche molto dense. E’ stato il caso della filosofia agostiniana di Lutero, e così dell’Illuminismo, del marxismo, ecc. Le idee filosofiche generano movimenti che cambiano il mondo - talvolta anche in modo catastrofico.

Mi pare chiaro che tutti i concetti-chiave con cui Basaglia propugnava la sua pratica venivano dalla fenomenologia. Ad esempio, quando ero a Trieste (1971) diceva che voleva trasformare l’ospedale da un luogo di “malattia come non-senso” in un luogo dove “il paziente trovasse senso alla propria esperienza di sofferenza”. Quasi una parafrasi di Merleau-Ponty. Capivo quel progetto di “luogo dove dar senso alla malattia” perché avevo letto i grandi fenomenologi; ma per uno psichiatra formatosi diversamente quelle parole, suppongo, non avevano molto senso. Il progetto di Basaglia era una sorta di fenomenologia applicata. Se non si conosce il pensiero fenomenologico, che oppone l’immediatezza della Lebenswelt, mondo-della-vita, alla mediazione tecnica, e quindi alle istituzioni come tecniche sociali, non si può capire veramente quel che Basaglia volesse fare. La fenomenologia spiega l’ostilità di Basaglia nei confronti di ogni istituzione; l’idea di “buona istituzione curativa” era per lui una contraddizione in termini. E, contro le istituzioni, il suo appello al territorio come al di là dei reticoli delle istituzioni, come mondo-della-vita, è tutta intrisa di fenomenologia.

 

           La 180 è stata la versione italiana di un processo di de-manicomializzazione che si è affermato nel mondo occidentale negli ultimi decenni. Nei paesi anglofoni lo chiamano community care, e fu là avviato già negli anni ‘60. Di fatto, gli ospedali psichiatrici tendono a sparire in Occidente. La differenza è che in Italia abbiamo avuto anche un polemista e scrittore di grande talento come Basaglia, capace di elaborare argomentazioni molto sofisticate grazie alla sua impregnazione filosofica, tanto sofisticate che ancor oggi sono quasi sempre fraintese. Io stesso, che pur dissentivo da certe idee di Basaglia, quando nel 1971 feci lo stage a Trieste ne rimasi impressionato.

           Credo però che il mondo occidentale vada nella direzione di non istituzionalizzare le psicosi finché esse non disturbano la quiete pubblica. Per fortuna, tanti malati mentali non vengono curati, e vivono in una sorta di tranquilla follia. Ma proprio questa tendenza a tollerare la follia innocua finisce col riservare allo “psichiatra di stato” un ruolo meramente repressivo: egli è chiamato a intervenire, con una contenzione fisica o chimica che sia, solo quando esplode un dramma sociale. E’ questo il paradosso della de-istituzionalizzazione psichiatrica: che lo psichiatra entra in scena solo quando deve fare il castigamatti.

 



[1] New York, Broadway Books.

 

[2] D. Carlat (2010) Unhinged: The Trouble with Psychiatry, New York, Free Press.

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