Flussi di Sergio Benvenuto

INTERVISTA A "IL RUOLO TERAPEUTICO", 123, maggio 2013, pp.7-1425/lug/2016


  1. 1.    Come è arrivato alla scelta di questo mestiere di psicoterapeuta?

 

Alla pratica sono arrivato tardi, ma come lettore e appassionato di psicoanalisi sono stato molto precoce. A 14 anni lessi per la prima volta un libro di Freud, ovviamente era “I tre saggi sulla teoria sessuale”. Ma sono stato un paziente ancora più acerbo. La mia prima esperienza come “analizzante” – questo è il termine che sono abituato a usare, invece di “paziente” – fu a sette-otto anni a Napoli, la città dove sono nato. I miei mi portarono da una analista infantile, Anna Maria Galdo, divenuta poi didatta SPI, perché a sette anni, a seguito della nascita di mio fratello, caddi in una crisi depressiva. Ricordo i tanto piacevoli giochini che, nell’ambulatorio della Galdo, delle ragazze sorridenti mi facevano fare; oggi so che erano i test mentali che si fanno passare ai bambini. Non ricordo invece nulla della Galdo, so solo che dopo qualche seduta rifiutai di tornarci perché mi annoiavo a morte. Poco dopo la mia depressione svanì. Oggi mi chiedo: quella psicoterapia breve fu un successo o un fallimento? In effetti, fu la psicoterapia della Galdo a guarirmi? Oppure fu la pre-psicoterapia delle dolci testiste? O la remissione fu spontanea? Atroce dubbio epistemologico.

Iniziai una seconda ‘psicoterapia analitica’ all’età di 15 anni, che durò qualche anno. L’analista, Federico Navarro di Napoli, da freudiano che era si convertì a Wilhelm Reich proprio mentre mi seguiva. Quando a 19 anni mi iscrissi a Psicologia alla Sorbona a Parigi – con l’intenzione di formarmi anche come analista – avevo già alle spalle molte letture psicoanalitiche e significative esperienze come paziente.

 

  1. 2.    Lo vede, per quanto la riguarda, più una professione o più la realizzazione di una vocazione?

 

          L’alternativa tra ‘professione’ e ‘vocazione’ – mi scuso per la critica – non mi convince. Oggi questa distinzione esprime per lo più una concezione spiritualista cristiana, per cui o si fa un mestiere alimentare, oppure si è “chiamati” da qualche voce trascendente, come Giovanna d’Arco. Se un salumiere si appassiona al suo lavoro, è un mestiere o una vocazione? Avrei preferito la domanda: “le piace tanto questo lavoro, o spesso lo annoia?” Allora avrei risposto che di solito mi diverto.

 

  1. 3.    Il libro, o i libri, che più ha contribuito alla sua formazione, e perché

 

In psicoanalisi, i testi che più mi hanno sedotto sono senza dubbio le Opere di Sigmund Freud, e poi – anche se con maggior distacco – quelle di Jacques Lacan. Ho trovato sempre alquanto indigesti Jung e la Klein. Anche se riconosco come essenziali certe nozioni del kleinismo, ad esempio il passaggio dalla posizione paranoidea a quella depressiva.

Il fatto che Freud e Lacan fossero grandi scrittori non è forse estraneo a questa preferenza. Cito, per associazione libera, autori e opere che mi hanno ‘formato’: Tausk; Erikson; Winnicott; Dolto; “The Long Wait” di Masud Khan (libro che comportò la sua espulsione, se non erro, dalla British Psychoanalytic Association); Elvio Fachinelli; Serge André; e pochi altri.

Ancor più dei libri di psicoanalisi, mi hanno ‘cambiato la vita’ – come si dice oggi - opere di altri campi. Ad esempio, tra i moderni; Kafka, Camus, Italo Calvino, Beckett, Ionesco, Pinter.

Per me è stata fondamentale la formazione filosofica, che cominciai precocemente, perché mio padre era un professore di filosofia molto bravo e faceva lezioni private per nutrire la sua numerosa famiglia, insegnamento a cui spesso assistevo, magari origliando. I filosofi che più mi hanno marcato sono, a parte gli Antichi, Kant, Marx, Nietzsche, Wittgenstein, Heidegger, Foucault, Derrida. Ho seguito per anni i seminari di Roland Barthes.

Nella sua domanda si parla solo di libri, ma per la mia generazione certi film sono stati non meno importanti dei libri. Ad esempio, per capire i paranoici occorre aver visto “Truman Show” di Peter Weir. E per capire la posizione dell’analista occorre aver visto “Touch of Evil” di Orson Welles. La formazione ormai è multimediale.

 

4. I colleghi "in carne e ossa" che più hanno contribuito alla sua formazione

 

          Sono stati ovviamente i miei analisti. Anche dopo esser diventato maggiorenne, ne ho avuto altri, e appartenevano a scuole molto diverse. Ho avuto sempre una certa ripulsa a ‘sposarmi’ a una determinata scuola analitica, per cui ho scelto analisti con indirizzi e tecniche diverse.

I non-miei-analisti che mi hanno trasmesso una formazione clinica significativa sono stati Elvio Fachinelli e Diego Napolitani – persone anch’esse tra loro incommensurabili. Per me fu importante il mio incontro con Basaglia, grazie a uno stage che feci nel 1971 a Trieste, all’ospedale psichiatrico da lui diretto.

 

 

5. Nel complesso del suo bagaglio professionale teorico-tecnico, che cosa, se c'è, riconosce come originalmente suo?

 

          Talvolta faccio cose che mi sembrano originali, ma mi chiedo “forse questo lo fanno anche tanti altri”. Dopo tutto, conosciamo il lavoro dei nostri colleghi solo attraverso quello che scrivono, le supervisioni e i confronti clinici. Ma quello che scrivono è da prendere sempre con le pinze, tanti analisti ci rifilano quel che vogliono farci vedere di una cura.

          Mi trovo più a mio agio dicendo quel che non faccio rispetto ad altri. Ad esempio, non seguo la tendenza oggi che consiste nel precipitarsi a dare interpretazioni transferali, non sfrutto a più non posso “la relazione”, il fatto che quel soggetto stia dicendo quelle cose proprio a me. Se l’analizzante dice “ieri mi sono ubriacato al bar”, l’analista updated gli dirà: “mi riferisce questo perché sente che quel che le dico la ubriaca…” L’abuso delle interpretazioni che riportano tutto all’hic et nunc, alla relazione, rischia di essere una variante di delirio di riferimento: l’analista si crede al centro del mondo dell’analizzante, e qualunque cosa il paziente gli dica lo riferisce alla situazione analitica. E’ un sintomo di megalomania, corollario di una teoria che non mi convince: che un soggetto cambi solo grazie alla relazione affettiva con l’analista.

          Corollario di questa iper-transfertizzazione dell’analisi è la moda per cui, in seminari e supervisioni, l’analista parla quasi esclusivamente dei suoi sentimenti, vissuti, emozioni, ecc., dimenticando quasi il paziente. Quel che la tradizione kleiniana ha detto del controtransfert è utile, ma oggi le nuove leve analitiche vengono formate a un ‘narcisismo di mestiere’ dove l’analista guarda soprattutto due ombelichi, quello del paziente e il proprio.

La Klein era diversa. Quando in una supervisione un allievo sbrodolava sui suoi vissuti nel rapporto col paziente, del tipo “in seduta è riuscito a farmi sentire confuso” e simili, la Klein gli diceva: “Queste cose le va a raccontare al suo analista. Io vorrei sapere qualcosa di più del suo paziente.”

Avendo perso la sua prosopopea scientifica, la psicoanalisi rischia di ribaltarsi nell’eccesso opposto: diventare una melassa sentimentalista, un tango narcisistico tra due. La voga dell’”empatia” è parte di questa sentimentalizzazione dell’analisi. Invece per me le emozioni sono la punta dell’iceberg. E’ vero che questa può anche affondare il Titanic, ma non bisogna mai perdere di vista la parte sommersa dell’iceberg.

 

6. Può darmi la sua personale definizione di psicoanalisi e di psicoterapia?

 

In tutta franchezza, non amo le definizioni. Seguo Wittgenstein, per il quale il significato di quello che si dice è dato dall’uso sociale delle espressioni, non da una definizione esplicita. Per me la psicoanalisi è certamente anche una psicoterapia, ma funziona se dimentica di esserlo.

 

7. C'è mai stato un momento nella sua carriera in cui ha pensato di cambiare mestiere?

 

Avendo cominciato tardi la pratica analitica, essa stessa è stata un cambiamento di mestiere. Prima facevo il ricercatore scientifico in psicologia sociale.

 

  8. Qual è, secondo la sua esperienza, il fattore essenziale della sua funzione terapeutica, quello senza il quale tutto il resto non avrebbe efficacia?

 

          Avrei da mettere dei punti sugli i a proposito di “funzione terapeutica”.

          Uno venne in consultazione perché spesso faceva ritardo, e soprattutto perdeva il treno che, ogni mattina, lo portava al lavoro. Ovvero egli portò un sintomo, qualcosa di sé ego-distonico. Le psicoterapie non analitiche rispondono essenzialmente alla demand (domandare per avere) del paziente. La domanda del paziente è di eliminare un dato sintomo, interpretato da questi psicoterapeuti come a un tempo patologia e segno di una patologia. Allora cercheranno dei marchingegni che permettano al paziente di non perdere più il treno, e talvolta ci riescono.

Da analista operai diversamente. Non detti al paziente delle prescrizioni per soddisfare la sua demand, piuttosto lo invitai a parlare senza peli sulla lingua – l’associazione libera. E difatti proprio parlando emerse, a un certo punto, che il Nostro, pur in apparenza soddisfatto del suo lavoro, nel fondo lo detestava. Perché era il lavoro che voleva fargli fare il padre, mentre lui sognava qualcosa di diverso. Ovvero, dietro la domanda manifesta “non voglio più perdere il treno” emersero desideri difficilmente confessabili anche a se stesso. In altre parole, la psicoanalisi non punta a soddisfare la domanda, ma a far emergere il desiderio. L’etica psicoterapica non analitica è quindi molto diversa dall’etica psicoanalitica. Quest’ultima innesca un processo che prima o poi porta il soggetto a problematizzare ciò che vuole e quindi all’incertezza su quel che egli è.

          Dopo un anno, un terapeuta cognitivista potrebbe vantare il risultato che quel paziente non perde più il treno; mentre quel paziente, venendo da me, a un certo punto ha smesso di prenderlo del tutto perché ha capito che il suo lavoro lo spegneva. Qual è stata più terapeutica, la tecnica cognitivista o quella psicoanalitica? Dato che le due posizioni etiche – del cognitivista e dell’analista – sono eterogenee, anche le loro tecniche non sono tra loro commensurabili. Il cognitivista preferisce la guarigione puntuale dal sintomo perché “il cliente ha sempre ragione”. Molti vogliono solo che l’ascensore su cui devono salire funzioni bene, anche se è l’ascensore che li porta verso il patibolo.

          Insomma, lo psicoanalista non fa nulla per eliminare il sintomo, ciò che fa soffrire; si concentra su altre cose. Ad esempio, sui sogni. E’ un po’ come l’arte zen del tiro all’arco: giungerai a colpire il centro solo se non penserai affatto di colpire il centro. E’ perdendo di vista il fine terapeutico che, paradossalmente, si guarisce. (Anche se ‘guarire’ non nel senso della soddisfazione della demand).

 

9. In psicoanalisi, lo scarto tra prassi e teoria è sempre vero? Pensa si possa colmare?

 

          Francamente, deploro il fatto che oggi lo scarto tra teoria e prassi non sia abbastanza netto.

Teorizzare e praticare sono due ‘giochi’ diversi, che certamente si influenzano a vicenda ma non discendono l’uno dall’altro.  Da anni teniamo un gruppo clinico, una volta al mese, a cui partecipano praticanti con formazioni estremamente diverse. Siccome le teorie di riferimento di ciascuno non sono condivise dagli altri, chiunque porti una propria esperienza deve rinunciare al proprio linguaggio teorico, e concentrarsi sulla cosa clinica. La grande sorpresa è che comunque ci si capisce e ci si confronta sulla cosa. Miriamo al nocciolo della psicoanalisi e della psicoterapia, mettendo tra parentesi le proprie convinzioni teoriche.

          Ovviamente è impossibile operare senza pregiudizi – pre-giudizi, giudizi dati prima - teorici; ma l’importante è usarli ironicamente. Ovvero, sapere che sono strumenti provvisori, che altri che partono da presupposti completamente diversi possono fare un ottimo lavoro. ‘Ottimo’ in che senso? Questo è da decidere.

          La psicoanalisi è una psicoterapia dove, grazie al transfert, l’analista attrae l’analizzante verso la strada della ricostruzione analitica; ovvero, il soggetto riesce ad assumere la propria struttura soggettiva, e torna al reale sapendo “che sono fatto così”. L’analisi dura nella misura in cui essa dà un certo godimento, ci si diverte anche, ma è una stagione della vita che va superata. A meno che non si diventi analisti, ahimè.

 

10. Come spiega la presenza di diversi orientamenti teorici di matrice psicoanalitica?

 

          Esistono diversi orientamenti in tutti i campi, non vedo perché la psicoanalisi dovrebbe fare eccezione. E’ vero che la pluralità degli approcci psicoanalitici non è tanto simile alla pluralità delle teorie scientifiche, quanto a quella degli orientamenti filosofici, artistici e letterari, politici. La frammentazione degli indirizzi psicoanalitici è di tipo ‘umanistico’. L’humanitas implica frammentazione. Questa è segno della vitalità della psicoanalisi. Più un campo appassiona, più vi emergono dissensi, incompatibilità, divisioni. Come nella religione. In America esistono centinaia di chiese e di sette, di cults; ci sono intere televisive e radiofoniche specializzate in prediche e dibattiti teologici e religiosi di vari orientamenti: perché la religione in America è viva.

Quando resteranno solo due o tre varianti di analisi, sarà il segno della sua fine.

 

11. Qual è la sua personale concezione dell'esistenza: che la vita abbia un senso, che origine e destino dell'uomo siano, anche se misteriosamente, trascendenti; o, per quel che riguarda il destino individuale di ciascuno, tutto si esaurisca  nel percorso tra la nascita e la morte? Che rapporto può esserci, se ritiene ci sia, tra la sua concezione esistenziale e la sua concezione della terapia?

 

          Quando ero bambino, mio padre ripeteva spesso una frase di de Musset: “Les marionnettes font font font / trois tours / et elles s’en vont”. “Le marionette fanno fanno fanno /  tre giri / e se ne vanno”.

Mio padre spiegava che le marionette siamo noi, esseri umani. Da allora, la mia visione della vita umana non è cambiata.

          La psicoanalisi ci può aiutare a fare i tre giri, o almeno gli ultimi due, con una certa grazia.

 

12. Si parla tanto di etica della psicoanalisi ma, secondo lei, qual è o quale dovrebbe essere la posizione della psicoanalisi di fronte all'etica?

 

          Come ho detto più sopra, prima di essere una tecnica, la psicoanalisi è un’etica. Questo significa non che l’analista dia esplicitamente o implicitamente delle prescrizioni etiche!, ma che la sua stessa prassi ha una portata etica. Il suo fine è un sottotitolo di Nietzsche: “Diventa te stesso”. Ma anche la profezia evangelica: “La verità vi renderà liberi”.

 

13. Come si è modificato, nel tempo, il suo modo di operare nella stanza d'analisi?

 

          Credo di essere diventato sempre più impuro. Col tempo, ho imparato che una cosa sono i rituali, più o meno routinari, a cui si indulge in analisi, altra cosa è il vero spirito dell’analisi. Spesso il “comportamento corretto” ha preso il posto della dialettica analitica. Così, si fa “psicoanalisi” se l’analizzante viene almeno tre volte a settimana, se viene una o due volte è “psicoterapia”! Oppure, la seduta deve essere per forza di 45 o 50 minuti, perché il paziente “compra il tempo dell’analista”! Ai pazienti si deve dar sempre del ‘lei’! Tutte queste norme sono incrostazioni ritualiste che aiutano a sfuggire a domande cruciali. Come “che cosa sto facendo con questa persona?”, “fino a che punto la sto suggestionando inconsapevolmente?”, ecc. ecc.

 

14. Secondo lei, la psicoanalisi ha un futuro?

 

          In America quasi tutti, analisti compresi, danno la psicoanalisi per spacciata. Avrebbero un futuro le psicoterapie che seguono i protocolli della ricerca scientifica. Ma io non faccio il profeta, non so se e quanto la psicoanalisi durerà. Oggi viviamo un suo declino, ma tra dieci o quindici anni le cose potrebbero cambiare. Forse ritroverà nuova linfa quando si espanderà in paesi ancora senza tradizione analitica, come Russia, Cina, India.

 

15. Cosa significa essere psicoanalisti nel XXI secolo?

 

          Questo lo si capirà meglio nel XXII° secolo.

 

16. Ad un suo ipotetico allievo quali suggerimenti darebbe?

 

          Ho allievi non ipotetici. Siccome vengono da scuole molto diverse, di solito dico loro: “Hai avuto una buona scuola. Ma adesso comincia il più importante: il dopo-scuola”. E’ ottima cosa esser stati apprendisti in una buona ‘bottega dell’anima’, ma poi occorre smettere di essere allievi. Molti invece restano sempre a scuola, come certi figli restano sempre a casa dei genitori. I bamboccioni della psicoanalisi.

 

17. Che cosa pensa della nostra convinzione che per superare la crisi attuale il pensiero psicoanalitico deve uscire dalla "Stanza" e guardarsi attorno, per inglobare nella sua indagine anche gli aspetti metafisici della persona (tanto per non far nomi, la libertà e la responsabilità di sé del soggetto)?

 

          Mi pare di capire che per voi gli aspetti metafisici della persona siano la sua libertà e responsabilità. Ovvero, qualsiasi giudice che debba giudicare se è colpevole un automobilista alticcio che ha investito qualcuno, si confronta con aspetti metafisici. Un giudice dovrà chiedersi – perché lo prescrive la legge – se questa persona è responsabile dell’incidente o se si è trattato di puro caso, se aveva la libertà di non bere, anche se ha una diagnosi di alcolismo certificata dalla ASL, ecc. Sono d’accordo con voi, insomma, che quel che chiamate “metafisica” di fatto regola e imbeve il nostro quotidiano. Ad ogni istante. Credo quindi che quando parlate di “metafisica” vi riferiate a “etica”.

          Nel 2005 ho pubblicato un libro, “Perversioni”, in cui riporto le perversioni sessuali a tematiche etiche. Vi scrivevo che oggi classifichiamo come “perversi” soggetti che non riescono a essere in sintonia con l’etica sessuale odierna.

          Io non mi sento così terribilmente in colpa per limitarmi alla “Stanza”, come dite voi. E’ vero, in cento anni e rotti di psicoanalisi, quanti analizzanti ci sono stati? Qualche migliaio, forse. Insomma, cifre irrisorie. Ma quando si fa una buona analisi con uno, questa di solito ha ripercussioni “virali” – sui figli, sul coniuge, sui colleghi, sugli amici… Credo che l’Occidente non avrebbe avuto un’evoluzione democratica senza la psicoanalisi; del resto, in tutti i paesi non democratici la psicoanalisi stenta o non esiste. Ad esempio, oggi abbiamo un boom della psicoanalisi in Giappone, mentre essa non è di fatto praticata in Cina – la ragione, credo, è che il primo paese è democratico, il secondo no. Insomma, psicoanalizzare è sempre anche un atto politico.

Tanti analisti da decenni si sono fatti mettere in trappola. Hanno creduto di dover rispondere alla critiche epistemologiche contro di essa, che si riassumono in: “La pratica psicoanalitica si basa su un sapere psicologico oggettivo, come la moderna medicina si basa sulla scienza biologica? E poi, è in grado essa di dimostrare che i suoi effetti positivi sono superiori agli effetti delle altre terapie? No. Quindi non è una terapia seria.” Tutto questo dibattito è fuorviante, perché dà per scontato che lo psicoanalista debba applicare tecnicamente una “scienza dell’anima”.

Ma fu proprio Freud a chiarire questo punto, quando scrisse che tre sono i mestieri impossibili: governare, educare, psicoanalizzare. Ovvero, la psicoanalisi è una pratica – impossibile eppure indispensabile – confrontabile con la politica e la pedagogia. Obama ha vinto le presidenziali del 2012 perché era ‘più scientifico’ di Romney? Un genitore educa magnificamente i suoi figli perché ha sfruttato scrupolosamente le scoperte della psicologia evolutiva? E così, un analista produce effetti importanti perché segue fedelmente le teorie di Freud, o di Bion, o di Lacan? Lo psicoanalista – come il politico e l’educatore – pratica l’inconscio, ovvero cerca la grazia nel kairos.

E’ vero che quando insegno dò molta importanza ai testi teorici e clinici classici. Ma perché chi si pone domande teoriche giuste poi si porrà anche domande pratiche giuste. Deploro il fatto che tanti analisti abbiano letto poco; ma non perché l’erudizione li renderebbe ipso facto più bravi clinicamente. Perché l’ignoranza della dottrina psicoanalitica è un sintomo, una traccia, della loro – anche clinica – mediocrità.

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