Flussi di Sergio Benvenuto

Mode culturali08/lug/2016


  1. 1.   Il fascino discreto dell'attualità

 

Oggi è abituale screditare una teoria, o un modo di pensare o di essere, o un movimento culturale che riscuotono successo, lasciando cadere con sussiego il giudizio "cose alla moda". Siccome con moda designiamo soprattutto il modo di vestirsi delle donne, qualifichiamo quelle idee di altrettanto futili dell'abbigliamento femminile. Sono forme destinate a non lasciare tracce profonde, a passar via alla svelta.

Eppure, di solito queste stesse persone che squalificano una forma culturale rivale come "solo moda" sono le prime che non esitano a rimproverare chi, per ingenuità o pigrizia, persiste a sostenere una forma culturale che ha perso smalto sociale: "ma come, corri ancora dietro a cose che non sono più nemmeno alla moda?" Evidentemente, quando siamo ostili a qualcosa, tutto depone a suo sfavore: sia il fatto che sia alla moda, sia il fatto che abbia cessato di esserlo.

Chi attacca una forma culturale come "solo moda" rivela un atteggiamento ambivalente nei confronti del glamour sociale: la denuncia rivela anche un'invidia. Questo perché la nostra società, anche nelle sue pretese culturali più "alte", vive un double bind, una contraddizione pratica: per un verso essa celebra ciò che viene considerato come valore non perituro - dall'altra essa però divinizza il mutamento, l'importanza del consenso e dell'adesione dei nostri contemporanei, l'innovazione che seduce.

La nostra cultura - persino quella scientifica - è stata permeata da due visioni del mondo sostanzialmente contraddittorie, eppure ambedue prevalenti: da una parte lo storicismo romantico, dall'altra il razionalismo a vocazione universalista.  Da una parte, dopo Hegel, Marx e Nietzsche, siamo tutti, chi più chi meno, storicisti, pensiamo cioè che la storia umana sia un fiume che scorre senza mai tornare indietro, e che non ci si può bagnare due volte nella stessa acqua storica. Dall'altra, dopo Kant, Russell e Einstein, siamo tutti, chi più chi meno, razionalisti, pensiamo cioè che quelle che contano sono le verità universali, permanenti, non soggette alle volubilità storiche. In questa contraddizione del nostro orizzonte culturale, il concetto quasi demoniaco di moda occupa una posizione di cerniera: si squalifica qualcosa perché predestinata ad una spregevole caducità, ma così la si circonfonde con la nostra inconfessata ammirazione per la caducità.

L'ombra della moda, il dubbio di aver seguito solo una moda, rode nell'intimo tutti coloro che si sentono storicamente o culturalmente perdenti. Quante persone, che alla fine degli anni '60 in Occidente si lasciarono coinvolgere intensamente dall'impegno politico di sinistra, e che magari hanno pagato un prezzo personale alto per questo, una volta che si sono ritrovate tra loro, venti o trent'anni dopo, si sono chieste sconcertate "ma i nostri ideali furono solo moda?" (così esclama un personaggio del film di Kasdan The Big Chill).  Un filosofo che si sente mille piedi al di sopra della cultura del momento soleva dire "certa gente si tormenta per vent'anni per un’idea alla moda!" Il sospetto che dietro le passioni più generose e coinvolgenti ci sia solo la sociologia della moda getta un'ombra eraclitea su tutti coloro che sentono le idee parmenidee per cui si sono battuti ormai discreditate, poco convincenti, vieux jeu.

Questo timore e tremore nei confronti della moda - dea in parte bendata, ma anche talvolta veggente - è un sintomo del rapporto sempre più drammatico che i nostri tempi hanno con la temporalità in generale. Indubbiamente c’è una crescente eracliteizzazione della nostra cultura, a cui si reagisce d’altro canto con un crescente culto delle tradizioni da una parte, e della scienza dall'altra. La tradizione - in particolare quella religiosa - appare come ciò che resta costante, permanente, attraverso i mutamenti storico-temporali. La tradizione - dai piatti locali che mangiamo sin dall’infanzia, fino a certe credenze mistiche o astrologiche, passando per i classici letterari della propria lingua - equivale a ciò che i greci antichi chiamarono Hestia, e i romani Vesta: il focolare stabile, il nucleo centrale fisso attorno a cui orbita la vita sia della famiglia che della Città. Invece la scienza cambia continuamente, crea prodotti tecnici sempre nuovi, ma pare cambiare in un solo senso, quello del progresso: pare dare quindi alla mutabilità la certezza di un senso non ambiguo. La moda quindi segna un momento che si oppone sia alla mancanza di mutamento (la tradizione, "i classici") sia al mutamento il cui senso appare rettilineo e orientato (la scienza, il progresso).

Quindi, se le tradizioni affermano l'istanza del passato, e la scienza afferma l'istanza del futuro, la moda ripropone l'istanza incerta, fragile ed effimera del presente. E siccome una antica tradizione filosofica (almeno da S. Agostino in poi) afferma che il passato e il futuro non esistono, mentre esiste realmente solo il presente, è anche forte la tentazione di pensare che in fin dei conti esista solo ciò che oggi funziona e vale - la moda. Per l'individualismo politico e sociologico esistono veramente solo gli individui, mentre le entità collettive sono solo nomi e astrazioni. A questo individualismo corrisponde l'attualismo moderno: esiste pienamente solo il presente. “Viviamo intensamente il presente!”, questo è il precetto morale oggi dominante in Occidente. Viviamo in una cultura che valorizza sempre più il mutamento e quindi la novità, l'instabilità, il dinamismo, la finitezza e l'eterno divenire di ogni cosa - oggi chiamiamo questa conversione all'effimero secolarizzazione. Pensiamo che i filosofi che rappresentano meglio la nostra epoca siano quelli che hanno tematizzato esplicitamente questo culto del divenire  in particolare Nietzsche, ma anche il pensiero storicista, certo pragmatismo americano e il post-moderno. Ma la temporalità e la finitezza mortale sono temi focali di molto pensiero esistenzialista, e in particolare di quello del primo Heidegger.

        Anche fuori della filosofia, la cultura oggi più influente è certamente quella americana, che più di ogni altra celebra, in modo entusiastico, l'innovazione, la corsa verso il progresso, il meliorismo. Per l'American dream tutto ciò che arriva a contrabbandarsi per nuovo e originale gode di un pregiudizio positivo inaugurale. E’ inevitabile quindi che la nostra cultura, una volta creato il termine moda per definire tutto ciò che è effimero e che non resiste nel tempo, si interroghi preoccupata sul segreto primato di tutto ciò che è effimero.

 

Quindi la moda nel senso letterale - mutevolezza nel modo di vestirsi, di arredare la casa, ecc. - pare esacerbare il mutamento fine a se stesso. Proprio perché diamo per scontato che la moda verrà presto soppiantata, essa può indicarci il paradigma stesso del mutare culturale. Caricatura della storicità, come ogni caricatura essa può rivelarci una verità che un ritratto troppo obiettivo non può darci: la verità su perché e come le idee e le credenze mutano. Proprio perché la moda è di moda, l'interrogarla può forse rivelarci qualcosa di essenziale sui modi o le leggi della nostra volubilità.

 

  1. 2.   Imitazione e distinzione

 

Nel nostro secolo molto si è scritto sulla moda, ma le teorie sistematiche, generali sulla moda sono scarse. Così il miglior lavoro sociologico sulla moda resta proprio uno dei primi: La moda di Georg Simmel[1]. Probabilmente è il solo tentativo di teoria generale e sistematica della moda. E' un saggio pubblicato nel 1895, ma non mi pare affatto passato di moda, almeno in Italia, a giudicare dalle sue numerose riedizioni recenti.

        Per Simmel la dinamica sociale della moda - in particolare, il suo carattere caduco - deriva da una tensione fondamentale insita nella condizione sociale dell'essere umano: da una parte la tendenza di ognuno di noi a imitare qualcun altro, dall'altra la tendenza di ognuno di noi a distinguersi dagli altri[2]. Indubbiamente alcuni di noi hanno più tendenza a imitare (quindi al conformismo) ed altri hanno più vocazione a distinguersi (quindi all'eccentricità o alla dissidenza). Ma perché ci sia flusso della moda occorre che ambedue gli impulsi contraddittori siano operativi. Insomma, per Simmel occorre postulare due impulsi radicali, a loro volta non sociologicamente prodotti - dato che invece sono causa di fenomeni sociali - e che possiamo quindi attribuire alla natura umana: l'homo sapiens sarebbe agitato da due istinti, l'uno che lo porta a imitare il suo simile, l'altro a distinguersi dal suo simile.

        Per Simmel la moda "non è altro che una delle forme di vita con le quali la tendenza all'eguaglianza sociale e quella alla differenziazione individuale e alla variazione si congiungono in un fare unitario"[3]. In ogni rapporto sociale agiscono due forze: una che porta, attraverso l'imitazione, a "fare società", a legarci tra noi - e l'altra che porta, attraverso la smania di distinguerci, a slegarci, a disfare il legame sociale. Ma la vita sociale muta in quanto l'equilibrio tra forza socializzante e forza desocializzante è sempre instabile, provvisorio. La moda è un esempio di come la socialità attuale includa sempre in qualche modo il proprio contrario, l'asocialità. Come diceva Kant, la società si fonda sull'ungesellige Geselligkeit, su un'insocievole socievolezza.

 

        Ordiniamo così i due insiemi di opposti la cui relazione dinamica produce moda:

 

        Imitazione                                         Distinzione

 

        Ereditarietà                              Variazione individuale

 

        Universalità                              Particolarità

 

        Sottomissione al gruppo           Dominio sul gruppo

 

        Durata                                      Mutabilità

 

        Quiete                                       Movimento

 

        Recettività                                         Produttività, Creatività

 

        Creazione                                 Decostruzione

 

        Selezione darwiniana               Mutazione darwiniana

 

        Identità                                     Differenza

 

        Estensità                                   Intensità

 

        Ripetizione                                Evento

 

        Senso                                        Accidente

 

        La moda è l'effetto del gioco dinamico tra queste due batterie di opposti. Ma la moda esiste solo nella misura in cui uno dei due poli non prevale definitivamente. La moda è l'effetto di un equilibrio sempre instabile tra le due tensioni. Da qui la parabola auto-distruttiva di ogni moda:

 

Ogni crescita la conduce alla morte perché elimina la diversità. La moda appartiene a quel tipo di fenomeni che tendono a un'estensione illimitata e a una realizzazione perfetta, ma che con il conseguimento di questa meta assoluta si contraddicono distruggendosi da sé.[4]

 

        Ora, l'impulso a imitare - e quindi a perdurare, a unificare, a eguagliare - si dirige non verso qualsiasi nostro vicino: imitiamo qualcuno che ci è, in un modo o nell'altro, superiore. Da qui il principio simmeliano secondo cui "le mode sono sempre mode di classe"[5]. Perché moda ci sia, occorre insomma che la società sia stratificata, che alcuni membri vengano se non altro percepiti da altri come loro inferiori o superiori - o semplicemente, come imitabili o non imitabili. E siccome l'inferiore imita il diretto superiore, e mai viceversa, la conclusione è evidente: "la moda, cioè la nuova moda, appartiene soltanto alle classi sociali superiori"[6].

        Ad esempio, alcune ragazze dell'élite sociale cominciano a portare una nuova gonna firmata da uno stilista di prestigio. Ben presto il bisogno di imitazione da parte delle ragazze dei ceti inferiori stimola l'offerta sul mercato di gonne simili a quelle firmate, ma più all'ingrosso. Così, di livello in livello, in poco tempo quel tipo di gonna cessa di diventare un mezzo di distinzione delle ragazze dei ceti più alti, dato che anche quelle più comuni ne portano imitazioni a buon mercato. Sarà giocoforza allora, per le ragazze delle élites, distinguersi ricorrendo ad altri tipi di gonna, che presto verranno a loro volta imitati, e così ci sarà un nuovo ciclo[7]. Processi del genere sono noti anche agli economisti, che devono contemplare nei loro calcoli e previsioni anche la figura dello snob: il consumatore che smette di comprare un prodotto quando il suo prezzo diventa troppo basso[8].

        Simmel trova una prova del fatto che la moda è un tratto specifico di società ricche di sperequazioni di classe nel paragone tra i cafri e i boscimani. I cafri, che hanno una stratificazione sociale molto articolata, conoscono un cambiamento abbastanza rapido della moda. Mentre tra i boscimani, dove non si sono formate classi sociali, non si è creata nessuna moda.

        Imitiamo quindi delle persone che, da noi percepite come superiori, ammiriamo e/o invidiamo? D'altra parte, nella sua faccia distintiva ogni moda manifesta disprezzo nei confronti dei concittadini da cui ci distinguiamo?  In altre parole, la moda implica un rapporto tra l’invidia sociale e il disprezzo sociale?

        Dice Simmel: "All'oggetto di invidia si è sempre nello stesso tempo più vicini e più lontani che al bene la cui mancanza ci lascia indifferenti"[9]. Insomma l'invidia crea legame sociale non malgrado la sua portata negativa, ma grazie ad essa. Posso invidiare qualcuno solo se lo ammiro, nella misura in cui ne faccio un mio ideale di comportamento o riuscita sociale. L'invidia segna la distanza tra me e il mio ideale di essere o di avere, quando vedo questo ideale realizzato nel mio prossimo. Ma la moda è anche un rimedio all'invidia, perché, imitando chi ammiro, divento o appaio come lui, mi auto-identifico come uno della sua stessa cerchia. La moda stempera l'invidia tra singoli annacquandola in un'inclusione sociologica.

 

 

  1. 3.   Aristocrazia dei marginali

 

        Spesso si contesta la tesi secondo cui i creatori di moda sono sempre membri delle classi sociali superiori. E' noto invece - suol dirsi - che molte mode, lanciate dagli snob, hanno origini basse. E il tipo stesso dell'abito maschile occidentale - che dall'Ottocento giunge fino a noi - deriva dal costume quacchero, non dall'aristocrazia delle corti, deriva cioè da un'élite religiosa per lo più derisa, come il nome stesso indica[10]. Molti slangs, parlate tipiche di alcuni sotto-gruppi sociali marginali, diventano "alla moda". Il classico argot francese era il linguaggio della malavita, di un gruppo sociale marginale. Di questo se ne rende conto lo stesso Simmel quando parla del demi-monde, cioè della malavita:

 

Che il demi-monde sia spesso il pioniere della nuova moda dipende dalla forma di vita sradicata che gli è propria. L'esistenza da paria che la società gli assegna, produce un odio aperto o latente verso tutto ciò che è legalizzato e confermato (...). Nel continuo aspirare verso nuove mode straordinarie, nella disinvoltura con cui si fa propria con entusiasmo la moda più opposta a quella adottata fino a quel momento, si manifesta una forma estetica dell'impulso di distruzione, che sembra proprio di tutte le esistenze da paria nella misura in cui intimamente non sono del tutto schiave[11].

 

La malavita e i marginali sono abitati da un impulso distruttivo perché nutrono un'intolleranza - che può avere origini sociologiche o squisitamente caratteriali - per l'ordine, la ripetizione, il senso univoco.

        Una ricerca storica accurata mostrerebbe però con ogni probabilità che questi tratti di classi inferiori o marginali diventano moda larga quando vengono adottati soprattutto da certe élites sociali. Simmel identifica infatti l’"origine esotica della moda". In certe società e in certe epoche un sotto-gruppo prende a prestito un tratto da una società del tutto estranea:

 

[La moda], provenendo dall'esterno, crea quella particolare e importante forma di socializzazione che compare nel riferimento comune ad un punto posto all'esterno. A volte sembra che gli elementi sociali, come gli assi ottici, convergano meglio in un punto non troppo vicino[12].

 

Quando l'uomo trendy adotta il jean, e così lo "lancia" nell'abbigliamento occidentale, prende in prestito un tratto esotico, fondamentalmente esterno rispetto alle classi della società di cui occupa il culmine[13]. Lo snob prende in prestito il tratto culturale non da chi è al basso della gerarchia ma da chi appare fuori della gerarchia – imitando il marginale, lo snob proclama la sua estraneità all’ordine sociale di cui occupa il vertice.

        Da decenni la moda parte per lo più dai giovani, dagli adolescenti, per irradiarsi tra i meno giovani. Altri sotto-gruppi incaricati, per così dire, di promuovere moda sono oggi gli artisti e in particolare i musicisti, soprattutto se giovani rock. All'interno della fascia sociale superiore, gli artisti oggi sono propositori di moda molto più efficaci e influenti di altre fasce superiori (come scrittori di successo, intellettuali e giornalisti di grido, imprenditori, generali, alti magistrati, leader politici, guru ideologici e religiosi). Ciò non implica affatto che la società moderna sia meno stratificata della società europea di un secolo fa, significa solo che è stratificata diversamente. Oggi la moda viene promossa dall'élite di quei livelli sociali che incarnano per l’insieme della società l'istanza dell'innovazione, la proiezione verso il futuro: nella nostra società è la freccia che punta al futuro a occupare il posto dell’ideale. Si è convinti che i giovani, i musicisti pop, i grandi sarti, i designers - e anche certi imprenditori - siano gli agenti principali dell'innovazione, vettori di cambiamento; essi sono quindi anche gli ispiratori principali delle mode. Essi incarnano l'istanza che chiamerei hermetica (da Hermes, divinità del cambiamento, opposto ad Hestia) della nostra società[14]. Ora, la moda sancisce una prevalenza del presente, ma dall'alto del futuro - fa prevalere un presente che scommette sul futuro.

        Ma d'altra parte giovani, artisti e musicisti sono simili ai paria, al demi-monde di Simmel: pur essendo parte della società, questi sotto-gruppi vengono interpretati come fuori-sistema, incarnazioni di ciò che si distingue dall'olon sociale. Proprio nella misura in cui si suppone che occupino un ruolo marginale, essi esercitano un influsso sociale determinante.

        Probabilmente i grandi agenti di moda sono "i marginali privilegiati" in quanto rappresentano, nell'insieme sociale, l'istanza della massima distinzione - ovvero artisti, donne, giovani, neri americani rappresentano nel sociale l'altro dal sociale, ciò che più si distingue dal sociale. Ma nella misura in cui queste incarnazioni della distinzione - cioè dell'altro-dal-sociale - vengono largamente imitate, esse fanno scattare allora una delle molle della moda: la continua, incessante, sempre ricominciata risocializzazione dell'asociale. La moda, basandosi sull'imitazione soprattutto di chi fa di tutto per distinguersi dagli altri, risocializza ciò che avrebbe potuto disgregare la società stessa. La moda è un processo attraverso cui la società si rinsalda reintegrando ciò che la disgrega.

 

 

  1. 4.   Luoghi comuni

 

        Qualcuno potrebbe però obiettare: "Quando vado a comprarmi una camicia, non penso a distinguermi, e nemmeno ad imitare. Sono costretto a scegliere nei negozi entro una varietà limitata di articoli. E in questo repertorio scelgo la camicia che mi piace di più, o che mi dispiace di meno."

        Ma perché quella camicia ti piace di più? Ti piace perché nella tua mente si è sedimentata tutta un'esperienza che ti porta ad associare a quel tipo di camicia un tipo di persone più o meno gradevoli, delle figure che tu vorresti essere[15]. In ultima istanza, ci piace un vestito o perché viene portato da una persona che idealizziamo, oppure perché ci distingue nettamente da altre persone che aborriamo  e secondo Simmel questa idealizzazione e questo aborrire sono intimamente implicati. Se mi facessi confezionare dei vestiti ad hoc, badando solo a ciò che mi piace mettere, senza mai imitare gli altri, raggiungerei forse una estrema distinzione: ma tutti i miei simili sarebbero pur sempre presenti virtualmente, come coloro da cui io dovrei assolutamente distinguermi[16].

        Simmel considera fatti di moda anche i luoghi comuni che molte persone ripetono: "Le banalità che corrono sulla bocca di tutti danno la più grande felicità: nel ripeterle, ciascuno ha la sensazione di mostrare una speciale saggezza che lo innalza al di sopra della massa". Anche i discorsi a base di cliché sono socialmente stratificati, come la moda. Il luogo comune, il commento trito e ritrito, appare tale solo a chi appartiene a un livello culturale superiore, mentre appare saggezza o arguzia al pubblico a cui chi profferisce il luogo comune partecipa. Come ogni cosa alla moda, le idées reçues - di cui Flaubert redasse il catalogo - presentano una doppia faccia, nobile e ignobile, alta e bassa: appare profonda dal lato che dà verso il basso, e appare superficiale dal lato che dà verso l'alto. In questo senso lo Sciocchezzaio di Flaubert è necessariamente effimero e relativo: cataloga ciò che risulta luogo comune agli occhi dell'élite in grado di leggere e apprezzare quel catalogo, ma che risulta Enciclopedia di verità per gli altri.

        Si prenda l'enorme successo dell'epiteto "politically correct", importato dagli Stati Uniti all'inizio degli anni 90. Esso venne inventato da frange conservatrici della cultura americana per deridere un tipo di intellettuale dei campus liberal e progressive, dove si è bene accetti - sia tra gli studenti che tra i docenti - se si dicono "le cose giuste", cioè se si mostra di essere dalla parte dei democrats, dei civil rights, ecc. Ben presto questo epiteto di dileggio è stato fatto proprio dalla parte più cool (cioè più nell’onda) di quei liberals progressisti e "sinistrorsi" contro cui era diretto. "Politically correct" è servito a differenziare, negli anni 90, dei gemelli ideologici: il liberal che si sente davvero raffinato, creativo, insomma parte della vera élite politico-culturale, ha cominciato a tacciare di "politicamente corretto" ogni atto o creazione dei liberals da lui considerati non raffinati né creativi. E' come se tra due donne che portano apparentemente la stessa gonna, quella appartenente all'élite tacciasse l'imitatrice di essere troppo correct, differenziandosi così come superiore rispetto a chi veste come lei. Ciò accade di frequente: agli occhi dell'élite, chi segue troppo la moda è considerato out, volgare, di cattivo gusto; far parte dell’élite, anche intellettuale, significa sapere di volta in volta fino a che punto occorre seguire la moda.

        Ma ben presto i liberals non d'élite hanno cominciato a imitare l'espressione politically correct, degradandone quindi il segno distintivo: col tempo esso è diventato un trito luogo comune. Oggi (2002), nelle cerchie che contano, tacciare un artista o un filosofo di "politicamente corretto" discredita ormai chi lancia l'epiteto. Mi è così capitato di ascoltare in un salotto uno dire: "Non mi aspettavo che tu fossi così politicamente corretto da accusare ancora qualcuno di essere 'politicamente corretto'!" E’ accaduto con questo qualificativo quel che accadde negli anni 70, quando era alla moda in Italia chiamare fascista chiunque non la pensasse come noi o si mostrasse opinionated (sicuro delle proprie idee). Col tempo, si fece un tale abuso di questo insulto, che il pronunciarlo divenne un boomerang per chi lo tirava fuori, e si prese a dire “solo un vero fascista può pubblicamente tacciare chi dissente da lui di fascista”.

        Qualcosa di simile è accaduto per la fortuna del sociologo Francesco Alberoni. Negli anni 70 gli articoli divulgativi di Alberoni, soprattutto sul Corriere della Sera, furono bene accetti all'élite politico-intellettuale, per cui era di bon ton citarli in una conversazione colta: si pensava che Alberoni fosse riuscito a far passare riflessioni non banali in uno strumento classico della superficialità come il quotidiano. Poi, col tempo, stile e argomenti di Alberoni hanno cominciato ad apparire ripetitivi e scontati: è diventato allora cool, negli anni 80, gettare l'anatema sulle "banalità di Alberoni", ribattezzato il Banal Grande. Ma presto prendersela con "il banale Alberoni" divenne un esercizio così comune e facile che il ricorrervi apparve esso stesso una banalità: oggi nulla di più banale che denunciare le banalità di Alberoni scritte sul Corriere della Sera del lunedì.

        In effetti c'è qualcosa di miracolosamente comico nell'ascoltare, in una conversazione pubblica, qualcuno sfoderare un trito luogo comune, del tipo "ma i politici sono tutti ladri!", oppure "gli americani sono superficiali!", oppure "i francesi, tutti saccenti e arroganti!", oppure "noi italiani siamo brava gente non razzista!", o "Sgarbi è davvero odioso!" e simili. Chi sta per pronunciare il commento mille volte ascoltato, assume una faccia e un'aria ispirate, come se la sua mente presa nel flusso della chiacchiera quotidiana si fermasse d'un tratto e rimirasse malinconicamente il fluire delle cose. Ci si aspetta chissà quale rivelazione, e invece esce qualcosa del tipo "ormai i giovani sono ignoranti, guardano solo la televisione!" oppure "il nostro Sud è stato rovinato dall'assistenzialismo di stato!"  Ci si chiede stupiti come chi pronunci frasi simili possa essere così sordo o cieco da non rendersi conto che quasi tutti la pensano oggi così. Ma di fatto queste frasi sono destinate ad apparire originali e profonde al tipo di pubblico a cui il tale è abituato a rivolgersi. Spesso egli non si sbaglia, il suo uditorio non legge nemmeno i giornali, per cui non conosce quel che, a un altro livello, è luogo comune.

        Con buona pace di Flaubert, dunque, non c'è il luogo comune in sé: il punto è dove, quando e a chi si enuncia un giudizio.

 

5. La moda è centrista

 

        Uno degli aspetti del dualismo di imitazione e distinzione, per Simmel, è la tensione tra socialismo e individualismo. In effetti, Simmel non aveva esperienza, come abbiamo oggi, dei sistemi politici democratici maturi. Oggi tutti pensiamo che una democrazia entri nella sua fase di maturità quando viene a prodursi un’alternanza tra governi di destra e di sinistra, tra forze politiche derivanti grosso modo dal socialismo solidaristico da una parte e forze politiche derivanti grosso modo dall'individualismo liberale dall’altra - questa noiosa alternanza comporta di solito il crollo della partecipazione elettorale. In qualche modo, l'eterna oscillazione tra sinistra e destra nelle nostre democrazie elettive realizza quel che i cicli oscillatori della moda realizzano sul piano dell'abbigliamento o dell'arredamento: in tutti questi casi, opera un dualismo di fondo della vita sociale. Come la moda - che oscilla spesso tra due poli contrari - anche i sistemi politici occidentali trovano la loro stabilità non in una permanenza ferrea, ma in un'oscillazione continua tra forze politiche contigue, che si spacciano come opposte e quindi come tra loro alternative. Le democrazie battono i totalitarismi perché danno spazio a mode governative, mentre i totalitarismi devono congelare il sistema e perdono flessibilità.

        Così la moda offre il modello di una dialettica sociale - tra coesione e frammentazione  - tipica delle società democratiche moderne. "La moda - scrive Simmel - ha la proprietà di rendere possibile un'obbedienza sociale che è nello stesso tempo differenziazione individuale"[17]. Esiste moda perché conformandoci ci differenziamo, e differenziandoci in fondo ci conformiamo. Ma non è questo esattamente l'ideale, ostentato, di ogni democrazia moderna? La democrazia fa appello all’opinione di ognuno, dà spazio anche alle opinioni estreme, sovversive e de-socializzanti: ma proprio lasciando esprimere l'idiosincratico riesce a realizzare una coesione sociale. E' quello che economisti e sociologi, da Adam Smith in poi, chiamano anche Mano Invisibile: l'ordine e la stabilità nascono proprio dal dare libero corso al disordine e a ciò che è instabile o ai margini. Il fastoso sviluppo della moda in questi ultimi decenni può essere visto quindi come un corollario del successo della democrazia moderna di tipo occidentale e dei suoi valori.

        L'alternanza tra sinistra e destra, tipica delle democrazie mature, è un'alternanza tra due "centri" - tra la zuppa e il pan bagnato. A un centrismo di destra si sostituisce poi un centrismo un po' spostato a sinistra, e viceversa. Anche la moda è di solito centrista. Tranne in periodi critici, di mutazione violenta dei costumi - come fu probabilmente la fine del 700, quando le Rivoluzioni americana e francese cambiarono rapidamente il modo di abbigliarsi, oppure in Cina all'epoca della Rivoluzione Culturale - le oscillazioni della moda non sono mai radicali. Gli stilisti famosi, Ungaro o Versace o Gaultier, propongono abiti estremisti, che nessuno indosserà: ma la massa si lascerà più o meno influenzare dalle proposte estreme delle stars, moderandole, adottando una loro versione attenuata. In questo modo, nel corso dei secoli, il modo di vestirsi cambia in modi vistosi, ma i passi intermedi sono piccoli, oscillatori, con piccole fughe in avanti e passettini all'indietro di ripensamento. Nella moda come in politica le Rivoluzioni sono rare, ma opera un incessante, lento, lavoro riformatore. La storia e le mode sono noiose.

 

6. Le donne, i giovani e la moda

 

        Perché le donne - al tempo di Simmel come oggi - sono più permeabili alle mode?

        Simmel pensa che ciò sia dovuto alla perdurante inferiorità della condizione sociale della donna. Egli ricorda che nel Rinascimento italiano, in un'epoca in cui fu concessa alle donne un'ampia libertà di espressione personale e quindi di differenziazione individuale, non si svilupparono stravaganze di moda femminile. Le mode imperversarono invece tra donne di paesi dove la libertà femminile era conculcata - ad esempio in Germania nel XIV e XV secolo.

        Infatti la moda è una "valvola attraverso la quale il bisogno delle donne di una certa quantità di distinzione e di rilievo personale trova uno sfogo quando il suo appagamento è maggiormente negato in altri campi"[18], cioè nei campi professionali e di eccellenza sociale. 

 

In generale la storia delle donne, nella loro vita esterna come in quella interiore, nell'individuo come nella collettività, dimostra una tale uniformità, un tale livellamento, una tale omogeneità che esse, perlomeno nel campo delle mode, hanno bisogno di un'attività più intensa per conferire un fascino alla propria vita[19].

 

Insomma, siccome alle donne non è dato di sviluppare la loro individualità in campi in cui all'uomo è possibile, resterebbero loro solo abiti e monili. Siccome la moda non è solo promozione individualistica, ma anche conformismo sociale, essa permette alle donne di proteggere la propria debolezza sociale: "il debole evita l'individualizzazione, (...) il difendersi da sé con le proprie forze"; al debole "la forma tipica di una collettività assicura quella protezione che impedisce a chi è forte di utilizzare il sovrappiù delle sue energie"[20].

        Questa tesi di Simmel è però discutibile. Oggi nei paesi islamici fondamentalisti, come Arabia Saudita, Iran o Afghanistan, non si può certo dire che le donne godano di una grande libertà e possibilità di emancipazione, ma l'obbligo dell'hijab, del chador, del burqa, o di altri veli non favorisce certo tra loro lo sviluppo di stravaganze di moda. All'inverso, negli ultimi decenni le società occidentali hanno dato un grande impulso alla promozione sociale della donna, eppure questo non ha ridotto la sensibilità delle donne alla moda, tutt'altro. Mai la moda è stata così alla moda come in questi anni di impetuoso emancipazionismo femminile.

        Dovremmo evitare di connettere in modo lineare le mode femminili alla subalternità socio-culturale della donna. E' vero che il discorso che vale per le donne vale oggi anche per i giovani, anch'essi particolarmente esposti alle mode (i giovani sono oggi ad un tempo i maggiori ispiratori di mode ma anche i maggiori consumatori di esse) e più deboli degli adulti quanto a potere sociale. E' probabile comunque che le donne da una parte, e i giovani dall'altra, vivano in modo più forte e radicale rispettivamente degli uomini e dei più anziani la tensione contraddittoria tra bisogno di distinzione e imperativo di eguaglianza. In altre parole, donne e giovani sono oggetto di un double bind, di una prescrizione contraddittoria: alle donne si richiede allo stesso tempo di "essere eguali agli uomini", come recita l'ideologia oggi dominante, ma allo stesso tempo opera l'esigenza di "proteggere la loro femminilità", di non umiliarla o rinnegarla. Ai giovani, analogamente, si richiede da una parte di diventare alla svelta adulti e maturi, dall'altra invece di "fare i giovani", di distinguersi dal resto della società come rappresentanti dell'istanza della spensieratezza, dell'eccentricità, della sperimentazione fine a se stessa. Se certo ognuno di noi è più o meno soggetto alla moda nella misura in cui vive personalmente la tensione tra distinzione e conformità, la donna vive questa tensione doppiamente, in quanto la vive sia come individuo sia come donna (cioè come distinta dagli uomini). E così il giovane: alla tensione di ogni individuo aggiunge la tensione tra l'"essere giovane" e l'"essere come gli adulti".

        Questa contraddittorietà si è peraltro accentuata negli ultimi decenni. Ad esempio, da una parte i paesi euro-americani tendono ad abbassare la maggiore età (da 21 anni a 18, in alcuni anche a 17) scommettendo sulla maturazione rapida dei giovani; dall'altra però gli stessi paesi alzano il limite d'età della scolarità obbligatoria (in Italia recentemente a 15 anni), così che, identificando vieppiù il giovane con lo studente, lo allontanano dalla condizione lavorativa adulta. Da una parte il diritto familiare evolve nel senso di diminuire costantemente la patria potestà e quindi di aumentare l'autonomia e i diritti dei figli, dall'altra però di fatto i giovani rimangono sempre più disoccupati, e si allungano gli anni in cui il giovane vive in famiglia con i genitori. Un'evoluzione contraddittoria simile vale anche per le donne. Da una parte il codice familiare diventa sempre più egualitario, mettendo moglie e marito, padre e madre, sullo stesso piano giuridico - d'altra parte si accentua l'immagine della donna seduttrice la cui vocazione fondamentale è esercitare il proprio fascino sugli uomini.

        Nei kibbutz d'Israele, o nella Cina al tempo del maoismo, si puntò su un forte egualitarismo sessuale dandogli un senso univoco: eliminare dai comportamenti femminili tutti i vezzi e i segnali della seduttività, vestire le donne come gli uomini. Si trattava insomma di mascolinizzare tout court la donna, sottraendola ai capricci della moda. Questa linea emancipativa della donna è fallita, anche in Israele e in Cina. Oggi l’emancipazione punta su un'oscillazione più dinamica e contraddittoria: occorre da una parte che la donna possa fare tutto quello che fanno gli uomini, ma d'altra parte anche che essa resti donna, anzi, che promuova nella società dei valori squisitamente femminili nella prospettiva di femminilizzare la società tutta[21]. Questa bivalenza fa di ogni donna un campo di battaglia privilegiato delle mode.

        Quindi una certa subalternità femminile - soprattutto in campo politico ed economico - non sarebbe uno stato imposto dagli uomini, l'effetto della loro resistenza a cedere potere. Parte della subalternità oggi sarebbe invece il risultato di questo lavoro sociale straordinario delle donne, che devono affrontare lo sforzo immane di costruirsi - come l'uomo simmeliano - eguali-e-distinte, lavoro “impossibile” da cui il maschio è almeno in parte esentato.

        D’altro canto, i giovani sono promossi a campioni e corifei della flessibilità e della mutevolezza. Non sono loro i primi ad accogliere le innovazioni tecnologiche ed estetiche, come Internet o le tendenze musicali pop, e a “insegnarle” e imporle ai più anziani? La Vulgata ripete: gli anziani sono conservatori, rigidi, diffidano del nuovo, i giovani invece sono innovatori, porosi, entusiasti delle novità. Ma allo stesso tempo gli anziani spingono i giovani verso la sicurezza: palpitano per loro finché non hanno trovato un posto fisso, conveniente, sicuro. Da una parte pongono se stessi – nella misura in cui hanno raggiunto stabilità e benessere – come modelli per i giovani, d’altro canto li spingono ad essere “veramente giovani”, cioè ad adeguarsi all’insicurezza e alla mutevolezza.

        Questo double bind della condizione giovanile – questa tensione tra l’essere da una parte un giovane e dall’altra semplicemente un cittadino o cittadina con bisogni e problemi di tutti – spiega probabilmente il successo di mode come il tatuaggio. Ciò che appare filosoficamente provocatorio nel tatuaggio è proprio la sua perennità: in giovane età, si impegna il proprio corpo in qualcosa di indelebile. In un mondo in cui tutto dovrebbe essere reversibile, non definitivo, revocabile – un mondo giovane appunto, mai-definito-una-volta-per-tutte – guarda caso i giovani si distinguono dagli adulti proprio infliggendosi qualcosa di irreversibile, definitivo, irrevocabile. Flessibilità e mobilità sono un onere e non solo un onore per i giovani – incarnare un’idealità è costoso, arduo. E’ difficile tenere testa al mondo in una vita aperta a tutte le possibilità, senza bussole e destini fatali. E’ forte quindi la tentazione per molti giovani di distinguersi da ciò che distingue il giovane dall’adulto – l’apertura reversibile ad ogni possibilità – incidendo sul proprio corpo l’irreversibile chiusura dell’indelebile.

 

  1. 7.   Fango del reale, oro del sociale

 

        Abbiamo visto che la moda è l'estensione imitativa di una differenza, di un tratto che distingue uno o una dal resto - e che agenti privilegiati di moda sono membri distinti della nostra società, individui che incarnano una forma di asocialità. La strategia della moda consiste nel selezionare una differenza più o meno vistosa, e socializzarla attraverso questa selezione. Il tratto che diventa alla moda è insomma un tratto che permette a ognuno di enunciare la propria dis-socialità, pur restando costui nella rete sociale. E' un modo di colonizzare socialmente ciò che ogni società lascia fuori di sé: il reale bruto, che esula dalla regolarizzazione e ordinazione sociali.

        Prendiamo due esempi portati proprio da Simmel. "Le calzature medievali con la punta all'insù nacquero perché un nobile signore voleva trovare una forma corrispondente a un'escrescenza del suo piede, il guardinfante ebbe origine dal desiderio di una di quelle dame che danno il tono alla società di nascondere la sua gravidanza, ecc."[22] Si dice che la moda di piegare i bordi inferiori dei pantaloni in modo da ottenere una frangia (cuffed trousers) fosse dovuta al fatto che il conte di Eaton avesse ripiegato così i suoi calzoni bagnati per un improvviso acquazzone. Che cosa fa sì che, d'un tratto, queste strane, forse casuali, variazioni hanno successo e vengono imitate? E' vero che oggi la moda non aspetta più le iniziative delle gran dame e dei nobili, oggi essa viene industrialmente programmata - ma i famosi stilisti, con i loro capricci e invenzioni strampalate, svolgono la stessa funzione degli eccentrici signorotti del tempo antico.

        La punta all'insù, il guardinfante che faceva apparire tutte le dame in stato avanzato di gravidanza, il bordo ripiegato dei pantaloni: perché tutto ciò ha sedotto? Anche se queste narrazioni della loro origine non fossero vere, esse sono però “ben trovate”. In tutti questi casi, si rammenta una particolarità fisica - addirittura un acciacco - per spiegare una variazione del costume. Un orribile callo del piede, il pancione della gravidanza, della stoffa bagnata dalla pioggia: tutti eventi fisici che non hanno alcun senso sociale, ma che, una volta imitati generando moda, si caricano di senso sociale. Come dire: la moda "mette in discorso" ciò che non fa parte del discorso perché è mero evento, accidente. Ma questo criterio potrebbe essere generalizzato: la moda non fa altro che trasporre il reale accidentale in sistema di segni, e questa trasposizione convince e seduce. Possiamo dare una precisazione ulteriore alla distinzione simmeliana: un tratto si propone all'imitazione proprio perché si presenta come distinto da ogni fatto culturale. Ma ciò appare isomorfo all'esigenza psicologica che avrebbe ogni individuo di distinguersi dagli altri: che cosa ci distingue da qualsiasi altro se non il fatto che siamo puri eventi, mera distinzione da qualsiasi altro nostro prossimo, differenza senza senso? Nessuno di noi vuole pensarsi come un tipo, cosa che lo renderebbe intercambiabile. Anche se ammettiamo di essere classificabili, di appartenere a insiemi e gruppi (anzi, ci teniamo a far parte di essi), d'altro canto ci teniamo anche a essere solo noi stessi. Da qui la valorizzazione dell'amore e dell'amicizia: pensiamo (in modo probabilmente illusorio) di essere amati non in quanto rappresentanti di un tipo, di un genere, di un sesso, ma in quanto siamo solo noi stessi. Se una persona ci ama, non ci può confondere con un'altra persona del nostro stesso tipo, nemmeno con un nostro sosia. Ed è proprio questo l’inghippo che la commedia classica, da Plauto fino ad Anouhil, ha sfruttato: i gemelli eguali, che vengono scambiati l’uno con l’altro persino dall'amante, rivelano l’inquietante e buffa relatività dell’amore. Le norme sociali non parlano mai di me e di te, parlano solo di chiunque si trovi nelle condizioni in cui anch'io o anche te potremmo trovarci. La società fa solo discorsi nomici, legali, giuridici, non fa mai discorsi idiosincratici - perché non c'è discorso dell'idiosincrasia.

        Eppure quel puro evento che ognuno di noi è ha un impatto sociale per la ragione che, nel nostro tipo di società - soprattutto in quelle liberal-denocratiche, industrializzate, sperequate - ognuno di noi non può essere completamente commisurato al proprio essere sociale. La cultura moderna mi trascina verso la consapevolezza dell'inadeguatezza della mia cultura (e in prospettiva di qualsiasi cultura) a soddisfare quel che io sono[23]. Una società o cultura si regola per lo più su una media, su una maggioranza statistica, su probabilità alte o su maggioranze, su compromessi ottimali tra istanze diverse: la mia società non mi rappresenta mai completamente. Ma allora, chi può rappresentarmi? Proprio chi, per una ragione o per l'altra, è in qualche modo fuori dal tessuto sociale. L'eccentrico può essere il famoso cortigiano, Petronio Arbiter, o i dandys Baudelaire e Wilde, oppure il musicista, il DJ, il gangster, il vaccaro, la prostituta, il teen-ager che non è ancora né carne né pesce: tutte figure che, venendo percepite come non tipiche della società a cui apparteniamo, sono disponibili a incarnare quella non tipicità che è ognuno di noi nella misura in cui ognuno è solo se stesso. Ciò che seduce del tratto che così diventerà alla moda è il suo apparire, d'un tratto, come simbolo di una dis-socialità pura. Il tratto seducente è quello che si fa simbolo e incarnazione della distinzione assoluta da tutto ciò che ha significato sociale.

        Ma l'exploit quasi miracoloso compiuto dalla moda consiste nel dare senso sociale proprio a questo tratto che è stato selezionato per la sua seducente insensatezza. In questo modo la società dal disordine degli eventi crea ordine sintattico, scatenando l'epidemia imitativa che fa del puro evento che si distingue da tutto un tratto di distinzione sociale. Di ciò che evoca l'indistinto in quanto si distingue da ogni norma e regola, fa un segno distintivo di ceti e ordini sociali. La moda, come re Mida, trasforma il fango affascinante del reale nell'oro sempre più insipido del sociale.

        Ma l'affermazione che il tratto selezionato sia seducente per la sua insensatezza può stupire molti. La concezione corrente vede la seduttività di una cosa o di una persona in relazione a un accordo tra tendenze soggettive e forme oggettive, tra l’immaginario e il reale. Una bella donna non seduce un uomo perché essa si offre come oggetto che dà realtà alle forme femminili che vagheggia il desiderio maschile? Non è l'oggetto seduttivo un oggetto da sempre atteso, pre-disegnato da qualche desiderio soggettivo che dà ad esso tutto il suo senso? Ciò è vero, ma descrive solo un aspetto - alquanto superficiale - della seduzione.

        Ciò che distingue la viva seduzione - sempre in opera nei processi di moda - da un qualsiasi oggetto desiderato è proprio in qualche modo la sua imprevedibilità, il suo non essere attesa o prefigurata dal desiderio. Immaginiamo un essere umano che abbia fame per la prima volta, e che non abbia idea di che cosa sia un cibo, e che quindi non desideri alcun cibo particolare, dato che la sua sensazione di fame è ancora vaga, non ancorata a nessun particolare ricordo di alimento. Immaginiamo che a costui si offra all'improvviso una pera e che questi, saggiandola, constati che essa soddisfa la sua fame. Possiamo dire che costui è stato propriamente sedotto dalla pera nella misura in cui non la prefigurava: la pera è un oggetto emerso dal reale – non ancora classificato come commestibile - e che si staglia all'improvviso come qualcosa di utile o desiderabile per il soggetto. Dato che il tratto di moda risulta all'inizio nuovo, non prefigurato, ricorda questa pera. Ma quale "fame" della gente soddisfa la novità di moda?

        Quando ad esempio, non molto tempo fa, alcuni uomini hanno cominciato a portare un orecchino (ma non due), riscuotendo successo, quale pulsione quell'orecchino maschile ha soddisfatto? In questo caso l'orecchino non era un oggetto nuovo, dato che lo portavano le donne - la novità consisteva nel vederlo all'orecchio di un ragazzo. Che cosa è accaduto perché quel tratto seducente venisse imitato, cioè selezionato?

        La risposta più superficiale sarebbe caricare questo atto di un senso forte, come "esso esprime il desiderio di molti maschi di essere più femminili". Nelle grandi linee questa interpretazione sarà anche vera, ma dubito che coloro che indossano orecchini esibiscano in questo modo pulsioni femminili più forti della media dei maschi. Indubbiamente l'orecchino aveva un "senso femminile", ma attaccato al padiglione di un uomo perde gran parte di questo senso - diventa d'un tratto insensato. Nella misura in cui viene indossato da imitatori riacquista un senso nuovo, quello della moda: finisce col segnalare che i modi di distinzione tra uomini e donne sono mutati, o che comunque non hanno più lo stesso senso di prima. Da un lato la società dispone una serie di tratti distintivi sessuali: le donne vestono in un certo modo, gli uomini in un altro. Un tratto nuovo scardina, almeno all'inizio, questo sistema di distinzioni, attacca quindi l'insieme dei significati sociali. L'orecchino seduce proprio perché è come se dicesse "l'essere maschio o femmina ha qualcosa che esorbita l'insieme dei segni sociali che definiscono l'identità sessuale". Viene insomma a crearsi, all'improvviso, una discrasia tra l'identità sessuale, il gender (che è sempre un fatto sociale) e il sex, il puro fatto di essere maschio o femmina, che è sempre aldilà – o meglio: al di qua - dei segni e quindi delle distinzioni sociali. O meglio: maschilità e femminilità reali - prima cioè di ogni ordinazione sociale - cercano nuovi segni in cui esprimersi, perché il vecchio ordine di segni lasciava esuberare o escludeva qualcosa che ormai appare essenziale della maschilità e della femminilità. I ragazzi che portano un orecchino[24] si distinguono allora dal resto dei maschi come coloro che non accettano più i modi tradizionali di distinzione sociale tra i sessi: si distinguono come coloro che mettono in questione una distinzione. Ma questo vale appunto per qualsiasi processo di moda. Il tratto od oggetto nuovo è sempre un evento che mette in crisi i significati sociali (cioè i sistemi di distinzione) ma che, nella misura in cui viene imitato e diventa alla moda, costituisce altri sistemi sociali di distinzione. La moda all'inizio disfa, e col tempo rifà.

        Ma sul piano psicologico, come considerare il desiderio dei ragazzi sedotti dall'idea dell'orecchino? Mettendo in crisi la distinzione tradizionale "acconciatura maschile versus femminile", il singolo proclama la sua individualità, il suo essere distinto da ogni distinzione sociale. E' come se il singolo dicesse: sono realmente un individuo, non appartengo ad alcun tipo. In questo modo l'eccentrico che crea moda afferma una sua unicità, nella quale però potenzialmente ognuno si può riconoscere. Ciò che rende idealizzabile e invidiabile il creatore di moda è il suo modo di significare la propria irriducibilità di fronte al sistema sociale: la sua riuscita sociale avviene attraverso la sua relativizzazione delle regole sociali. Egli afferma coram populo la propria importante insensatezza, ma questa affermazione viene socializzata dalla moda, che la dispiega nel senso e nell'ordine distintivo. L'originaria distinzione catastrofica - io sono esorbitante rispetto a ogni norma o tipo sociale a cui pure appartengo - viene riscandita ricreando o ristrutturando distinzioni sociali; prima di tutto, tra chi "segue la moda" e chi "rifiuta la moda".

        Prendiamo una moda degli anni 90, lanciata da alcuni stilisti, di creare spacchi che mostrino gli indumenti intimi delle signore. Anche qui sarebbe un errore precipitarsi su una spiegazione sociologica facile del senso di questa moda, del tipo "trionfa l'esibizionismo femminile". Interpretazione facilona, perché di fatto il costume femminile - tranne la divisa delle monache, o il burqa delle afghane - ha avuto sempre una funzione anche esibizionistica. Il punto è capire perché oggi proprio questa esibizione appaia e si candidi a essere selezionata. Essa è un tratto di moda in quanto fa appello al sistema di distinzioni normative precedenti, e cioè: una donna elegante non deve mai mostrare in pubblico le sue mutande. L'abbigliamento moderno si basa su questa alternativa fondamentale: o mostri gli abiti esterni, o mostri (solo alle persone intime) gli abiti intimi, non puoi mostrare i due simultaneamente. E' questo il nomos vestimentario prevalente. Mostrare ad un tempo sia la gonna che la mutanda, o il reggicalze, o la giarrettiera, è una trasgressione della regola. Questa infrazione, in quanto è rifiuto di un sistema di significati, è insensata. Ma d'un tratto questo evento trasgressivo seduce, anziché creare ilarità o ripugnanza. Il tratto di novità deve vincere sempre un rischio di ripugnanza e di spregio, in quanto infrange una regola. Ma esso seduce nella misura in cui la donna che si vestirà così afferma "io sono diversa", e cioè "Il mio reale esorbita ogni regola sociale. Io non sono esaustivamente definita dai miei tratti sociologici. Io femmina eccedo la Femminilità. Perciò posso fare quel che ogni donna perbene non ha mai fatto: mostro gli slip attraverso uno spacco. Ma nella misura in cui oso farlo mi definisco socialmente come una che si distingue in quanto trasgredisce la distinzione ferrea tra abiti esterni e abiti intimi. Io, come individuo, sono trasgressione."

        In questo sillogismo implicito cogliamo la grande forza dell'individualismo moderno - nella misura in cui esso si distingue dal personalismo cristiano, dal collettivismo socialista, o dall'organicismo sociale islamico. L'individualismo - di cui gli Stati Uniti sono il principale agente di diffusione - si basa tutto su questo double bind produttivo: le distinzioni sociali si basano su una distinzione suprema, sul fatto che ogni individuo è distinto dalla sua identità sociale. E questa distinzione dell'individuo dalla propria identità viene riconosciuta nelle distintività sociali. Non deve quindi stupire che le società individualistiche siano allo stesso tempo - proprio in quanto individualistiche - formidabili macchine di conformismo.

 

 

8. Primato della differenza

 

Il nostro ritmo interno richiede periodi sempre più brevi nel cambiamento delle impressioni, o, in altre parole: l'accento degli stimoli si sposta in misura crescente dal loro centro sostanziale al loro inizio e alla loro fine. Lo si avverte nei sintomi più insignificanti, per esempio nella sostituzione sempre più frequente del sigaro con la sigaretta, nel desiderio di viaggiare, [...] che accentua le partenze e gli arrivi. [...] La potenza del fascino formale del confine, dell'inizio e della fine, del venire e dell'andare.

 

Qui Simmel coglie qualcosa di fondamentale della nostra forma di vita. Se da una parte il gusto di viaggiare si concentra più sulla partenza e sull'arrivo che sullo stare altrove, analogamente nel pensiero contemporaneo la differenza prevale sull'identità: i confini, le soglie, gli scarti, i passaggi, sono il modo in cui la modernità spera di aggirare l'identità e l'essere nella loro indigesta opacità. Questa prevalenza della differenza sull'identità del resto è intimamente connessa al primato così specifico del misurabile: ogni misurazione si basa sui numeri, vale a dire su differenze ordinali e cardinali. Oggi gli psicologi, ad esempio, non cercano più tanto l'essenza della paura, della memoria, dell'attrazione: si occupano piuttosto del più o meno di paura, di più o meno memoria, di minore o maggiore attrazione. Del dove, quando e quanto della paura, della memoria o dell’attrazione, non di ciò che esse essenzialmente sono. Mentre parte della filosofia mira ancora a darci l’essenza di qualcosa – ad esempio dell’angoscia – le scienze oggi ci convincono sempre di più perché semplicemente ordinano le angosce, trovando il modo di misurarle o comunque di quantificarle. La scienza si fa sempre sulle differenze, mai sulle identità. O meglio, è nella misurazione di questi più e meno che cerca non l'essenza dell’angoscia, ma la sua determinazione: l'importante è determinarla in uno spazio logico, più che sapere che cosa sia. Determinare significa oggi in pratica prevedere in modo quantitativo: se avrò l’evento x, allora avremo anche tanta o tant’altra angoscia. La differenza ci appare più radicale, in fondo più profonda, di ogni identità. La misurabilità della cosa tende a trasformare l'essenza della cosa, riducendola poco a poco alla sua misura. Ogni cosa è non tanto ciò che essa è, ma ciò per cui essa differisce da ogni altra cosa: ogni cosa è solo la sua differenza dalle altre cose.

Questo prevalere del confine e della differenza sullo spazio proprio e sulla identità ha come corollario la prevalenza della forma sul contenuto: al differenzialismo si associa la tendenza al formalismo. La forma (quantificabile o qualificabile) della cosa esautora la questione su che cosa questa cosa sia.

"La cosa più bella dell'incontro amoroso  diceva Giacomo Casanova  è quando si salgono le scale."   Egli voleva dire: è più bella non la cosa in sé, ma l'inizio della cosa, l'imminenza del piacere. La differenza è misurata qui in batticuore, in emozione spericolatamente incerta tra angoscia e godimento. E Casanova, come ogni libertino, era un modernista - ogni pensiero modernista, proprio in quanto formalista, è libertino. Nella forma delle cose, difatti, prevale il contorno, la silhouette: non il pieno, il contenuto, ma il bordo, ciò che differenzia la cosa dalla non-cosa o dall'altra-cosa. Per lo spirito moderno conta l’emozione del matrimonio e del divorzio, non i lunghi anni di convivenza. In ciò che poi si differenzia dalla forma come appunto il contenuto, il pieno, lo spirito moderno non è contento fin quando non lo svela come un grumo di forme. La modernità sfoglia, per così dire, il contenuto in forma: lo dis-piega, lo srotola come forma.

Ma la differenza rischia di trasformarsi in concetto metafisico, in pura Differenza, e quindi di acquistare uno spessore contenutistico, se essa non si riduce sùbito a distinzione. Nemmeno due colonne di Bernini a piazza S. Pietro sono eguali, nulla sarà mai perfettamente eguale a qualsiasi altra cosa: ma quello che conta per noi è che le due colonne siano distinguibili. La differenza è ancora qualcosa di essenziale, la distinzione è pragmatica: l’importante è che due cose siano distinguibili per noi.

Nel film di Buñuel Tristana (1970), la protagonista, Tristana (interpretata dalla Deneuve) ha questa particolarità: che tra due cose apparentemente identiche, lei ne preferisce sempre una. Fa l'opposto dell'asino di Buridano: sceglie anche quando non si impone alcuna scelta. Tra due ceci, li distingue: ne mangia prima uno, e poi l'altro.  La bella Tristana mette il dito sulla passione moderna per il distinguibile: le cose molteplici vanno ricondotte alle distinzioni della singolarità. La differenza si umanizza, vale a dire diventa pratica e utile, quando si risolve in distinzione: nella possibilità che ha un uomo (o una macchina costruita ad hoc dall'uomo) di distinguere. Due cose indistinguibili verranno ricacciate dal pensiero contemporaneo nel buio dell'identità, dove tutte le vacche sono grigie; la modernità radicalizza il principio leibniziano dell'identità degli indiscernibili.

        Ma la moda rimette continuamente in gioco qualcosa di “mistico”: il fatto che aldilà di ogni ordine sociale (imitativo, aggregante) c’è del puro evento. L’essere umano vuole essere apprezzato per quel puro evento che egli è, cioè il suo essere diverso da ogni altro. Ma egli paradossalmente esige che questa insignificanza venga socialmente riconosciuta, cioè significata.

Ma abbiamo detto che una delle molle essenziali della moda è proprio il bisogno primario di distinzione: non importa per quale ragione il singolo si distingua, l'importante è che si distingua. Distinguersi è il dovere dell'essere sociale moderno. Non a caso gli si chiede il suo voto e la sua opinione (anche se non ha le minime idee politiche), sempre, su ogni cosa, per nutrire le statistiche demoscopiche. Anche se manda al diavolo l’intervistatore, entrerà lo stesso nelle statistiche nella percentuale di chi dichiara “Non so”. La macchina distintiva delle scienze distingue con cura anche chi rifiuta di farsi distinguere. E' importante far dire a ciascuno come la pensi perché si parte dal presupposto che ognuno è distinto; se non fossimo tutti distinti non ci sarebbe misurazione, non ci sarebbero statistiche. Ogni misurazione, come primo passo del dominio sulle cose, implica la distinzione tra queste cose. Distinzione, misurazione, dominazione  tutte nozioni tra loro connesse.

 

  1. 9.     L'universale come Kitsch

 

        Per capire meglio la dinamica della moda, occorre chiedersi anche in che cosa consiste ciò che appare essere il suo contrario: il classico, l’opera o tratto che non muta e che pare godere di una sorta di immortalità. In Occidente siamo convinti che certe opere - la Bibbia, le opere di Platone, la Commedia di Dante, alcune tragedie di Shakespeare, i quadri di Leonardo e le opere di Michelangelo, le musiche di Mozart, ecc. - non siano soggette alle fluttuazioni della moda, ma conservano un valore immutabile e quindi una popolarità costante. Eppure per altri versi sappiamo che ognuno di questi “classici” è figlio della propria epoca storica. Quindi il significato e il valore che, per esempio, l’Hamlet poteva avere per i contemporanei di Shakespeare - per quelli che potevano andarlo a vedere al Globe di Londra all’epoca - non potevano essere il significato e il valore che gli diamo noi. E anche per i romantici tra Sette ed Ottocento, che elessero Hamlet come capolavoro assoluto, quest’opera aveva significato e valore diversi da quelli che gli diamo noi - anche perché noi leggiamo Shakespeare ormai attraverso le lenti di Northrop Frye e Jan Kott, di Freud e di Barthes, di Nietzsche e di Croce, di Lukacs e di Lacan, lenti di cui quei romantici non disponevano. Se quindi ogni opera “classica” di fatto cambia significato e valore a seconda delle epoche, in che cosa consiste la sua pretesa perennità, ciò che ne fa appunto un classico, il contrario della moda?

       Il classico si pone, di fatto, per l’epoca che lo considera tale, non tanto come ciò che perdura, ma piuttosto come paradigma. O meglio, si dà per scontato che il classico perduri proprio perché è paradigmatico. Il paradigma è ciò che si riafferma attraverso tutti i sintagmi che, in qualche modo, lo implementano. Un bambino di cinque anni può pronunciare un sintagma che mai nessun italofono ha mai pronunciato nel corso dei secoli, eppure i paradigmi fonologici e sintattici della lingua italiana rimangono gli stessi per molti secoli. L'opera che rientra in quel che H. Bloom chiama il Canone Occidentale è come la lingua italiana, che perdura attraverso e aldilà le innumerevoli occorrenze sintagmatiche.

        Si prenda una qualsiasi frase considerata classica, ad esempio "fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza". Non appena ognuno di noi sente dei versi del genere, sentiti già migliaia di volte, non può certo percepirli come se li sentisse la prima volta: li percepisce come una definizione poetica dell'umanità. Domanda: "Chi sono i veri esseri umani?" Risposta: "Quelli che non vivono come bruti". Domanda: "E quelli che non vivono come bruti?" Risposta: "Coloro che seguono virtù e conoscenza." Il sintagma classico - vale a dire la proposizione o la successione di proposizioni che vengono erette a canone - ha un valore ormai paradigmatico, si presenta cioè con l'autorità definitoria di un'equazione concettuale. Un paradigma difatti è prima di tutto una definizione, del tipo "gli scapoli sono uomini non sposati", “quattro è il doppio di due” oppure "l'acqua è composta di idrogeno e di ossigeno". Quest'ultima frase apparve certo non paradigmatica al primo scienziato che scoprì la composizione chimica dell’acqua, ma appare tale a una qualsiasi persona colta la quale, anche se ignara di chimica, sa che "la chimica è quella scienza per la quale l'acqua è composta di idrogeno e di ossigeno". Quest’ultimo esempio forse è quello che rende meglio la specificià del classico: in origine, era un’articolazione di sintagmi che all’epoca ebbe successo per svariate ragioni, ma che col tempo ha cambiato natura - da sintagma è diventato paradigma. Ad esempio, quando i primi astronomi copernicani affermarono che la luna non era un pianeta, come si era affermato fino ad allora, ma un satellite della terra, la cosa fece colpo. Ma oggi pensare ad un satellite significa pensare paradigmaticamente alla luna: qualsiasi satellite di altri pianeti si scoprirà, lo penseremo sempre come “una luna”. Il paradigma, e quindi il classico, è un esempio divenuto esemplare, è una parola divenuta regola.

        Ma che sapore ha questo paradigma? Se la moda connota il transeunte, l'evento puro, la particolarità unica, l'eccentricità, che regime estetico ha l'anti-moda, ovvero il classico? A mio avviso è il Kitsch.

        In effetti, non appena pensiamo al Kitsch, ci vengono incontro immagini paradigmatiche che hanno a che fare con qualche classicità. Il Kitsch è la classicità nella sua funzione di paccottiglia – anche se di rado si pensa che quel che Gadamer, ad esempio, considera “classico” sia in fondo solo della paccottiglia. E' Kitsch la riproduzione del David di Michelangelo che si compra nelle bancarelle di Firenze; è Kitsch una gondola veneziana di porcellana o una torre Eiffel di metallo usati come soprammobile; è Kitsch suonare qualche brano della "Toccata e Fuga in sol minore" di Bach per evocare un'atmosfera di intensa spiritualità. Nei salotti buoni dell’alta cultura, non è Kitsch nei lofts del Greenwich Village a New York riferirsi a Foucault o alla terminologia lacaniana delle femministe americane? Il cinema di Woody Allen ci diverte anche perché mette a nudo, senza pedanteria, il Kitsch delle élites culturali newyorkesi. Come vedete, vengono in mente tutti classici, sia antichi che moderni.

        Scrive Kundera in L'insostenibile leggerezza dell'essere, che ha dedicato belle pagine al Kitsch:

 

Ovviamente occorre che i sentimenti suscitati dal Kitsch possano essere condivisi dalla maggioranza. Perciò il Kitsch non sa che farsene dell'insolito; esso fa appello a certe immagini-chiave, profondamente ancorate nella memoria degli uomini: la figlia ingrata, il padre abbandonato, dei bambini che giocano su un prato, la patria tradita, il ricordo del primo amore[25].

 

Queste immagini devono avere il carattere dell'universalità, come sono (per noi euro-americani) universali le gondole, Botticelli, Bach, o la torre Eiffel – e per gli snob americani Foucault e il decostruzionismo. In effetti il paradigma ha una vocazione universalista: è un modello che verrà applicato in qualsiasi situazione, sempre. Perciò, può dire provocatoriamente Kundera, "la fraternità di tutti gli uomini non potrà avere mai altra base se non il Kitsch".

        Kundera porta poi un esempio eloquente. Un senatore americano - cioè qualcuno che evidentemente incarna a sufficienza il livello medio di imbecillità - vide alcuni bambini che giocavano su un'aiuola, e: "Guardateli! disse, mentre la sua mano descriveva un cerchio che inglobava lo stadio, il prato e i bambini: Questo è quel che io chiamo felicità!" Che cosa c'è di Kitsch in questa esternazione? Non il fatto che qualcuno si sia commosso per dei bambini che giocano - questo può capitare anche al più scafato degli esteti. Non il fatto di aver descritto la scena. La kitschità di quella proposizione consiste nella sua stoffa definitoria, nel suo proporsi con arroganza come:

 

                Felicità = Bambini che giocano su un'aiuola

 

così come nelle note della toccata e fuga di Bach ciò che colpisce l'ingenuo (e ghiaccia chi ambisce a schivare la potenza del Kitsch) è la pretesa globalizzante di definire l'Alta Spiritualità proprio con quella composizione. La scena, il pezzo di musica, l'opera singola cessano di essere eventi, opere, proposizioni, singolarità: vengono ridotti a insulsi cartellini di una universalità.

        Nella scena dei bambini che giocano sull'aiuola - come immagine Kitsch della Felicità - non si tratta di una metafora, che fa effetto nella misura in cui suscita un certo stupore, una sorpresa, giocando su una similitudine imprevista. L'immagine dei bambini che giuocano traveste una metafora rifilandola come ciò che i logici prima di Quine chiamavano proposizione analitica (per distinguerla da una proposizione sintetica) - cioè una proposizione non descrittiva ma definitoria, del tipo "Gli scapoli sono uomini non sposati". C'è una inquietante forza analitica in ogni paradigma, cioè in ogni Kitsch[26].

        Perciò, dice Kundera, "il Kitsch è un paravento che dissimula la morte"[27]. Se la moda punta alla differenza, pur nell'estensione dell'imitazione, e quindi si predestina alla morte - perché tutto ciò che si presenta come evento temporale, differenza storica, è destinato alla morte - il Kitsch punta all'eternità. In ciò consiste la sua subdola demagogia. Che c'è di più demagogico che dire a qualcuno "non morirai!"? Ovvero - se la morte individuale non può più essere negata - dirgli "tu morirai, ma i tuoi Valori vivranno eternamente!" Ogni negazione del tempo e della morte è Kitsch, quindi demagogica: promette una sorta di rendita inesauribile, di eternità assicurata con i BOT Enciclopedia Treccani.

        Certo, anche il Kitsch è attraversato dalle mode, quindi dal tempo. Ma è un vantaggio quasi miracoloso dell'oggetto-Kitsch o dell'idea-Kitsch il suo poter essere apprezzato dal consumatore o produttore di Kitsch sempre, in tempi diversi, indipendentemente dal contesto. Del resto qualsiasi oggetto o idea può finire con l’essere usato in modo Kitsch: basta costruire con questi oggetti o idee una definizione, un paradigma, delle esemplarità rispettate come regole. Alcuni linguisti fuori moda direbbero che il Kitsch non è un fatto di enunciato, è un fatto di enunciazione. Una battuta di Ennio Flajano come "l'insuccesso mi ha dato alla testa" può far ridere perché è un sintagma che produce sorpresa, che rovescia le nostre attese semantiche. Ma sentire un presentatore televisivo dire a un collega sfortunato, in trasmissione, "spero che, come diceva Flajano, l'insuccesso non ti dia alla testa" puzza di Kitsch: si punta qui alla flajanità, a ciò che devo considerare paradigma di arguzia e humour. Anche l'humour, quando viene paradigmatizzato, cessa di esser tale: produce un piacere Kitsch in chi ha bisogno consolatorio di eternità ed universalità. Alcuni sono difatti maledettamente attratti dal Kitsch perché questo li protegge dal tempo e dalla contingenza.

        I cosiddetti classici - in quanto propinati dalla scuola e da prestigiose istituzioni culturali - sono concime prezioso per coltivare un terreno a Kitsch. Non voglio certo dire che Dante o Shakespeare in se e per se siano Kitsch - dico che il carattere paradigmatico, extra-temporale, astorico, attraverso cui i professori di scuola ce li ammanniscono ne fa campionari di Kitsch. E' ciò che rende la scuola indigesta spesso proprio agli studenti più sensibili e colti: la scuola, anche se liberal, progressista o sperimentale, nella misura in cui pretende soprattutto di trasmettere dei paradigmi culturali, di fatto trasforma le opere che fa studiare in istituzioni, quindi in Kitsch.

        Allora, se la moda è un'intensità che si estende (perdendo così intensità), il Kitsch è un'estensità che si maschera da intensità in forza della sua pretesa di godere della massima estensione universalizzante. Il Kitsch ha a che fare con l'eternità pregiudiziale di ogni convenzione, che si pone sempre sub specie aeternitatis. E la convenzione, in cui si riassume ogni paradigma, non è rivolta verso il tempo: è rivolta verso l'eterno, inteso come assenza di tempo e divenire. Perciò, un modo vivo di frequentare i cosiddetti classici consiste nel de-classicizzarli, nel non ridurli a “classe” ma nel promuoverli di nuovo ad “eventi”: nel vederli come quella intensa contingenza che furono. Cercare di rivivere questi eventi che furono.

        Ma in quanto ogni istituzione è regolata da convenzioni, dobbiamo concludere, con Kundera, che, malgrado la fatuità Kitsch del discorso delle istituzioni culturali, "nessuno di noi è un superuomo e non può sfuggire del tutto al Kitsch. Qualunque sia il disprezzo che ci ispira, il Kitsch fa parte della condizione umana"[28]. Nessuno può sfuggire del tutto alle istituzioni - alla scuola, al diritto, alla chiesa, ai grandi partiti storici, alle Olimpiadi, allo stato, all’anatema contro il nazi-fascismo - alla sfida che ogni istituzione erige nei confronti degli individui e del tempo, in un sepolcrale oblio del divenire. Come dice Kundera, parlando delle iscrizioni tombali che sfidano il tempo e il divenire: "il Kitsch è la stazione di corrispondenza tra l'essere e l'oblio"[29].

 

10. Intensità ed estensità

 

        Ma la tensione distinzione versus imitazione è veramente irriducibile? Cioè, dobbiamo assolutamente supporre un piccolo numero di inventori e creatori di idee che mirerebbero solo a distinguersi nei confronti di una massa enorme destinata tutt'al più a imitarli?

        In effetti già a livello dell'élite innovativa non opera solo la pulsione a distinguersi, ma già quella a imitare. Già nel binomio Marx-Engels, per esempio, possiamo dire che Engels in qualche modo imitava Marx. Alcuni grandi pionieri della psicoanalisi, come Ferenczi e Abraham, imitavano a loro volta Freud - mentre Jung, come è noto, ha accentuato gli elementi di distinzione rispetto a Freud. Anche un creatore innovatore come Carnap, nel Circolo di Vienna, imitava qualcuno: Wittgenstein. Il quale a sua volta aveva cominciato come allievo (in qualche modo imitatore) di Bertrand Russell. E gli esempi si potrebbero moltiplicare. Si salvano per così dire solo i geni innovatori assoluti, che sono ben pochi. Ma la stessa cosa accade appunto nella moda: ci si distingue dal resto imitando qualche personaggio ammirato e invidiato. D'altro canto, anche la centomilionesima ragazza che si decide a tagliarsi i capelli "all'ultima moda" ancora si distingue: da sua madre, o dalla ragazza vicina di casa che ancora non osa, ecc.

        Distinzione e imitazione non sono in conflitto, sono due facce della stessa medaglia: si imita un altro idealizzato per distinguersi dal resto, e ci si distingue cambiando imitazione. Non c'è quindi una differenza fondamentale di struttura della tensione della moda nelle varie classi sociali e culturali, tra loro varia solo l'estensione della distinzione. L'élite è caratterizzata insomma dalla massima estensione nella distinzione: il tipo di cappello o il gusto estetico che essa abbraccia si distingue rispetto a quasi tutti gli altri, l'élite per un po' pratica qualcosa di unico. Proprio nelle sfilate di moda più prestigiose e influenti - di Parigi, Milano o New York - i grandi stilisti ce la mettono tutta a presentare abiti non-indossabili, di una tale eccentricità che verosimilmente nessuna persona oserà mai portarli. Gli ingenui dicono "che senso commerciale ha proporre abiti che mai nessuno, tranne qualche snob una tantum, porterà? la moda non rinnega la sua vocazione mercantile?" In effetti le grandi sfilate, seguite dalla stampa mondiale, segnano un culmine della distinzione, una vetta irraggiungibile di unicità supremamente distintiva: le modelle famose saranno forse le uniche al mondo a portare quell'abito fatto apposta per scandalizzare i benpensanti[30]. Ma lo stesso stilista tiene in riserva versioni più moderate della stessa "idea", che venderà più all'ingrosso; avrà anzi varie versioni in ordine decrescente di "shockità" dello stesso modulo, ogni versione adatta all'area sociale che può permettersi quel modulo fino ad un certo punto.

        La moda appare allora come una piramide, al cui top c'è la super-modella - Claudia Schiffer o Naomi Campbell o Kate Moss o Laetitia Casta - pronta a essere imitata ma in fondo inimitabile. Come il genio creativo si offre all'imitabilità ma resta irraggiungibile nella sua creatività, analogamente le mannequins-dee dei nostri giorni incarnano questo concetto quasi matematico di estrema distintività. Gli abiti osés che esibiscono non inibiscono l'imitazione ulteriore, anzi la nutrono, offrendo il paradigma a cui ogni consumatore ispirerà i propri sintagmi, vale a dire i suoi compromessi timorati con la banalità quotidiana[31].

        All'inverso, si è sempre meno élite e sempre più parte della massa man mano che si restringe l'estensione della propria ambizione differenziativa: in questi ambiti, chi segue la moda si distingue tutt'al più all'interno del proprio ufficio, della propria famiglia, del vicinato o del quartiere. Chiunque viene percepito dal proprio ambiente come "uno/a che segue la moda" si distingue da questo ambiente, ma il suo rango sociale è determinato dalle dimensioni assolute di questo ambiente da cui si distingue.

        Potremmo allora sostituire all'opposizione simmeliana distinzione vs imitazione un'opposizione che può apparire più ricca perché più generale: quella tra intensità ed estensità, se ci si permette il neologismo. Quando una novità è assoluta, universale, essa ha la massima intensità, nel senso che essa crea vere e proprie passioni, positive e negative: scandalo ed entusiasmo, ribrezzo e amore, angoscia e attrazione. E' percepita o come una grave minaccia per i nostri figli o come una rivelazione salvifica. Man mano che la novità guadagna in estensione, man mano cioè che perde il suo carattere di novità, essa perde in intensità - i cibernetici direbbero che essa perde capacità informativa. La teoria dell'informazione difatti correla l'aumento di informazione all'improbabilità: più un evento è improbabile, più esso risulta significativo e quindi informativo. Man mano che l'uso di un cappello o una convinzione politica si estende, l'incontro con questo cappello e con questa convinzione diventa sempre più probabile, e quindi sempre meno significativo. Chiamo quindi estensità questo aumento di estensione di un tratto a cui corrisponde una proporzionale diminuzione di intensità.

Questa diminuzione di intensità (cioè di informazione) dovuta all'estensione dipende correlativamente dall'estensione degli spazi o ambienti nei quali la ex-novità viene adottata: come si diceva, man mano che un tratto si propaga, esso interessa individui miranti a distinguersi nell'ambito di un ambiente o spazio sociali sempre meno estesi. Estendendosi, l'innovazione perde intensità perché essa è adottata per produrre intensità (distinzione ovvero informazione) in contesti sempre meno estesi.

        In effetti abbiamo la massima intensità innovativa - la massima significatività - quando un'idea o un fatto di costume sono ancora molto minoritari. Spesso in sociologia si dimentica una cosa così ovvia. Ad esempio, le inchieste fatte tra i giovani e gli studenti negli anni a cavallo del 1968 nei paesi dove ci furono vere e proprie esplosioni dei movimenti di contestazione giovanile e studentesca - come Italia, Francia e Germania Occidentale - mostravano che di fatto a quell'epoca tra giovani e studenti prevalevano mentalità e idee alquanto conservatrici o moderate[32]. Negli anni a cavallo del 1968 le idee dei movimenti di contestazione raggiunsero difatti la loro maggiore intensità, ma proprio per questo non erano molto estese. A quell'epoca Daniel Cohn-Bendit in Francia teorizzò il ruolo della "minorité agissante": i grandi movimenti che all'epoca misero a soqquadro la Francia erano portati avanti da una minoranza, anche tra i giovani. Ma quelle minoranze all'epoca si sentirono sulla cresta dell'onda, perché producevano, rispetto al loro contesto, delle grandi intensità. A quell'epoca si radicalizzò difatti la differenza nel modo di vestire - oltre che di pensare - tra giovani e meno giovani, tra figli e padri. Questa frattura nel comportamento esteriore, nei gusti e nel modo di pensare, si radicalizzò in particolare in Gran Bretagna, che all'epoca produsse (forse non a caso) un tipo di musica pop che fece epoca. Fece epoca nello stile musicale dei Beatles o dei Rolling Stones o dei Doors probabilmente il fatto che quel tipo di musica incarnasse una radicalizzazione della distinzione tra vecchi e giovani, tra passato e presente, tra tradizione e innovazione. Quelle canzoni appaiono oggi dei "classici" in forza della loro qualità intrinseca? Nulla di più opinabile della qualità intrinseca di una creazione artistica. Se ancora oggi ascoltiamo con una certa emozione brani come "All we want is love" oppure "I can't get no... satisfaction", è perché essi portano ancora oggi, anche se attutita dall'impatto della durata, una vertiginosa forza distintiva, tuttora palpabile.

 



    [1]In Georg Simmel, Die Mode. Tr. it. "La Moda" in La moda e altri saggi di cultura filosofica, Longanesi, Milano 1985, pp. 29-52. Qui, per le citazioni bibliografiche, seguirò piuttosto l'edizione a cura di Dino Formaggio e Lucio Perucchi: "La moda", Editori Riuniti, Roma 1985, indicandola con M. Su queste tesi di Simmel, cfr. anche S. Benvenuto, "Divagazioni sulla moda", MondOperaio, gennaio 1987, pp. 134-7.

 

    [2]Il fattore "imitativo", non solo nella moda ma nella genesi di qualsiasi riproduzione sociale, fu teorizzato soprattutto da Gabriel Tarde, Les lois de l'imitation, Alcan, Paris 1890 (tr.it. in Scritti sociologici, UTET, Torino 1976). Sull'influsso della sociologia tardiana sulla sociologia americana, cfr. l'introduzione di T. Clark alla raccolta, in inglese, di scritti di Tarde: On Communication and Social Influence, Univ. of Chicago Press, Chiacago 1969.

 

    [3]M, p. 14.

 

    [4]M, p. 26.

 

    [5]M, p. 13.

 

    [6]M, p. 18.

 

    [7]Più avanti analizzeremo a fondo i movimenti ciclici e oscillatori dei processi culturali. Cfr. Pitirim Sorokin, La dinamica sociale culturale, UTET, Torino 1975. Riprende l'approccio di Sorokin - e in prospettiva quello paretiano - Raymond Boudon: "Processus oscillatoires" in La logique du social, Hachette, Paris 1979 (tr.it. La logica del sociale, Mondadori, Milano 1980, pp. 147-152). Rimando anche a Sergio Benvenuto, "Come nascono e come muoiono le mode culturali, MondOperaio, novembre 1983, pp. 110-15.

 

 

[8] Per una descrizione di dinamiche economiche simili a quelle descritte da Simmel, cfr. Mark Granovetter e Roland Soong, “Threshold Models of Interpersonal Effects in Consumer Demand”, Journal of Economic Behavior and Organization, 7, March 1986, pp. 83-99.

 

 

    [9]M, p.30.

 

    [10]Quacchero viene da quacker, colui che trema per il continuo timor di Dio.

 

    [11]M, p. 41.

 

    [12]M, p. 20.

 

[13]Sulla storia del blue-jean, vedi Anna Schober, Blue Jeans. Vom Leben in Stoffen und Bildern (Frankfurt/ Main & New York: Campus Verlag, 2001).

 

[14]Ho sviluppato questo tema dell'opposizione tra Hermes (l'Angelo) ed Hestia (il focolare) in: "Hestia-Hermes: la filosofia tra Focolare e Angelo", Aut Aut, 258, Nov.-Dic. 1993, pp. 29-49; "Hermes/Hestia: The Hearth and the Angel as a Philosophical Paradigm", Telos, 96, Summer 1993, pp. 101-118.

 

 

    [15]Talvolta provo a convincere alcune donne a provare dei capi di vestiario che esse rifiutavano con vigore; spesso a constatare come, una volta indossatili, scoprissero all'improvviso che quei capi "erano per loro". Esse non rifiutavano quei capi perché se li vedevano già addosso, ma perché vi associavano un tipo di donna a cui esse rifiutavano di assomigliare.

 

    [16]Questo vale anche per i nomi propri, a cui le donne più che gli uomini sono sensibili (oggi molte più donne si cambiano il nome di battesimo di quanto non accada per gli uomini - non diversamente dal fatto che sono più donne a farsi modificare chirurgicamente il naso o a tingersi i capelli di quanto non facciano gli uomini). Bisognerebbe interrogarsi sui motivi del perché le donne, scontente del loro nome proprio, se lo cambiano. Dalla mia limitata esperienza, ho tratto la convinzione che le donne, in particolare del Sud, trovano brutto il loro nome quando lo percepiscono come tipico di donne di bassa condizione sociale, e quindi associato a un tratto di volgarità, nel senso etimologico del termine: è il caso di nomi propri come Genoveffa, Carmela, Annunziata, Concetta, Giuseppina, ecc. Anche nella scelta del nome operano fattori di imitazione (di persone ammirate o idealizzate) e di distinzione (dalla massa disprezzata). In America negli anni 60 tendevano a cambiare nome ragazze che si chiamano Susan, in quanto esso appare non solo un nome troppo comune, ma anche tipico di donne del ceto medio-basso.

 

    [17]M, p. 31.

 

    [18]M, p. 37.

 

    [19]M, p. 38.

 

    [20]M, p. 36.

 

    [21]Il risultato di tutto ciò è che mentre l'uomo moderno appare unisessuale, come di solito è stato, la donna appare in qualche modo bisessuale. Si pensi solo all'opposizione pantaloni/ gonna, che per secoli ha definito nel costume la differenza netta uomo/ donna. E' evidente che oggi la donna è libera di scegliere tra gonna o pantaloni, mentre l'uomo può permettersi solo i pantaloni (persino la tonaca dei preti tende a sparire a tutto vantaggio dei pantaloni). Questo significa che la donna moderna è "un uomo + una donna": può oscillare tra l'essere tale e quale a un uomo, e l'essere solo donna. Si dirà: anche gli uomini si sono femminilizzati - possono portare i capelli lunghi o gli orecchini. Questa femminilizzazione ha però delle barriere forti, che le donne incontrano meno.

 

    [22]M, pp. 16-17.

 

    [23]Tutte le teorie riformatrici o rivoluzionarie - di critica dell'assetto sociale esistente - di solito concentrano la loro critica contro quello specifico assetto sociale, razionalizzando le ragioni della loro protesta. Ma in questo modo - tranne in alcune "critiche della civiltà" più radicali (come quella di Rousseau, di Nietzsche o di Freud) - esse perdono di vista il fatto che probabilmente in qualsiasi società abbastanza complessa ci saranno sempre degli insoddisfatti, e questo per ragioni puramente demografiche e statistiche. Una società, per quanto liberale e permissiva, non potrà mai ammettere tutte le varianti individuali, per cui esisterà comunque una fascia più o meno ampia di scontenti, di persone che si sentono fuori, poco coesi con il resto della società. La critica sociale sarà quindi probabilmente eterna, inesauribile - fino al giorno in cui la società non riuscirà a produrre repliche esatte di un modulo, eliminando alla fonte tutti i diversi, i marginali, e i minoritari. Mi auguro che non si giungerà mai a questa felicità sociale.

 

    [24]Più raramente due: e qui certo la distinzione vestimentaria maschio/ femmina, anche se attutita, non è abolita. Raramente la moda scardina l'intero sistema sociale di distinzione.

 

[25] M. Kundera, L'insoutenable légèreté de l'Etre, Gallimard, Paris 1984, p. 315.

 

[26] Fino al punto che ci si chiede se il famoso saggio di Quine “Two Dogmas of Empiricism” (From a Logical Point of View, Harvard Univeristy Press, 1961), in cui egli fa a pezzi la classica distinzione tra giudizi analitici e sintetici, non derivi da una sua particolarità suscettibilità nei confronti del Kitsch. Ammettere giudizi analitici equivale ad ammettere che esistono giudizi universali ed eterni che si sottraggono alla storia e al mutamento – evidentemente Quine non ama l’eterno. Grazie a Quine, possiamo dire che la proposizione ci appare analitica non perché essa è intrinsecamente tale, ma perché viene usata come tale, cioè per azzardare un gioco definitorio. Le famose proposizioni analitiche - in particolare quelle matematiche - sono proposizioni sintetiche elevate a Kitsch.

 

[27] Kundera, op. cit., p. 318.

 

[28] Ibid., p. 322.

 

[29] Ibid., p. 352.

 

[30] Artisti e stilisti d'avanguardia hanno bisogno dei benpensanti - incarnazione plastica della massa in-distinta - come dell'aria: le reazioni di riprovazione da parte di costoro, adeguatamente gonfiate, servono a dare un'aureola di novità rivoluzionaria alle loro creazioni. Ogni musicista sogna di incontrare un pubblico come quello parigino che, nel 1913, fischiò clamorosamente la prima del Sacre du printemps di Strawinski. Purtroppo il benpensante pronto a scandalizzarsi si sta facendo una merce rara.

    [31]Si è oggi soliti paragonare le modelle più famose a nuove divinità pagane. In effetti la modella incarna qualcosa che, nella società di massa, che tende a un egualitarismo delle condizioni e dei diritti, appare trascendente e quasi oltre-umano: l'unicità assoluta. E' ciò che nutre del resto il florido mercato dell'arte: ciò che costituisce il valore esorbitante del pezzo d'arte è la sua unicità, che si staglia provocatoriamente in un universo dominato dalla moltiplicazione degli esseri umani, degli oggetti identici e delle merci scambiabili. A questo proposito, il classico di W. Benjamin, L’arte all’epoca della sua riproducibilità tecnica

 

    [32]Cfr. C. Tullio Altan, I valori difficili, Bompiani, Milano 1974.

 

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