Flussi di Sergio Benvenuto

Il caso Sutherland28/feb/2017


1. Il libro dello psicologo inglese Stuart Sutherland, Breakdown, la cui prima edizione risale al 1976 (l’ultima a disposizione è del 2010), è molto noto nel mondo anglo-americano, e non solo in quello psichiatrico. Mai pubblicato in italiano. L’autore – uno dei fondatori in psicologia dell’approccio cognitivista – descrive, con dovizia di particolari anche scabrosi, le crisi maniaco-depressive di cui lui stesso è stato affetto. Il libro fu adattato per le scene dal commediografo Simon Gray col titolo Melon (nel 1987), e il ruolo del protagonista – Sutherland stesso – fu interpretato dal famoso attore Alan Bates.

Nel mondo anglo-americano libri o saggi scritti da psicologi sui propri disturbi mentali costituiscono un sotto-genere letterario fiorente. Il caso più noto è forse quello della psicologa clinica americana Kay Jamison. Costei descrisse in un libro ormai celebre, An Unquiet Mind (1995), con molta precisione e franchezza, la sua vita, marcata da una severa psicosi maniaco-depressiva. Da notare che la Jamison, nata nel 1946 e ancora vivente, è professoressa ordinaria di Psichiatria nella prestigiosissima Scuola di Medicina della Johns Hopkins University. È nominata tra “I migliori medici d’America”, ed è stata insignita di molte onorificenze in quanto massima specialista del disturbo bipolare. Esperta di ciclotimia essa stessa ciclotimica, fu preda di allucinazioni e tentò anche il suicidio. Ma anche nei momenti più devastanti della sua depressione non smise di insegnare né di seguire pazienti, spesso affetti dal suo stesso disordine psichico.

Il pubblico anglo-americano non solo accetta il fatto che uno psichiatra possa essere bravo anche se è egli stesso psicotico, ma anzi, vede un’aura di eroismo e affidabilità in chi ha vissuto o vive lui stesso i disturbi che cura.

In verità, quel che Sutherland dice delle sue crisi sia depressive che maniacali non aggiunge molto di nuovo a quel che la psichiatria da tempo ha rilevato degli stati bipolari. Ciononostante il suo libro va letto per varie ragioni.

In effetti, il suo report non è neutro, ma intriso dalle sue percezioni e valutazioni di psicologo. La seconda parte del libro – molto più prolissa – consiste in effetti in una disanima delle varie teorie sulla bipolarità e sui suoi metodi di cura. Ora, Sutherland abbraccia una tesi organicista, ovvero, la ciclotimia sarebbe effetto di processi organici – per ora ignoti – nel cervello. Secondo lui nulla della sua storia personale ha causato le sue crisi depressive e maniacali. Ma, come cercherò di mostrare, la narrazione delle proprie crisi e della propria vita offre invece spunti interessanti a chi voglia cercare un senso soggettivo alla ciclotimia.

 

2. L’autore si dedica a una confutazione, non esente da livore, della cura psicoanalitica. Egli stesso fu curato – per pochi mesi – in piena fase depressiva da due psicoanalisti, di cui non rivela il nome. Comunque, Sutherland apre il suo libro con una citazione dello psicoanalista di Chicago J. Kavka: “I confessionali post-terapeutici, scritti sotto l’intensa pressione abreativa e un esibizionismo non neutralizzato, spesso tradiscono i loro motivi di fondo: una sottile vendetta contro il trattamento deludente”.

Insomma, Sutherland riconosce di aver scritto questo libro come una vendetta nei confronti dei suoi terapeuti, in particolare psicoanalisti.

Il libro ha una qualità aggressiva che – a quel che scrive lui stesso – caratterizzò proprio la sua fase maniacale. Una tendenza aggressiva che però, come vedremo, sembra caratterizzare la personalità di Sutherland in toto.

Stuart scrive che i contenuti, diciamo “esterni”, delle sue crisi non hanno alcun valore esplicativo del suo breakdown. Anche se la prima crisi – la più grave tra tutte – sembrava strettamente connessa alla gelosia per il tradimento della moglie, Josie. Un’altra volta cadde in una depressione ansiosa perché temeva che i grossi alberi vicini a casa sua ampliassero le loro radici fino a mettere in pericolo la stabilità della sua dimora. Altre volte temeva di perdere il suo lavoro all’Università e di cadere in miseria. Notiamo che questi temi delle crisi depressive di cui Stuart ci parla sembrano avere tutti un tratto comune: la paura di veder crollare un pilastro stabile della propria vita, familiare o professionale. È sempre l’angoscia del “crollo del mio focolare”. O crollo del focolare fisico (la propria casa) o di quello familiare (la propria moglie) o di quello economico (il proprio lavoro).

In tutti questi casi – precisa – non si trattava di temi deliranti, in quanto quei timori avevano dei fondamenti concreti. Per esempio, ci dice che, dopo una massiccia depressione, fu invitato dal Decano a dimettersi dalla sua facoltà; la perdita del proprio lavoro non era quindi del tutto fantasiosa. Da qui la sua conclusione: “Il pessimismo del depresso è spesso molto più realistico dell’ottimismo del normale” (p. 72). Una tesi sostenuta oggi da molti, anche su base sperimentale. Stuart giunge insomma molto vicino a una conclusione filosofica a cui altri sono giunti sin dall’Antichità: che l’uomo e la donna depressi sono obiettivi, disincantati, realistici, ma che per funzionare normalmente occorre essere un po’ illusi, incauti e noncuranti. La mania metterebbe nella vita l’ottimismo della volontà, la malinconia metterebbe il pessimismo della ragione.

Ma se, come lui scrive, la ciclotimia è un processo cerebrale senza senso, e le ragioni occasionali dei crolli erano del tutto estrinseche, perché allora ha scritto un libro in cui racconta la propria vita? Perché descrive eventi e persone che la malattia – secondo lui – avrebbe preso come semplici appigli? Ad esempio, perché dilungarsi tanto sul suo difficilissimo rapporto con la moglie, se – come lui dice – il rapporto con lei non è affatto la causa della propria malattia? Ci troviamo qui di fronte a un’incongruenza che mi sembra rivelatrice.

Ad esempio, ci parla dei suoi genitori, della propria infanzia e del fratello. Perché questa anamnesi? Lui precisa – in tono alquanto ironico – che è per far contenti gli psicoanalisti, che cercano le origini della malattia nei rapporti infantili con altri. Egli sostiene che la storia della propria vita dimostri invece che non ci sia questo rapporto causale. E invece, come vedremo, Stuart ne dice abbastanza perché una ricostruzione analitica possa prendere forma. Parlare della propria vita al di fuori delle crisi per dare agli analisti pane per i loro denti sembra in effetti un alibi. È come se una parte di Stuart sapesse che invece esiste un nesso tra la sua storia individuale e la sua psicosi.

 

3. Sutherland (1927-1998) sprofondò nel suo primo breakdown depressivo nel 1971, quando aveva circa 45 anni. Prima, dice, era stato una persona del tutto normale, a parte alcune ansie ipocondriache. Ma, come vedremo, la sua “normalità” mostra tratti non estranei a quel che sarebbe accaduto dopo; essa apparirà come una sorta di proto-mania.

Tutto cominciò con una gelosia sessuale nei confronti della moglie; una donna che descrive come molto bella da giovane, ma alquanto stupida e ignorante. Lui era un donnaiolo. E quando la moglie gli disse che da anni aveva una storia con un altro, non fece una piega. Anzi, si faceva raccontare particolari piccanti della relazione adulterina, indulgendo a un voyeurismo complice; del resto considerava la gelosia sessuale qualcosa di spregevole, non degna del suo status culturale. Coltivava quella che ho chiamato “gelosia negativa” (S. Benvenuto, La gelosia, Il Mulino, 2011). Tre anni dopo l’inizio di questa relazione extra-coniugale della moglie – che sembrava aver completamente accettato – qualcosa di cruciale accadde: la moglie gli disse che l’amante era un amico di Stuart da molti anni. “Lo zoticone” lo chiama Sutherland, un uomo dalla personalità molto diversa dalla sua, e che aveva mostrato nei suoi confronti sempre una certa rivalità. Gli rivela tutto questo quando rompe la sua relazione con “lo zoticone”.

Ma il vero breakdown – il passaggio dalla “gelosia negativa” a quella positiva – cominciò d’un tratto solo due mesi dopo quella rivelazione della moglie. Fu quando il Nostro organizzò un incontro al pub con il suo ormai ex-rivale: questi cercò di giustificarsi dicendo che era stata la moglie di Stuart a saltargli addosso. Questa dichiarazione fu il punto di rottura del suo equilibrio mentale. O almeno, così lui percepisce.

Stuart precisa che la caduta nello stato depressivo e lo schizzare verso lo stato maniacale in lui sono eventi del tutto repentini. Sembra non attraversare zone grigie tra depressione ed euforia. O bianco o nero.

Dopo quell’incontro al pub, Stuart non riesce a pensare ad altro che all’infedeltà della moglie, i suoi pensieri sono dominati “dalle nere passioni della gelosia, dell’odio e del panico”. Non può più staccarsi dalla moglie, come un bambino che non riesca a star lontano dalla mamma. Gli è di fatto impossibile continuare la sua attività accademica – era il direttore del laboratorio di Psicologia sperimentale dell’University of Sussex. Non è in grado di leggere nemmeno un libro. È ossessionato dalle immagini dei particolari dei rapporti sessuali della moglie con lo “zoticone”, dettagli che peraltro la moglie stessa gli aveva fornito ampiamente tempo prima, quando suscitavano in lui un interesse lascivo. Gli attacchi di gelosia più forti avvenivano quando iniziava i rapporti sessuali con la moglie: il vederla nuda evocava in lui le scene di sesso con l’altro.

Egli nota anche la compulsione, nel suo stato deplorevole, a raccontare alla moglie le sue numerose infedeltà, pur essendosi ripromesso di non farlo mai. Cosa che a sua volta getta la moglie in crisi di gelosia furiose, ai limiti quindi, anch’essa, della crisi depressiva. Una sorta di folie à deux.

In seguito, su questa ossessione di gelosia si innestano temi di impoverimento e di essere affetto da malattia mortale. Si convince di star morendo di cancro al polmone, di perdere il suo lavoro all’Università, di vedere la sua famiglia finire in miseria. Del resto lui stesso in quel periodo amministra malissimo il suo denaro, fino al punto da vendere la propria auto per due sterline.

 

4. Il primo tipo di cura da lui tentata è proprio quella analitica, anche se non aveva alcuna fiducia nella psicoanalisi. Quel che dice delle sue esperienze con due psicoanalisti non manca di gettare una pessima luce sulla psicoanalisi inglese degli anni ‘70. Certo non bisogna fidarsi di quel che raccontano i pazienti dei loro strizzacervelli, soprattutto se il transfert nei loro confronti ha preso una piega negativa. I pazienti spesso riportano gesta dei propri analisti precedenti che fanno accapponare la pelle, ma non bisogna prendere queste testimonianze per oro colato. Si deve sospettare sempre che il paziente abbia interpretato, deformandolo, quel che il suo curante ha detto o fatto. Questa riserva vale anche per la testimonianza di Sutherland.

Il primo analista – uno dei più famosi tra quelli britannici, dice – lo segue per sei settimane. Questi nelle prime sedute lo incontra con la moglie. Di chi? Questo luminare cerca di rassicurarlo dicendogli che quella crisi avrebbe avuto effetti benefici, in quanto lo avrebbe portato a capire meglio se stesso e gli altri. Inoltre insiste sulla “collusione” che si era venuta a creare tra lui e la moglie. Evidentemente questo psicoterapeuta non vedeva la struttura ciclotimica, piuttosto una patologia di coppia, un problema relazionale. Quando Stuart gli dice che ha voglia di andare a Londra a rompere la faccia allo “zoticone”, l’analista invece di dissuaderlo lo incoraggia, dicendo che è meglio far del male (limitato) a un altro piuttosto che tanto male a se stesso, come lui stava facendo con la propria depressione. Come si vede, cliché alquanto triti dell’armamentario psicoanalitico.

Siccome Stuart sin dall’infanzia non aveva mai pianto, lo shrink gli dice che sarebbe stato meglio piangere, così Stuart si impegna per una settimana a cercare di piangere, senza alcun risultato (persino famosi analisti ricorrono a prescrizioni comportamentiste alquanto ingenue.) Del resto l’analista si lascia intrappolare dai discorsi di Stuart che tendono ad argomentare contro la validità scientifica della psicoanalisi, dando corso più a una discussione accademica che a una cura. Fatto sta che, dopo una diecina di sedute, il luminare lo manda da un suo collega giovane; evidentemente, aveva gettato la spugna. Il didatta scarica su un allievo un caso certo molto ispido.

Comunque Stuart gli chiede se non sia il caso di prendere psicofarmaci. L’analista risponde infastidito: “Tutto quello che farebbero è di cambiare il suo tono dell’umore”. Ma la sua “malattia” non era proprio uno scompenso dell’umore? Stuart nota giustamente che per uno come lui, sprofondato in una crisi di quelle proporzioni, un miglioramento dell’umore poteva essere una questione vitale.

Bisogna dire che, all’epoca, tra gli analisti italiani era raro questo rigetto pregiudiziale dei farmaci, a parte casi di fondamentalismo analitico. Allora si dava per scontato che un paziente in uno stato di crisi depressiva grave prendesse degli antidepressivi, e che anzi un miglioramento dell’umore fosse una condizione imprescindibile per continuare l’analisi.

Così Stuart finisce col fare altre sette od otto sedute con un giovane analista londinese. La prima volta che va da lui, Stuart in sala d’attesa si scioglie in lacrime – non era accaduto mai dopo la sua infanzia. L’analista reagisce dicendogli: “Allora lei pensava che io lo avrei abbandonato?” (Ancora una volta, paragono questa interpretazione “selvaggia” a quel che si faceva allora in Italia: da noi nessun serio analista avrebbe cominciato a interpretare vedendo un paziente per la prima volta.) Si vede che all’epoca in Inghilterra prevaleva già quella tendenza che poi avrebbe preso piede anche in Italia: interpretare qualsiasi cosa il paziente porti o faccia in termini transferali, come se l’analista stesse al centro del mondo del paziente. Così anche un pianto, probabilmente liberatorio, venne subito riferito a un temuto abbandono da parte dell’analista.

Certo sette od otto sedute sono troppo poche per giudicare dell’efficacia dell’analisi in quel caso e per superare il suo pregiudizio negativo. Ma quel che Stuart ci dice delle reazioni del giovane analista fa pensare anche a noi che sia stato meglio mollarlo. Cosa che lui fece, rifiutandosi anche di pagargli le sedute.

Ad esempio, una volta l’analista gli dice: “Sembrerebbe che lei abbia sprecato tutte le belle cose della vita!”. È così che si parla a uno in piena depressione acuta?         

L’analista dopo qualche seduta rivela l’eziologa della crisi, secondo lui: che Stuart è un omosessuale passivo rimosso. Una volta che Stuart racconta un episodio della sua infanzia, il giovanotto gli si china addosso e dice: “Non sentiva allora come se lei volesse che suo padre lo chiavasse fino a fargli uscir fuori la merda dal culo?” Ancora una volta: non bisogna prendere alla lettera quel che un paziente dice dell’analista che lo ha deluso. Ma dare un’interpretazione del genere a un paziente, con quel crudo linguaggio, dopo giusto qualche seduta, è un atto maldestro, anche se quella interpretazione fosse stata giustificata dal materiale clinico. Negli anni ‘70 a Londra si analizzava così?

Il giovane analista tocca i limiti dell’abuso professionale quando chiede di vedere anche la moglie in seduta. Evidentemente la crisi di melanconia di Stuart pure per questo analista era “un problema relazionale”, come si direbbe oggi. Quindi dice a Stuart che Josie era gelosa del fatto che lui stesse in analisi e lei no, e che quindi la cosa migliore era far entrare in analisi anche lei – con lo stesso analista del marito. (In effetti, alcuni prendono in analisi separatamente marito e moglie. Lo fece anche René Diatkine a Parigi, che analizzava allo stesso tempo il famoso Louis Althusser, filosofo psicotico, e sua moglie. Con i risultati ben noti – Althusser strangolò la moglie.)

Quando Stuart comunica al suo analista la sua intenzione di farsi ricoverare in una clinica per sottoporsi a un trattamento fisico, l’analista reagisce inorridito. Noto ancora una volta che non era così in Italia: all’epoca il ricovero in una clinica seria non era demonizzato dagli analisti, tanto più che alcune di queste cliniche erano dirette da psicoanalisti e ispirate a una visione psicoanalitica. Alcune si chiamavano già Comunità terapeutiche.

 

5. Tralascio i particolari della sua esperienza in ospedale, che offrono comunque un interessante spaccato della psichiatria inglese all’epoca.

Come d’un tratto era caduto in crisi depressiva, così d’un tratto Stuart sfociò in uno stato maniacale. Mentre lui era ancora ricoverato in clinica per la sua prima severa crisi depressiva, gli capitò di ascoltare per l’ennesima volta una canzone che in quell’anno era alla moda, e che aveva sentito già tante volte per radio e nei juke box. Ebbene, d’un tratto, fulmineamente, trovò quella musica – alquanto banale, ammette – bellissima! Fu come uno scatto di interruttore. Subito corse dai medici per informare che lui era del tutto guarito, che ora stava benissimo, e voleva essere dimesso. Gli operatori cercarono di trattenerlo: si rendevano conto che la depressione di Stuart si era capovolta in stato manicale.

“Durante tutto il mio stato ipomaniacale, io non mi rendevo conto che il mio comportamento e i miei sentimenti erano anormali.” Ma anormali per chi?

“Il mio umore era caratterizzato da una mancanza completa di pudore e di riservatezza, da un selvaggio ottimismo nei confronti del futuro combinato con uno scialacquo spericolato di danaro nel presente, da una fascinazione per il mondo esterno – gente, oggetti, libri – dall’incapacità di smettere di parlare e da una tendenza a indulgere in scherzi e beffe”.

Gran parte di questi scherzi o beffe avevano spunti o contenuti apertamente sessuali.

Una volta tornato allo stato normale, Stuart si rende conto del fatto che in entrambi gli stati egli era una persona difficile da sopportare. Sia quando soffre l’inferno sia quando vive in una festa permanente, il maniaco-depressivo tende a scompaginare la quiete sociale, per così dire.

La differenza importante tra crisi depressiva e stato maniacale consiste nel fatto che nella prima il soggetto sa – ammette – di essere malato, dato che soffre tanto; mentre nel secondo la “malattia” – ovvero, disturbare gli altri – gli sfugge. Questo ha fatto dire a molti psichiatri – a Binswanger (1960), per esempio – che la vera follia è la mania, mentre la crisi depressiva è una sorta di pre-psicosi, un’anti-camera che annuncia la vera psicosi. Questa valutazione discende da un assioma fondamentale di molta psichiatria: che la vera follia consiste nel non essere consapevoli di esserlo. In realtà, tantissimi schizofrenici sanno di esserlo, eppure…

 

6. La prima parte del libro è stata scritta e pubblicata in tre tempi diversi; è una sorta di autobiografia a puntate. Le prime due stesure – la prima scritta nel 1972, la seconda nel 1987 – finiscono in una chiave ottimistica. Stuart dice: “Adesso sono guarito! Non avrò più cadute depressive o maniacali”. E: “Sembra che io abbia trovato un porto sicuro fuori dall’irrequieto oceano della disperazione e dell’euforia nel quale sono stato gettato negli ultimi anni”.

Ma, nell’edizione pubblicata dodici anni dopo, il Nostro aggiunge un “Seguito” in cui ci dice che per dieci anni era passato per cicli maniaco-depressivi ogni anno: di regola, era depresso in estate e ipomaniacale in inverno. D’un tratto, in un giorno di primavera, cadeva in depressione. Tra questi due estremi, era “normale” per due o tre mesi. In ogni caso, dice, le varie crisi – le depressioni estive e le manie invernali – non furono devastanti come le prime due. È come se la prima onda melanconico-maniacale col tempo diminuisse di altezza, indebolendosi.

Nella terza parte, scritta nel 1997, una anno prima della morte, traccia un bilancio non esaltante delle possibilità di guarire dalla ciclotimia: “Ora sento che una volta che si è maniaco-depressivi, si sarà sempre maniaco-depressivi, e guardo al futuro con un lieve brutto presentimento [mild foreboding]” (p. 85).

Mild foreboding è un bel ossimoro ambiguo. Anche se, segnala, scrive queste righe finali del suo libro (e della sua vita) in uno stato “lievemente depressivo”.

Comunque, le cause apparenti delle sue cicliche depressioni non ebbero più come fulcro gli attacchi di gelosia sessuale nei confronti della moglie, ma esprimevano temi diversi, come abbiamo visto.

Un’altra profonda depressione lo colse nel 1982, questa volta in occasione della sua separazione definitiva da Josie, dopo 27 anni di matrimonio. Pare che la moglie nel corso degli anni avesse continuato a tradirlo – non sappiamo se sporadicamente o sistematicamente – cosa che Stuart stesso in parte giustifica col fatto che lui, depresso o maniacale che fosse, era un compagno alquanto insopportabile. Lei gli confidava di voler fare l’amore con tre uomini simultaneamente, si fece mettere incinta da uno, e alla fine – cosa che provocò il loro divorzio – si mise con il suo datore di lavoro, un poco di buono. Troppo per Stuart!

Precisa però che la sua severa depressione del 1982 questa volta non era connessa a pene di gelosia, ma alla sua estrema difficoltà a separarsi da una moglie che descrive – senza rancore apparente – come indegna. Fatto sta che il suo psichiatra (di indirizzo non analitico) lo fa ricoverare di nuovo in una clinica, una delle più prestigiose della Gran Bretagna, e che Stuart descrive (in modo del tutto convincente) come un luogo squallido sia fisicamente sia per la goffaggine degli operatori. La ragione ufficiale del ricovero è di sottoporlo a una cura di litio, allora in fase di boom in psichiatria. Ma la ragione reale era separarlo dalla moglie. Appare chiaro che i suoi psichiatri – non meno degli analisti della prima crisi – considerano questa nuova caduta depressiva legata strettamente al suo rapporto morboso con Josie, dei cui tradimenti continui egli sembrava a un tempo godere e soffrire in modo estremo. Gli psichiatri lo spingono, con una ostinazione che non manca di stupire il lettore con competenze cliniche, a divorziare. Secondo Stuart, comunque, la sua uscita dal ciclo fu dovuta al litio.

Fatto sta che dopo la separazione dalla moglie infedele Stuart va avanti, per circa dieci anni, senza rilevanti cadute maniaco-depressive.

Per quale ragione Stuart è passato dallo spiacevolissimo stato depressivo a un (troppo) piacevole stato maniacale? A questa domanda egli risponde in modo del tutto interlocutorio. Furono gli antidepressivi? O le sedute con lo psicologo clinico? O l’aver smesso di fumare? O una brava assistente medico che gli era stata particolarmente vicina? O il fatto che la crisi depressiva è un processo a termine, che si risolve anche senza alcun intervento medico? Oggi, temo, non abbiamo risposte molto più precise alle ipotesi alternative di Stuart.

 

7. Stuart ha sempre disprezzato la psicoanalisi, e il fallimento dei suoi brevi tentativi di essere analizzato sono dovuti probabilmente, almeno in parte, al suo volere in fondo dimostrare l’inefficacia dell’analisi. Sembra essersi servito della propria crisi per confermare la propria tesi di psicologo cognitivo. Anche se, come abbiamo visto, gli analisti da lui frequentati sembrano aver inconsapevolmente collaborato a questa sua dimostrazione. Ma abbiamo visto che questa è la questione cruciale: che senso ha descrivere come piene di senso – come Stuart ha fatto – delle crisi che, secondo lui, non hanno alcun senso?

Immaginiamo che uno dimostrasse che la Divina Commedia non è stata pensata da Dante, ma che sia il risultato di una pura combinazione di lettere agitate in una scatola. Il fatto di sapere questo toglierebbe qualsiasi interesse al poema di Dante? Una domanda a cui è difficile rispondere.

Ora, senza escludere affatto che precisi processi cerebrali od ormonali predispongano alla psicosi bipolare, la psicoanalisi mette in evidenza comunque la dimensione della significazione. Quelle neurologiche sono spiegazioni, quelle psicoanalitiche sono piuttosto interpretazioni. In effetti, non abbiamo abbastanza elementi per “psicoanalizzare” Stuart, non sappiamo se l’ipotesi del giovane e arrogante analista – che fosse un omosessuale rimosso – avesse qualche fondamento. Limitandoci quindi a quel che Stuart ci racconta, mettiamo a fuoco alcuni elementi che possano far emergere una linea di senso in queste esperienze che hanno avuto, certo, molto senso per lui.

In effetti, Stuart si descrive come un maniacale ben prima del breakdown a 45 anni. Dopo che all’età di 37 anni egli divenne professore di Psicologia all’Università del Sussex, allora, scrive “sprofondai in un mulinello di attività incessanti che divennero un vero e proprio vortice negli anni precedenti la mia crisi depressiva: potrebbe essere che quel vortice alla fine mi abbia succhiato fino al midollo” (p. 14).

Egli giustifica questo suo iper-attivismo col fatto che si tratta del ritmo di lavoro normale di un professore e ricercatore universitario con molte responsabilità. Ma ci fa intendere che egli manifestava un eccesso che sembra di evidente qualità maniacale. Scrive che addirittura si faceva il bagno di rado e in tutta fretta. Al suo segretario gli capitava di dettare delle lettere mentre era seduto sulla tazza del cesso. Questo portò anche a un disinteresse crescente per sua moglie e i figli, per la vita con gli amici e in famiglia, un odio profondo per le festività celebrate in famiglia. Il giorno di Natale preferiva lavorare in ufficio piuttosto che passarlo con i suoi. Alle convenzioni della vita mondana preferiva l’anonimato del pub: “La mia predilezione per i pub, la mia scarsa tolleranza della noia e la mia e le mie esigenze spasmodiche fecero di me qualcosa di molto meno di un marito e padre ideale”. (p. 15)

L’intolleranza della noia è un marker della mania.

A questi tratti, acuitisi con il progredire della sua carriera, egli ne univa un altro caratteristico: il suo essere prig, saccente. Insofferente delle autorità anche accademiche, più che aggredire gli piaceva punzecchiare, deridere, provocare. Quando ebbe l’onore di incontrare lo storico Trevor Roper, che tutti conoscevano, questi gli chiese educatamente: “Di quale soggetto lei si occupa?” E lui: “Psicologia. E lei?” Ci fa intendere che, proprio per questa sua sarcastica saccenteria, non era molto amato dai colleghi.

Si dirà che questo suo modo di essere allora non dette luogo a una vera mania. Ma poco ci manca. E in effetti, ben prima del crollo depressivo, qualcosa in lui comincia a non funzionare più. Egli sente che il numero enorme di impegni che egli assume di fatto gli offrono un alibi per non lavorare alle sue ricerche – si rende conto che la sua produttività scientifica sta scemando. Crisi della mezza età? Si chiede. Fatto sta che questo dubbio depressivo sul proprio declino – creativo, sessuale – assume anche forme di malanni fisici (lui stesso ammette questo nesso “psicosomatico”): si ammala di polmonite virale che lo lascia in uno stato di blanda depressione per mesi, soffre di altri acciacchi minori. Si chiede anche se questi malanni non erano effetto del fatto che lui, sotto sotto, sapesse che la moglie lo tradiva (non è una rimozione? La psicoanalisi, cacciata dalla porta, rientra dalla finestra).

Ma c’è da chiedersi: prima della catastrofe non lavorava già al suo interno una spinta nel senso opposto? (Già, ma per uno che non crede nell’inconscio, quale potrebbe mai essere questo spazio?) Di solito si paragona la ciclotimia al percorso di un pendolo. Se paragoniamo la fase depressiva allo scivolare verso il centro del pendolo, e la fase maniacale al salire del pendolo verso i due estremi, diremo allora: una volta raggiunto il picco estremo della depressione, l’umore sembra invertire completamente direzione e andare in un registro euforico. (Il fatto che le sue crisi scattassero all’improvviso non ci impedisce di pensare che il processo fosse comunque già in atto, e che il cambio repentino di umore coincidesse con il superamento di una specifica “soglia”.) Fino al punto da chiedersi: non è un quid, connesso all’umore che prende senso inverso, a essere in fondo lo stesso?

 

8. Ci limiteremo qui a suggerire alcune ipotesi, giusto per mostrare come la ricostruzione psicoanalitica, lungi dall’opporsi alle cause organiche della psicosi, tracci una trama di senso che possa indicarci possibili fattori causali.

Si è detto spesso che i maniaco-depressivi sono molto ambiziosi. Vogliono raggiungere le vette della loro professione e del prestigio sociale. Forse per questo, quando sono scrittori e artisti, scalano una vetta descrivendo autobiograficamente i loro cicli. Ci si chiede: l’ambizione di Stuart – di cui sia la sua saccenteria che la sua allergia al “focolare” come perdita di tempo sono segno – è sua, o gli proviene dall’Altro?

Dal racconto che egli ci fa della propria famiglia – molto calvinista, tranquilla e benpensante – emerge una enorme ambizione della madre. “Mia madre era più ambiziosa [di mio padre]. Ci incoraggiava a lavorare duramente e si inorgogliva per i nostri successi. Era una sorvegliante severissima. Quando [io e mio fratello] tornavamo a casa da scuola, sempre eravamo accolti con la domanda, nel suo accento scozzese di Glascow: ‘Siete stati i migliori della classe oggi?’ Se la nostra risposta era negativa, allora lei continuava: ‘Chi è stato il migliore della classe? E perché è stato lui il migliore della classe? Perché non siete stati voi i migliori della classe?’ A queste domande non ci poteva essere una risposta soddisfacente. Inoltre, lei spesso ci esibiva con vestiti magnifici e ripuliti di fronte alle sue amiche. Ci metteva in imbarazzo e tediava queste amiche raccontando questo o quel successo che avevamo riscosso […]. D’altro canto, mi insegnò a leggere prima che avessi compiuto tre anni, e quando compii ‘sei anni e sette mesi’ – come diceva di frequente ad amici e amiche – mi incoraggiò a scrivere il mio primo romanzo, il quale però, con mio gran disappunto, non fu mai pubblicato”. (p. 11)

Sembra quasi di risentire l’aneddoto di Cornelia romana che si vanta dei propri figli, i Gracchi. Ma come non stabilire un nesso tra questa smisurata ambizione della madre nei confronti dei propri figli, “i miei gioielli”, e la smodata ambizione di Stuart più anziano, che abbiamo interpretato come una sorta di stato proto-maniacale!

Da notare che per Freud, la mania è una sorta di derivato della malinconia, la quale sarebbe la prima nel processo. Per Freud, la malinconia è un lutto per un oggetto ideale e fondamentale perduto; una volta superato questo lutto, il soggetto si trova senza più intralci oggettuali, e può esprimere in modo iperbolico la sua ritrovata libertà. Ma in questo caso sembrerebbe il contrario: Stuart sfocia nella crisi depressiva quando, invecchiando, si rende conto di non poter più sostenere la corsa che lo porta a disprezzare qualsiasi cosa che non sia il proprio lavoro. Il suo rigetto della gelosia in quanto poco cool sembra rientrare in questo progetto grandioso di costruito un uomo di tipo nuovo… Ma d’un tratto Stuart si rende conto di non poter più controllare psichicamente l’indomabile; e così quella gelosia – denegata e sostituita dal “piacere di essere cornificato” – nei confronti di una moglie promiscua dilaga ad un certo punto nella sua forma più “positiva”. La Torre di Babele che stava costruendo a un certo punto si sfascia.

Il litio quindi è la soluzione? Nella terza aggiunta (1997) Stuart ci dice però che, malgrado il litio, nel 1993 egli ricadde in una nuova crisi depressiva. Una crisi non tanto mild, sembra, dato che lo rese incapace persino di radersi. Da allora in poi, per i successivi quattro anni (fino a quando cioè egli scrive questo ultimo pezzo), egli cade ciclicamente in crisi depressive. Ma, ahimè, senza la distraente compensazione di crisi maniacali. Ormai anziano – nel 1993 Stuart ha 66 anni – attribuisce questo sbilanciamento a favore della fase depressiva alla sua senescenza. Ammette che ormai solo il lavoro intellettuale riesce a tenerlo un po’ vivo a dispetto della perdita di senso che la depressione porta come suo inseparabile alone.

 

9. Nella Prefazione scritta dall’autore per la riedizione del 1997 del suo libro – un anno prima della sua morte – ci informa di aver scritto le parti migliori del libro in uno stato maniacale. L’intero testo è stato scritto in gran parte nelle fasi euforiche. Ne deduce che la creatività che permette a un autore di parlare della propria sofferenza emerge nello stato maniacale. Stuart nota che molti scrittori e artisti hanno scritto delle loro crisi ciclotimiche, e ripropone una teoria che risale agli Antichi, specificamente ad Aristotele, e che ha marcato la riflessione in Occidente per circa ventiquattro secoli: ovvero, ci sarebbe un nesso tra creazione letteraria, soprattutto autobiografica, e maniacalità.

Ma la lettura del libro fa emergere un’altra domanda: è un caso che Stuart sia dovuto entrare in una fase maniacale per poter descrivere – in uno stile non privo di qualità letterarie – il proprio crollo depressivo? Ovvero, il trasformare l’inferno della propria esperienza depressiva in un’opera in qualche modo accattivante, non è l’essenza di ogni manovra maniacale? E questo al di là della scrittura: non è un maniaco, in generale, qualcuno che gioisce trionfante della propria depressione? Più in generale: la mania stessa, lungi dall’essere uno stato a sé stante, salvo poi a lasciare il posto allo stato mentale opposto, non è una depressione rovesciata? Non è un riuscire a giocare con la propria depressione in modo da controllarla attraverso la propria potenza creativa?

Non sono domande peregrine, dato che all’inizio del ‘900 gli psichiatri consideravano i cosiddetti “stati misti” – dove mania e depressione sembrano amalgamarsi – più frequenti del classico pendolo tra mania e depressione. E in effetti spesso i maniaco-depressivi descrivono uno stato di agitazione e frustrazione dove “non puoi dire se tu sei felice o triste”. Questo ha portato alcuni, anche oggi, a dire – in opposizione a Kraepelin – che “forse la mania è semplicemente una forma estrema di depressione” (Leader 2013). In questa ottica, lo stato misto sarebbe lo stato psichico di base piuttosto che una sorta di sottoprodotto infrequente della bipolarità.

Quindi possiamo pensare che lo stato maniacale di Stuart sia una re-interpretazione in chiave euforica di quella perdita che è alla base della disperazione depressiva. C’è una perdita di un sogno di gloria, che paradossalmente, spesso, è proprio la descrizione di questa che assicura una certa gloria. Detto in modo stringato: il maniaco controlla in modo trionfante il proprio scacco depressivo.

In modo significativo, Stuart conclude l’ultima edizione del suo libro – e della sua vita – con una citazione dalla poesia “Ulisse” di Lord Tennyson, che si conclude così:

 

One equal temper of heroic hearts,
Made weak by time and fate, but strong in will
To strive, to seek, to find, and not to yield.

 

Una tempra eguale di eroici cuori,

Resa debole dal tempo e dal fato, ma dalla forte volontà

Lottare, cercare, trovare, e ceder mai.

 

In questo epitaffio a se stesso, possiamo intravvedere una chiave possibile per capire non la causa, ma il senso, della psicosi maniaco-depressiva. Forse il maniaco-depressivo è proprio un “eroico cuore” come Ulisse, votato a un ideale di gloria (a sua volta, per lo più, ereditato da un genitore), che nemmeno i tormenti della depressione abbattono, perché lui o lei mai smette di “lottare, cercare, trovare, e non cedere”.

Così il maniaco-depressivo lotta nella depressione, cerca nella vita, trova nella mania – e comunque mai cede.

 

 Sergio Benvenuto

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