Flussi di Sergio Benvenuto

Il capitalismo e i cani. Danaro e desiderio 05/apr/2022


 

"Il capitalismo e i cani. Danaro e desiderio",  

aut aut, 391, settembre 2021, pp. 161-182.



 

Molti amici col cuore e il cervello a sinistra amano raccontare una barzelletta antisemita – di certo inventata, come altre barzellette antisemite, da qualche ebreo. Essa mette in scena un tycoon ebreo, re del pesce in scatola. L’efficienza della sua azienda è universalmente riconosciuta. Un giorno però un cliente, un grossista, entra furibondo nel suo ufficio chiedendo la restituzione del pagamento per una grossa partita di sardine in scatola. L’ebreo casca dalle nuvole: «Ma come, l’imballaggio delle scatole non era perfetto? Non le sono state consegnate nel tempo stabilito?» Al che il cliente: «Tutto a posto da questo punto di vista. Ma ho aperto scatole a caso e ho assaggiato il contenuto: le sardine erano tutte marce!» Al che l’ebreo sbotta a ridere: «Le ha mangiate? Ma le mie sardine sono fatte solo per essere comprate e vendute, vendute e comprate…»

             Questa barzelletta appare molto profonda a chi ha una formazione marxista, perché pare esemplificare la specifica perversità del capitalismo, ovvero, che il valore di scambio si sostituisce al valore d’uso. Non conta che si goda delle sardine, conta che si comprino e si vendano, che si scambino. Ovvero, il capitalismo sarebbe essenzialmente speculativo.

 

 

  1. 1.      La vera moneta è la peggiore

 

             Il termine speculazione ha attratto molti filosofi, data la sua omonimia con la speculazione teorica in generale, la sua contiguità con lo speculum del ginecologo, e con lo specchio, speculum, da cui derivano tutti questi termini. Potremmo dire che per la filosofia anti-capitalista di oggi la speculazione finanziaria è il vero specchio del capitalismo (la famigerata finanziarizzazione dell’economia). Ma in verità la condanna filosofica della speculazione ha origini molto antiche.

             Aristotele aveva già detto l’essenziale dell’economia (che si chiamava allora crematistica) scrivendo:

In realtà di tutto si può fare scambio: esso trae la prima origine da un fatto naturale, che cioè gli uomini hanno di alcune cose più del necessario, di altre meno[1].

 

Aristotele aveva capito l’essenza dell’economia!

             Ma aggiunge subito che non rientra nella cremastica la καπηλ?κ?. Questo termine è tradotto con “piccolo commercio” o ”commercio al dettaglio”, ma non aveva nulla a che vedere con quel che oggi designiamo con questi termini. La kapeliké era forse più vicina ai nostri Monti di Pietà: si dava al “commerciante” un oggetto in cambio di soldi, e poi questo commerciante rivendeva lo stesso oggetto a un prezzo superiore. Quindi, già un perfetto speculatore. Per Aristotele questo scambio era «contro natura».

             Eppure lo stesso Aristotele, nello stesso libro, narra un aneddoto su Talete, il quale sarebbe riuscito ad arricchirsi facilmente imbastendo una perfetta operazione speculativa sui frantoi a Mileto[2], che ricorda le manovre che hanno reso ricco George Soros. Si rivela qui un’ambivalenza originaria della filosofia nei confronti dello speculativo.

             Lo speculatore è figura supremamente malefica per molti, perché è qualcuno che non produce nulla, e si arricchisce sfruttando lo scarto di prezzo tra l’acquisto e la vendita di un bene. Non gode del bene, né permette ad altri di goderne, ma lo tiene in mora per lucrare su una differenza puramente finanziaria. Lo speculatore è uno sfruttatore del tempo. Ciò che a molti appare un caso-limite dello scambio, una quasi-patologia del mercato, viene invece eletto, da chi critica il capitalismo, a essenza stessa del capitalismo: che per esso non conta far godere esseri umani, ma accumulare danaro.

             Questa denuncia della natura (intimamente) speculativa del capitalismo cozza però con la straordinaria capacità delle economie di mercato – che Marx riconosceva - di produrre una quantità crescente, straripante, di beni di consumo[3]. Sappiamo che la crescita del PIL delle nazioni comincia poco prima del XIX secolo proprio col capitalismo, prima le economie erano per lo più stagnanti. Marx lo dice nella prima riga di Das Kapital:

 

Der Reichtum der Gesellschaften, in welchen kapitalistische Produktionsweise herrscht, erscheint als eine «ungeheure Warensammlung».

La ricchezza di quelle società in cui prevale il modo di produzione capitalista, si manifesta come una «immensa accumulazione di merci».

 

Certo, la ricchezza (Reichtum) è costituita non esattamente da beni di consumo (dove per consumo si intende: goderne) ma da merci (Waren), ovvero da oggetti che si scambiano. In effetti, una merce è, semplicemente, un oggetto che si scambia con un altro oggetto.

             Nelle società dove si pratica il baratto, se scambio trenta uova contro cinquanta mele, mettiamo, quelle uova e quelle mele sono già delle merci. Anche le società più primitive hanno forme di mercato, di scambio economico, forme di moneta… Gli antropologi[4] distinguono accuratamente lo scambio commerciale delle società primitive dallo scambio dei doni in queste società, che è un circuito del tutto diverso[5].

             L’economia detta classica, tra cui Marx, si interrogava all’epoca soprattutto sul valore economico, che legava alla produzione di beni (ovvero di merci). Non ci si occupava dell’utilità. All’epoca, in effetti, si dava per scontato che si producessero beni sicuramente utili, che insomma chiunque avrebbe voluto avere. Per Marx il valore d’uso di capi di vestiario andava da sé. Da qui l’idea che il valore di una merce (di un bene) venisse dal lavoro, la famosa teoria (che ha tutto un retroterra metafisico) del valore-lavoro. Oggi sappiamo che non è così. Posso far lavorare centinaia di operai per produrre quintali di pantaloni, ma se questi pantaloni risultano fuori moda, non se li comprerà nessuno, il loro valore sarà quasi eguale a zero. Il capitalismo non è solo un modo di produzione, ma è anche un modo di offrire beni desiderabili, e di rendere desiderabili certi beni. Il marketing è parte integrante del capitalismo.

             All’inverso, posso mettere sul mercato beni di grande valore che non hanno richiesto alcun lavoro. Ad esempio, se ho ereditato un casale costruito nel XV secolo, con una vista incantevole in Toscana, posso venderlo o affittarlo a caro prezzo. Il valore di quel casale non dipende certo dal lavoro che occorse sei secoli fa, ma dal fatto che quel vecchio edificio è desiderabile. Al contrario, quei pantaloni fuori moda che hanno richiesto tanto lavoro, non sono vendibili perché non sono desiderabili.  

             Tutto il pensiero economico moderno, post-classico, si basa sulla categoria del desiderio. Già secondo Hobbes, «felicity is a continual progress of the desire from one object to another, the attaining of the former being still but the way to the latter» (Leviatano): descrive la felicità come l’economia (che consiste nel progredire da un desiderio all’altro), la quale allora non era ancora capitalista. E il desiderio implica un altro concetto strettamente correlato: quello di mancanza. 

             Gli economisti classici si chiedevano che cosa ci si guadagnasse in uno scambio, dato che per definizione si scambiano cose con eguale valore economico. Trovavano difficile la risposta perché non si rendevano conto che nell’economia è sempre una faccenda di desiderio, e i desideri sono sempre soggettivi, particolari. Se vendo una certa quantità di mele contro una certa quantità di uova, è perché personalmente manco di uova, mentre ho un eccesso di mele – come aveva già ben visto Aristotele. Uno scambia sempre cose di cui quest’uno manca con cose che quest’uno ha in eccesso. Mancanza ed eccesso sono i due poli la cui tensione produce scambio economico. Il danaro è sempre qualcosa che abbiamo in eccesso (anche se ne abbiamo ben poco) perché non possiamo (o non vogliamo) consumarlo: più ho di questo eccesso, più ho possibilità di procurarmi cose di cui manco (perché le desidero).

             In verità quando la moneta si incarnava, per dir così, in metalli – oro, argento, rame – questo carattere di eccessività della moneta era velato dal fatto che questi metalli potevano essere anche oggetti d’uso. Erano monete velate. Così secoli fa si convertiva l’oro in collane, bracciali o altri monili che indossavano le mogli a passeggio – all’epoca le donne indossavano danaro.

             Ma che la moneta possa essere nulla di prezioso, anzi, qualcosa che non ha alcun uso (a parte quello di essere scambiata) lo sapevano anche i pellirosse americani. Difatti usavano come moneta le conchiglie, moneta che adottarono tanti coloni americani prima di inventare il dollaro[6].

             La famosa legge di Gresham recita: «la moneta cattiva scaccia sempre la moneta buona»[7]. Commenta Galbraith: «È forse l’unica legge economica che non sia stata mai seriamente contestata, per l’eccellente ragione che non ha mai avuto un’eccezione di rilievo»[8]. Questo perché la moneta era costituita da metalli di qualche valore in sé: allora si preferiva tenere le monete d’oro in casa e non spenderle, mentre si mettevano in circolazione quelle di materiale più vile. Insomma, per “moneta buona” si intendeva un mezzo di scambio che aveva anche un valore d’uso in sé, per “moneta cattiva” un oggetto che in sé non valeva niente, come le conchiglie degli indiani. Fino al XVIII secolo, negli Stati Uniti, infatti divennero monete il tabacco (in Virginia e in Maryland), il riso, il bestiame, il bourbon e il brandy… tutte cose che si potevano anche consumare.

             Oggi si stanno sviluppando altre monete parallele, le criptovalute. I bitcoins sono i più noti. Potrebbero prendere il posto delle monete garantite dalle Banche Centrali.

             Insomma, se è esatta la legge di Gresham, allora possiamo dire che la moneta è destinata a diventare sempre più cattiva. La moneta puramente virtuale di oggi è quindi la moneta peggiore che possa esistere, ma proprio per questo risulterà vincente. Le banconote possono essere ancora usate per accendere il camino o come carta igienica, ma cosa fare di numeri in un computer? Nulla, sono puro valore di scambio. La peggiore moneta che esista, quindi vera moneta.

             Il mitico legislatore di Sparta, Licurgo, aveva abolito gli scambi in oro e in argento, e aveva imposto il pelanor, una moneta di ferro inservibile perché troppo fragile e ingombrante[9]. La moneta di oggi è un pelanor leggerissimo.

 

 

             Trovo strano che molti psicoanalisti, in particolare lacaniani, non colgano il fatto che tutta l’economia si fondi sullo scambio di oggetti desiderabili, e preferiscano invece rifarsi a concetti marxisti che non ne tengono conto. Del resto, in economia si parla di offerta (supply) e domanda (demand), concetti in stretta connessione con il desiderio. Tanto più che la domanda non sempre precede l’offerta: molto spesso, le aziende offrono prodotti del tutto nuovi che accendono domande nuove, dato che il desiderio si esprime in domande sempre diverse, si desidera sempre altro. L’offerta rilancia il desiderio, lo stuzzica. Perciò le società industriali di oggi sono animate e tormentate dal desiderio, che è la benzina della ricchezza (perché è il desiderio, e quindi il senso della mancanza a cui si riferiva Hobbes, che ci porta a produrre sempre di più, o ad acquisire sempre più prodotti fatti da altri). Nelle società primitive di cui parla Marshall Sahlins[10] invece si cessa di produrre quando i loro membri hanno tutti i beni che a loro paiono necessari, insomma a un certo punto smettono di lavorare, e si dedicano a danze religiose. Sono società che non si basano sul desiderio, non sono assillate dalla mancanza, piuttosto tendono all’omeostasi. Il capitalismo ha spezzato la tendenza omeostatica delle società passate attraverso quell’ariete che è l’illimitatezza del desiderio. Il capitalismo si basa tutto sulla riproduzione senza fine di mancanze. Claude Lévi-Strauss aveva detto che le società moderne (capitaliste) sono calde, mentre quelle che puntano all’omeostasi sono fredde[11]. Il calore è lo scatenarsi del desiderio, che produce differenze – e ineguaglianze.

             L’economia propriamente detta quindi si interessa solo allo scambio. Non può tener conto del valore d’uso per una ragione molto semplice: che l’uso di un bene varia da persona e persona. Molti beni sono acquisiti per non essere usati…. Ad esempio, ogni intellettuale sa che nella vita comprerà sempre più libri di quanti ne possa leggere: tenerne tanti intonsi in libreria è già un uso. Un mio analizzante aveva comprato oltre cento paia di scarpe femminili: non era per farle calzare da donne, ma per eccitarsi sessualmente guardandole. Era un feticista.

 

 

  1. 2.      Capitalismo come religione?

 

             Oggi è in auge una teoria che chiamerei fideistica del capitalismo. Essa deriva da un frammento postumo di Walter Benjamin, Capitalismo come religione[12]. Ma già Marx articolava la sua critica al capitalismo partendo essenzialmente dalla critica di Feuerbach all’alienazione religiosa; ovvero, il capitalismo sarebbe la forma finale, materialista, della fede nella divinità. Non a caso Marx ha parlato di feticcio della merce, che all’epoca non evocava il feticismo sessuale (bisognerà aspettare il 1887, quando Alfred Binet introdurrà questo termine per descrivere la perversione sessuale) ma una forma considerata allora bassa, degradata, di fede religiosa. Per Marx il capitalismo era una divinizzazione della merce, quindi il capitalismo era una sorta di imbarbarimento dell’ebraismo e del cristianesimo.

             Pensatori di oggi riprendono questa critica al capitalismo in chiave religiosa facendo notare che il capitalismo si basa sul danaro, su qualcosa che – lo abbiamo visto – è sempre meno materiale. Ma oggi sappiamo che credere che un qualsiasi oggetto – anche banconote di carta – abbia più valore di numeri in un computer è illusione analoga a quella che ha fatto pensare, per secoli, che l’oro o l’argento fossero vera moneta. In realtà, quello che faceva credere che l’oro, per esempio, fosse il valore vero di ogni moneta (il gold standard, inventato da Ricardo) era il fatto che tutti – si supponeva – desiderassero avere dell’oro. La moneta è tale perché è un oggetto che tutti desiderano. Ma non ci si rendeva conto del fatto che tutti desideravano avere oro non perché fosse oro, ma perché… era moneta. L’oro era desiderato perché, essendo usato come moneta, era desiderato da tutti. Un circolo vizioso. La moneta – che oggi ci si rivela per quello che è sempre stata: numeri[13] – è un bene desiderato da tutti perché essa permette di essere scambiata con qualsiasi oggetto di desiderio. 

             (Si dirà che non tutti desiderano il danaro, né acquisire beni. Ci sono sempre stati dei filantropi, come Francesco d’Assisi o Ludwig Wittgenstein, i quali hanno dato via tutti i propri beni ai poveri. Bisogna però dire che, dando danaro ai poveri, hanno riconosciuto che costoro desiderano il danaro – e quindi i beni, anche se quelli essenziali. I filantropi spostano il desiderio del danaro sugli altri, sui beneficiati, non lo cancellano dalla comunità. Trasferiscono danaro, non lo annullano.)

             Marx aveva quindi ragione nel dire che il danaro è una merce, ma bisogna aggiungere: una merce molto particolare, che si scambia sempre e non si consuma mai, come le sardine dell’ebreo. Se la si consuma, cessa di essere merce. Secondo molti marxisti, ogni merce è in ultima istanza moneta. Ma sappiamo che questo non è vero: le merci di solito si consumano. Anzi, gli stessi anti-capitalisti accusano la società capitalista di essere consumista. Ovvero, il capitalismo non si limita ad accumulare merci, che potrebbero restare invendute, ma, siccome sono oggetti da scambiare, le vende pure. Come si vendono i libri che restano non letti sugli scaffali.

             Di fatto oggi molto anti-capitalismo esprime una denuncia contraddittoria: da una parte afferma che il capitalismo non mira al valore d’uso ma a quello di scambio, dall’altra afferma che esso crea consumismo, ovvero impone usi di oggetti di ogni tipo. Il capitalismo viene cioè denunciato doppiamente per due supposte qualità opposte: da una parte come pura speculazione, dall’altra però anche come una macchina di produzione iperbolica di oggetti che gli intellettuali considerano inutili, fatui.

             Tanti discorsi – che, base Francoforte[14], si ripetono tels quels da decenni – si articolano come denuncia del «consumismo», dei «falsi oggetti di consumo», degli «pseudo-desideri» indotti artificialmente dalla pubblicità e dal mercato, dei «desideri indotti», dei «falsi bisogni» mercificati, dello «stornare i veri bisogni proponendo oggetti seduttivi», ecc. Il capitalismo ci offrirebbe pseudo-soddisfazioni che ci distoglierebbero dalla vera Soddisfazione. Questa Soddisfazione autentica resta però sempre non dicibile, velata, nel discorso “critico” (se lo fosse, rischierebbe di ridursi essa stessa a oggetto… e magari di essere messa in vendita).

Considero questi discorsi di denuncia dei godimenti materiali a un tempo ingenui e ipocriti. Ingenui perché condannano come consumismo l’acquisizione di oggetti che a noi intellettuali non piacciono: se io compro l’Opera Omnia di Karl Marx o di Slavoj Žižek, allora si tratta di un atto autentico; se invece il mio vicino compra la collezione di tutte le canzoni di Sanremo, allora è consumismo. Consumismo alienato è sempre i desideri e godimenti degli altri, non miei – è una condanna egocentrica, direi anzi classista. Ma queste esecrazioni ormai di routine sono anche ipocrite perché di solito chi le fa certo non distribuisce i propri beni materiali ai poveri, anzi ci tiene a consumare le proprie sardine, e non quelle putride. Il “consumismo buono” non è meno consumista di quello cattivo. La critica post-moderna, anche se si vuole materialista, di fatto eredita la tradizione savonarolesca dell’Anatema spirituale contro i beni frivoli del Secolo. Per i moralizzatori religiosi il consumo dei beni frivoli portava all’inferno, per i moralizzatori hegelo-marxisti di oggi il consumo frivolo produce quell’inferno che sarebbe la società in cui viviamo.

             Che la desiderabilità di un bene crei mercato attorno a sé è dimostrato continuamente dalla storia. Quando uno stato esclude dal mercato certi beni o servizi – ad esempio stupefacenti, alcool, aborti, gioco d’azzardo, armi, prostituzione… - viene a crearsi subito un mercato nero, ovvero un mercato illegale di questi beni e servizi i quali, anche se proibiti, restano desiderabili. I tentativi di certi stati moderni e virtuosi di criminalizzare la prostituzione, ad esempio, porteranno semplicemente alla creazione di un mercato nero, illegale, dei rapporti sessuali a pagamento.

 

 

  1. 3.      Il danaro: scommessa e rischio

 

             Ma torniamo alla teoria, più sofisticata, secondo cui il capitalismo si basa sulla fede. Creditum, il credito, si fa notare, viene dal latino credere. Ergo: l’economia capitalista si basa su un atto di fede.

             Joseph Schumpeter aveva detto che il danaro è credito. È vero. Se in cambio di trenta uova do una banconota, mettiamo 20 euro, saldo il mio debito, perché chi detiene la banconota è in credito non più con me che ho preso le uova, bensì con la Banca Centrale Europea, che stampa banconote in euro. Un tempo, su molte banconote (anche sulla vecchia lira) era scritto: «Pagabile a vista al portatore». Ma pagabile con che?

             Perché a nessuno verrebbe in mente di andare da Christine Lagarde a Francoforte per farsi pagare la banconota in euro? Perché la BCE potrebbe pagarmi solo con altre banconote di un’altra moneta. Le banconote in euro che io detengo sono il corrispettivo numerario dell’intera potenzialità di scambio di tutti i paesi che hanno l’euro come moneta. Se ho 20 euro in tasca, di fatto detengo una certa frazione del potere di scambio dei paesi dell’eurozona, frazione che al limite potrei calcolare (se conoscessi la somma dell’intera massa monetaria in circolazione). Alla base del valore di una moneta non c’è l’oro o qualche altro metallo, e nemmeno il lavoro di una nazione, ma la possibilità o potenza di scambiare. È vero che la moneta è credito, ma non è credito nei confronti di una persona o di un’istituzione: è il credito, la fiducia, che ciascuno ha nella forza economica dei paesi che battono quella moneta, ovvero nella loro capacità di scambio.

             Come ho detto, si è ricchi se si ha una grande possibilità di scambiare, si è poveri se si ha una scarsa capacità di scambiare. Se un clan vive in perfetta autarchia, consumando solo ciò che esso produce, e produce tutto ciò di cui ha bisogno senza mai scambiare all’esterno (come sognava Licurgo per Sparta), questo clan sarà anche felice, ma economicamente inesistente. L’economia comincia sempre con la mancanza o il desiderio di altro. Insomma, si fonda tutta sulla perennità dell’insoddisfazione.

             Lo scambio mercantile quindi – userò i termini greci che piacciono molto ai filosofi – non si basa tanto sulla π?στις, sulla credenza o fiducia (assimilabile alla fede religiosa), quanto sulla δ?ναμις, sulla potenza o potere. Sulla potenza che ha un paese di scambiare beni (merci quindi) con altri. Ma questa δ?ναμις non è solo una questione di fede, occorre sullo sfondo dell’εν?ργεια [15]: lo scambio. E si scambia perché si manca sempre di qualche cosa, che quindi si desidera.

             È falso dunque dire che il denaro è un credito che si fonda soltanto su sé stesso: si fonda sulla potenza o potere di scambio. Certo lo scambio non è una cosa tangibile, è un atto, che però deve continuamente rinnovarsi. Per cui, in termini aristotelici, diciamo che il denaro scommette sulla dynamis che si compia un adeguato numero di energheia di scambio.

             Insomma, la moneta si basa sulla scommessa e sul rischio. Se mi faccio pagare in euro, scommetto sul fatto che la δ?ναμις scambista dei paesi dell’eurozona si manifesti nell’εν?ργεια degli scambi. E rischiare non è aver fede, anzi, direi che si ha fede proprio quando non si vuole più rischiare (quando Pascal[16] cercò di dimostrare che è più conveniente credere in Dio che non credervi, raccomandava la fede come minimo rischio). Direi che comincia l’economia quando, al posto della fede, si insinua il dubbio: «aiutati, che Dio ti aiuta!» Proprio perché non mi fido dell’altro, mi faccio pagare.

             E difatti, si rendono pubblici i dati del PIL e degli scambi commerciali mese per mese: se si vede che i paesi dell’eurozona scambiano meno, il valore dell’euro si abbasserà[17]. Allora si venderanno euro in cambio magari di dollari. In effetti, una moneta può screditarsi, perdere credito, fino a divenire carta straccia. L’inflazione non è altro che il discredito crescente di una moneta: l’εν?ργεια non conferma le promesse della δ?ναμις. Una Banca Centrale che stampa moneta inflazionata è screditata, perché la potenza di scambio di quel paese si è affievolita.

             Se dovessi trovare un corrispettivo del capitalismo, ovvero del mercato, lo cercherei nello strozzinaggio. Spesso l’usuraio si descrive come un filantropo, non sembra avere alcun senso di colpa, perché osa far credito a qualcuno a cui nessun altro – non certo una banca – farebbe mai credito. Ma proprio perché l’usuraio non ha fiducia nel suo cliente, gli impone tassi d’interesse altissimi. Un paese con una moneta inflazionata è di fatto un paese inaffidabile. Se vendiamo qualcosa a questo paese, ci comportiamo de facto da strozzini: chiediamo tantissimi loro soldi.

             Il danaro non si basa quindi su una fede di tipo religioso, ma è scommessa. Se accetto una banconota, scommetto sul fatto che qualche altro venditore la accetterà. Cosa non scontata. Quando si va in certi paesi economicamente disastrati, pochi accettano la moneta locale: devi pagare in monete forti (dollaro, euro, yuan). Accettare soldi è come scommettere, in una corsa di cavalli, sul cavallo in una corsa.

             Nell’economia propriamente detta non conta il godimento dei beni, abbiamo detto, ma questi godimenti sono sempre sullo sfondo di questa fenomenologia degli scambi. L’economia, anche quella capitalista, presuppone esseri desideranti, ma non si interroga sul perché questi esseri desiderino una cosa piuttosto che un’altra. Gli economisti dicono che si interessano non alle ragioni delle preferenze, ma alle «preferenze rivelate», ovvero a preferenze messe in atto. L’economia non si interroga sui motivi delle preferenze – perché una massa di persone preferisce comprare cocaina piuttosto che libri o viaggi in crociera…? – prende in considerazione e calcola le preferenze espresse, ovvero lo scambio agito. Lo scambio è atto, non fede, e scambio più o meno rischioso.

 

             È vero che non tutti preferiscono il danaro a qualsiasi altro tipo di pagamento. Nell’Italia del Sud, per esempio, ancor oggi, quando si offre del danaro a un conoscente per un lavoro fatto, capita che questi si offenda, o faccia finta di offendersi. Perché nella società del Sud ancor più del danaro importa la rete di relazioni amichevoli. Si aiutano gratis molte persone sperando che così, al momento opportuno, si possa chiedere loro qualche favore in cambio. Se pago qualcuno per un servizio, non sono più in debito con lui, la relazione di reciprocità è chiusa. In società dove invece è essenziale la rete di favori, è importante che le relazioni restino sempre aperte, che la possibilità di chiedere un favore all’altro non sia annullata dal pagamento in denaro. “Avere conoscenze” è non meno importante che “avere soldi”.

             Quindi, lo scambio mercantile non esaurisce tutte le forme di scambio che si attuano in una società, soprattutto se questa società è debolmente capitalista. Lévi-Strauss aveva detto che alla base di ogni società c’è lo scambio di doni, di parole e di donne. Non scambio mercantile, ma sempre scambio.

 

 

  1. 4.      Scambio e grazia

 

             Qualcuno riporta questo desiderio fondamentale alla base dell’economia (ma quale costruzione umana non ha alla base il desiderio?) alla volontà di potenza. Lo diceva già Hobbes: «Pongo in primo luogo come inclinazione generale di tutta l’umanità un desiderio perpetuo e ininterrotto di acquistare potere su potere che cessa soltanto con la morte» (Leviatano I, XI). In effetti, accumulare denaro è accumulare potere di scambiare. E per questa ragione il capitalismo aborrisce l’avarizia. L’avaro è chi accumula beni che non scambia, impoverendo quindi l’intero paese. Il capitalismo scialacqua, ma il figliol prodigo non tornerà mai dal padre.

 

             Questa potenza del desiderio, in quanto contrapposto al godimento, giunge fino alla società dell’Occidente globalizzato di oggi, «che per molti aspetti può essere definita la realizzazione metodica, capillare ed estensiva, della cultura del desiderio»[18]. Paradossalmente, le filosofie o le teorie che si oppongono alla società mercantile di oggi molto spesso fanno appello proprio al desiderio come sua alternativa! Deleuze e Guattari formularono lo slogan «il desiderio è nella sua essenza rivoluzionario»[19]. È rivoluzionario, però, nel senso della rivoluzione capitalista… Tutto il capitalismo si basa sullo scatenamento del desiderio illimitato. Insomma, molte filosofie che vogliono opporsi radicalmente al mondo capitalista non fanno altro che esaltare quel che è alla base del capitalismo stesso. Pensano di essere anti-capitaliste radicalizzando il nichilismo insito nel mercato.

             In effetti, colpisce l’ambivalenza (di solito non riconosciuta) delle correnti critiche neo-marxiste o post-moderne nei confronti del capitalismo. Il capitalismo viene in effetti criticato per il suo carattere anarchico e nichilista, dato che il capitalismo annulla qualsiasi valore trascendente, tutto è scambio, «tutto ha un prezzo, e nulla ha valore» (parafrasi comune della frase di Oscar Wilde, secondo cui il cinico «di tutto conosce il prezzo, di niente il valore»[20]). Ora, si dà il caso che questo pensiero anti-capitalista molto spesso si proclami anarchico e nichilista. La società mercantile non pone nessuna base certa e fissa al valore, che dipende solo dalle alee dello scambio[21]; ma anche questa filosofia anti-capitalista rigetta ogni fondamento al valore, inteso questo nel senso filosofico ampio. Questi filosofi vogliono trovare una fede infondata alla base del capitalismo, perché criticano ogni fede in quanto infondata: ma di fatto del capitalismo trovano solo l’infondatezza, e così mascherano quanto il loro pensiero sia a loro insaputa rampollo e speculum del capitalismo.

             Non vedono la rottura del capitalismo con la teologia, perché vogliono mettere questa rottura con la teologia dalla parte del loro anti-capitalismo, ma così non vedono la propria profonda consonanza a quella che chiamano la società neoliberale di oggi. È come se la società capitalista in cui questi filosofi vivono fosse il loro specchio: vedono realizzato il proprio nichilismo, ma non vogliono riconoscerlo. O meglio, lo riconoscono, ma lo negano lo stesso. Abbiamo detto che lo speculatore appare ai loro occhi lo specchio del capitalismo stesso: ma di fatto lo speculatore è il loro stesso specchio in quanto filosofi speculativi. Abbiamo detto che lo speculatore non produce beni né gode di essi, semplicemente approfitta di una mera differenza di prezzo. Lo speculatore è un differenzialista, proprio come dicono di essere questi filosofi: approfitta di una differenza senza fondamento. La speculazione di questi filosofi è anch’essa speculativa nel senso finanziario del termine, dato che giocano su una differenza tra il nichilismo capitalista e il loro proprio nichilismo: lucrano sull’anarchia capitalista facendosene sua immagine speculare, e tra la cosa e il suo specchio sarebbe tutta la differenza. Queste filosofie sono immagini speculari del mondo di oggi di cui non vogliono essere immagini speculari, ma sua demistificazione.

             Denunciano i presupposti religiosi del capitalismo (ma spesso loro stessi fanno appello al pensiero religioso di cui hanno gran rispetto), per dire che c’è già qualcosa di nichilistico e di anarchico nella religione stessa. In questo modo, questi filosofi pensano di vincere sui due tavoli: da una parte smitizzano il capitalismo facendone un fenomeno epigonico della fede religiosa, dall’altra smitizzano la religione vedendo in essa un fondo di nichilismo che il capitalismo metterebbe in atto. Insomma, il capitalismo sarebbe la verità, la rivelazione della religione. Religione e capitalismo si demistificherebbero reciprocamente, ma di fatto questa reciprocità esalta entrambi: facendo delle religioni dei capitalismi primitivi, danno loro una sostanzialità al di là della loro pretesa trascendentale, e facendo del capitalismo una religione purificata, gli danno una trascendentalità che in fondo lo nobilita. Il capitalismo è a sua volta l’immagine speculare ma rovesciata del nichilismo e del trascendentalismo di queste filosofie, che sono quindi più che mai religiose e più che mai capitaliste.

             Si sfugge a questo discorso puramente speculativo (nel doppio senso del termine) se si mette in rilievo, al contrario, la differenza tra fede religiosa e credito economico. Non c’è qui lo spazio per approfondire una filosofia delle religioni, tema colossale. Anche perché di religioni ce ne sono dei tipi più diversi, fino al punto che siamo tentati di escluderne alcune dalla “famiglia” delle religioni (come il buddhismo, il taoismo, il confucianesimo).

             Comunque, ogni senso del divino si basa su qualcosa che è il contrario dello scambio: la χ?ρις, la grazia. La kharis greca era originariamente il concedersi della donna al rapporto sessuale – un concedersi non mercenario. Il capitalismo sta alla fede religiosa come la prostituta sta alla moglie fedele. Le religioni che ci sono vicine si basano tutte su questo presupposto: che la divinità ci dà quel che ci dà graziosamente, gratis. Il rapporto con la potenza divina non può mai essere un rapporto di scambio; e se comincia a diventare tale, gli spiriti religiosi prontamente si ribellano. Così Lutero insorse contro il mercato delle indulgenze: è impensabile che Dio conceda qualcosa in cambio di danaro! Ma anche semplicemente in cambio di opere buone. Fare opere buone non è una moneta con cui si compra la Salvezza – è il nodo anti-capitalista del protestantesimo[22].

             Notiamo che quando paghi un fornitore, costui non ti dice mai «grazie», proprio perché c’è stato uno scambio che si suppone equo. Quando ringraziamo qualcuno, invece, è perché non diamo nulla in cambio dell’atto per cui ringraziamo.

             La divinità è tale perché ci dà senza chiederci nulla in cambio – per caritas[23], che significava amore. Quando il credente chiede una grazia a Dio, un miracolo, chiede qualcosa che Dio può dare solo gratuitamente. Gli ex-voto «Per grazia ricevuta» non sono un pagamento per la grazia ricevuta, ma un segno di gratitudine. Grazia, le grazie di una donna, concedere le proprie grazie, gratitudine, gratuità, carità… tutti concetti connessi, che dispiegano il rovescio dello scambio. Il senso religioso esprime quindi proprio una fuga dalla logica del mercato, ovvero dello scambio. È l’impulso propriamente caritatevole, donare senza reciprocità. In questo senso, ha una portata religiosa piuttosto la predicazione socialista, che sogna una società gratuita, graziosa, non più governata dal do ut des.

             Oggi è pura grazia anche fare figli, dato che i figli comportano solo spese, e quasi mai guadagni. Far figli, oggi, è puro spreco. Non li si può mettere a lavorare la terra, o a fare i servitori in casa, come si faceva un tempo. Ed è interessante che le teorie del capitale umano[24] si basino proprio, essenzialmente, su ciò che i genitori danno ai figli, in cambio… della soddisfazione dei figli stessi. Gli esseri umani sono di per sé un capitale più o meno alto, a partire però da un atto gratuito di dépense. Questo capitale è effetto grazioso e gratuito di quello spreco che si chiama amore.

 

 

  1. 5.      L’illusione del capitalismo come illusione

 

             Il voler fare del capitalismo una forma, anche se degradata (feticista), di credenza religiosa implica l’assunto che la religione è un’illusione. Ogni fede religiosa è illusoria. Facendo del capitalismo e del danaro un avatar della fede religiosa, si vuol dire nel fondo che il capitalismo si fonda su un’illusione. Anche le enormi realizzazioni materiali del capitalismo, che stanno modificando l’assetto biologico del pianeta (in senso anche molto negativo), sarebbero effetti di un’illusione. Non diversamente dal fatto che guerre di religione, crociate, persecuzioni degli eretici e delle streghe, furono effetti reali e tragici dell’illusione religiosa.

             Non credo che nella fede religiosa ci sia solo illusione. Ma non è questo l’argomento che qui mi interessa affrontare.

             Da qui l’idea che per liberarsi dal capitalismo basti liberarsi da un’illusione, cosa in teoria alquanto facile. Oggi è alquanto facile (non lo era in altri tempi) liberarsi di una fede religiosa: basta non crederci più, non andare in chiesa, in sinagoga, in moschea… Se è così facile non credere più nel capitalismo, il socialismo allora è alle porte! Ma questa facilità è mistificatoria. Anche perché il capitalismo è il gonfiamento iperbolico di società di mercato che sono sempre esistite, e la stessa moneta affonda le sue origini nella notte dei tempi, come abbiamo ricordato. Pensare che ci si liberi del capitalismo non credendoci più è come pensare che ci si liberi dell’uso dei mezzi di trasporto – dal cavallo fino all’aereo – non credendoci più… Certo, in teoria sarebbe facilissimo liberarsi delle proprie auto private: tutti dovremmo buttarle via allo stesso momento. In teoria potremmo vivere benissimo senza auto. Ma sappiamo anche che la cosa non è così facile.

             Insomma, credere che il capitalismo si basi su un’illusione, è la più tenace illusione di parte del pensiero moderno.

             La verità è che il capitalismo, la moneta, il mercato, non sono effetti della nostra fede in essi, ma si basano sulla scommessa che facciamo tutti sull’interminabilità del desiderio, nostro e altrui. Ci fidiamo del perpetuarsi dell’insoddisfazione degli altri, che quindi produrranno sempre di più eccedenti.

             Che il danaro sia un’illusione, è un’opinione diffusa anche tra la gente comune. È quasi un cliché. «Che valore può esserci in un pezzo di carta stampata?», si dice con aria compunta. Credere di essere profondi quando si fa notare che il danaro è solo carta straccia è una delle più diffuse imbecillità del senso comune.

             In realtà, come tutti sappiamo per altri versi, il danaro è una delle cose più reali che esista. Provate a vivere senza danaro, e vi renderete conto se non è reale! Meno denaro si ha, più esso diventa reale. Solo un ricco sfondato può illudersi di pensare che il danaro è un’illusione.

             Perché allora tutta questa pertinacia, anche filosofica, nel negare realtà al danaro, nel farne l’effetto di un’illusione? E mutatis mutandis, nel fare del capitalismo stesso l’effetto di un’illusione fideistica?

             Credo che alla base di questa demistificazione del denaro – che a mio avviso è una delle massime mistificazioni – c’è una filosofia non detta, che si annida nelle pieghe del discorso contemporaneo, e che siamo tentati di far risalire a Rousseau. L’idea cioè che è autentico – e per certi versi buono e santo – solo ciò che è naturale. Siccome il danaro è una delle cose più culturali che esista, esso viene investito massicciamente dalla condanna rousseauiana di tutto ciò che poi è stato chiamato alienazione culturale. Religione e danaro sarebbero le principali costruzioni sociali che sarebbe tempo di eliminare per tornare a una società “vera”, cioè naturale. Un discorso analogo viene fatto per il matrimonio – che andrebbe cancellato a favore della spontaneità senza lacci dell’incontro sessuale e dei sentimenti di paternità e maternità -, e dell’apparato poliziesco e giudiziario – che risulterebbe superfluo in una società in cui tutti si sentono fratelli e non si fanno del male reciproco.

             Ma ancor prima di Rousseau, con il movimento dei cinici si era affermata nella Grecia antica l’idea che il filosofo dovesse far da modello di una vita sociale dis-alienata (diremmo oggi), ovvero di una vita da cani, letteralmente, da cui κυνικ?ς, cinico. Intendendo con questo non necessariamente una vita misera come quella di Diogene, ma una vita naturale. I cani non si uccidono tra loro, non scambiano denaro, non obbediscono a leggi, fanno sesso liberamente con chi vogliono…  Per un forte filone del pensiero occidentale il cane è la verità dell’uomo (forse per questa ragione i cani ci sono tanto cari: li consideriamo nel fondo animali più umani degli esseri umani.) Ancor prima della rielaborazione rousseauiana, l’Occidente è stato sempre attraversato da un ideale cinico, da un rifiuto dissacrante della vita sociale, della Kultur, come vincolo in fin dei conti incomprensibile. Possiamo accettare i vincoli naturali, non quelli culturali. Si può accettare che la natura ci infligga terremoti o tzunami, non il fatto che chi non abbia danaro rischi di morire di fame.

             Tutto ciò implica una divisione ferrea tra natura e cultura, tra φ?σις e κοινων?α, a cui non credo[25].

             Al fondo, c’è l’idea che gli esseri umani debbano essere vincolati solo dalla natura, non da altri esseri umani, l’idea che, in relazione ai propri simili, gli umani nascano liberi. Se non lo sono, è perché è avvenuto un processo storico di alienazione, di perdita di verità del sociale. Le religioni, i sistemi giuridici, gli eserciti, le burocrazie, la proprietà privata, il danaro, il commercio… sono vincoli che gli stessi esseri umani hanno assurdamente creato, e che vanno demoliti. Non è ammissibile che un essere umano sia di ostacolo, di scandalo – σκ?νδαλον, laccio - a un altro essere umano. Tutto il socialismo vuole eliminare la scandalosità dell’altro.

             Non è il modo in cui guardo alla società e alla storia, purtroppo. Di fatto gli altri ci sono molto utili: producono vestiti che altrimenti mi dovrei confezionare io, mi danno cibo e spesso lo cucinano per me, mi trasportano su autobus, treni e aerei, mi forniscono buoni libri da leggere e bei film da vedere… La società autarchica in cui io e i miei familiari producessimo tutto da noi – una società senza scambi e senza denaro – sarebbe un incubo, per me. Ogni tanto qualcuno prova a costruire delle comuni autarchiche, tipo kibbutz israeliani, ma non hanno lunga vita. Prima o poi a una comunità autosufficiente manca dell’altro.

             In cambio di tutti questi servizi, però, gli altri ci impongono allo stesso tempo vincoli scandalosi, di cui lo scambio attraverso il danaro è uno degli aspetti. Gli altri mi impongono di lavorare, per dirne una, e non è detto che il lavoro che trovo sia proprio quello che piacerebbe a me. Oggi, per esempio, mi impongono di portare una mascherina quando cammino per strada. Gli altri, la koinonia, sono il paradiso e l’inferno, mi rendono libero e mi asserviscono, mi danno beni e me li sottraggono, mi identificano e mi alienano. Gli altri con cui devo convivere sono il mio soccorso e il mio tiranno, viviamo tutti in una fraterna tirannia.

             In questo quadro, non trovo affatto scandaloso che ciò che l’uomo costruisce assuma la perentorietà di una forza di natura. Ovvero, le società umane costruiscono del reale. Di questo reale, benedetto o maledetto che sia, fa parte il danaro, e ciò che esso implica, lo scambio di oggetti desiderabili.

             L’essere umano produce reale, e non perché si aliena. Si pensi alla matematica. Secondo Wittgenstein[26], essa non è altro che un gioco linguistico, non dice nulla del mondo. Eppure, lo sappiamo, le verità matematiche – implicazioni di questa invenzione umana – sono ancora più certe, inevitabili, tassative, delle verità naturali. «La matematica non è un’opinione», mentre anche in fisica ci sono molte opinioni. La matematica non riflette la necessità del mondo, ma la necessità logica, che è prodotto della mente umana.

             Si pensi alle geometrie non-euclidee. A un certo punto dei matematici ottocenteschi come Bolyai, Lobacevskij e Riemann si sono divertiti a cambiare gli assiomi su cui si fonda la geometria euclidea, e hanno creato altri “giochi” (geometrie ellittiche e iperboliche) non meno rigorosi e vincolanti del gioco euclideo. Poi è accaduto che Einstein usasse il gioco di Riemann per descrivere l’universo macrocosmico in cui viviamo; ma Riemann ha costruito la sua geometria prima di Einstein.

             Qualcuno dice, come Bertrand Russell, che la matematica descrive comunque oggetti reali. Ma cosa dire del gioco degli scacchi, per esempio? È una pura invenzione umana, che si basa su regole del tutto arbitrarie, che si potrebbero cambiare a ogni momento, inventando così nuovi giochi. Eppure le poche regole degli scacchi, che un bambino di sei anni può imparare, producono uno sterminato numero di teoremi, che vengono scoperti (sic) nel corso del tempo. Un gioco come gli scacchi crea un universo di possibilità quasi-infinito nel quale ogni giocatore di scacchi opera e che ha lo spessore del reale. Lo scambio mercantile non è diverso. Da un’economia basata sul baratto fino alle mostruose complessità del mercato finanziario di oggi, vi vedo una continuità, come negli scacchi c’è una continuità tra il gioco di principianti fino alla sofisticazione di Magnus Carlsen (attuale campione mondiale di scacchi) e di Deep Blue (uno dei più potenti programmi di scacchi). Lo so che sto dicendo eresie per una lunga tradizione di pensiero che considera il capitalismo come una discontinuità assoluta rispetto alle economie del passato (cosa in parte vera).

             Penso che nel baratto dei mercatini delle società più primitive ci sia in nuce Wall Street, così come in quelle società che hanno nomi di numeri fino a sette o otto (per numeri più alti, hanno solo il termine molti) c’è in nuce tutta la moderna matematica e la computer science. Il punto essenziale è aver inventato lo scambio e aver inventato i numeri, il resto infinito è corollario.

 

 

6.          Capitalismo e nichilismo

 

             La crescente astrazione della moneta viene interpretata come trionfo del nichilismo. La fine della parità del dollaro con l’oro, sancita dalla decisione del presidente Nixon nel 1971, viene interpretata da filosofi che sanno poco di economia come l’entrata nel nichilismo proprio perché alla base della moneta non c’è più alcun bene[27]. In realtà, la fine della parità del dollaro con l’oro, che assicurava scambi fissi tra tutte le monete, era stata una creazione della Bretton Woods Conference del 1944, un’invenzione di Keynes che andava contro il concetto di moneta così come lo abbiamo qui enucleato, e difatti questo sistema è durato solo 27 anni. Dopo di che si è tornati al nichilismo solito. I cambi fissi tra le monete sono insostenibili perché una moneta essenzialmente rappresenta il potenziale di scambi di un paese, e questo potenziale varia di giorno in giorno. Col crollo del sistema di Bretton Woods si è riconosciuta la natura stessa della moneta, che non si riferisce a una moneta forte né all’oro, ma alla dynamis degli scambi.

             In effetti, ai tempi nostri abbiamo preso solo atto del nichilismo che è intrinseco al concetto stesso di moneta e di danaro. Nella legge di Gresham (formulata nel XVI secolo, quindi in epoca certo non neoliberale) è già implicito il processo che porterà alla moneta peggiore, ovvero a quella immateriale di oggi. Ma è ingenuo pensare che alla base del danaro – quindi, della ricchezza e della povertà – non ci sia nulla, solo un atto di fede, una superstizione. Abbiamo visto che la base del danaro, dall’oro alle conchiglie dei pellirosse, è la potenza di scambiare. Non è solo l’atto (εν?ργεια) a creare potere, è anche la potenza, la δ?ναμις.

             In fondo, il mondo sociale è stato sempre nichilista; la sola differenza con il passato è che ora lo sappiamo o dovremmo saperlo. Abbiamo oggi il coraggio di ammettere il carattere di alienazione di ogni società, ovvero che gli esseri umani attraverso il simbolico producono del reale. Eppure ogni epoca ha avuto il suo nichilismo, ovvero la coscienza del carattere non-fondato, sfondato, delle pratiche sociali.

 

             Mi si dirà che questa confutazione del carattere religioso del capitalismo rivela il mio filo-capitalismo. Mi limito qui a dire che non sono anti-capitalista, ma nemmeno filo-capitalista. Il capitalismo ha i suoi lati positivi (la sua capacità di creare molta ricchezza, più di qualsiasi altro sistema a noi noto) e i suoi lati negativi, che tutti conosciamo. Ma quale sistema politico ed economico non ha i suoi lati positivi e negativi? E poi, positivi e negativi per chi?

             La storia del capitalismo, da poco più di due secoli a questa parte, è anche la storia di tutti i correttivi che sono stati apportati a esso: il welfare state, la democrazia politica, i sindacati, l’istruzione di base per tutti, il ruolo redistributivo dello stato, quella che in America chiamano affirmative action[28], ecc. ecc. La storia di ogni epoca è la storia della lotta di una società contro sé stessa, per cui il capitalismo è anche tutto l’anti-capitalismo che esso ha suscitato, e che è ormai indistricabile dal capitalismo stesso. Quella che tanti filosofi chiamano società neoliberale è anche inzuppata di elementi socialisti, e ciò che questi critici stigmatizzano come neoliberalismo è anche l’effetto di valori e forme di vita che questi critici da sempre promuovono. Viviamo in un mondo dominato dalle società capitaliste, di questo dobbiamo farcene una ragione. Ma queste società sono anche il frutto della critica, ormai secolare, al capitalismo. Il capitalismo si nutre di pensiero anti-capitalista.

             Oggi, molti intellettuali devono essere anti-capitalisti per farsi pienamente accettare dalle istituzioni culturali e accademiche che sono parte della società capitalista. Questa è una strategia vincente a cui ho rinunciato da tempo.

 

 

 



[1] Aristotele, Politica, Libro 1, A, 9, 1257a.

 

[2] Aristotele, Politica, Libro 1, A 11; 1259a 9-18.

[3]« Solo la borghesia ha dimostrato che cosa l'attività umana può produrre. Essa ha realizzato meraviglie ben diverse dalle piramidi egizie, dagli acquedotti romani e dalle cattedrali gotiche, si è lanciata in ben altre avventure che non le migrazioni dei popoli e le crociate. » Marx, Il manifesto del partito comunista. Evidentemente Marx sottovalutava la capacità del capitalismo di produrre anche enormi migrazioni di popoli.

[4] M. Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, 2002. C. A. Gregory, Gifts and Commodities, Hau Books, 1982. C. A. Gregory, Savage money: the anthropology and politics of commodity exchange, Harwood Academic, 1997. F. Dupuy, Anthropologie économique, Armand Colin, 2008.

 

[5] In società dove il potere si basa sui doni, accumula potere chi dissipa beni in forma di doni, non chi li concentra attorno a sé.

[6] In verità, l’analogon indiano dei metalli preziosi erano le pelli di castoro. Ma pochi si facevano pagare direttamente in pelli di castoro. Questa pelle era come l’oro nel sistema del gold standard.

[7] Legge enunciata nel 1558 da Sir Thomas Gresham, ma in realtà l’aveva formulata già Nicole Oresme nel XIV° secolo.

[8] John Kenneth Galbraith, Soldi, Rizzoli, 1997, p. 14.

[9] Plutarco, Vita di Licurgo, 9, 1.                                     

 

[10] M. Sahlins (1972), L'economia dell'età della pietra. Scarsità e abbondanza nelle società primitive, Bompiani, 1980.

[11] C. Lévi-Strauss, Elogio dell’antropologia, in Razza e Storia e altri studi di antropologia, Einaudi, 1966.

[12] W. Benjamin, Capitalismo come religione, a cura di C. Salzani, melangolo, 2013.

 

[13] Se scambio 20 uova con 50 mele, possiamo dire che un uovo vale 2,5 mele. Numeri.

[14] Mi sono spesso chiesto se sia casuale il fatto che il filone filosofico così anti-capitalista di Adorno, Horkheimer, Marcuse, ecc., prenda il nome dalla città che oggi è sede della BCE e quindi capitale dell’intera economia del continente.

[15] Mi riferisco qui alla distinzione di Aristotele tra dynamis (potere, possibilità) ed energheia (atto).

[16] B. Pascal, Les pensées, par. 233.

[17] Ovviamente entrano altre variabili che complicano il gioco: i tassi di sconto stabiliti dalle Banche Centrali, il mercato dei titoli di stato, la preferenza per una certa moneta negli scambi internazionali, le svalutazioni competitive…. Ma ciò che alla fine decide è il Reichtum, la potenza di cambio di un paese.

[18] A. Tagliapietra, L’ultima delle dieci parole ovvero non desiderare in A. Tagliapietra & G. Ravasi, Non desiderare la donna e la roba d’altri, Il Mulino, 2010.

 

[19] Tema su cui si impernia L’Anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, 1975.

[20] O. Wilde, Lady Windemere’s Fan, 1892.

[21] Questo Ungrund, questo non-fondamento del valore economico nello scambio stesso, è stato riconosciuto dagli economisti stessi col termine “fluttuazione dei cambi”, sistema che vige tuttora.

[22] Che questa matrice squisitamente anti-scambista del protestantesimo sia divenuta poi una condizione dello spirito capitalista, ecco un formidabile paradosso che non a caso ha affascinato Max Weber, e che continua ad affascinarci, dato che non abbiamo ancora risposta.

[23] Etimologicamente deriva dal Proto-Indo-Europeo*kéh?ros, da *keh?- (desiderare, volere). Tutto ciò che è caro deriva dal desiderio.

[24] Mi riferisco alle teorie neo-liberali, entrate oggi nel linguaggio comune, della scuola di Chicago, in particolare alle elaborazioni di Jacob Mincer, Theodore Schultz, Gary Becker, James Heckman, John W. Kendrik. Si veda A. Di Martino, G. Fischetti, Il dirompente valore del capitale umano, Secop Edizioni, 2018. 

[25] Ho cercato di spiegare perché in: S. Benvenuto, Natura versus cultura. Una critica, «European Journal of Psychoanalysis», 25-VIII-2020, http://www.journal-psychoanalysis.eu/natura-versus-cultura-una-critica/

 

[26] È una delle tesi di fondo del Tractatus logico philosophicus, tr.it. di A.G. Conte, Einaudi, 1964.

[27] Tesi sostenuta da G. Agamben, Il capitalismo come religione, in Id. Creazione e anarchia, Neri Pozza 2017.

 

[28] Ovvero, le varie forme di incentivi e supporti dati alle etnie sfavorite, come i neri.

 

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