Flussi di Sergio Benvenuto

La psicoanalisi, oggi07/lug/2016


 2002

1.

Un’indagine fatta tra tutti i libri delle discipline umanistiche e sociali del mondo mostra che solo Lenin, Shakespeare, Platone e la Bibbia sono citati più di Freud.  Il celebre critico di Yale Harold Bloom, nel libro Il Canone Occidentale, ha inserito Freud nel suo elenco dei 26 scrittori più importanti di ogni tempo.  Freud, insomma, è entrato nel pantheon dei Grandi Classici.

Eppure da tempo si dice che le cose non vanno bene per la psicoanalisi.  Soprattutto negli Stati Uniti, dove alle cure analitiche – si dice – si preferiscono sempre più le cosiddette “pillole della felicità” (antidepressivi) o altri tipi di psicoterapie, in particolare cognitive-comportamentali.  Inoltre i Freud-bashers da tempo hanno lanciato una vasta campagna di discredito della psicoanalisi come mitologia estranea alla scienza, come una superstizione umanista da superare.

Quanto all’Italia, da tempo i media si sono convertiti ai dogmi di certa biologia genetica.  Oggi i giornali italiani cercano di farci credere che tra poco si troverà l’origine genetica di qualsiasi disturbo psichico e non: si nasce ossessivi, isteriche o perversi.  Su alcuni seri giornali europei si è letto che si era scoperto anche il gene dell’infedeltà coniugale.  Eppure quest’entusiasmo per “la causa genetica” (un approccio che, sia detto per inciso, è ampiamente superato dalla biologia più recente) ha un prezzo: un fondamentale pessimismo terapeutico.  Come si potrà cambiare il fatto che, per esempio, io mi faccia sistematicamente licenziare dal mio posto di lavoro, se il licenziamento facile è inscritto nel mio DNA?

 

2.

           Eppure, malgrado questo contesto culturale ostile, ovunque in Occidente la psicoanalisi resiste; anzi, fiorisce nei paesi dell’Est europeo, una volta levato il bando sulla psicoanalisi imposto dai regimi comunisti.  Negli USA, negli ultimi decenni il numero dei membri dell’American Psychoanalytic Association (circa tremila) è rimasto stabile, ma aumentano le iscrizioni agli istituti di formazione per analisti.  Il numero di analisti è in crescita in Sud America e in Europa.  Allora, cosa spinge tanta gente sul divano dello psicoanalista, o sulla sedia del junghiano?

La verità è che, se non fossero nati Freud, Jung, Winnicott, Bion o Lacan, il secolo XX° avrebbe finito con l'inventarli.  La psicoanalisi è il capolavoro di una forma di direzione spirituale davvero adatta all'uomo e alla donna del Novecento.  “Adatta” non significa “adattativa”: decenni fa prosperò in America una corrente psicoanalitica che aveva come fine di adattare il soggetto al suo contesto sociale.  Freud lamentava le forti resistenze psicologiche che renderebbero difficile l’accettazione della psicoanalisi.  Ma - notava il suo concittadino Wittgenstein – Freud avrebbe dovuto preoccuparsi piuttosto della grande carica di seduzione della psicoanalisi su di noi moderni, a cui è difficile, per molti, resistere.

E da che cosa deriva questa grande forza persuasiva e seduttiva della teoria e pratica analitiche?  Dal fatto che esse hanno combinato in modo creativo due idealità novecentesche in apparenza incompatibili: da una parte l’ideale di oggettività scientifica applicata alla soggettività, dall’altra l’etica di Nietzsche che prescrive a ciascuno la libera ricerca dei propri valori, in assoluta autonomia rispetto alle norme dominanti nel gruppo.  Freud in fondo ha fatto propria l’etica moderna (nietzscheana): “diventa ciò che tu sei! resta fedele ai tuoi desideri”.  La psicoanalisi non è certo una scienza – non si basa sui protocolli rigorosi oggi usati in qualsiasi approccio scientifico – ma è la forma di direzione spirituale esemplare nell’epoca dominata dalla scienza.  E’ una non-scienza per la quale vanno pazzi l’uomo e la donna nell’epoca della scienza.

        La psicoanalisi si è affermata nel secolo caratterizzato dalla secolarizzazione disincantante della vita, dal primato dello sguardo scientifico che scruta anche le nostre pulsioni intime, e dal trionfo dei valori liberali dell'autonomia e dell'auto-determinazione.  La pratica analitica è una care-cure (cura e prendersi cura) che combina in modo raffinato queste tre fondamentali esigenze.  Infatti l’analista non esige che il paziente condivida una credenza - religiosa, politica, scientifica, dietetica, astrologica, e nemmeno nel genio di Freud – si limita a prestare al soggetto secolarizzato uno sguardo altro su se stesso.  Inoltre essa rispetta il fondamentale diritto civile del soggetto a decidere da sé cosa fare: l’analista non consiglia né prescrive.  Ma d’altro canto l’analista cerca di mostrare al soggetto che sofferenze e guai che patisce sono in parte prodotti da una parte di sé, o da un Altro da sé che è in sé.

Si dibatte oggi fin troppo su “fino a che punto la psicoanalisi è efficace o meno nel curare disturbi?”.  Mentre la questione importante piuttosto sarebbe “come una psicoterapia arriva a soddisfare o meno le esigenze spirituali dei soggetti di un’epoca, riuscendo quindi ad aiutare questi soggetti ad affrontare i propri problemi?”  Quindi il problema non è quello di credere o meno nella psicoanalisi: la gente va in analisi non perché ci crede ma perché la ama.  Ovvero, ne gode.  Alla fin fine, che cosa è più importante – nella relazione con qualcuno o qualcosa - il fatto che vi si creda, o il fatto che le si voglia bene?  Ad esempio, si sta bene con una donna perché costei crede in te, oppure semplicemente perché ti vuole bene?

In sostanza, l’analizzante (questo termine ha preso il posto dell’antiquato paziente) viene da un analista dicendogli “Vorrei, ma non posso”.  Il lavoro analitico consiste allora nel mostrargli che non può perché l’Altro in sé non vuole: solo riconoscendo questo desiderio dell’Altro, egli finalmente, di fatto, potrà.

        Quindi, le psicoterapie analitiche prendono tre piccioni con una fava:

(1)  restano nell'orizzonte ideale della neutralità scientifica, nel quale ogni persona rispettabile oggi vuole restare,

(2)  come la religione, danno senso alla sofferenza umana, mostrandola come prodotto di una storia familiare e sessual-affettiva e

(3)  rispettano la libertà etica e le credenze morali, politiche, cognitive, del soggetto.

Certo l’analisi assomiglia ad attività più antiche: a una consulenza spirituale (tradizionalmente dispensata dal prete, o dal “maestro”, o dal professore di filosofia del liceo), a una terapia medica, a una pedagogia del vivere, e a un tropismo etico-filosofico.  Eppure non si riduce a nessuna di queste istanze tradizionali: è un modo di "aver cura" che il Novecento ha creato di sana pianta.

La psicoanalisi si è proposta al secolo come “scienza umanistica” – un po’ come si era proposto il marxismo – ovvero come scienza romantica: scommette sul fatto che i nostri malesseri spirituali hanno un senso connesso alla nostra storia personale; quindi riprende la scommessa etica che ci vede almeno in parte responsabili delle nostre sofferenze. (Questa scommessa può però degenerare nella superstiziosa colpevolizzazione del malato che Susan Sontag ha denunciato, del tipo “se ti sei beccato un cancro, è perché in te qualcosa non va!”)

 

3.

           Per tutte queste ragioni, il numero di persone che vanno in analisi non diminuisce, anzi.  Certo la psicoanalisi classica — con i suoi tempi lunghissimi e la sua austerità novecentesca — è messa in difficoltà da altri approcci psicoterapici che promettono benefici in tempi rapidi e con regole meno inflessibili.  Oggi nelle metropoli italiane, come in quelle di tutto l’Occidente, ci si può scegliere il tipo di psicoterapia che si preferisce o che ci si può permettere.  Negli anni 90 il supermarket psicoterapico americano, ad esempio, offriva più di 450 forme di psicoterapia; vi operano tuttora 300.000 psicoterapeuti, a cui bisogna aggiungere altri 50.000 tra quelli che trattano tossicodipendenze e gli eclettici.  Anche in Italia gli psicoterapeuti sono nell’ordine delle decine di migliaia.  In questo bailamme lo psicoanalista allora non può più giocare sul potere che, un tempo, gli derivava dall’avere il monopolio, o quasi, della “cura dell’anima”.  Ma nell’insieme cresce, nel mondo industrializzato, una domanda di cura psicologica — ovvero di direzione spirituale.

Ma perché allora tante persone - non proprio ricche - si sottopongono comunque a un’analisi più o meno classica, ovvero lunga e costosa?  La ragione è che fare un’analisi fa godere (ma anche soffrire).  Si assapora ogni settimana, sempre gli stessi giorni, per anni, sempre nel solito posto e sempre con lo stesso analista, un rifugio di grazia nel flusso della propria vita disgraziata.  L’analisi è un ovile sicuro in cui vivere una seconda ’”infanzia d’appello”, dove l’analista – secondo i dettami di Winnicott - si offre come una mamma o papà “abbastanza buono”, o comunque come una roccia sicura che non fluttua nel fiume delle interazioni.

L’analisi fa godere soprattutto perché fa appello al piacere della verità.  Nessuno può dire fino a che punto, e se, le interpretazioni di un analista siano vere: ma certo esse creano talvolta un forte affetto di verità.  E il soggetto ha la bizzarra sensazione di sapere più verità su se stesso.

        In effetti la psicoanalisi si basa su due assunti molto antichi e “occidentali”.  Il primo è il precetto dell'oracolo di Delfi: "conosci te stesso".  Il secondo è la promessa evangelica: "la verità ti renderà libero".  La psicoanalisi si basa sul presupposto che un soggetto, una volta raggiunto un pieno insight sulla propria verità soggettiva, ipso facto viene liberato dalla propria patologia: ciò che fa soffrire è come un nodo che si scioglie.  Il fascino che la psicoanalisi esercita su molti di noi deriva da questo presupposto per cui cura e verità si implicano.

        Questo “affetto di verità” distingue nel fondo la psicoanalisi condotta dalle varie scuole – freudiana, junghiana, lacaniana, kleiniana-bioniana, ecc. – dalle altre psicoterapie (familiare, behaviorista, cognitivista, gestaltica, psicodrammatica, ecc.) che non fanno appello a questo affetto.  La psicoanalisi gode tuttora di un particolare prestigio tra le “botteghe dell’anima” non solo perché, essendo più lunga e costosa, è accessibile a una clientela più benestante.  Ma soprattutto perché, puntando sulla verità, è la meno prescrittiva: lascia piena libertà di parola all'analizzante, e bandisce il ricorso a consigli, ricette o prescrizioni.  Solo persone dei ceti più colti - profondamente intrise dei valori dell'autonomia soggettiva – possono apprezzare l’approccio squisitamente liberale della psicoanalisi. Infatti, man mano che si scende nella scala socio-culturale, chi sta male richiede di preferenza sempre più un guaritore che sia il più possibile attivo, e non sa che farsene di una figura troppo rilassata come l’analista.  Meno una terapia costa, più il terapista tende a essere verboso, prescrittivo, interventista.

 

4.

Negli ultimi anni la figura dello psicoanalista e dello psicoterapeuta sta comunque cambiando.  Oggi lo shrink – lo “strizzacervelli” - è sempre meno un medico e sempre più uno psicologo (nei paesi anglo-americani è anche un social worker); è sempre più una donna che un uomo.  Tende a diventare insomma una figura sempre più materna che paterna: più sostegno spiritual-affettivo e meno tecnica terapica.  Inoltre il terapista è meno legato a una Scuola o Associazione precisa: sempre più segue un suo percorso formativo personalissimo, e pratica spesso in modo eclettico.  In Francia – il paese forse con il tasso di analisti più alto al mondo – circa il 50% degli analisti non appartengono ad alcuna istituzione analitica precisa.  Questa de-medicalizzazione, “assistenzializzazione” e de-istituzionalizzazione dell’analisi ha trovato espressione anche nella fortuna di due voghe filosofiche dette post-moderne nella psicoanalisi negli anni 80 e 90: l’ermeneutica e il decostruzionismo.

La reinterpretazione post-moderna rigetta l’idea che la psicoanalisi sia un’attività medica, terapeutica e scientifica, e la riconduce a una attività di Bildung (formazione) nel solco della tradizione romantica.  Gli analisti allora non analizzano più sogni ma “testi di sogni”, non più lapsus ma “buchi nel tessuto discorsivo” – tutto viene riportato al linguistico, all’interpersonale, al relazionale.  Lo scabro linguaggio biologizzante freudiano tende a essere sostituito dalle nuove parole-chiavi che profumano di ermeneutica e decostruzionismo: rapporto, comprensione, essere-con, comunicazione, relazione, campo relazionale, intersoggettività, dialogo, vissuti, conversazione, desiderio, testo, pietas. La psicoanalisi è stata una disciplina sempre sospesa sul borderline tra "cultura scientifica" e "cultura umanistica": la parte post-moderna sdrucciola verso l’alveo delle consolationes umanistiche.

        Altri analisti, al contrario, esaltano l’ideale di rispettabilità scientifica, per cui pubblicano in Standard Scientific English articoli sempre più aridi e concisi nelle riviste ufficiali (ovviamente in inglese), adottando il tipo di scrittura impersonale tipico delle comunità scientifiche internazionali.  Questa psicoanalisi “scientista” rinnega quell’impregnarsi nelle lingue, culture e mentalità locali che ha costituito una specificità storica della psicoanalisi.  Questa pretesa, spesso più stilistica che sostanziale, di scientificità viene respinta dai post-moderni in quanto sarebbe – come ha detto Habermas – un auto-fraintendimento scientistico della psicoanalisi.  Ovvero, l’analista crede di essere uno studioso obiettivo dell’uomo – come lo sono il sociologo, il glottologo, lo scienziato cognitivo – mentre di fatto è preso in un legame attivo, storico, con altri soggetti. 

In effetti l’analista, più che allo scienziato, è simile al politico: è uno pratico.  Il politico ha successo quando riesce a stabilire il giusto transfert con il suo popolo.  Freud diceva che analizzare è un’attività impossibile, come lo sono educare e governare.  Analizzare, educare e governare sono tutte forme di direzione degli altri soggetti: attività pratiche, efficaci, ma non scientifiche, quindi “impossibili”.  Come il buon educatore non è di solito uno psicologo dell’età evolutiva, come il buon politico non è di solito uno che conosce a fondo economia e sociologia del proprio paese, analogamente il buon analista non è chi è in possesso di una teoria comprovata della mente: è soprattutto uno dotato di psicoprudenza.  Il buon analista, anche se pubblica in inglese, non è uno che sa: è uno psicoprudente che ci sa fare.  Perciò sul capo degli analisti plana sempre il sospetto che la loro pratica si riduca a una forma di controllo “politico” sul paziente o a una forma sofisticata di “pedagogia”.

 

5.

        Per gli analisti e psicoterapeuti italiani il 1989 è una data cruciale: è quando fu promulgata la (famigerata, per molti) legge Ossicini.  Questa concede anche ai laureati in psicologia il diritto di fregiarsi del titolo di psicoterapeuti (fregio riservato, fino ad allora, ai medici) e li intruppa in una corporazione.  Ipso facto, non riconosce alcun psicoterapeuta che non sia o medico o psicologo – tertium non datur.  Molti analisti aborriscono questa legge perché la vedono come un controllo statale sulla loro libera attività – in effetti in molti circoli analitici prospera una visione anarchica, libertaria, che vede l’analisi come un’esperienza squisitamente privata che si sottrae a ogni potere pubblico.  Ovvero, la relazione analitica viene pensata da molti sul modello dell’idillio amoroso: cosa pensare di uno stato che proibisse il coito tra alcuni adulti perché non detengono il dovuto diploma?  Per altri versi, però, questa legge sancisce il crescente abbandono della pratica analitica da parte dei medici psichiatri.

Oggi questi ultimi si formano sul DSM (il manuale diagnostico anglo-americano globalizzato), amministrano farmaci o fanno esperimenti neuroscientifici, e lasciano le psicoterapie a psicologhe e ad altre figure socio-psico-pedagogiche e a guru.  Il vecchio sogno di rispettabilità della psicoanalisi - essere accettata come membro legittimo nel club esclusivo della Scienza Medica – oggi risulta essere solo un sogno.

A questa mutazione dell’identità degli analisti – sempre meno medicalizzati, e sempre più ermeneutici, decostruttivi e misticheggianti - corrisponde una mutazione del cliente tipico.  Oggi i soli che si sottopongono devotamente a un’analisi classica — quattro-cinque sedute a settimana di 50 minuti ognuna, per molti anni — sono gli allievi in training.  Sempre più l’analisi diventa una forma di supporto intermittente e discontinuo per persone che esigono risultati rapidi, o che vogliono superare “fasi critiche” della loro vita.  Si tratta con tutta probabilità di un sottoprodotto del cambiamento della soggettività in Occidente.  Il tipo di transfert su cui si basava la psicoanalisi novecentesca — costituita sull’illusione dell’analista come “soggetto supposto sapere”, come diceva Lacan — funziona sempre meno.  L’analista ha perso la sua dotazione originaria di autorità, e sempre più deve conquistarsi il consenso dell’analizzante sul campo, in un contesto flessibile e disincantato.  Gli analisti dicono “oggi i pazienti sono più colti, quindi più difesi”.  Sono “più difesi” perché se la bevono meno, sono meno porosi al potere della parola dell’analista.  La critica all’autoritarismo del sapere supposto, critica che proprio la psicoanalisi ha contribuito a diffondere nella cultura occidentale, a un certo punto si ritorce in parte contro l’autorevolezza della psicoanalisi stessa. L’illusione transferale e le interpretazioni classiche sono oggi meno persuasive.  L’analista deve oggi inventarsi nuove forme di legame che possano rendere i soggetti del XXI° secolo permeabili al cambiamento soggettivo.

La psicoanalisi ha contribuito alla svolta dell’Occidente verso quella che Foucault chiamò “la cura di sé”.  Il “conosci te stesso” nel secolo della psicoanalisi è sfociato in un culto narcisistico della propria psiche.  Da una parte la psicoanalisi ha descritto in modo brillante il narcisismo, dall’altra ne ha anche, indirettamente, favorito l’apoteosi (Christopher Lasch chiamò la nostra epoca appunto cultura del narcisismo).  Lo si vede dal linguaggio oggi usato, soprattutto nei ceti freudianizzati.  Una giovane madre non dice più “che bello avere un figlio!”, dice “l’esperienza della maternità è per me davvero importante”.  Non si dice più a qualcuno “voglio buttarti fuori di casa”, si dice “ho fatto la fantasia di escluderti da casa”.  Queste preferenze stilistiche segnalano il tropismo narcisistico della nostra cultura.  Dire “che bello un figlio” è un’espressione transitiva: tutto l’impulso va verso l’oggetto, il figlio.  Dire invece “l’esperienza della maternità” significa spegnere questa transitività ed eleggere come vero oggetto la mia esperienza: guardo allo specchio il mio esser madre, o il mio fantasticare aggressivo, come oggetti di contemplazione analitica.  Nello specchio vedo me stesso che guarda, non ciò che guardo.  Ora, questo si risolve in un boomerang per la psicoanalisi: proprio il trionfo della cura di sé – per cui la metafora psicologica filtra il mio essere-nel-mondo – crea alla cura analitica difficoltà nuove.  Nella misura in cui diventa sempre più narcisistico (cioè sempre più plasmato dalla cultura analitica), l’analizzante del 2000 sfugge in parte alla presa analitica.  Da qui la lamentela degli analisti anziani oggi: “si stava bene quando si stava peggio: i nuovi analizzanti sono troppo narcisisti.”  Ma la psicoanalisi morirà se non riuscirà a co-rispondere alla soggettività del Duemila, così come fu capace di co-rispondere a quella del Novecento.

 

 

 

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