Flussi di Sergio Benvenuto

Superstizioni03/mar/2017


1

 

Uno dei contributi psicoanalitici più notevoli sulle superstizioni è il saggio di Octave Mannoni (1969) Je sais bien, mais quand même…, ovvero Lo so bene, e tuttavia… La frase che dà il titolo si sente spesso negli studi psicoanalitici. Ad esempio, un analizzando può dire: “Lo so bene che mia moglie non mi ha mai tradito, e tuttavia… penso sempre che sia andata a letto con tutti”.

L’espressione di Mannoni equivale al nostro “non è vero, ma ci credo”, termine inventato da Benedetto Croce. In effetti, alcuni di noi possono dire: “Lo so bene che gli jettatori non esistono, e tuttavia… quando incontro il signor x tocco ferro”. Lo jettatore può non esistere a livello del mio sapere adulto, colto, civilizzato, “illuminista”, ma esiste a un altro livello che suol chiamarsi arcaico. Come descrivere questo livello? E la metafora geologica dei livelli evolutivi è quella giusta per descrivere quel che accade nell’espressione “non è vero, ma ci credo”?

Mannoni evoca il processo psichico della Verleugnung, sconfessione o diniego, descritto da Sigmund Freud (1927) a proposito del feticismo. Il bambino maschio, destinato a divenire feticista da adulto, originariamente crederebbe che tutti gli esseri umani, donne incluse, hanno un pene. Dopo essersi trovato confrontato con l’evidenza contraria, egli allora sa che le donne non hanno pene, eppure in lui qualcosa sconfessa questo sapere. Più tardi il feticcio – scarpa, calza, piede, corsetto, o altro – prenderà il posto di questo supposto fallo della donna: potrà desiderare una donna solo attraverso il fallo inesistente di cui è dotata. La sconfessione, insomma, comporterebbe una scissione dell’Io (Ichspaltung). Scissione tra un lato “illuminato” che sa, e un lato “infantile” che indulge a un altro sapere. Questa divisione, pur essendo caratteristica della perversione, in qualche misura è universalmente presente in ogni essere umano (così come ogni essere umano rimuove e ha un inconscio).

Tutti noi crediamo in cose concrete in forza del sapere empirico e scientifico, desideriamo in forza di un altro sapere arcaico. Talvolta questa scissione diventa addirittura un modo, oggi, per essere campioni di normalità: ad esempio, alcuni scienziati sono severissimi nell’uso dei protocolli scientifici nel loro lavoro, respingono con disprezzo ogni teoria che non sia minutamente verificata, e poi nella vita privata sono fondamentalisti cristiani o islamici, credono nei miracoli, nella Resurrezione dei corpi. Sono rispettabilissime persone nei due registri.

 

 

2

 

Mannoni ritrova questo arzigogolo nel rito hopi dei Katcina. Una volta l’anno, ai bambini del pueblo Hopi – una popolazione amerinda – si mostrano degli uomini mascherati e si dice loro che sono i Katcina, gli spiriti degli antenati. Costoro tornano nel villaggio con maschere terrificanti, bramosi di mangiarsi i bambini. Alla fine, però, i Katcina si rabboniscono e danno ai bambini delle polpette di mais, piki, tinte di rosso. Colpisce l’analogia di questo rito con i nostri Babbo Natale e Befana. Ma, si chiede Mannoni, perché questo bisogno adulto di mistificare i bambini sia tra gli Hopi sia tra gli europei bianchi?

Il punto è che quando, cresciuti i bambini Hopi, gli adulti svelano loro che i terribili Katcina erano di fatto padri e zii mascherati, non per questo gli adulti affermano l’inesistenza di questi spiriti (qui la differenza con i nostri Babbo Natale e Befana). Anzi, i Katcina sono alla base del sistema religioso Hopi. Da adulti si crede che i Katcina davvero tornino al villaggio a danzare, ma in modo immateriale e spirituale. È come se cioè, una volta disincantati i bambini, questo disincanto venisse a un altro livello (mistico) sconfessato: in un certo senso i Katcina davvero tornano.

In altre culture, il ruolo dei creduloni non è occupato solo dai bambini, ma anche dalle donne – e soprattutto dagli antenati. In certe società vige un culto delle maschere; coloro che lo praticano dicono “oggi sappiamo che è finzione, ma nei tempi antichi si credeva alle maschere”. Gli antropologi, oggi, hanno forti dubbi sul fatto che questi antichi creduli siano mai esistiti: pensiamo oggi che queste persone proiettino negli antenati “perturbati e commossi” una credulità che nessun adulto ha di fatto mai nutrito. Ma appunto, perché questo bisogno di scaricare, per così dire, la funzione dell’ingenua credenza sui bambini, sulle donne, sugli antenati? E perché proprio queste categorie sono prescelte come campioni dell’ingenuità mistificata?

Sia nelle società selvagge sia nelle nostre, nota Mannoni, “è come se vivessimo in uno spazio in cui fluttuano credenze che in apparenza nessuno fa proprie. Ci si crede [on y croit]” (p. 19), ma nessuno in prima persona vi crede. Io sono spesso sorpreso dal fatto che molte persone, che si dicono convinti cattolici e praticano come tali, in privato poi confessano di non essere granché sicuri dell’immortalità dell’anima o della resurrezione di Cristo. Ma come possono essere cattolici e dubitare della vita eterna? È che le credenze cattoliche “fluttuano nel nostro spazio”, come scrive Mannoni, le possiamo fare nostre o lasciarle andare, a seconda delle fasi della nostra vita o dei nostri umori; la cosa essenziale per molti è pensare che questo spazio cattolico sia “il nostro spazio. Ne facciamo parte, anche se personalmente possiamo nutrire, a volte o sistematicamente, scetticismo. Una paziente mi ha detto: “Sono cristiana anche se nel fondo non credo ai dogmi cristiani. Ma appartengo a una tradizione cristiana, e quindi, in un certo senso, ci credo… mi sforzo di crederci”. La credenza viene assimilata a una scia, non sempre indispensabile, di un’appartenenza etnica. Stessa cosa accade con altre fedi, come quella comunista o fascista.

Eppure, certe credenze non empiriche né scientificamente confermate sono possibili solo nella misura in cui da qualche parte ci sono dei creduloni ingenui – bambini o antichi o donne. Costoro fanno da supporto alle credenze socialmente ammesse. Così gli Hopi non potrebbero sviluppare tutta una mistica dei Katcina se, d’altro canto, i bambini del pueblo non occupassero il ruolo di chi ingenuamente crede – un ruolo essenziale alla sopravvivenza della fede tra gli adulti. In linea generale, possiamo dire che forse in ognuno di noi c’è un bambino mistificato, ovvero una credenza arcaica che sconfessa quel che sappiamo da adulti. Il bambino, diceva il poeta William Wordsworth, è il padre dell’uomo; il bambino è arcaico nella misura in cui è l’arché – per i Greci principio, comando e inizio – dell’uomo e della donna. Il bambino comanda certe nostre credenze, anche se in quanto adulti le rigettiamo.

Ma si dirà: molti superstiziosi di oggi non presentano questa divisione “perversa” dell’Io su cui insiste Mannoni. Non tutti i superstiziosi dicono:  “Lo so bene che un gatto nero non porta scalogna, e tuttavia… lo evito”. Alcuni invece appaiono certi delle loro credenze, che chiamiamo superstiziose perché noi non ci crediamo. Tantissimi sono fermamente convinti delle verità astrologiche, per esempio, e improntano agli oroscopi la loro vita, soprattutto quando cercano un partner amoroso. Eppure, c’è da chiedersi se da qualche parte anche il superstizioso più coriaceo non sia “scisso”.

Di fatto, chiamiamo superstiziose delle credenze che paiono sospese a metà strada tra le verità scientifiche e razionali da una parte, le verità mistiche e religiose dall’altra. Se siamo miscredenti, certo, possiamo dire che molte credenze cristiane, ad esempio, sono solo superstizioni. Ma c’è differenza, anche se non sempre palpabile, tra fede (in certi misteri religiosi) e credenza (in certi fenomeni). Mannoni insiste su questa distinzione: i piccoli Hopi credono nella presenza fisica dei Katcina, gli adulti hanno fede in loro. La fede riguarda piuttosto un impegno: è strutturare la propria vita in riferimento agli articoli di fede. Ad esempio, si ha fede nel marxismo non perché si sia letto tutto Karl Marx o si conosca la teoria socialista a menadito, ma perché si cerca di vivere in accordo con la speranza socialista. È quindi solo in rapporto alla fede che possiamo parlare veramente di dubbio: sappiamo che anche soggetti con la fede più salda passano per periodi o momenti di forte dubbio. Molti santi sono stati divorati dall’incertezza sulle verità religiose. La superstizione, invece, in quanto credenza, non è esposta veramente al dubbio: al massimo la si sconfessa. Nessuno è veramente tormentato da dubbi di questo tipo: “Penso che il signor x sia un menagramo. Ma ho dubbi che esistano i menagrami”. Possiamo dire che non ci crediamo affatto, eppure, a un altro livello, ad esempio nei nostri comportamenti pratici, ci crediamo. Possiamo essere sicuri dell’inesistenza degli jettatori, eppure crederci.

 

 

3

 

Ora, se consideriamo i contenuti delle superstizioni, colpisce il fatto che chi vi crede ha perso la memoria – di solito – del contesto o sistema di saperi di cui la credenza superstiziosa è un frammento. Per lo più, i contenuti delle credenze superstiziose sono saperi arcaici, che spesso affondano le loro radici nella notte dei tempi – basti pensare al sistema astrologico. Ad esempio, la credenza che il ferro di cavallo porti fortuna deriva da miti e riti che risalgono all’antica Grecia. L’acqua dello Stige, il fiume infernale e sotterraneo, non poteva essere trattenuta da nessuna materia, nemmeno dall’oro; con una sola eccezione: poteva essere trattenuta dal corno dello zoccolo di un cavallo. Solo quel corno poteva impedire il flusso inarrestabile della morte. Ma quante persone mettono il ferro di cavallo sulla loro porta di casa, conoscendo l’origine e il senso di questa credenza? Ad esempio, oggi, in Occidente, è di moda riferirsi al sistema astrologico cinese, vale a dire a un elemento di un contesto del tutto estraneo al nostro habitat culturale. Le superstizioni sono quindi a significazione opaca: non connotano alcuno sfondo culturale preciso, non esigono una profonda partecipazione del superstizioso al sistema culturale da cui attingono le credenze. Le superstizioni, estrapolate di peso da contesti diversi, si stagliano come feticci cognitivi. Come il feticismo per Freud esse sono effetti di una Verleugnung.

Fino a pochi secoli fa l’astrologia era un sapere del tutto legittimo, essa era apprezzata come una branca rispettabile dell’astronomia e le grandi corti europee si servivano continuamente di astrologi. Per lo più le credenze superstiziose sono, nella maggior parte dei casi, dei saperi dismessi – un po’ come si dismette un vestito. In effetti, a proposito di vestiti, è ben noto che da secoli servitori, maggiordomi, laquais, butlers, governanti, sono vestiti con abiti che un tempo portavano i loro padroni. La livrea del maggiordomo era decenni addietro l’abito di gala del signore. Anche oggi, credo, la signora italiana tende a regalare alla badante venuta dall’Est o dall’Asia i vestiti passati di moda, che non può portare più. Analogamente, i contenuti superstiziosi appaiono essere delle credenze che le élites culturali, oggi improntate all’Illuminismo scientifico, “lasciano” alle classi popolari. Ma questo pare contrastare con il fatto che incontriamo superstiziosi anche nelle professioni prestigiose e nelle classi più elevate. È vero, e tuttavia….

In quanto forme di credenza superate, arcaiche, non più ammesse né rispettabili, i contenuti delle superstizioni partecipano di quell’arcaismo che abbiamo già visto quando abbiamo considerato i soggetti che si lasciano mistificare. È come se il superstizioso convinto si mettesse egli stesso al posto dei mitici antenati che credevano nelle maschere, adottando le loro credenze: non ha bisogno di trovare supporto altrove (ad esempio nei bambini) a ciò in cui crede, si fa egli stesso supporto “infantile” della credenza diffusa.

Questo suo offrirsi come “base” credula ha il valore di una sfida. Anche la massaia più ignorante, che legge gli oroscopi, sa che l’astrologia “non è una cosa seria”, sa che viene stigmatizzata come  superstiziosa. È come se allora la credula affermasse provocatoriamente contro il potere intellettuale di oggi: “Eppur ci credo!”. Il suo stesso coltivare la superstizione è una sconfessione del primato del pensiero razionale – è un atto politico di ribellione contro gli egg heads, come vengono chiamati in America le “teste d’uovo”, gli “intellettualoni”. In altre parole, anche quando il superstizioso non è scisso al suo interno, come il perverso, di fatto egli mette in atto una scissione sociale: tra un sapere ufficiale, ammesso, rispettabile, e un sistema di credenze arcaiche, sotterranee, superate, disdicevoli. Il superstizioso è una sorta di militante delle culture e saperi pre-moderni. È come se il superstizioso si mettesse al posto dei bambini Hopi che credono nella presenza dei Katcina, solo che qui non si tratta di dare supporto a una fede collettiva degli adulti: si tratta di contestare la fede collettiva e adulta – da una parte la fede religiosa, dall’altra la fede nella scienza razionale. Il superstizioso testimonia di una forma di vita che è a un tempo anti-religiosa e anti-scientifica, contraria insomma alle due grandi potenze culturali dell’oggi. La superstizione è un volontario farsi bambini e creduli per non ripudiare le vecchie credenze.

Questo carattere di sfida militante è particolarmente evidente nella credenza della jettatura. Come ho mostrato altrove (Benvenuto[Ed1] ), lo jettatore è la persona colta che non crede nelle superstizioni: il classico jettatore a Napoli è una persona severa, morigerata, colta, un po’ triste – corrisponde di solito al cliché dell’uomo di cultura. È come se la credenza implicasse il fatto che  bisogna credere che chi non crede nelle superstizioni porti jella. È il contrario della frase citata da Umberto Eco[Ed2] : “Non siate superstiziosi! La superstizione porta scalogna”. La credenza nello jettatore non si limita a contestare la razionalità dominante, affermando credenze arcaiche e superate, ma elabora una credenza nuova, quasi moderna: quella per cui il soggetto razionale è allo stesso tempo oggetto di superstizione.

È evidente, quindi, quanto la teoria psicoanalitica si opponga a ogni approccio cognitivista, che separa nettamente le credenze dai desideri. Per ogni cognitivista, cerchiamo di soddisfare i nostri desideri avvalendoci delle credenze che abbiamo (vere o false che siano), e queste credenze sono del tutto indipendenti da ciò che desideriamo. Per la psicoanalisi, invece, il desiderio in qualche modo esprime sempre, anche, delle credenze – ad esempio, desideriamo essere ricchi perché crediamo che ci renderà più felici. Ma ogni credenza, a sua volta, esprime anche desideri: ad esempio, credere che la ricchezza renda felici esprime di fatto un desiderio di essere più potenti attraverso la ricchezza. Anche nel caso della superstizione, credenze e desideri si intrecciano in modo inestricabile: la credenza negli jettatori esprime il desiderio di evitare un certo tipo di persone che ci deprimono, e questo desiderio si regge a sua volta sulla credenza che la cultura illuminista porti jella.

 

Bibliografia

 

Freud S. (1927) “Feticismo”, Opere, x, Boringhieri, Torino 1979; GW, 14, pp. 311-317.

Mannoni, O. (1969) [Ed3]  Clefs pour l’imaginaire ou l’Autre Scène, Seuil, Paris; tr.it. L’analisi originaria e altri saggi, Armando, Roma 1974.

 

Sergio Benvenuto


 [Ed1]Inserire anno del testo di Benvenuto; inserire il testo in bibliografia

 [Ed2]Inserire anno del testo di Eco; inserire il testo in bibliografia

 [Ed3]Completare il testo di Mannoni in bibliografia

Flussi © 2016Privacy Policy