Flussi di Sergio Benvenuto

SEMPLICISTICA COMPLESSITA’03/set/2018


Per una discussione su Psicoanalisi e Teoria del Caos

            Pubblicato in Rivista Italiana di Gruppoanalisi, vol. XVII, 2/2003, pp. 87-94.

 

Sergio Benvenuto

 

Negli anni 80 Paul Watzlawick tenne dei seminari nel nostro paese.  Portò due esempi clinici divertenti per illustrare la sua “filosofia” psicoterapica.

 

Un paziente era da tempo gravemente agorafobico.  Non usciva quasi più di casa.  Dopo una serie fallimentare di psicoterapie, anche analitiche, decise finalmente di farla finita.  Prese la macchina e si diresse verso il Pacifico con l’intenzione di buttarsi con l’auto nell’oceano (non c’è da stupirsi che abbia scelto proprio questo mezzo: in California l’unico vero mezzo di trasporto è l’auto privata!).  Mentre guidava, si rese conto che non provava alcuna angoscia….  Era in grado di guidare! Questo, pare, per lui fu una svolta.  Morale della favola secondo Watzlawick: “Uno psicoterapista come si deve non avrebbe mai prescritto a un paziente gravemente fobico ‘prenda la sua auto e si suicidi!’ Ma in questo caso, forse, era proprio la prescrizione giusta da dare.”

         Altro caso.  Una coppia sposata da una ventina d’anni da tempo non riesce più a fare sesso.  Lui, soprattutto, non ne ha più voglia.  E vanno al Mental Research Institute di Paolo Alto per poter ricominciare a scopare.  Notazione a margine di Watzlawick: “Dopo tutto, trovo normale che dopo 20 anni di matrimonio una coppia non abbia più voglia!” [Mia notazione a margine a mia volta: se egli trovava del tutto “normale” che un marito non desideri più la moglie immagino ormai attempata, perché allora prestarsi a una “cura”?  Ovvero, la psicoterapia va rifilata come una sorta di chirurgia estetica?  Si fa il lifting o si modifica il naso del cliente non perché ci sia qualcosa di patologico nella faccia o nel naso del cliente, ma per venire incontro alla sua domanda.  Ma come la chirurgia estetica è medicina di serie B, non è questa psicoterapia palliativa anch’essa di serie B?  Ma questo è un tema di discussione che ci porterebbe molto lontano.]

         Una sera, la coppia va ospite di amici, e dormono insieme in un letto con un lato accostato al muro – a differenza del loro letto abituale, aperto su tre lati.  Di notte, lui si sveglia per andare a fare pipì ma, per poter uscire dal letto, deve scavalcare la moglie.  Mentre assonnato compie questa operazione, sente sotto di sé “something of value”, qualcosa di interessante, una donna nuda! Da qui un imprevisto coito.  E’ la riscoperta della moglie come “valore erotico”: tornano a legittimi e coniugali amplessi.  E vissero felici e contenti.  Watzlawick ne trae questo succo:

 

“Non bisogna credere che a situazioni complesse e profonde  – come una crisi coniugale – la risposta giusta debba essere a sua volta complessa e profonda.  Un analista classico si mette a scandagliare nei vissuti infantili libidici più originari, mentre in quel caso bastava che… dormissero in un letto appoggiato al muro! Talvolta cause minime possono produrre effetti enormi; mentre al contrario, cause enormi possono produrre effetti irrilevanti”.

 

 

         Watzlawick è stato uno dei primi psicoterapeuti a valorizzare la teoria del caos e della complessità.  I due esempi clinici da lui narrati[1] evocano la famosa frase del meteorologo Edward Lorenz, divenuta ormai una specie di proverbio post-moderno: “Lo sbatter d’ali di una farfalla in Giappone può provocare un uragano in Argentina”.  In termini scientifici, si dice che molti processi naturali – tra i quali quelli atmosferici – sono estremamente sensibili alle condizioni iniziali, ovvero, molto dipendenti da essi.  Se variamo anche di pochissimo l’inizio di un processo lungo, otterremo effetti, anche molto eclatanti, radicalmente diversi.  Questo significa che molti processi naturali - anche sociali – sono di fatto imprevedibili.  Come è imprevedibile, ad esempio, il risultato “testa” o “croce” nel lancio di una monetina: difatti, basta variare in misura impercettibile le condizioni iniziali – ad esempio, che la forza del lancio della moneta vari di una quantità infinitesima – e il risultato sarà opposto.  Proprio perché imprevedibile, chiamiamo questo risultato casuale.  Anche la domanda filosofica di fondo è: è imprevedibile perché è casuale, o lo chiamiamo casuale perché di fatto è imprevedibile?  E l’imprevedibile è perché non riusciamo noi a prevederlo, o perché in sé il processo è “libero”?

Si dimentica però anche l’inverso della frase di Lorenz: non è detto che ventimila grandi ventilatori in azione in Giappone debbano per forza creare uno spiffero di vento in Argentina o altrove.   Se è vero che variazioni minime iniziali possono creare effetti del tutto spettacolari, è anche vero che variazioni massime iniziali possono non creare alcun effetto per noi rilevante.  Questo perché, come ci insegna la teoria del caos, operano spesso degli attrattori strani: le variazioni possono essere enormi, il processo appare caotico, eppure sui tempi lunghi si disegna una sorta di regolarità segreta, soggiacente, mascherata dalle variazioni imprevedibili.  Sui tempi corti i risultati sono imprevedibili, ma sui tempi lunghi si disegna un ordine (“l’ordine si maschera da caos”), anche se non stretto.  E’ vero che nessun meteorologo può prevedere con sicurezza se domani pioverà o meno in Val Brembana, ma certamente non c’è bisogno di essere meteorologo per scommettere che il prossimo inverno in Val Brembana sarà più freddo della prossima estate nello stesso luogo.  Un inverno e un’estate possono essere più o meno fredde – l’oscillazione da anno ad anno è imprevedibile – ma un attrattore più strano di quanto non si pensi rende legittimo il pronostico “il prossimo gennaio ti metterai il cappotto, il prossimo luglio avrai caldo anche se porterai solo una camicetta”.

Non solo quindi variazioni minime iniziali possono generare processi del tutto divergenti, imprevedibili: ma fenomeni che appaiono puramente caotici si rivelano “attratti” da una sorta di inerzia più o meno coperta che è difficile mutare.  E’ il caso di tutti i sistemi viventi, omeostatici: il sistema vivente tende ad ammortizzare tutti gli accidenti, e a mantenere la struttura generale dell’organismo.  Possiamo dire che nelle psicopatologie si formano omeostasi che è difficile decostruire – nella misura in cui la psicopatologia è perseverare sempre nello stesso sintomo, negli stessi errori.  Si dice anche che è il non riuscire a imparare dall’esperienza.

         Watzlawick tenta di portare questa mentalità complessista nel campo psicoterapico.  I processi umani sono non meno caotici dei processi fisici: nulla ci dice quindi che la causa A porti linearmente agli effetti B, C e D in una certa (nel doppio senso del termine) sequenza.  E’ questo che rende oggi discreditate certe classiche spiegazioni psicoanalitiche di certe patologie o comportamenti o destini: sono troppo lineari (leggi: semplicistiche).  Ad esempio, per quali ragioni in una famiglia un figlio diventa omosessuale attivo e promiscuo, e un altro figlio invece un fedelissimo e felicissimo marito di una donna che fa molti bambini?  Di fatto, nessuno è mai riuscito a dire quali condizioni iniziali precise occorrono perché, pur avendo avuto gli stessi genitori ed essendo vissuti per tutta l’infanzia nella stessa famiglia, uno evolva verso l’omosessualità piuttosto che verso altri orientamenti (anche se in certi casi “si vede” già l’omosessuale - come si vede già l’isterico, o lo psicotico, o il genio matematico, ecc. - anche in un bambino di sei anni).  Il processo che porta un soggetto a scivolare sul versante omosessualità, o perversione, o eterosessualità, o isteria, o impegno politico, o psicosi, o carriera psicoanalitica, ecc., è in gran parte imprevedibile.  Analogamente, nulla ci dice che un miglioramento terapeutico – o una metanoia! – in un paziente derivi da certe interpretazioni profonde dell’analista, piuttosto che da altre (anzi, si dubita sempre più del fatto che siano proprio le interpretazioni di un analista – a qualunque scuola o ermeneutica egli appartenga - a produrre effetti nel soggetto).

         Tutto questo è vero, ma è anche vero che la soluzione proposta da Watzlawick è poco convincente proprio sulla base della teoria a cui egli si riferisce.  Ci tengo subito a dire che non sono ostile a priori – moralisticamente – alle prescrizioni psicoterapiche.  Un pluralista come me non si angoscia per la moltiplicazione degli approcci, e quindi accetta anche quelli basati su prescrizioni, siano esse paradossali, sistemiche, cognitiviste, behavioriste, ecc.  Del resto, è davvero ingenuo credere che l’approccio analitico si distingua da questi altri approcci in quanto sarebbe rigorosamente non prescrittivo.  Innanzitutto l’analista prescrive un setting e le regole a esso connesse – il che non è poco.  Chi pensa che il setting analitico sia responsabile per gran parte degli effetti dell’analisi, non considera irrilevanti le regole, spesso anche rigide, che l’analista impone - e imporre è più che prescrivere.  E poi, bisogna essere veramente degli analfabeti in psicologia per credere che l’analista, siccome non prescrive esplicitamente, a suo modo non prescriva! Sappiamo che basta un colpo di tosse, uno sbadiglio, un accavallarsi di gambe, per “prescrivere” al paziente quello che deve dire, come dirlo, se dirlo, ecc.  Il famoso W. R. Bion, da quel che mi dicono, in età avanzata impostava le sue supervisioni mostrando come il soggetto facesse proprio i sogni ed esprimesse proprio le cose che l’analista sotto sotto voleva sentire! “Come sono kleiniani i sogni dei vostri pazienti!” diceva sarcasticamente ai missionari della Tavistock Clinic che gli raccontavano dei loro casi.  Ogni analizzando – come ogni soggetto – ha un sesto senso per cui si rende conto che cosa l’altro desidera oppure no.  Quindi, la psicoanalisi è nel fondo prescrittiva come ogni altra psicoterapia – solo che lo fa in modo raffinato, elegante, politicamente corretto, sofisticato.  Il punto differenziale non è quindi nella prescrizione.

         Ma proprio l’approccio caotico-complessista ci fa capire come la singola prescrizione non significhi granché.  Ad esempio, il caso esposto da Watzlawick significherebbe che in molti casi di agorafobia severa l’analista dovrebbe prescrivere “prenda la sua auto e si suicidi”?  Ma proprio perché non esiste alcun rapporto lineare tra una prescrizione e un comportamento, questa ricetta potrebbe produrre effetti assolutamente catastrofici.  Potrebbe darsi ad esempio che il fobico si suicidi sul serio – oppure, cosa più probabile, che rompa il rapporto psicoterapico.  Analogamente, a ogni coppia che non riesce più a fare sesso si dovrebbe prescrivere “dormite in un letto con un lato contro il muro?” Potrebbe darsi che, in altri casi, la prescrizione abbia come effetto un attacco di claustrofobia da parte del marito, costretto a dormire tra moglie e muro.  Proprio un anti-linearista come Watzlawick non dovrebbe credere che basti una prescrizione, o qualche prescrizione, bene assestata per ottenere l’effetto auspicato.  Così come sarebbe risibile far sbattere le ali di una farfalla in Giappone contando così sullo scatenamento di un uragano in Argentina.  Proprio perché la teoria del caos ci insegna che gli effetti macroscopici sono imprevedibili, è vano sperare che certe prescrizioni possano davvero cambiare una situazione da tempo sclerotizzata, ripetitiva.  Le prescrizioni possono essere strane quanto si vuole, come i bizzarri enigmi (koan) zen: l’attrattore strano – detto psicopatologia – potrà comunque riaffermarsi.

Ma allora, che cosa può fare lo psicoterapeuta, prescrivente o meno che sia?  Si tratti di prescrizioni, interpretazioni, scansioni della seduta, silenzi, acting, che garanzia può mai avere uno strizzacervelli che quel che fa avrà un effetto desiderabile?

         Credo che la risposta ci venga proprio dal concetto di attrattore della teoria del caos.  Personalmente non sono un fautore della psicoanalisi lunga, e tanto meno interminabile.  Credo anzi che la psicoanalisi dovrebbe trovare il modo non solo di accorciare i tempi, ma di ottenere effetti rilevabili, di cui ognuno possa testimoniare, in tempi non geologici.  Detto questo, però, a differenza delle psicoterapie spicce, la lunghezza del rapporto analitico è necessaria proprio perché essa incide su processi soggettivi caotici.  L’attrattore strano, in effetti, si rivela – ed eventualmente si modifica - solo nei tempi lunghi.  Questo significa che, se curare significa eliminare l’attrattore strano, non basta una piccola variazione – ad esempio, eliminare in tempi brevi un sintomo fastidioso – per ottenere una vera guarigione.

         Con questo non voglio nemmeno dire che, essendo un rapporto lungo, la psicoanalisi sia riducibile a pedagogia, o meglio a pedo-orto-pedia.  E’ vero che l’analista educa in qualche modo l’analizzando: gli insegna ad analizzarsi.  Ma per me l’analisi non si riduce a pedagogia: per me l’analista non opera come quella “madre abbastanza buona” che, secondo la teoria, sarebbe mancata al soggetto nell’infanzia.  (Resta il problema: la vera analisi non è questo, oppure si tratta semplicemente dell’analisi che eticamente rifiuto?  In questo campo verità ed efficacia sono difficilmente districabili.) I tempi lunghi dell’analisi non sono tempi pedagogici: ma sono tempi, ho detto altrove, di svezzamento[2] – o, se si preferisce, di lutto. 

         Pensare in termini di complessità significa pensare in termini di reti (anche Freud, nel suo Progetto per una psicologia scientifica del 1895, aveva perfettamente capito – in grande anticipo sui tempi – che il cervello e la mente sono una rete).  Anche in una psicoterapia analitica quel che conta è creare una rete.  Anche se si tratta di un’analisi individuale, tra i due protagonisti viene a costituirsi una rete di relazioni.  Ma ci vuole del tempo, appunto, perché si costituisca.  La cattiva analisi – quella che si interrompe presto o quella che prosegue eternamente – è un’analisi dove la rete si semplifica troppo: l’analista reagisce in modo ormai prevedibile, a-tu-per-tu, io-contro-io, e quindi il soggetto reintegra l’analisi nella sua rete a sensi unici dominata dal solito attrattore.

Allora, proprio perché gli effetti di qualsiasi input sono imprevedibili e in gran parte incontrollabili in una rete, occorre una moltitudine di input perché una mutazione si produca.  Ma che cosa significa una mutazione?  Significa che un soggetto cambia attrattore.  Un nevrotico è una persona che non riesce a “cambiare musica”, che ripete – insomma – sempre gli stessi errori.  E’ quel che il Freud più tardo aveva chiamato pulsione di morte: finire sempre, nella ricerca del piacere, con il ricavare lo stesso dispiacere.  Qualsiasi cosa faccia il sujet à problèmes, in un senso o in quello opposto, il risultato sarà sempre lo stesso.  E’ questa l’inanità di psicoterapie “cosmetiche” che curano il singolo sintomo: sollevano seri dubbi sul fatto che esse davvero cambino l’attrattore strano in cui consiste la nevrosi, e che il soggetto non ripeta ancora il suo gioco a somma zero.

         Ma che cosa è in grado di cambiare un attrattore?  Nessuno può dirlo con certezza.  Così, ci sono sintomi gravi che svaniscono nel giro di poche sedute, mentre altri sintomi, che appaiono marginali, non si eliminano nel giro di dieci anni di analisi.  Ad esempio, Freud curò una crisi di impotenza di Gustav Mahler con una sola seduta.  Fu il genio di Freud?  No, è che la farfalla sbatté le ali al momento giusto.  Ma quando questo non accade, allora bisogna moltiplicare gli interventi, nel tempo, finché a un certo punto – non si sa perché e come – accade… la modificazione.

         Nell’evoluzione della vita, secondo la biologia moderna, le cose non si svolgono molto diversamente.  Le mutazioni, che sono sempre casuali per la teoria darwiniana, si producono forse spesso, ma di solito non hanno successo, vengono eliminate.  Poi, all’improvviso, accade una piccola mutazione che gode di un successo spettacolare (spesso sulla base di circostanze ambientali del tutto contingenti): e vien fuori una nuova specie, magari Homo sapiens.  E se l’analisi fosse un po’ come l’evoluzione delle specie?  Occorre del tempo perché gli input persistenti ma flessibili dell’analista siano in grado finalmente di modificare l’attrattore, di costituire una speciazione, come dicono i biologi, vale a dire il costituirsi di una nuova specie.  Mi chiedo allora: questa persistenza consiste in un accumulo di input nello stesso senso, dato che una rondine non fa primavera?  Non è una domanda retorica.

         Se questa mia ipotesi ha qualche validità, possiamo allora dire che quel che distingue una terapia analitica da qualsiasi altra psicoterapia è semplicemente il fatto che è lunga.  Non la distingue veramente il modello teorico di riferimento, e quindi il contenuto delle interpretazioni – sia questo modello freudiano, junghiano, o bioniano, o lacaniano, o kohutiano, ecc.  Quel che cura è il tempo.  Ovvero, ciò che nel tempo fa cesura, taglio, modificazione, “nuovo ciclo” come diceva M. Balint.  E’ col tempo che – grazie alla presenza dell’analista – la vita del soggetto può emanciparsi dall’attrattore nevrotico, e impegnarsi in un nuovo ciclo.

         Ma allora, dirà qualcuno, se il contenuto delle interpretazioni non conta nulla, perché interpretare?  Anzi, perché l’analista non se ne resta zitto?  Credo che, prima o poi, l’analista possa (o debba?) dire qualcosa – non importa quale sia il suo sistema ermeneutico di riferimento, né se ne abbia uno – semplicemente per significare al soggetto che lui è presente.  Che non è una pietra, che il Nostro si confronta con un soggetto che interpreta a modo suo.  E’ come se l’analista, parlando, dicesse sempre e solo “ci sono, ti ascolto”.  E direi anche: “non applico a quello che dici una griglia prestabilita, cerco di capire quel che sei veramente tu!”

         L’analista quindi, grazie al setting che impone, crea un attrattore semplice – sedute regolari, benevola neutralità, rinuncia all’acting, ecc.  Attorno a questo ragno si costituisce una rete: questa, si spera, modificherà l’attrattore strano in cui consiste la nevrosi.  Non è quindi la verità delle sue interpretazioni che funziona, ma, direi, il suo sottrarsi al transfert.  E l’analista si sottrae al transfert – ovvero, non si offende se il paziente lo insulta, non fa sesso con la paziente se questa tenta di sedurlo, ecc.  ecc. – perché qualcosa di lui resta fuori sempre della rete.  Questo suo restar fuori è la sola prova di caritas (amore) che può darsi.  Insomma, la psicoanalisi non è una faccenda di verità, è una faccenda di carità.

Il transfert non è altro che il ripetere anche in analisi, da parte del soggetto, le solite modalità – ovvero, quelle regolate dall’attrattore strano.  Se per esempio l’analista – magari per la sua età, o perché porta i baffi – ricorda al soggetto il padre burbero o la madre menefreghista, lo tratterà come a suo tempo reagiva al padre burbero o alla madre menefreghista.  Se l’analista reagisse come una persona comune, come un altro Ego – cosa che farebbe sicuramente se fosse suo parente, o amico, o amante, o collega, ecc. – l’attrattore si confermerebbe.  Se, ad esempio, l’analizzando si mette a fare delle battute mordaci contro l’analista, questi non si comporterà come qualsiasi altro che si senta “morso”: non morderà a sua volta il soggetto, né taglierà la corda.  L’analista, grazie alla semplicità del setting che lo protegge, può permettersi di non “agire e reagire”: non morde a sua volta né demorde.  Con la sua presenza, muta o più loquace, rende presente un’altra possibilità.  E’ come se l’analista dicesse: “tu mi tratti come un padre burbero….  Ma io sono altro”.  Ma altro che cosa?  Direi altro e basta.  Un altro che non agisce né reagisce, ma persiste.  A furia di insistere a persistere, a furia di sbattere un po’ le ali, la perturbazione può cambiare direzione. 

 

 

PS – Dopo aver letto questo testo, Diego Napoletani mi dice che esso è ancora, malgrado tutto, linearista. E’ vero, ho fatto qui un discorso lineare.  Ma il discorso è sempre lineare: mettiamo una parola dietro l’altra, concateniamo frasi una dopo l’altra.  Il discorso – e il pensiero – disegna sempre una linea.  L’importante è vedere fino a che punto il discorso – necessariamente lineare – riesca ad evocare la reticolarità, ovvero la complessità.  La letteratura d’avanguardia ha tentato talvolta una scrittura reticolare.  Io mantengo una forma lineare: ma il contenuto, spero, è reticolare.  Ovvero, spero che la mia forma lineare sia capace di rendere evidente la complessità nella quale siamo ad un tempo irretiti e liberi.

 

 



[1] Anche il primo, nella misura in cui non c’è linearità tra causa dell’atto ed effetto dell’atto: l’agorafobico prende l’auto per suicidarsi… e invece guarisce della sua fobia.  Le teorie dei sistemi e della complessità mettono giustamente in rilievo la non-linearità tra cause ed effetti nei sistemi viventi.

 

[2] “L’analisi: uno svezzamento lungo?”, Psicoterapia e Scienze Umane, anno XXXIV, n. 3, 2000, pp. 27-50.

 

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