Flussi di Sergio Benvenuto

Recensione a P. Feyerabend, "Ammazzando il tempo. Un'autobiografia" (Laterza, Roma-Bari, 1999)07/lug/2016


    Pubblicato in "Tutto funziona. Recensione a Paul Feyerabend", La Rivista dei Libri, anno V, marzo 1995, pp. 36-7.

 

 

Paul K. Feyerabend, dopo la pubblicazione del suo libro più celebre, Contro il metodo[1], gode di cattiva fama tra gli scienziati. (Anche se dice meglio il titolo della versione tedesca di questo libro, Wieder den Methodenzwang, "Contro l’ossessione metodologica". Della critica di un’ossessione appunto si tratta.) Quando, in un consesso filosofico, risuonò il nome di Paul Feyerabend, un noto fisico italiano commentò: "il suo libello è un perfetto manuale per l’avventuriero scientifico." Per fortuna, qualche scienziato dotato di particolare acume non la pensa così: il celebre biologo Stephen J. Gould, per esempio, ha confidato a Feyerabend di essersi ispirato a lui nel formulare la sua teoria paleontologica degli equilibri punteggiati[2]. Eppure Feyerabend essenzialmente ha sviluppato spunti di Wittgenstein, Popper e Kuhn, che di solito godono di buona reputazione. Come diceva Ian Hacking[3], "benché egli abbia avuto tanti aspri battibecchi con Popper, l’infallibile sedicente fallibilista, egli fu in qualche modo 'uomo di Popper'". Alcuni considerano il pensiero di Feyerabend una sorta di crisi del popperismo, egli avrebbe mostrato a cosa il Discorso del Metodo di Popper può portare… E in effetti Feyerabend fu prima di tutto allievo di Popper, anche se poi è stato solo "l’allievo", e non il maestro, ad attirarsi gli improperi.

           Feyerabend è malvisto per aver attaccato, con humour "dadaista", niente di meno che il Metodo scientifico, per aver detto che "l’unico principio che non inibisce il progresso della scienza è: anything goes", cioè "tutto fa brodo". E ha poi ammesso essersi ispirato a una canzone di Cole Porter, celeberrima in America (In olden days, a glimpse of stocking/ Was looked on as something shocking/ But now, Lord knows/ Anything goes).

           In ogni caso, la sua Autobiografia, Ammazzando il tempo, pubblicata postuma da Laterza, dimostra a sufficienza come egli sia giunto alle sue conclusioni provocatorie non certo per la sua estraneità alla razionalità scientifica, ma anzi proprio per l’avervi partecipato, intensamente, per tutta la vita. Nel nostro secolo eminenti filosofi hanno nutrito disprezzo per la scienza – da Wittgenstein a Husserl a Heidegger - ma la cosa non ha creato soverchie preoccupazioni tra gli scienziati, perché questi filosofi che denunciano “la crisi delle scienze europee” sapevano ben poco di fisica. Per esempio, quando Croce andava ripetendo che i soli concetti veri sono quelli storiografici, mentre quelli delle scienze fisiche sono "pseudo-concetti", Fermi e i ragazzi di via Panisperna nel frattempo non si sono sentivano affatto minacciati; non mi risulta che Fermi abbia scritto un articolo sulla concezione neo-idealista della scienza. Invece le critiche di Feyerabend - non alle scienze, ma al razionalismo scientista - hanno sortito ben altro effetto perché sono critiche dall’interno del "giro". Nessuno può mettere in dubbio che Feyerabend conoscesse molto bene la meccanica quantistica. In filosofia, come in tante altre attività, non conta tanto che cosa uno dica, ma soprattutto chi lo dice. E chi era appunto Feyerabend? Ce lo descrive egli stesso in Ammazzando il tempo.

 

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           Nacque nel 1923 a Vienna da una famiglia di piccoli funzionari statali, proveniente dalla Carinzia. Sin dalla gioventù due passioni polarizzarono la sua vita: la fisica e la filosofia della scienza da una parte, il canto e l’opera lirica dall'altra. Nell’Autobiografia ci elenca dettagliatamente tutti gli intellettuali che significarono qualcosa per lui, ma anche tutti i concerti, opere e spettacoli teatrali che marcarono la sua vita di melomane. Rischiò anche di accettare l’invito di Brecht ad andare a lavorare con lui al Berliner Ensemble a Berlino. Ma - lo riconosce anche lui - non si sarebbe trovato bene nel mondo tutto ideologico, troppo DDR, di Brecht. Comunque, tra le righe, si sente il suo rimpianto per non aver sfondato come tenore.

           La sua autobiografia si chiama Ammazzando il tempo perché l’ortografia originaria del suo nome era Feierabend, che in tedesco vuol dire "smettere di lavorare, vigilia di festa". Da qui la necessità di ammazzare il tempo. Anche perché la sua vita è stata sempre velata da una nebbia di dolore, fisico e spirituale. A vent’anni, arruolato in quanto austriaco nell’esercito del Terzo Reich, venne ferito in guerra; restò storpio e impotente per il resto della vita. Tormentato da dolori ricorrenti per questa ferita, convisse sempre con gli anti-dolorifici - e con la sua "fedele depressione". "Passavo per lunghi periodi di solitudine e di noia, allora vagavo senza meta, nel corso del giorno, oppure nel buio, nella speranza che qualcuno, specialmente una donna, comparisse e sistemasse le cose."

           A questa invalidità fisica si aggiungeva anche una sorta di invalidità affettiva: uno scontroso rifiuto di amare. Solo una persona, più tardi, pare aver scongelato del tutto questo cuore in inverno: la sua quarta moglie, l’italiana Grazia Borrini, già fisica teorica, poi esperta in cooperazione internazionale. Prima di questa conversione, egli si descrive come un solitario incallito, sempre ironicamente "altrove".

           A differenza di tante autobiografie auto-celebrative, non tenta di propinarci un’immagine edificante di sé. Per esempio, dopo averci detto che da militare, durante la guerra, non commise alcun crimine, aggiunge però di non sapere come sarebbe andata se i suoi capi dell’esercito nazista gli avessero ordinato di sparare su civili, o cose simili. Benché poi abbia abbracciato idee radical (appoggiò le rivolte studentesche di Berkeley e Berlino), non si fa passare per un precoce anti-nazista. Anzi, ammette il fascino che, prima della guerra, l’oratoria di Hitler esercitava sugli austriaci, incluso lui stesso giovanissimo.

           Feyerabend si è formato nella Vienna prima e dopo la seconda guerra, imbevuta dello spirito del Circolo di Vienna. Il suo curriculum fa certamente invidia a molti epistemologi logico-positivisti che a tutt’oggi lo dileggiano. Tra i suoi maestri ci furono fisici del calibro di Hans Thirring - scopritore dell’effetto Thirring-Lense – Karl Przibram e Felix Ehrenhaft. Più tardi, lo vediamo allievo o amico di personalità come Niels Bohr, Erwin Schrödinger, Rudolph Carnap, Alfred Tarski, Karl Popper (quest’ultimo, agli inizi degli anni '50, lo voleva in Inghilterra come suo assistente). I suoi studi sulla teoria quantistica- su von Neumann e Bohm - gli valsero rispetto e notorietà nel mondo scientifico e filosofico. Fu animatore degli incontri di Alpbach, centro alpino austriaco dove, ogni anno, si incontrava il fior fiore dell’intellettualità scientifica ed epistemologica europea. Quindi, dopo la fine della seconda guerra, seguì la Grande Migrazione della filosofia analitica: da Vienna all’Inghilterra, e da qui agli Stati Uniti[4].

           Insomma, Feyerabend ha trangugiato fino in fondo alla bottiglia il latte del positivismo e del razionalismo. Di quale disincanto è allora effetto il suo successivo orientarsi verso una denuncia ironica delle pretese della Ragione? Quest’uomo sofferente, appassionato di musica e di teatro, avrebbe sentito sempre più l’inanità delle troppo limpide geometrie della razionalità? Eppure Feyerabend è rimasto sempre un cultore di cose di scienze. Più che del disincanto, la sua opera è frutto di un decantamento del razionalismo, così come si decanta un vino. E’ l’esito di una maturazione, di una purificazione intellettuale, di un andare oltre le sponde della strada di una Ragione angusta, avendo percorso però tutta la strada, senza permettersi gigionesche scorciatoie. E' avvenuta in lui una parabola simile a quella di un altro "ammazzatore di tempo", Wittgenstein - insieme a J. Austin, il suo vero maestro filosofico (il primo lavoro accademico di Feyerabend fu un commento sistematico alle Ricerche filosofiche di Wittgenstein). Proprio quest’ultimo, dalla ferrea fondazione logica del linguaggio significante nel Tractatus, giunse infine, attraverso un processo anch’esso di decantamento, a quella specie di provocazione scettica, di inquietante gioco decostruttivo, noto come Argomento del Linguaggio Privato. E’ stata una bomba sotto l’elegante edificio del razionalismo filosofico. "Io sono diventato un wittgensteiniano - nota Feyerabend in Ammazzando il tempo (p. 108) - o un nominalista, per usare un termine più tradizionale." E dal Wittgenstein più tardo sembra aver tratto l’idea di una pluralità irriducibile di forme di vita: nella scienza stessa, gli esseri umani non fanno una cosa sola, ma praticano diversi "giochi", esprimono diverse forme di vita.

 

 

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           Nell’Autobiografia, Feyerabend non cela la profonda amarezza che gli procurarono certi attacchi violenti a Contro il Metodo. Ci si chiede perché, dato che fu questa l’opera che lo rese celebre oltre l’orto degli specialisti. Ma perché quell’opera provocò tutto questo levarsi di braccia al cielo?

           Gli uomini di scienza intelligenti spesso dicono che la grandezza della scienza non consiste nelle ardite teorie, né nelle strepitose ricadute tecnologiche di queste teorie. Il bello della fisica non sono i quark, i buchi neri, l’acceleratore del CERN, i computer, tutto quello che lascia il profano a bocca aperta. La vera grandezza della scienza - ti dicono con voce commossa - è in qualcosa che la gente non vede, vale a dire il suo Metodo. Il Metodo è la nobiltà preziosa e segreta dello scienziato; è il nocciolo di ciò che Freud chiamerebbe il suo narcisismo. Ora, venire a dire allo scienziato che i successi della scienza non dipendono dal Metodo, e che tutto fa brodo, è ferire profondamente il suo amor proprio. Ed è quello che Feyerabend ha osato fare.

           Il suo delitto di lesa-maestà – e il principe è il Metodo - è stato tale che di rado i suoi critici sono andati per il sottile. Molti non hanno capito che, quando Feyerabend dice che anything goes, non vuole affatto dire che qualsiasi teoria vada bene. Anzi egli era piuttosto difficile nelle sue preferenze scientifiche. Il suo asserto alla Cole Porter era, in realtà, la conclusione di una dimostrazione quasi per assurdo: "se un filosofo razionalista guardasse da vicino la storia della scienza e cercasse di ritrovarvi il Metodo, allora finirebbe con l’esclamare terrorizzato ma allora tutto va bene!"[5]. Il "tutto va bene" non è la raccomandazione personale di Feyerabend,la sua anti-ricetta, è l’esclamazione del filosofo razionalista. Per Feyerabend certe teorie vanno bene non per le ragioni che crede il razionalista: la selezione che la Storia compie della verità risponde a esigenze molto più complesse. Feyerabend ha cercato di mostrare i limiti del razionalismo nel rendere conto dell’attività, pur essenzialmente razionale, della scienza. Egli irrita molti appunto perché ha cercato di restituirci la ricchezza creativa della ricerca scientifica, mai costretta nelle maglie del Metodo. La sua opera è un inno al lavoro - in qualche modo artistico - delle scienze (al plurale), liberate dai cerimoniali epistemologici.

           E' vero che l’epistemologia aspira a democratizzare la scienza: detta delle regole metodiche sperando di mettere in grado anche chi è un po' ottuso di produrre scienza. Dice allo stupido "basta che segui certe regole, e ce la farai." Ma Feyerabend, uomo d’arte e spirito segretamente aristocratico, non crede che la grande scienza venga fatta dai mediocri, purché metodici. Perciò ha sempre rifiutato il concetto di "scienza normale" promosso da Thomas Kuhn[6]: la vera scienza non è mai normale, è sempre straordinaria, fuori dell’ordinario.

           Non a caso il suo ideale di scienziato non era tanto - come per Popper - Einstein (alla ricerca di leggi assolute) quanto piuttosto Niels Bohr, l’inventore del così controverso "principio di complementarietà", il ricercatore sempre ironicamente consapevole della relatività di ogni descrizione scientifica.

           PKF ha detto che il re è nudo, quello cioè che tutti vedono: che la scienza va avanti senza preoccuparsi dell’epistemologia. Ed egli sempre meno ha voluto fare dell’epistemologia. Quando, nel maggio 1992, tenne all’università di Trento un seminario a cui chi scrive partecipò[7], egli si sottraeva sistematicamente alle domande "epistemologiche", quando gli si chiedevano lumi per risolvere certi problemi spinosi di un certo campo di ricerca. Insomma, molti continuavano a considerarlo un epistemologo. "Vorrei - disse allora - che non ci fossero filosofi specialisti da una parte, e scienziati specialisti dall’altra. Vorrei che gli scienziati conoscessero meglio la filosofia. Più scienziati filosofi, meno filosofia della scienza."[8]

            Feyerabend, educato all’ironia di Nestroy e di Kraus, in un certo senso è rimasto sempre un buon empirista viennese. Da qui, ad esempio, la sua costante ammirazione per (il viennese) empiriocriticista Ernest Mach, già da tempo catalogato come "dinosauro". Lo si irride per la sua obiezione ai sostenitori della teoria atomica - "hai mai visto un atomo?" soleva dire - e per le sue critiche nientedimeno che alla relatività di Einstein. Feyerabend ha rivalutato il pensiero di questo esimio perdente (ma i perdenti di oggi possono diventare i vincitori di domani). In certo qual modo Feyerabend ha sempre rivendicato contro le bandiere del razionalismo le esigenze di un empirismo, in lui non più "logico" e "positivista", ma direi esistenziale, anzi estetico: più attenzione alla vita concreta, alla molteplicità dei colori, degli odori e dei sapori, contro l’omologazione ideale, monocroma, grigia del razionalismo. Da qui la sua rivalutazione di certe saggezze empiriche terra terra contro la Volontà razionalizzatrice, l’importanza di quella che Michael Polanyi chiamava “la conoscenza tacita”[9] che guida i ricercatori, e di cui non scrivono mai.

           In questa ottica caustica, "viennese", Feyerabend ha criticato l’immagine puramente ideale che gli scienziati, spesso, danno della loro attività: "Gli scienziati hanno sempre agito liberamente e in modo opportunistico facendo ricerca, anche se spesso hanno parlato in modo diverso pontificando su di essa", scrive[10]. Questa immagine "pontificante" è però quella che poi passa nella Vulgata, attraverso rotocalchi, trasmissioni televisive tipo Quark, libri e articoli divulgativi, insomma attraverso tutta la propaganda volta a intronare la Scienza al posto della Religione come autorità indiscutibile agli occhi della gente. Ma, come già notava Wittgenstein, "le opere di divulgazione scientifica non sono espressione del duro lavoro dei nostri uomini di scienza, bensì del loro riposarsi sugli allori."[11]

           Siccome la rappresentazione idealizzata o manualistica della scienza non rende conto del suo effettivo procedere storico, per Feyerabend bisogna piuttosto fare appello a Hegel e ai metodi dell’antropologia culturale. Altro scandalo: studiare le epoche scientifiche così come l’etnografo spregiudicato descrive la cultura di popolazioni selvagge!

           Perché ogni epoca scientifica ha la sua "ragione". Newton, per esempio, pensava che nell’universo non tutto fosse spiegato da cause meccaniche, anzi, il suo sistema teorico esigeva una necessaria interferenza di Dio – in particolare, per render conto dell’attrazione a distanza, che la sua teoria non spiegava affatto. Questa interferenza apparve invece irrazionale a Laplace, di cui è celebre la  risposta data a Napoleone quando gli chiese se c’era azione divina nel cosmo: "Non ho bisogno di questa ipotesi". Ma Laplace, a sua volta, si sarebbe scandalizzato se avesse sentito parlare della meccanica quantistica, di una teoria che esclude assolutamente che certi fenomeni possano avere una causa! Morale: ogni epoca scientifica elabora un suo criterio specifico - "opportunistico" lo chiama Feyerabend - di "scientificità". "Non per questo la scienza è 'irrazionale' - scrive Feyerabend[12] - è possibile render conto di ogni singolo passaggio (...). Tuttavia questi passaggi, presi tutti insieme, solo di rado formano una struttura [pattern] complessiva in grado di comprenderli tutti e di accordarsi con princìpi universali..."

           Il "pattern complessivo in grado di comprenderli tutti" è invece il forte di Popper - scomparso pochi mesi dopo di lui. Feyerabend paragona il solenne Letto di Procuste popperiano all’arte bizantina[13]: nei mosaici gli esseri umani sono visti solo di faccia, hanno quindi un’aria ieratica che nella vita non avevano. Anche nella storia delle scienze Feyerabend voleva introdurre la ricchezza dello scorcio, delle prospettive non frontali, degli effetti aerei, la polisemia dell’humour – una scienza vista con occhi barocchi, direi. Insomma denunciava l’impoverimento - non solo estetico - prodotto dal razionalismo. La Ragione classica - quella che da Parmenide deriva fino a Popper - ha cercato di eliminare la molteplicità empirica del mondo. Egli voleva far penetrare anche nei cenacoli severi dei filosofi il gusto sensuale della varietà, l’allegria e la versatilità del teatro e del canto. Trovo che persino la sua scelta di vivere negli Stati Uniti non era estranea al suo pensiero: dell’America gli piaceva proprio lo sradicamento, l’essere crogiuolo effervescente di razze e culture diverse. La California soddisfaceva il suo gusto filosofico per il meticciato, per la varietà, insomma per la ricchezza. Nella antica battaglia tra il partito della Identità e quello della Diversità, egli ha spezzato delle lance imbevute di ironia dadaista a favore del partito della Diversità.

           E l’altro libro che uscirà postumo si chiama appunto Conquest of Abundance; mostra come sia gli specialisti che la gente comune producano astrazioni per ridurre l’enorme abbondanza che li circonda e li frastorna.

           Ma la prima ricchezza era per lui il saper ridere anche di sé. Quando si diceva dadaista, intendeva con questo provocare il "pensiero serio", osando ridere delle cose anche più sacre, come la Scienza, la Ragione, la Morte. Quando, a Ginevra, fu ospedalizzato per il tumore che lo avrebbe da lì a poco portato alla morte, una dottoressa gli disse "Lei, che ha scritto tanto contro la scienza medica, perché viene in questo ospedale scientificamente all’avanguardia?" E Paul rispose: "Per imparare il francese!"

           Questa stessa Autobiografia sembra scritta, in fondo, per prendere in giro anche un po' se stesso. Sembra quasi una tirata di orecchi ai suoi ammiratori - numerosi e influenti in Italia - a cui sembra dire: "Non prendete troppo sul serio la mia opera. Piuttosto, vogliatemi bene." Anche dopo la sua morte, gli vorremo bene.

 

 

 



[1] Feltrinelli, Milano 1979.

 

[2] N. Eldredge and S. J. Gould (1972) "Punctuated equilibria: an alternative to phyletic gradualism" In T.J.M. Schopf, ed., Models in Paleobiology. San Francisco: Freeman Cooper, 1972, pp. 82-115.

 

[3] Paul Feyerabend, Humanist, Duke University Press, Durham (NC), 1994. Necrologio di Feyerabend tenuto all’Università di Berkeley, California

 

[4] Grazie all’appoggio di Popper e di Schrödinger, nel 1955 iniziò la sua carriera accademica a Bristol, dove fu assunto - per tre anni - come filosofo della scienza. Nel 1958 accettò un invito dell’università di Berkeley, e restò in California fino al 1989. Fu il terremoto di quell’anno, nella baia di S. Francisco, a convincerlo ad accettare un insegnamento all’università di Zurigo. In Svizzera, alla fine del 1993, gli fu diagnosticato un cancro al cervello, di cui è deceduto, a Ginevra, l’11 febbraio 1994.

[5] Preface alla 3a edizione (inglese) di Against Method (NLB, London 1979). Vedi anche P.K. Feyerabend, La scienza in una società libera (Feltrinelli, Milano 1981), cap. 6, p. 78: "'Qualsiasi cosa può andar bene' è il modo in cui i razionalisti tradizionali (...) dovranno descrivere il mio modo di rappresentare le tradizioni, la loro interazione e i loro mutamenti. Per loro l’immagine delle scienze che deriva dalla ricerca storica (...) è di fatto senza regole, senza ragione, e tutto ciò che hanno da dire nei confronti di quest’immagine è qualsiasi cosa può andar bene."

 

[6] Insieme a Popper il filosofo e storico della scienza più citato nel mondo. Cfr. T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino.

 

[7] Raccolto in Ambiguità e armonia, Laterza, Roma-Bari 1998.

 

[8] Op.cit., p.

 

[9] M. Polanyi, The Tacit Dimension, New York: Anchor Books, New York 1967. (Reprint: University of Chicago Press, 2009)

 

[10] In Ammazzando il tempo, p. 170.

 

[11] L. Wittgenstein, Pensieri diversi, Adelphi, Milano 1988, p.86.

 

[12] Ammazzando il tempo, p. 105.

 

[13] Ibidem.

 

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