Flussi di Sergio Benvenuto

Finale al femminile. Una nota a Elvio Fachinelli (2011)22/apr/2017


1.

Molti oggi considerano il pensiero di Elvio Fachinelli inattuale, troppo legato – si dice - a una temperie intellettuale, quella degli anni 60 e 70, oggi non più ‘presente’. Pecca non veniale, dato che da oltre un secolo pensatori e scrittori hanno fatto proprio il dictat di Rimbaud, “il faut être absolument modernes”. Ma non credo affatto che l’opera di Fachinelli sia riducibile a una teoria sessantottesca.

Eppure, a costo di confermare questo cliché su Fachinelli, evocherò il film Teorema di Pier Paolo Pasolini, del 1968. Un film che, meglio di altri, rappresenta il tropismo dionisiaco di quegli anni. Per tropismo dionisiaco intendo la riscoperta della dimensione femminile come inattuale, come vedremo.

          Teorema è la storia di una famiglia milanese fine anni 60 molto ‘perbene’, soddisfatta, ricca. D’un tratto, giunge come loro ospite un bellissimo giovane la cui identità e nome non vengono precisati - lo spettatore lo interpreterà come una figura divina. E difatti, tutti e cinque i membri della casa (padre, madre, figlio e figlia, domestica) si innamorano di lui, e il dio se li porta a letto, uno per uno. Poi, ad un certo punto, se ne va da quella famiglia, per sempre.

          La reazione di ciascuno dei cinque è catastrofica, nel senso di katastrophé, letteralmente “volger giù”, che significava rovesciamento, riuscita, conclusione di un dramma. Ognuno non può restare quello che era e viene spinto giù verso una hybris, un rovesciarsi aldilà di ogni temperanza. Ad esempio, il capofamiglia regala la fabbrica ai suoi operai e nel bel mezzo della stazione di Milano si spoglia completamente dei propri vestiti. La domestica torna al suo paese, e in mezzo ai suoi compaesani pratica un’ascesi bizzarra che ne fa una santona locale.

Da notare che lo slittamento verso questi modi di essere catastrofici non sono tutti sociodistonici né tutti sociosintonici. Per Pasolini la risposta di ciascuno al contatto – rappresentato come sessuale – con qualcosa di divino porta ad eccessi che nulla hanno a che vedere con le valutazioni del benessere sociale, con “il servizio dei beni” come lo chiama Lacan[1]. E in ognuno riconosciamo l’accesso a quel che Fachinelli chiamava “la gioia eccessiva”.

          E’ un film inattuale, troppo legato all’atmosfera di quegli anni? Certamente sentimmo, all’epoca, che esso rappresentava qualcosa che noi – Fachinelli incluso - cercavamo di dire e di fare. Ovvero, cercavamo una sorta di incontro fortunoso con qualcosa di numinoso che portasse ciascuno fuori di sé, che, grazie ad un accoglimento dell’Altro, ci facesse accedere ad un’esperienza che – sulla scia di Nietzsche - chiamerei dionisiaca.

 

2.

Anche l’ultimo Fachinelli tematizza qualcosa di squisitamente dionisiaco: gli stati estatici. Da extasis, esser fuori di sé. Questa esigenza di “andare fuori di sé” si era mai espressa nella psicoanalisi? Non è invece la psicoanalisi, per vocazione, l’inverso dell’impulso dionisiaco ad andare fuori di sé? Non è anzi essa un tornare dentro di sé basato sulla epimeleia heautou, cura sui, come dicevano gli Antichi, “cura di sé”? Non è un’analisi piuttosto un rientrare in sé?

Uno dei saggi meglio accolti di Freud è “Ricordare, ripetere e rielaborare”[2]. Qui ogni forma di azione – di “passaggio all’atto” - è descritta come ripetizione del rimosso, e l’analista ha il compito di “trattenere entro il campo psichico tutti gli impulsi che [il paziente] vorrebbe avviare nel campo motorio, e saluta come una vittoria della cura tutti quei casi in cui è possibile liquidare attraverso un’attività mnestica ciò che il paziente vorrebbe scaricare in una azione”[3]. Ricordarsi, ovvero poter parlare di quel che si ricorda, è antidoto all’agire, visto come acting out. Molta psicoanalisi nutre una diffidenza fondamentale per l’azione come passaggio al reale; diffidenza che le è stata spesso rimproverata (“l’analisi è guardarsi l’ombelico” e simili).

Mi pare che invece l’intera opera di Fachinelli sia una critica a tutto campo della pretesa di tanti analisti di far rientrare il soggetto in sé, di accasarlo nella parola e nel pensiero propri. Piuttosto gli interessava il rapporto al mondo – in un primo tempo in forma attiva militante, più tardi in forma piuttosto passiva estatica. Così, nel suo ultimo libro scrive che Freud, pur avendo dischiuso all’umanità una possibilità di apertura nuova, l’avrebbe in qualche modo richiusa sacrificando quella che lui identifica come polarità femminile dell’essere-nel-mondo[4].

Nello scritto “Sulla spiaggia”, Fachinelli ci pone di fronte ad una propria esperienza estatica. Mentre se ne sta accanto al mare, in uno stato di dolce passività, un'illuminazione, ad un tempo fisica e intellettuale, irrompe dal mare come Ulisse emerse dalle onde incontro a Nausicaa: "un'accettazione di qualcosa che veniva, in certo senso, dall'esterno, dopo un estenuante brancolare... Non meditazione né raccoglimento. Accoglimento."[5] Fachinelli, come Nausicaa, accoglie. Egli accetta una modalità femminile di apertura, da qui "gioia con senso di gratitudine"[6].

Fachinelli cita allora l’incontro quasi carnale di S. Giovanni della Croce con Dio: “Lì mi dette il suo petto – lì una scienza mi infuse saporosa – ed io a lui mi detti, senza tralasciar cosa – e gli promisi allora d’esser sua sposa”.

Come si vede, in Fachinelli l’estasi non sembra essere tanto l’andare fuori di sé quanto l’accogliere dentro di sé. Ma questa accoglienza del non-sé dentro di sé – che lui identifica ad una modalità femminile – è un modo specifico di essere fuori di sé che si esprime nell’impulso inverso a donare e, direi, a spendersi. Non si tratta per Fachinelli di riuscire a simbolizzare il mondo traumatico, di “poter pensare” come molti analisti dicono oggi, per padroneggiare l’esterno e quindi conquistarlo andando oltre sé; si tratta piuttosto di diventare altri-da-sé accogliendo l’altro-da-sé in sé. Non a caso cita la passione per la brina della notte da parte delle antiche dame giapponesi: come ha ricordato Claude Lévi-Strauss, mentre nella cultura occidentale si concepisce il soggetto come chi si espande centrifugamente verso il mondo, lo occupa e lo colonizza, nella cultura nipponica lo si concepisce come chi attrae l’esterno verso di sé in modo centripeto.

Ma dono e accettazione (dare al mondo, accogliere il mondo) sono qualità femminili che la nostra società - compresa la società psicoanalitica - ha scotomizzato, puntando tutte le carte sulle funzioni maschili della difesa, del controllo, dell’offesa, dell'attacco-fuga.

Questa conversione “trans” (transessuale, trans psicologica, trascendentale) dell’analista prosegue un’evoluzione continua e profonda della ricerca di Fachinelli. Egli aveva pubblicato prima La freccia ferma[7] stigmatizzando tutti i tentativi, sociali o nevrotici (riti ossessivi e religiosi, fascismo), di fermare la freccia del tempo; l’antidoto alla mortifera immobilità ossessiva era allora una Freccia fallica, l’aprirsi centrifugo alla Storia. Con il passaggio all’estasi come Accoglimento matriciale, femmineo, Fachinelli sembra passare da un primato etico della temporalità a uno della spazialità, così conia il termine claustrofilia (certo lo stato claustrofilico è anche un ritorno temporale allo stato peri-natale, ma esso è innanzitutto uno spazio di co-identità). Certo questo passaggio dalla sfrecciante temporalità all’estatica spazialità non è un rovesciamento semplice, lineare, di una posizione nell’altra, esso non rinnega l’apertura lacerante alla storia, al futuro. La ricerca di Fachinelli, se letta complessivamente a partire dalla sua fine, ci dice in fondo che non c'è progressione e progresso (temporale) senza regressione (topica) mistica. Ci dice che la “ripresa” del passato come rilancio nel futuro (come diceva negli anni ‘70) implica un’interruzione estatica in uno spazio di compenetrazione tra corpi e menti. L'accettazione della temporalità storica apparirà allora – in modo ambiguo - il prodotto di una recettività a qualcosa di atemporale e pre-storico, “inattuale”. La psicoanalisi dovrebbe riprendere (nel senso kierkegaardiano di Gjentagelsen, ripresa) l’esperienza di questa primaria spazi--temporalità claustrofilica.

          In questo passaggio Fachinelli restava comunque fedele alla sua vocazione dionisiaca a rompere gli equilibri conclusi e il chiudersi nella cura sui. Egli è restato trans. In un primo tempo questa vocazione fu trasgressione dell’arroccamento individualista attraverso una partecipazione “tarantolata” ai movimenti sociali dell’epoca. In un secondo tempo si è orientata a trascendere le difese dell’Io verso un accoglimento della natura nuda.

 

3.

In tutto La mente estatica, Fachinelli critica l’impostazione originaria di Freud, che secondo lui ha ispirato non solo l’Ego Psychology, ma la psicoanalisi nel suo insieme. Fachinelli pensa che non si tratti di ritornare a Freud (secondo il progetto di Lacan), bensì di denunciare i “limiti ben evidenti della psicoanalisi e dell’antropologia fondata su di essa”. Cosa che ha fatto pensare a qualche suo lettore che in fondo egli non credesse più nella psicoanalisi. E’ vero, egli non credeva in questa psicoanalisi.

          Fachinelli rimprovera a Freud una visione angusta della soggettività: una visione che mette al centro le difese dell’Io (oggi, per influsso di H. Kohut, si direbbe: il Sé coeso) contro “la gioia eccessiva”. Ciò che, secondo Freud, minaccia l’Io non è un eccesso di dolore quanto piuttosto un eccesso di godimento, ovvero, il godimento vissuto come dolore proprio perché eccessivo. In effetti, per Freud l’essenza dell’umano è die Lust, desiderio-piacere-godimento, per cui ciò che ci risulta insopportabile, angoscioso, insomma Unlust, è pur sempre Lust slegato, sfrenato. Contro questa visione dell’Io come fortezza contro il godimento – ben difesa e quindi efficacemente offensiva, attiva – Fachinelli evoca l’immagine estatica del mare.

 

Com’è angusta, soffocata, a questo punto, la metafora freudiana del “salotto” separato dall’”anticamera”. Triste come la sua casa in Berggasse, con la finestra dello studio rivolta a un muro di cemento. Eppure, anche lì, anche davanti a quel cortile senz’alberi, Freud sapeva che c’era il mare.

 

Freud stesso aveva fatto ricorso ad una metafora marittima, quando aveva evocato, per indicare l’attività dell’Io, l’impresa olandese dello Zuiderzee che aveva strappato al mare importanti lembi trasformandoli in terra[8]. E Fachinelli nota:

 

Il progetto di Freud – prosciugare l’inconscio, come la civiltà ha prosciugato lo Zuiderzee – è infantile.

Fachinelli contesta quindi un certo infantilismo megalomane non solo della tecnica analitica corrente, ma anche dei suoi fini terapeutici: ovvero, il rafforzamento dell’Io come sistema di difese e come macchina di offesa.

Questo pone la questione etica (e politica) essenziale della psicoanalisi: qual è il suo fine? E quale quindi la sua fine? Un’analisi finisce perché ha raggiunto quale fine?

 

4.

Nella storia della psicoanalisi i fini dell’analisi si sono distribuiti essenzialmente secondo due poli, che chiamerei uno di riconversione, l’altro di conversione. Ad un polo abbiamo l’impostazione (che l’Ego Psychology rappresenta in modo eminente) secondo la quale il fine è una riconversione adattativa, così come una zona agricola, ad esempio, si riconverte ad attività industriali. Il soggetto deve cercare di soddisfare le proprie pulsioni adattandole all’ambiente sociale in cui vive. Per altri invece l’analisi è un compimento, insomma è messianica: è una conversione soggettiva, una metanoia direbbe S. Paolo. Per una parte, il fine e la fine dell’analisi sono una conversione (messianica), per l’altra una semplice riconversione (adattativa).

Freud disse che il fine dell’analisi era

Wo Es war, soll Ich werden[9].

Non ricapitolerò qui la lunga diatriba su come tradurre questa frase. L’edizione italiana Boringhieri la traduce come “Dove era l’Es, deve subentrare l’Io”. Ma qui Freud non dice “das Es” né “das Ich”, ma solo Es ed Ich. Alcuni danno il massimo rilievo a questa mancanza di articoli.

 Renderei es - terza persona neutra in tedesco - con gli italiani Quello o Cosa (nel senso in cui si esclama “ma che cosa ti prende?”). Quanto al verbo sollen, esso indica dovere in senso morale: potremmo renderlo quindi con dover volere. Werden è un verbo ambiguo, significa di volta in volta diventare, divenire, subentrare, accadere, farsi.

Allora, una traduzione possibile è:

(1) “Dove Cosa (Es) era, là Io devo voler subentrare”.

Un’altra è:

(2) “Dove Cos’era, là Io devo voler addivenire”.

Tra le due traduzioni la differenza è essenziale. In effetti, sono possibili due ideali psicoanalitici polari a seconda che si interpreti il mio dovere di subentrare al posto dell’inconscio, oppure di entrare nello spazio dell’inconscio.

Si può infatti interpretare la suddetta frase di Freud o nel senso

(1)  che l’Io debba sloggiare l’inconscio, impoverirlo,

oppure nel senso

(2) che l’Io debba raggiungere uno status inconscio, che gran parte dell’Io debba slittare nell’inconscio pur restando Io.

Il primo senso è quello preso soprattutto dalle psicoanalisi che intendono integrarsi alla psicologia positiva, oggi “cognitiva”; il secondo invece è stato preso dalle correnti che chiamerei dionisiache, quindi anche da Lacan e da Fachinelli, entrambi critici radicali del rafforzamento difensivo dell’Io.

Secondo la lettura adattativista, l’analisi deve aiutare il soggetto a un miglior controllo sulle proprie pulsioni, e quindi a conquistare il mondo esterno. Secondo la seconda lettura, dionisiaca, invece per non sentirsi colpevoli occorre – come dice Lacan – “non cedere sul proprio desiderio”[10]. Fine dell’analisi allora è far sì che il soggetto acceda al luogo dell’inconscio, non diventando esso stesso inconscio, ma assumendone la vocazione originaria e singolare. Il fine dell’analisi, insomma, non è controllare e frenare l’oscenità del proprio desiderio, ma coglierne la vocazione fondamentale e restare fedele ad essa.

Credo che Freud stesso oscilli fra queste due accezioni, anche se Fachinelli lo inchioda alla prima. E forse è proprio in questa oscillazione che la psicoanalisi esprime un suo dramma essenziale, tutt’oggi non sciolto.

Ora, mi pare che il richiamo di Fachinelli – verso la fine della sua vita – all’esperienza estatica interpretata come accoglienza femminile, esprima una decisione etica precisa: dare alla psicoanalisi la direzione di un accesso dionisiaco. Nel doppio senso di “acesso”: come accedere, e come crisi. Come abbiamo visto in Teorema.

Si dirà: ma le analisi solo talvolta portano ad esiti come quelli descritti in Teorema! E’ vero, gli analizzanti che finiscono analisi dei tipi più diversi non si distinguono molto, alla fine, gli uni dagli altri. Sarebbe assurdo pensare che da un analista ego-psychologist escano in serie dei business men di Wall Street, mentre dai pazienti di Fachinelli siano usciti soprattutto scrittori d’avanguardia o militanti marx-leninisti. Per lo più, alla fine dell’analisi un soggetto o si sposa, o fa un figlio, o trova un buon lavoro, o compra casa, ecc., o tutte queste cose assieme. Per lo più un soggetto analizzato confluisce nella generale mediocrità, quella di tutti noi. Altro che effetti dionisiaci! Non credo che in cento anni la psicoanalisi – di tutte le scuole - abbia prodotto falangi di rivoluzionari. Se vista dall’esterno con sguardo sociologico, la psicoanalisi ha rafforzato certi legami sociali, senza volerlo come fine, e quindi di fatto ha puntellato l’ordine sociale in Occidente. L’alone dionisiaco – “romantico” direbbero altri - che molti vogliono vedere nella psicoanalisi allora è solo artificio retorico?

Comunque, aldilà dei loro risultati pacificanti, le varie psicoanalisi sembrano seguire direzioni etiche diverse. Così, Wo Es war, soll Ich werden, interpretato (e forse rovesciato) in un senso che chiamo dionisiaco, prospetta qualcosa di simile a quel che veniva rappresentato nel film di Pasolini: non prosciugare il mare dell’Altro, ma al contrario abbandonarsi all’Altro, abitarlo, accettando consapevolmente il mistero delle passioni che ci animano. Non un progetto di saggia amministrazione dei desideri, ma di partecipazione emozionata al mondo.

Ora, i cinque protagonisti di Teorema si femminilizzano, e non solo perché fanno l’amore con un divinità maschile. Si femminilizzano perché si lasciano possedere dall’Altro. Fachinelli propone questa femminilizzazione come il fine dell’analisi? Certo questo richiamo a una femminilità estatica ha un senso inattuale, inverso alla nostra epoca, in cui l’emancipazione femminile si risolve in una mascolinizzazione della donna, dove i sessi sono eguali nella misura in cui sanno entrambi difendersi e offendere, essere attivi e attuali (in actu). L’obiettivo finale è un’attualità (attività) maschile, oppure un’inattualità (ricettività) femminile?

Dal fine dell’analisi, il nostro focus si sposterà allora sulla sua fine.                                                                                                               

 

5.

Fachinelli aveva ragione nel criticare Freud per la sua etica maschile dell’attacco-fuga? La concezione freudiana della femminilità è stata sovente commentata e criticata. Qui mi soffermerò su una parte del saggio di Freud “Analisi terminabile e interminabile”.

Questo testo è stato scritto da Freud all’inizio del 1937, solo due anni prima della sua morte. E’ quindi uno dei testi finali di Freud. Ora, in questo saggio alla fine della vita Freud si occupa proprio della fine dell’analisi. D’altro canto, ponendosi la questione della fine temporale dell’analisi, Freud non può fare a meno di porsi il problema del fine dell’analisi stessa (Wo es war…).

          Di questo testo finale di Freud, la parte più famosa è la parte finale, il paragrafo 8. Qui Freud sembra enunciare a chiare lettere un limite del potere dell’analisi, che ha imbarazzato generazioni di analisti. Freud evoca alla fine due temi che gli sembrano essenziali, e che hanno a che fare con la differenza dei sessi:

 

I due temi che si corrispondono a vicenda sono, per la donna, l’invidia del pene (l’aspirazione al possesso di un genitale maschile), e, per l’uomo, la ribellione contro la propria impostazione passiva o femminea nei riguardi di un altro uomo.[11]

 

In sostanza, riprendendo le tesi di Adler, Freud giunge alla conclusione che nei due sessi si produce un “rifiuto della femminilità”. L’efficacia di ogni analisi incontra, per i due sessi, come limite assoluto proprio questo rifiuto. E, per quanto riguarda l’uomo, Freud precisa che “l’uomo si ribella non alla passività in generale, ma solo alla passività nel rapporto con l’uomo”. Molti uomini preferiscono farsi dominare da una donna che da un altro uomo.

Ma anche senza indulgere alla correttezza politica, come accettare l’idea che sia l’uomo sia la donna nevrotici rifiutino entrambi qualcosa di femminile in loro? Del resto, secondo Freud, questa accettazione della femminilità sarebbe invece la soluzione più saggia per entrambi i sessi. Per Freud la donna dovrebbe accettare il fatto di non avere e non poter usare un pene, mentre ogni maschio dovrebbe accettare il fatto di non essere un Fallo dominatore, accettare di “assoggettarsi ad un altro più potente di lui” (di farsi metaforicamente ‘sodomizzare’ da un altro). E scrive:

 

In nessun altro momento del lavoro analitico abbiamo una sensazione così dolorosa e opprimente della vanità dei nostri ripetuti sforzi, mai nutriamo così forte il sospetto di “predicare ai pesci” [Fischpredigten] come quando cerchiamo di indurre le donne a rinunciare al loro desiderio del pene appellandoci al fatto che è un desiderio irrealizzabile, e come quando ci proponiamo di persuadere gli uomini che un’impostazione passiva nei riguardi di un altro uomo non sempre significa la castrazione e in molti rapporti umani della vita è anzi indispensabile.[12]

Evidentemente qui Freud riconosce un limite intrinseco alla terapia analitica, che egli mette sul conto della resistenza. L’analista si sforza di rendere accettabile al soggetto qualcosa di inevitabile. Ma molti uomini si rifiutano di guarire perché in questo modo dovrebbero essere riconoscenti all’analista, riconoscerne la potenza fallica. La riconoscenza è istanza passiva, femminile, che molti uomini rigettano. Freud scrive “l’uomo [der Mann] non vuole sottomettersi a un sostituto paterno…”: insinua che in fondo qualsiasi nevrotico (e solo chi è nevrotico?) rifiuta la guarigione. E così con le donne.

          Emerge qui, insomma, una dimensione contraddittoria (o dialettica?) della dinamica analitica. Ovvero, si viene in analisi chiedendo, in fondo, qualcosa di impossibile. Si viene per chiedere qualcosa o che non potrà essere dato o che in fondo non si vuole, e l’analisi procede finché il soggetto non riceve quel che chiede.

          D’altra parte - fa notare Freud - in ciascun sesso “ciò che soggiace alla rimozione è l’elemento del sesso opposto”. Ciascun sesso cerca di rimuovere gli elementi del sesso opposto per essere un esemplare socialmente accettabile del proprio sesso. Ma non si tratta di una contraddizione con quel che egli ha appena detto, che ogni sesso cerca di eliminare non i tratti dell’altro sesso, ma la femminilità? L’uomo elimina la propria femminilità anche perché teme la castrazione che questa femminilizzazione comporta: in lui non ci sarebbe contraddizione tra ciò che si deve e ciò che lui vuole eliminare. Ma nelle donne? Ci troviamo di fronte ad un paradosso: ogni donna cercherebbe di eliminare la propria femminilità profonda mettendo in sordina la propria maschilità!

          In effetti, nota Freud, la donna cerca di eliminare i propri elementi maschili, eppure non tutta la sua mascolinità risulta rimossa. Infatti, questa mascolinità non negata, aggiunge Freud, va a costituire ciò che consideriamo tipica femminilità di una donna: l’amore per un uomo, e il desiderio di avere un bambino. Nell’uomo amato lei trova quel pene che non avrà mai di suo, e nel suo bambino sente di possedere qualcosa come un pene. Per Freud, questi due desideri – che più femminili non si può -  sono i resti di una mascolinità a cui la donna non ha veramente rinunciato. Quella che consideriamo vera femminilità è ciò che la donna conserva della propria mascolinità!

 

6.

          E Freud conclude di fatto il suo saggio scrivendo:

Abbiamo spesso l’impressione che con il desiderio del pene e con la protesta virile, dopo aver attraversato tutte le stratificazioni psicologiche, siamo giunti alla roccia biologica [gewachsenen Fels], e quindi al termine della nostra attività[13].

 

Che cosa è quel che Freud chiama gewachsenen Fels? Gewachsen significa propriamente cresciuto, come una pianta, qualcosa che ha assunto una corporatura, una figura. Un germanofono è stupito dall’accostamento di gewachsen con Fels, perché il primo termine evoca il mondo organico, mentre la roccia è inorganica. Freud sembra alludere a un processo ‘impossibile’: questa roccia si forma col tempo, si consolida come fosse un organo. L’abbiamo chiamata “roccia biologica” (l’OSF la traduce con “roccia basilare”, ma così non rende il paradossismo).

Si trova questa roccia solo in certi pazienti? Oppure, andando sempre più a fondo, è quel che troviamo, prima o poi, in qualsiasi paziente? Freud ci lascia aperte entrambe le possibilità di lettura. Ma l’ambiguità di Freud è ancora più radicale.

Questa roccia biologica è ciò a cui l’attività analitica giunge. Ma vi giunge nel senso che trova una sorta di ostacolo, di barriera, oltre cui essa non può andare? O nel senso che l’esser giunti a questo Fels, roccia, è proprio il fine ultimo dell’analisi? E soprattutto, in cosa consiste questa roccia organica?

La roccia consiste nel rifiuto della femminilità nei due sessi. Freud precisa anche che “per il campo psichico, quello biologico svolge veramente la funzione di una roccia organica sottostante”[14]. Allora, il rifiuto della femminilità è uno zoccolo biologico? Il desiderio di avere un pene è biologico? Lo chiama biologico solo perché è un desiderio di qualcosa di anatomico? Ma un desiderio di cosa anatomica o funzionale non è più che mai qualcosa di psichico, una fantasia?

Credo che qui Freud parli di roccia biologica nel senso che in fondo ogni nevrotico è polarizzato da una richiesta impossibile. Freud vede ogni nevrotico come un militante del maggio 68, “soyez réalistes: demandez l’impossible”. Si può analizzare quanto si vuole, prima o poi si giunge a questa richiesta assurda, insoddisfacibile, anti-biologica piuttosto. La mia impressione è che qui Freud con “biologico” voglia dire in realtà non interpretabile; qualcosa di “reale”.

Questa roccia organica, questo reale, è ciò a cui il lavoro analitico - la richiesta dell’impossibile - giunge, e che quindi lo fa cessare (l’interrompe?). Ma vi giunge in che senso?

Ovviamente possiamo leggere i riferimenti sessuali crudi di Freud (“voglio il pene”, “non accetto che un altro uomo mi sodomizzi”) in modo più sfumato, il rifiuto della femminilità può esser letto come “rifiuto della soggettività”, ovvero rifiuto di essere soggetti, assoggettati all’Altro che ci sovrasta.

E’ importante notare comunque che il fondatore della psicoanalisi giunge alla fine del suo articolo – e alla fine della propria vita – a dire che l’analisi finisce non perché tutto quel che è importante è stato analizzato, ma perché l’analisi giunge ad un punto di non-analizzabilità, di non-interpretabilità, che è ad un tempo sia il suo fine che la sua fine. Il suo fine perché il senso dell’interpretazione va verso il biologico nel senso di non-interpretabile, verso l’opacità della vita e della morte; ma questo fine che frustra il fine benefico e bonario dell’analisi è ciò che determina anche la sua fine. Oltre non si può andare. La fine dell’analisi è insomma sempre – sembra dire Freud – un’interruzione; non perché essa non sia giunta alla mitica “assoluta normalità psichica”[15], ma perché il suo fine ultimo non è stato raggiunto! E questo fine non è raggiunto perché era un fine impossibile: chiedere la Luna, come pretendeva il Caligula di Camus. E’ proprio perché non si raggiunge il fine che l’analisi finisce; ma in questo fallimento brilla proprio il suo inaspettato successo. Perché se ogni essere umano tende a qualcosa che non potrà avere mai, capire finalmente che non potrà mai averlo potrebbe essere proprio ciò che alla fine avrà. Ci si rassegna al possibile, o si reclamerà apertamente l’impossibile, ma senza il camuffamento nevrotico che spaccia l’impossibile per possibile. Per Freud la fine dell’analisi è quindi un’interruzione di un percorso che proprio interrompendosi raggiunge il suo bersaglio.

Allora, sembrerebbe che ogni malessere nevrotico in fin dei conti, per Freud, si riduca proprio a ciò su cui l’analisi si interrompe: si riassumerebbe tutto nel rifiuto della femminilità. Per Freud la femminilità – come assenza del fallo e impossibilità dell’atto – è proprio ciò che uomo e donna fuggono come la peste, l’uomo facendo l’uomo, e la donna facendo la donna.  Intendendo per femminilità soprattutto il rassegnarsi ad essere soggetti, assoggettati agli altri - cosa molto inattuale oggi. Rassegnarsi ad amare, che è sempre una forma di soggezione all’altro di cui prendersi cura. In fondo, Freud ha detto questo al secolo: che i guai vengono dal fatto che nessuno, uomo o donna che sia, vuol essere più femmina.

Ma 50 anni dopo Fachinelli, già malato, riprende nel suo ultimo libro proprio quel che Freud aveva detto alla fine della sua vita. E’ come se, alla fine dei loro rispettivi percorsi, sia Freud che Fachinelli arrivassero alla stessa conclusione quasi testamentaria: che tutti i nostri guai derivano dal timore di essere “soggettati”, se mi si permette il neologismo. Anche se per Fachinelli occorre offrire agli umani, uomini e donne, la possibilità di essere ricettivi, di essere femminili, di essere estatici.

 

 



[1] Nel Seminario VII, Lacan intende per „servizio dei beni“ il raggiungimento di beni privati, beni di famiglia, beni domestici, beni professionali, civili, ecc., insomma dei beni “borghesi”, come li chiama. Tutti beni però che tradiscono la vocazione fondamentale del desiderio. J. Lacan, Le Séminaire, livre VII. L’éthique de la psychanalyse, Seuil, Paris, 1986, cap. XXIII.

 

[2] S. Freud (1914), OSF, 7, pp. 353-361; GW, 10, pp. 126-136.

 

[3] Op.cit., OSF, p. 359; GW, p. 133.

 

[4] Ho analizzato il pensiero di Fachinelli su questa falsariga in “La ‘gioia eccessiva’ di Elvio Fachinelli”, Psicoterapia e Scienze Umane, 1998, XXXII, 3, pp. 53-73; ripubblicato: http://www.psychomedia.it/jep/jep-on-line/benvenuto.htm; "L'ultima spiaggia di Elvio Fachinelli", Iride. Filosofia e Discussione Pubblica, anno XII, n. 27, maggio-agosto 1999, pp. 313-323.

 

 [5]La mente estatica, Milano, Adelphi, Milano 1989,  p. 17 e 19.

 

 [6]Ivi, p. 18.

 

[7] L’Erba Voglio, Milano 1979.

 

[8] S. Freud, OSF, 11, p. 190; Freud, GW, 15, p. 86.

 

[9] Ibid.

[10] J. Lacan, Le Séminaire, livre VII, cit., p. 368. “Avete agito in conformità al desiderio che vi abita?”, op.cit., p. 362.

[11] OSF, 11, p. 533; GW, 16, p. 97.

 

[12] OSF, 11, p. 534; GW, 16, p. 98.

 

[13] OSF, 11, p. 535; GW, 16, p.  99.

 

[14] Ibid.

[15] Freud, OSF, 11, p. 503; GW, 16, p.  63.

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