Flussi di Sergio Benvenuto

CAMBIAMENTO, TERAPIA, CONVERSIONE. SUL FINE DELLA PRASSI ANALITICA? (2003)02/mar/2017


  • Mary Smith e Gene Glass, in una ricerca pubblicata nel 1977[1], sulla base dell’analisi di 375 psicoterapie, giunsero alla conclusione che ogni forma di psicoterapia funziona: i nevrotici seguiti in psicoterapia se la cavavano meglio di quelli non seguiti. Quindi, buone notizie per gli psicoterapeuti.

Smith e Glass constatarono però anche che:

1)    Non c’era correlazione tra la quantità di tempo speso per la terapia e i benefici della stessa: una psicoterapia di tre mesi, ad esempio, poteva dare gli stessi effetti (o la stessa mancanza di effetti) di una psicoterapia portata avanti per tre anni

2)    Non c’era correlazione tra l’efficacia dei terapeuti e le loro credenziali od esperienza. In altre parole, anziani psicoanalisti con tutti i titoli non erano più o meno efficaci di giovani con una limitata esperienza.

 

Queste ricerche sono state confermate da alcuni studi successivi, in particolare di Robyn Dawes[2]. Ancora più istruttivo è il caso delle “psicoterapie placebo”, vale a dire quando si mettono a confronto soggetti trattati da terapeuti esperti e soggetti trattati da professori universitari del tutto ignari di psicologia, spacciati per esperti specialisti: si notavano miglioramenti in ambedue i casi, senza alcuna differenza statisticamente significativa. Morale: pare che il setting psicoterapico – o “la relazione” come direbbero alcuni – sia più importante sia della tecnica che della teoria di riferimento, e anche del grado di esperienza e competenza dell’operatore. Insomma, chiunque può essere terapeuta, se per caso o per decisione occupa quel (?) posto. E gli effetti di questa relazione sono debolmente correlati al tempo della sua durata.

 

  • Quando effettuai uno stage psichiatrico all’ospedale psichiatrico S. Maria della Pietà a Roma (prima del suo smantellamento), molti psichiatri e operatori vari che vi lavoravano erano concordi: la migliore psicoterapeuta di tutto S.Maria della Pietà era Marisa, la barista dell’ospedale. In effetti l’osservai a lungo, e apprezzai la sua capacità di contatto con i malati mentali: agilità di reazione, senso dell’humour, tatto nel rapportarsi a ciascuno. Aveva una grazia – forse terapeutica – che molti psichiatri dotti e volenterosi non avevano.

 

Questi due aneddoti sono istruttivi non solo per portare acqua al mulino di chi critica la Legge Ossicini, e quelle simili in altri paesi, che riservano l’attività psicoterapica a specialisti accademicamente formati e patentati. Ambedue le notazioni ci dicono che la capacità psicoterapica non è connessa ad un sapere scientifico o ad un training specifico, ma – oltre che ad un carisma o talento naturali – al fatto di potere e sapere occupare una certa posizione. In sostanza, psicoterapia e psicoanalisi non sono tecniche – nella misura in cui la tecnica è l’applicazione pratica di un sapere scientifico. Esse sono piuttosto una prassi (alcuni direbbero: un atto). Per fare un paragone su cui torneremo: l’analista non è un “tecnico” come economisti, sociologi, giuristi che fanno spesso da consulenti al potere, è come il leader politico che drena consenso e prende decisioni.

     Questo non implica ipso facto affermare che per questa prassi i tecnici - psichiatri o psicologi – siano del tutto irrilevanti. Una formazione professionale può essere utile se, paradossalmente, riesce a de-specializzare il sapere tecnico, a metterlo in crisi o a decostruirlo; se aiuta i tecnici a diventare, col tempo, come la barista Marisa. La vera scienza, in psicoterapia, dovrebbe portare alla nescienza, come diceva Meister Eckardt. Per il terapeuta privo di talento naturale o di fortuna, è possibile forse solo la via della docta ignorantia. La tecnica psicoterapica è utile solo se essa è come la scala di cui Wittgenstein parlava nel Tractatus logico-philosophicus: quella che bisogna buttare via una volta che la si è usata per salire su.

Freud ha detto una frase molto spesso citata (e spesso fraintesa): “come educare e governare, psicoanalizzare è un mestiere impossibile”. L’analista viene qui equiparato non a figure scientifiche come il fisico, il sociologo, il matematico, ma a figure “pratiche”, come l’educatore e il governante politico. Come costoro, anche l’analista è un “praticone”. Ma perché anche governare ed educare sono mestieri impossibili? Di fatto, è inevitabile che si educhi e si governi. Chiunque abbia dei figli, o anche degli allievi se insegna, è necessariamente un educatore – e poi spesso educhiamo, senza volerlo, nostra moglie, nostro marito, i nostri genitori… Anche chi decide di non essere educatore, di fatto lo è – che poi lo sia in modo pessimo, è altra faccenda. Educare è impossibile proprio perché, in molti casi della vita, è impossibile non educare. Quanto a governare, occorre bene che qualcuno governi. Nessuno sa bene chi sia un buon governante – ragion per cui oggi diffidiamo di tutti i politici, di qualsiasi sponda – né che cosa consista davvero il governare, eppure occorre che qualcuno governi. Governare è impossibile perché è impossibile che non ci sia un governo. Del resto ci si chiede talvolta: “è davvero necessario che i governanti siano eletti dal popolo? Non sarebbe meglio che essi fossero sorteggiati dai cittadini, come accadeva in certe repubbliche antiche?” Nessuno ha mai fatto questo esperimento, ma forse un giorno lo si farà: farsi governare da persone estratte a sorte. Forse si constaterebbe che non sarebbero migliori né peggiori di chi è stato votato. Come in psicoterapia, un governante placebo può andare altrettanto bene di un professionista del governare.

Ma psicoanalizzare, si dirà, non è invece un optional? Non è affatto inevitabile psicoanalizzare o essere psicoanalizzati, è una pura scelta. Ma è poi così vero? Oggi siamo in una società in cui tutta una serie di persone si rivolgono a psicoterapeuti od analisti perché sentono che è impossibile non farlo. Ovviamente, come nessuno sa cosa dovrebbe essere un vero educatore e un vero governante, analogamente nessuno sa che cosa o chi dovrebbe essere un buon shrink, come dicono gli americani. Ad un certo punto della vita, certe persone trovano impossibile non vedere uno “psic” – malgrado il fatto che la professione “psic” sia impossibile. Nella nostra cultura, la gente vuole che qualcuno occupi la posizione di educatore, di governante e di analista – e lo si giudica, alla fine, se riesce o meno ad occupare questa posizione. E come spesso si licenzia un governo che di fatto ha governato benissimo (qualcuno si ricorda del governo Prodi?) o si odia un educatore che è stato magnifico, così spesso si disprezza il proprio passato analista anche se, agli occhi di tutti, l’analisi ha prodotto ottimi cambiamenti.

E’ davvero un peccato che i ricercatori americani non ci abbiano lasciato reports di quello che hanno detto o fatto gli incompetenti professori che si spacciavano per psicoterapeuti. Anzi, faccio qui agli amici della SEPI questa proposta: perché non organizzare anche in Italia un’équipe di “psicoterapeuti placebo” e registrare i loro approcci e risultati? Possiamo perciò fare solo delle ipotesi. Se un Laien (come lo chiamava Freud: un “laico”) è capace di produrre effetti – come chiamarli?: terapeutici, maturativi, rasserenativi, di autoconsapevolezza?… - è probabile che, in modo spontaneo, è riuscito a tenere quella che certe scuole psicoanalitiche chiamano posizione dell’analista. Dopo tutto, chiunque si fa un’idea alquanto esatta di quello che fa un analista attraverso film, romanzi, racconti di amici – basta avere una cultura media per rendersi conto di che cosa “fa” un analista. Non deve quindi stupire che degli incompetenti sappiano “farlo”. Il punto è che ogni scuola, e quindi ogni paradigma teorico, dà una descrizione o definizione diversa di che cosa sia esattamente questa “posizione dell’analista”, la posizione che porta ad un miglioramento… di che? Ogni scuola dà una definizione diversa di questo miglioramento, quando lo dà. 

 

1.

In che cosa consiste questa posizione dell’analista, quella che produce un cambiamento? La prassi analitica si distingue da altre prassi perché c’è qualcuno che occupa una posizione specifica. Posizione dell’analista, non dello psicoterapeuta: ho troppa poca competenza di tante psicoterapie non analitiche per poter azzardare un discorso generale sulle pratiche psicoterapiche in generale. 

Questa mia auto-limitazione forse mi mette automaticamente fuori del progetto integrazionista dei colleghi che mi hanno invitato, se per integrazione si intende il voler mettere in evidenza certi tratti comuni, i minimi comun denominatori, che sarebbero alla base di tutte le psicoterapie, di qualsiasi tipo, e che le renderebbero tutte – nella misura in cui sarebbero efficaci – terapeutiche. Questo obiettivo mi pare velleitario. Basti pensare che solo negli Stati Uniti, alla metà degli anni 80, venivano censiti più di 450 tipi diversi di talking cure. Come poter essere sicuri che questa galassia in espansione di pratiche e tecniche si basi tutta su alcuni tratti fondamentali comuni? Del resto, sulla base delle tecniche psicoterapiche che conosco, ho seri dubbi sulla premessa secondo cui ogni psicoterapia farebbe fondamentalmente la stessa cosa di qualsiasi altra (nella misura in cui produce effetti giudicati positivi). Come per i paradigmi scientifici secondo T.S. Kuhn, anche per le diverse psicoterapie possiamo ipotizzare tranquillamente la loro incommensurabilità (il che non significa affatto la loro non-confrontabilità!: confrontiamo sempre cose incommensurabili, non solo nella scienza).

Per questa ragione, non parlerò dei cambiamenti che le varie psicoterapie sono in grado di produrre – o che vorrebbero produrre – ma solo del tipo di cambiamento che trovo interessante. Non è detto che altri colleghi ci tengano a produrre proprio questo cambiamento o che lo trovino interessante. Ad esempio, gli Anonimi Alcolisti ottengono successi, producono un cambiamento: alcuni ubriaconi smettono di bere. E’ una prassi (o tecnica?) su base mistica in parte efficace. La possiamo considerare una psicoterapia? Certe forme di proselitismo che operano “conversioni” – dall’alcolismo alla sobrietà ad esempio – sono prassi efficaci, ma non una prassi analitica.

Concordo invece con il progetto integrazionista, se per ”integrazione” intendiamo il voler analizzare, senza schermi teorici precostituiti, quel che molti psicoterapeuti o psicoanalisti di fatto fanno, mettendo tra parentesi – almeno provvisoriamente – quel che loro dicono o credono di fare. Se un analista didatta di fatto produce effetti comparabili a quelli prodotti da un profano che non sa quello che fa, allora il sistema teorico a cui il suddetto didatta si rifà probabilmente ha davvero scarsa importanza rispetto a ciò che egli (inconsapevolmente) fa. Cerco di operare insomma quella che Husserl aveva chiamato epoché, vale a dire la messa tra parentesi, dei metalinguaggi e dei supposti saperi attraverso cui chi pratica certe psicoterapie illustra quello che fa.

Si tratta insomma di ricominciare dall’ABC, come quando alla fine dell’800 Freud passava lunghe ore con le isteriche: provo ad azzerare il supposto sapere psicoterapico accumulatosi in un secolo. Non perché questo sapere sia tutto irrilevante o fallace, ma perché questo azzeramento ci può permettere un’ascesi, una liberazione inaugurale da tutte le pregiudiziali, uno sguardo finalmente fresco e saggiamente ingenuo sulla prassi analitica.

 

2.

Oggi più che di “effetti terapeutici” gli analisti parlano di cambiamento: usano in effetti un termine neutro, a-valutativo. Cambiare è un fatto che non viene valutato (anche la psicoanalisi fa propria la filosofia positivista, che distingue nettamente tra fatti e valori). Ma l’analisi punta ad un cambiamento in quale direzione? La storia della psicoanalisi ha descritto il cambiamento secondo alcune metafore-chiavi: la medico-terapeutica, la catartica-abreativa, la maturativa, la “cessazione del conflitto”, e poche altre.

Sempre più criticata è l’identificazione del cambiamento alla terapia in senso medico, per una ragione semplice: la medicina concepisce la guarigione clinica come una restitutio ad integrum, vale a dire come ritorno allo statu quo ante. Se una polmonite viene guarita, i polmoni del paziente tornano a quello che erano prima della polmonite. Non dico ovviamente che la medicina sia solo questo – del resto c’è una medicina riabilitativa, preventiva, ambientale, ecc. Inoltre, la restitutio ad integrum è in molti casi impossibile. Parlo di un modello terapeutico medico, che la psicoanalisi può essere tentata di far proprio. Ora, c’è un ampio accordo tra analisti nel considerare il cambiamento prodotto dall’analisi come non una restitutio ad integrum: al contrario, il superamento dei sintomi coincide con un processo di cambiamento soggettivo che porta il soggetto ad essere altro da quello che era sempre stato. Il soggetto felicemente analizzato – come diceva Nietzsche – “diventa quel che lui è”, qualcosa che non era mai stato prima.

Più successo ha avuto la metafora maturativa: la cura analitica viene paragonata a un processo di maturazione, come ad esempio quello che porta l’adolescente a una piena maturazione sessuale. L’approccio di Karl Abraham, con la sua minuziosa teoria dell’evoluzione della libido, è all’origine di questa concezione. Più di recente, Heinz Kohut ha proposto un modello maturativo basato non sull’evoluzione della libido ma del Self. L’analista aiuterebbe il soggetto a completare una sua maturazione psichica che per varie ragioni non si sarebbe prodotta spontaneamente.

Oggi però c’è una presa di distanza crescente anche nei confronti della figura della maturazione. In effetti, non possiamo dire che la maggior parte delle persone non analizzate siano di per sé psicologicamente più mature di quelle che vanno analizzate; abbiamo l’impressione che “l’immaturità” sia il modo di essere più comune di una gran parte degli esseri umani. Per maturazione psichica deve quindi intendersi non un processo di solito spontaneo, naturale, di crescita, ma qualcosa di speciale, un “di più” rispetto alla normalità statistica, quasi un privilegio. Inoltre, anche se una persona può essere più matura per certi aspetti e meno per altri, tendiamo a concepire la maturazione come un processo globale che di solito coinvolge gran parte delle facoltà mentali: un bambino che cresce matura di solito sia come capacità intellettuali, che come disposizione affettiva, che come capacità linguistica, ecc. Il punto è che le persone che vengono in analisi talvolta sono persone che per tanti versi possono essere anche molto più mature e creative della media. La metafora maturativa, insomma, rischia di portarci fuori strada: ci spinge a dare una valutazione generale dell’evoluzione di una persona, mentre si tratta di evoluzione di un aspetto molto particolare della soggettività, che molti chiamano “affettività”.

Alcuni pensano allora che l’analisi produca una maturazione piuttosto nel senso in cui si dice, per esempio di un artista, che “la sua creazione è giunta a maturità”: nel senso insomma che egli è capace finalmente di produrre il suo capolavoro. Forse, la maturazione analitica è permettere a un soggetto di impegnarsi nel proprio capolavoro esistenziale, nel dispiegare il massimo delle sue possibilità di vita.

 

 

 

Tutti i modelli di cambiamento finora proposti o teorizzati dagli analisti paiono cogliere un aspetto di quello che – in certe analisi che possiamo considerare particolarmente riuscite - avviene. Ma allo stesso tempo ognuno di questi modelli ci delude. E’ come se mancasse qualcosa di essenziale del cambiamento che – talvolta – si produce in certi soggetti. Ma allora, che cosa sarebbe essenziale di questo cambiamento?

E’ oggi alquanto diffuso, da parti di molti analisti, rifiutare l’idea stessa di efficacia analitica. Sento sempre più spesso degli analisti vantarsi della “sostanziale inefficacia dell’analisi”. Altri accettano l’idea che l’efficacia analitica sia un effetto placebo (in questo modo condividono l’opinione secondo cui l’analisi si basa non su una direzione di verità, ma di illusione e di inganno: il placebo funziona, in effetti, nella misura in cui il paziente è mistificato, crede che sia efficace qualcosa che non lo è). Anche quando si propone una definizione molto debole – come “l’analisi migliora la qualità della vita” – anche questa viene rigettata: si respinge insomma ogni criterio di valutazione del supposto cambiamento che esuli dalla insindacabile valutazione della coppia analitica stessa. Questo anche al fine di rigettare il tipo di ricerche più o meno quantitative sull’efficacia dei trattamenti del tipo citato all’inizio. E’ come se il rapporto analitico definisse intrinsecamente gli obiettivi e il senso del cambiamento, da qui il rifiuto di esaminare questo cambiamento dall’esterno, secondo criteri pubblici indipendenti dal linguaggio analitico stesso. E’ la rottura più radicale con qualsiasi criterio behavioristico: nessuno può giudicare gli sbocchi di una relazione analitica se non i protagonisti stessi di questa relazione[3]. Emerge qui la concezione che chiamo intrinsechista dell’analisi, che mi pare oggi molto diffusa in varie scuole analitiche. Questa concezione ricorda quella che è prevalsa nelle correnti artistiche moderniste del 900: in arte, l’artista rifiuta di sottoporre la propria opera a criteri di valutazione che siano esterni al progetto specifico della sua arte e della corrente a cui si riferisce. Il favore del pubblico, ad esempio, risulta irrilevante ai fini del giudizio estetico che conta - insomma, solo i propri pari, della propria tendenza artistica, sono giudici riconosciuti. Analogamente, l’analista accetta di farsi giudicare solo dai propri analizzanti, o dai colleghi della sua stessa scuola o istituzione.

Questa concezione intrinsechista di fatto però viene smentita dalla pratica analitica stessa. Nessun analista, per quanto anti-behaviorista, si vanterà mai di pazienti che hanno commesso un suicidio durante o dopo l’analisi! Un analista lacaniano, Marco Focchi – quindi molto lontano da ogni criterio di tipo comportamentista nel giudicare il cambiamento psichico – parlando di un caso di soggetto ossessivo scrive: “Alcuni mesi dopo il termine dell’analisi si è sposato, ha avuto un bambino e, a quanto so fino a oggi, la sua vita coniugale e familiare si svolge in modo tranquillo e appagante”[4]. Evidentemente l’essersi sposato, l’aver figliato, e il convivere bene con moglie e figlio vengono citati come indicatori di salute psichica, anche se non in modo esplicito. Certamente un analista “intrinsechista” ribatterà subito che il fine dell’analisi non è certo far sposare la gente e metterli in condizione di fare figli, insomma, il fine non è favorire un comportamento cosiddetto “normale” piuttosto che un altro. L’importante è il vissuto soggettivo, il fatto cioè che la vita dopo l’analisi sia “tranquilla e appagante”, come dice Focchi. Il fine sembra essere una certa eudaimonia, nel senso etimologico originario del termine greco: il soggetto è abitato da un “buon demone”. Ora, la teoria analitica per lo più attribuisce la sofferenza nevrotica ad un conflitto tra demoni, insomma, ad un conflitto psichico irrisolto. Insomma, il fine dell’analisi sarebbe di permettere al soggetto la soluzione di un conflitto, quindi, un rasserenamento. “Il buon diavolo” è un diavolo unico, non impegnato in una lotta eterna con qualche altro diavolo.

Anche questa definizione del fine dell’analisi come “vivere senza conflitti” – quindi, in modo sereno e appagante - presenta però i suoi limiti, su cui non ci dilungheremo. Ci sono casi in cui, in effetti, non soffrire per un conflitto può essere, per una serie di aspetti, la cosa peggiore. Prendiamo ad esempio un militare a cui, durante una guerra, si ordinano azioni ripugnanti o moralmente criminali: possiamo considerare un campione di soggettività riuscita uno che non si lasci tormentare dal conflitto “obbedisco o no?”, ed esegue serenamente uccisioni disonorevoli? E’ la persona comunque serena – indifferente quindi ai dolori dei vicini – un ideale psichico da erigere a modello? Chi evita di soffrire per un lutto, ad esempio, evitando la depressione, è qualcuno che possiamo elevare a modello di equilibrio? La nostra etica non ci porta, spesso, a rigettare una certa saggia atarassia come, non dico “patologica”, ma comunque inammissibile?

Indubbiamente la psicoanalisi vive al suo stesso interno un conflitto tra due demoni, per così dire. Da una parte il demone che la porta ad offrire criteri puramente soggettivi, privatissimi, di benessere o riuscita: “è guarito chi si sente tale”, punto e basta. “Il cliente ha sempre ragione” diventa allora “l’analizzando ha sempre ragione, in ultima istanza”. Ma la psicoanalisi, per ragioni complesse, non può mai essere insensibile ad un altro demone, quello che la porta ad eleggere ideali sociali di normalità ed equilibrio come parte dei propri fini. Nella prima metà del XX secolo, per esempio, far cambiare l’orientamento sessuale di un omosessuale – convertirlo all’eterosessualità – era un indicatore positivo di riuscita terapeutica; oggi, dopo la promozione sociale degli omosessuali, non è più così. In America, uno psicoterapeuta che dicesse di farlo verrebbe radiato dall’albo. La psicoanalisi non vive solo nel rapporto esclusivo, duale, inappellabile tra analista e paziente: lo studio analitico è poroso a tutte le istanze politiche ed etiche di cui è impregnato il mondo esterno. Questo spesso lo si dimentica negli studi comparativi di efficacia, da qui la labilità, spesso, dei loro risultati: ogni studio dà dati del tutto diversi da quelli degli altri.

Fare in modo che un soggetto non situi se stesso come causa della propria sofferenza spirituale. Rendere un soggetto sensibile alla rilevanza degli altri. Come si vede, il criterio implicito del “buon cambiamento” è ad un tempo edonistico ed etico, fenomenico e trascendentale: lega in modo ricorsivo la diminuzione della sofferenza mentale (magari quantificabile attraverso test psicologici) ad una “trascendentalità”, vale a dire ad un’apertura etica del soggetto al mondo e agli altri.

Nella prima metà del XX secolo, per esempio, convertire un omosessuale all’eterosessualità era un indicatore positivo di riuscita terapeutica; oggi, dopo la promozione sociale degli omosessuali, non è più così. In America, uno psicoterapeuta che dicesse di farlo verrebbe radiato dall’albo. Ma si dirà: in passato l’essere omosessuali non poteva essere mai tranquillo e appagante data la riprovazione sociale, oggi può esserlo. Ma appunto, l’analisi pretenda di portare il soggetto ad una qualche tranquillità ed appagamento indipendentemente dalla valutazione sociale e culturale dei comportamenti.

 

 

3.

           Ma comunque si descriva o si promuova il cambiamento, certi cambiamenti comunque si producono, è un fatto.  Da qui la domanda che molti analisti si pongono: “quando nella relazione analitica il soggetto finalmente muta, che cosa lo ha fatto mutare?” In termini più filosofici: qual’è la vera causa del cambiamento in analisi? Il dibattito è più che mai aperto, e non solo tra analisti.

          L’analisi dei bambini ci fornisce esempi eloquenti di processi analitici, molto più che nell’analisi degli adulti. La malleabilità e porosità dei bambini ne fa dei campioni esemplari, quando sottoposti ad una terapia. L’analisi dei bambini piccoli ha inoltre un grande vantaggio: che non sapendo ancora parlare, e non capendo ancora del tutto il linguaggio adulto, in questi casi dobbiamo escludere l’efficacia dell’insight, se concepito in termini tradizionali. La concezione freudiana ortodossa – ripresa dall’Ego Psychology americana – ha una visione intellettualistica della prassi analitica: attraverso interpretazioni vere, l’analista produrrebbae socraticamente un accesso del soggetto ad una verità interiore. “La verità vi renderà liberi”, come nel Vangelo. Ovvero, il contenuto intellettuale di un’interpretazione – del tipo “lei ha commesso quel lapsus perché di fatto odia suo padre” o simili – sarebbe il fattore essenziale di cambiamento. Ma questo crolla nei trattamenti di bambini piccoli, con i quali non sono possibili questi tipi di spiegazioni. Ora, credo che i cambiamenti che la relazione analitica produce nei bambini debba essere considerato il modello dei cambiamenti prodotti negli adulti – e non viceversa. Con i bambini appare chiaro che la prassi analitica non è una prassi che consiste nel “riconoscere la verità”. La dico tutta: la prassi analitica non ha nulla a che vedere con il riconoscimento di una verità. Se finora lo si è pensato, è per il primato di una visione intellettualistica, che risale al razionalismo greco, secondo cui “conoscere la verità è la condizione della felicità”.

 

Propongo qui il caso di una bambina piccola descritta da Winnicott nell’articolo “Il gioco. Formulazione teorica”[5].

 

         Una bambina fu portata per la prima volta in ospedale, quando aveva sei mesi, per una gastroenterite infettiva di moderata gravità. Era primogenita e allattata al seno. Fino a sei mesi aveva avuto una tendenza alla costipazione, ma non più in seguito. A sette mesi vi fu portata di nuovo, perché aveva cominciato a stare a letto sveglia, piangendo. Vomitava dopo aver mangiato, e non si godeva i suoi pasti al seno. Si dovette provvedere a darle pasti supplementari, e lo svezzamento fu completato in poche settimane.

         A nove mesi ebbe un accesso convulsivo, e continuò ad avere accessi occasionali, abitualmente alle cinque del mattino, circa un quarto d’ora dopo il risveglio. Gli accessi colpivano entrambi i lati, e duravano cinque minuti.

         A undici mesi gli accessi erano frequenti. La madre scoprì che poteva prevenire i singoli accessi distraendo l’attenzione della bambina. In un solo giorno dovette fare questo ben quattro volte. La bambina era diventata nervosa, sobbalzava al minimo rumore. Un accesso lo ebbe durante il sonno. In alcuni accessi si mordeva la lingua, e in altri aveva incontinenza di urina.

         A un anno aveva quattro o cinque accessi al giorno. Fu notato che a volte si sedeva dopo un pasto, si piegava in due, e incominciava. Le si dava del succo di arancia, e ricominciava. La si metteva seduta sul pavimento, e aveva inizio l’accesso. Una mattina si svegliò, ed ebbe immediatamente un accesso, poi si addormentò; ma presto si svegliò di nuovo, ed ebbe un altro accesso. A questo punto gli accessi cominciarono ad essere seguiti dal desiderio di dormire, ma anche a questo grave stadio la madre riusciva spesso a fermare un accesso appena cominciato, distraendo l’attenzione della bambina. Feci a quel tempo questa annotazione.

         “Presa sulle mie ginocchia, piange incessantemente, ma non mostra ostilità. Tira qua e là la mia cravatta in modo casuale, e piange. Restituita alla madre, non mostra alcun interesse nel cambiamento, e continua a piangere, piangendo ancora, e più pietosamente mentre viene vestita, e fino a quando viene portata fuori dall’edificio dell’ospedale”. A questo punto fui presente a un accesso, che era caratterizzato da una fase tonica e da una clonica, e seguito da sonno. La bambina ne aveva quattro o cinque al giorno, e piangeva tutto il giorno, ma di notte dormiva.

         Esami accurati non rivelarono alcun segno di malattia fisica. Durante il giorno venne prescritto bromuro, secondo il bisogno. Durante una consultazione tenevo la bambina su un mio ginocchio, e la osservavo. Essa tentò furtivamente di mordermi una nocca della mano. Tre giorni dopo, io la tenni di nuovo sul mio ginocchio, e aspettai per vedere ciò che avrebbe fatto. Essa mi morse ben tre volte una nocca, così fortemente che la pelle era quasi escoriata. Allora giocò a gettare gli abbassalingua (spathulae) per terra, incessantemente per 15 minuti. Per tutto il tempo piangeva, come se fosse veramente infelice. Due giorni dopo la tenni sul mio ginocchio per mezz’ora. Nei due giorni precedenti aveva avuto quattro convulsioni. Dapprima pianse, come al solito. Di nuovo morse una mia nocca molto fortemente, questa volta senza mostrare sensi di colpa, e poi giocò a mordere e a gettare via gli abbassalingua; mentre stava sul mio ginocchio era diventata capace di godere del gioco.

         Dopo poco cominciò a toccarsi le dita dei piedi, e così le tolsi scarpe e calze. Il risultato di questo fu un periodo di sperimentazione che assorbì tutto il suo interesse. Sembrava come se stesse scoprendo e verificando ripetutamente, con sua grande soddisfazione, che mentre le spatole potevano essere portate alla bocca, gettate via e perdute, le dita dei piedi non potevano essere tirate via.

         Quattro giorni dopo la madre venne, e disse che dall’ultima consultazione la bambina era stata “una bambina diversa”. Non solo non aveva avuto alcun accesso, ma aveva dormito bene di notte, era stata allegra tutto il giorno e non aveva preso affatto bromuro. Undici giorni dopo questo miglioramento continuava senza medicina ; dopo che non vi erano stati accessi per quattordici giorni la madre chiese di essere dimessa.

         Visitai questa bambina un anno dopo e trovai che dall’ultima consultazione in poi, non aveva avuto alcun sintomo di sorta. Trovai una bambina sana, felice, intelligente e amichevole, che amava giocare, e che era libera dalle comuni angosce.

 

Ho scelto questo caso anche per la sua brevità e stringatezza. Qui Winnicott si limita a riportarci i fatti che servono a sostenere la tesi che promuove in questo articolo: vale a dire che il gioco in sé – e quindi l’analisi come gioco – è uno strumento terapeutico. Una tesi di cui ci ha dato svariati esempi clinici, e che trovo assolutamente convincente. Mi si lasci anche dire che le famose interpretazioni classiche – freudiane, junghiane, kleiniane, ecc. – paiono svolgere spesso un ruolo mutativo proprio perché sono un gioco. La chiave interpretativa offerta dall’analista certo crea in molti soggetti, talvolta, un “affetto di verità” (la sensazione privatissima che essa colga qualcosa di vero di sé) ma nella misura in cui il soggetto entra in quel gioco interpretativo. L’analisi diventa allora uno sport eccitante, una performance ludica che intrattiene il soggetto, così trattenuto nell’analisi. Di fatto, il 90% delle psicoterapie sono intrattenimento – funzionano perché il soggetto si diverte[6]. Ma la tesi di Winnicott, proprio perché convincente, apre una quantità di questioni che non trovano in lui una vera risposta teorica. In particolare: quando, come e perché un gioco è mutativo?

Prendiamo questo caso: indubbiamente gettare per terra l’abbassalingua è un gioco non meno che toccarsi le dita dei piedi – ma il primo appare un gioco infelice, mentre il secondo risulta un gioco felice. Come si è compiuto questo passaggio dal gioco infelice a quello (più) felice, e quindi, il passaggio da una forma di vita infelice ad una (più) felice? E’ stato il cambiamento di gioco a determinare il cambiamento di forma di vita, o è il cambiamento di forma di vita che si è espresso in un cambio di gioco? E in un caso come nell’altro, perché si è prodotto questo cambiamento?

          Winnicott non ci dice qui quel che dice altrove: che la bimba ha trovato in lui, Winnicott, quella good-enough mother che non aveva incontrato nella madre reale. In tutta la sua opera, Winnicott illustra e vanta il suo genio materno: cerca di convincerci che i suoi pazienti avrebbero dovuto avere una mamma eccellente come lui sa esserlo con i pazienti, per evitare i loro problemi. Ma in questo caso, in che modo Winnicott ha agito da madre-sostituta abbastanza buona? La risposta potrebbe essere che ha permesso appunto alla bimba di giocare con lui. Una madre o l’analista sono abbastanza buoni quando interagiscono creativamente con il bambino e/o paziente (quando sono capaci di rêverie, ecc.). Ma perché questa interazione è capace – in determinate circostanze – di cambiare l’essere-al-mondo di un soggetto?

          Certamente Winnicott con questa bimba non ha fatto molto – da quel che ci dice – ma ha fatto comunque qualcosa. Ha fatto le seguenti cose: 

 

(1)   l’ha tenuta per un po’ sulle sue ginocchia,

(2)   ha continuato a tenerla senza metterla giù dopo essere stato morso,

(3)   le ha tolto calze e scarpe quando ha capito che si interessava alle dita dei propri piedi.

 

Vedremo il valore strategico di questi tre atti.

Riguardo ad (1): è stato capace di holding, che in sostanza è tenere qualcuno tra le braccia o sulle ginocchia. Come un bambino, anche qualsiasi adulto vuole essere tenuto in braccio da qualcuno di cui fidarsi. Potremmo anzi descrivere la società umana non solo – come fece Tarde – come una rete in cui ognuno imita gli altri, ma anche come una catena in cui ognuno si mette tra le braccia qualcun altro… Ci teniamo gli uni con gli altri. Siamo felici di essere al mondo perché qualcosa o qualcuno ci tiene tutti, e ci impedisce di cadere nella voragine del vuoto come gli atomi di Epicuro.

E’ stato certo un merito degli analisti britannici sottolineare la funzione terapeutica dell’holding, vale a dire del tenere sulle gambe. Credo che il successo persistente della tecnica freudiana di far stendere il soggetto sul lettino – pratica alquanto assurda, a pensarci bene - dipende dal fatto che in questo modo l’analista tiene simbolicamente fra le braccia o sulle gambe un paziente per ciò stesso infantilizzato. Il soggetto si affida così, quasi a corpo morto, all’analista. Oggi si preferisce il linguaggio di Bowlby: si dice che il soggetto deve attaccarsi. Questo attaccarsi è sufficiente, per molte persone, per star meglio: a loro in fondo basta essere tenuti tra le braccia. E certo non solo da un analista: milioni di persone non chiedono altro che di “essere tenuti in braccio” - da un partito, da una chiesa, da un’idea-guida, da un’istituzione, da una gang o cosca, da un’istituzione psicoanalitica, da un gruppo rock, ecc. Vedo in giro una famelica richiesta di personaggi carismatici a cui affidarsi ciecamente.  Certo l’holding dell’analista è un po’ diversa dall’holding terapeutica di “padri” religiosi o politici, ma non possiamo dire che in questo l’analisi sia originale: la holding potrebbe essere realizzata in mille modi diversi, che non hanno molto a che vedere con quello che chiamiamo psicoterapia (anche se ogni psicoterapia, per funzionare, deve fornire un certo grado di holding, condizione perché il soggetto si attacchi al terapista).

Ma allora, ciò che funziona nell’analisi è solo la holding? Basta che una persona in ambasce trovi una persona con qualche segno di autorevolezza che la ascolti con pazienza perché il cambiamento analitico si compia? Il fattore curativo è l’empatia implicita nel setting analitico? Il fatto che un analista non giudichi il soggetto, non lo sproni, non gli dia consigli banali, si faccia trovare là sempre nel giorno e all’ora previsti, è la condizione necessaria ma anche sufficiente del cambiamento? Basta seguire certe regole del setting, e tutto o quasi di un’analisi è fatto?

Ma forse nel caso della bimba di Winnicott la holding non è bastata. Che cosa è successo, a parte la benevolenza di averla tenuta sulle ginocchia? La Nostra è passata da un gioco in cui gettava degli oggetti lontano da sé, ad un gioco in cui manipolava le dita dei piedi, vale a dire a qualcosa che invece non si stacca dal proprio corpo. Tutta la differenza è qui: dall’azione ripetitiva di rigetto di qualcosa, al gioco non rabbioso di verificare qualcosa che, pur flessibile e sporgente, non si sarebbe staccato da lei. Questa è una costante – misteriosa anche per la psicoanalisi – di ogni essere umano che soffra di una qualche forma di rigetto (vero o presunto che sia): rigetta lontano da sé qualcosa, in modo quasi automatico, con rabbia e rancore.

Di recente un soggetto, con trascorsi psicotici alle spalle, mi dice di aver perduto il portafoglio con soldi, carta d’identità, patente, ecc. Questa perdita è seguita ad un incontro con una sua amica che lui già considerava come la sua ragazza: costei lo aveva invece rigettato. Già altre volte gli era successo questo: quando era stato rifiutato da qualcuno, donna in particolare, aveva reagito gettando via o perdendo qualcosa di significativo di sé. Al limite, il suicidio è l’atto in cui il soggetto, rigettato da colui o colei che ama, si getta via dalla vita: ripete per sua propria iniziativa l’atto del rifiuto. Il “gioco” nevrotico più classico consiste proprio in questa enigmatica, “masochistica” ripetizione del rigetto: è come se il soggetto si identificasse al rigettante e passasse a rigettare cose di sé – o tutto se stesso – radicalizzando il suo status di “spazzato via”.

Freud aveva già reperito questo automatismo umano di reazione al rigetto osservando il nipotino piccolo quando giocava col rocchetto. Come si ricorderà da Aldilà del principio di piacere, il nipotino di Freud gettava un rocchetto oltre la culla gridando “Oooh” (Fort) e poi tirandolo in modo da farlo riapparire gridando Da. La piccola paziente di Winnicott può essere descritta, in effetti, come una che passa dalla fase Fort (via!) del gioco alla fase Da (ecco!). Secondo Freud, il gioco del rocchetto metteva in scena il dramma della scomparsa e riapparizione della madre: il rigetto rappresenta l’assentarsi della madre, il ritorno del rocchetto rappresenta la sua ricomparsa. Nel caso di Winnicott, il Fort è il gettar via l’abbassalingua, il Da è lo stuzzicare le dita del piede. Ma Winnicott non si pone la domanda teorica che Freud invece si poneva allora: perché il bambino ha bisogno, giocando, di mettere in scena questo rapporto problematico con l’eclissarsi della madre? La risposta (provvisoria) di Freud era che, rappresentando ludicamente l’assentarsi della persona cara, il bambino padroneggia questa assenza. La controlla, ne calibra i rischi, la fa sfociare in un “lieto fine”. Il gioco – come ogni forma di arte e rappresentazione – è un modo di padroneggiare lo spiacevole. E’ la funzione di ogni arte tragica: rappresentando la catastrofe, la si padroneggia, nel senso che la si riduce a proprio “spettacolo”. L’arte tragica ci servirebbe a padroneggiare lo scacco. Del resto, nel gioco del nipotino di Freud si tratta di una rappresentazione a lieto fine: alla fine la madre-rocchetto ritorna. In effetti, questo gioco risulta felice rispetto ad un altro gioco in cui il nipotino di Freud butta soltanto gli oggetti lontano dalla vista di tutti, sotto mobili e letti: atto infelice di puro rigetto. Proprio come il lancio degli abassalingua della Nostra. Ma il punto è che il “gioco del puro rigetto” non pare sortire effetti pacificanti di sorta, pare essere una mera espressione del dolore di essere rigettati. Pare esprimere lo scacco, senza lenirlo. O meglio, lo lenisce solo nella misura in cui lo esprime – un po’ come le lacrime, che certo esprimono il nostro dolore ma che, così esprimendolo, ci danno un qualche sollievo. Ma il gioco del rigetto e delle lacrime non risolvono il dolore per cui si rigetta e piange. L’espressione del dolore allevia, ma non elimina, il dolore.

Ma come e perché allora, in ambedue i casi, i soggetti passano dal “gioco del puro rigetto” ad un più sereno “gioco del trattenimento”? [Non a caso chiamiamo “intrattenimento” un gioco o spettacolo piacevole: è come se il tempo fosse un flusso che ci rigetta fuori dal presente, che esautora la nostra vita, e l’entertainment ci trattiene da questo flusso dilapidatorio della diacronia.] Possiamo dire che Winnicott si è limitato ad intrattenere questa bambina in modo che costei riesca a trattenere se stessa a se stessa, rinunciando insomma a quella che Heidegger chiamava deiezione del soggetto. Il nipotino di Freud in effetti trattiene il rocchetto con un filo, ragion per cui anche quando scompare alla vista, di fatto è trattenuto al soggetto; la bimba di Winnicott scopre le dita, che sono trattenute al corpo del soggetto. E quale relazione terapeutica ha permesso il passaggio dal “gioco del puro rigetto” al “gioco del trattenimento”? Non possiamo pensare che ci sia stato un processo di auto-terapia, di sviluppo soggettivo, che l’adulto si è limitato ad accompagnare? Non è stato certo Winnicott a suggerire alla bimba il nuovo gioco delle dita trattenute al corpo: si è limitato a tenerla sulle ginocchia. Forse, la capacità terapeutica dell’analisi è stata esagerata, anche da Winnicott: tutt’al più l’analista si limita a “tenere sulle ginocchia” o “tra le braccia”. Crea una sorta di nicchia, una specie di camera di decompressione, che permette al soggetto di trovare da sé, per conto proprio, la soluzione - il gioco felice.

In effetti, Winnicott non ci dà alcuna informazione che ci permetta di capire perché, dopo una gastroenterite non grave, questa bimba sia entrata in una sorta di isteria infantile. Forse che nel frattempo era nato un fratellino? Forse la madre si comportava con lei in modo freddo, inadeguato? Non ne sappiamo nulla. La cause di questa nevrosi ci sono ignote, eppure sentiamo che da qualche parte c’è stato un rigetto, che la Nostra mette continuamente in scena attraverso vomiti, accessi convulsivi, lanciando via oggetti[7].

E’ come se questa bambina volesse fare del vuoto in sé, liberandosi di qualcosa di penoso dentro di sé. Da analisti, siamo inclini a vedere questa rappresentazione drammatizzata del rigetto come l’effetto di un rigetto di cui la bimba sarebbe stata oggetto. Forse, al limite, ogni sintomo nevrotico mette in scena un ri-getto, un essere gettati via, una deiezione che sbarra e inibisce ogni pro-getto.

Il fatto cruciale è stato che Winnicott, quando è stato morso, non ha rigettato quella bambina. Dopo il morso alle nocche delle dita di Winnicott, la bambina prende a rigettare l’abbassalingua: è come se anticipasse per suo conto quel che si aspettava che quel signore facesse con lei - che la mandasse a quel paese. Invece Winnicott ha sopportato il dolore, ha perdonato la bambina e ha continuato a tenerla sulle ginocchia. Il morso era una prova (nel senso in cui si dice “la vita ci riserva molte prove”): la bimba si aspettava di essere rigettata. Ma, sopportando il morso, Winnicott ha fatto quel che in fondo ogni analista deve riuscire a fare: sopportare il dolore dell’attacco del soggetto. Questo accade con molti psicotici esplicitamente, più implicitamente con i nevrotici: anche se non fisicamente, il soggetto prima o poi morde l’analista. E’ importante che questi assorba il colpo, che tenga duro – che perdoni. E’ questo il primo vero “fattore terapeutico” in ogni tipo di relazione: che l’analista sia un duro. Se non addirittura un santo: il paziente spesso gli sputa in faccia (metaforicamente), e lui deve sapersi asciugare la faccia e continuare ad essere benevolo. Chiunque riesca a fare questo, occupa una posizione di analista. Anche se non ha fatto alcun training.

In Francia correva una barzelletta. Ogni mattina, il groom di un ascensore di un grande albergo vede entrare, quasi allo stesso tempo, uno strano tipo e poco dopo uno psicoanalista. Ogni volta, lo strano tipo sputa in faccia all’analista davanti a tutti - al che, ogni volta, questi reagisce con molta calma. Si asciuga la faccia con un fazzoletto, senza il minimo commento. Dopo un po’ il groom sbotta e dice all’analista: “ma come può permettere di farsi sempre sputare in faccia, ogni giorno?” E l’analista, calmo: “è il suo problema.”

          Ma che cosa porta questa bimba – e il soggetto nevrotico in generale - a voler mettere a dura prova la benevolenza dell’altro, a testarne la capacità di perdono? In fondo, questo atteggiamento resta un enigma. Talmente enigmatico che Freud lo ha connesso, ad un certo punto, a Thanatos, pulsione di morte. La quale pulsione è il rovescio di un altro enigma non meno irrisolto: Eros, la pulsione di vita. L’idea che il soggetto ripeta lo spiacevole per padroneggiarlo è in effetti una tesi consolatoria, di cui lo stesso Freud constata la relatività e parzialità: il soggetto ripete lo spiacevole non solo per padroneggiarlo (fingendo di esserne l’autore) ma anche – misteriosamente – per goderne.

 

4.

          Anni fa pubblicai un saggio (“L’analisi: uno svezzamento lungo?”) in cui proponevo di considerare il cambiamento attraverso l’analisi qualcosa di simile allo svezzamento da una droga, un processo di liberazione da una dipendenza psichica. Si trattava di una tesi provocatoria, lo ammetto, proprio perché, come è noto, i tossicodipendenti sono i soggetti più refrattari all’influsso psicoterapico. Ricondurre ogni psicoterapia analitica ad un processo che solo di rado è favorito da un analista – lo svezzamento da una sostanza tossica – poteva sembrare un modo per descrivere la guarigione analitica come un compito impossibile. Ma appunto, non aveva detto lo stesso Freud che analizzare è un compito impossibile?

          In effetti, equiparando il cambiamento ad uno svezzamento da una dipendenza, spezzavo una lancia a favore della tesi che il cambiamento attraverso l’analisi non è qualcosa di intrinseco ma di estrinseco: in altre parole, la relazione analitica aiuta il soggetto a superare qualcosa che non è dell’ordine della relazione! L’analisi – come modo di linguaggio e di relazione – ha insomma a che fare con eventi che non sono di ordine linguistico e relazionale. Nel fondo, prendevo le distanze sia da Lacan che da Winnicott (e da molti altri).

          Dicendo questo, mi rendo conto di dire un’eresia: gli approcci che vanno per la maggiore insistono proprio sulla qualità relazionale dell’analisi (lasceremo ora da parte l’approccio linguistico, del resto in Italia meno influente che altrove).

          Ma se nella tossicodipendenza il soggetto non riesce a vivere senza un’esperienza di godimento fornito da una sostanza tossica, da quale “godimento tossico” non riesce a liberarsi il nevrotico non tossicodipendente?

La tossicodipendenza di solito viene assimilata dagli analisti ad una forma di perversione: vale a dire ad una forma di godimento che esclude non solo l’uso dei genitali, ma, in modo più pertinente, la relazione con un altro umano. Ora, Freud vide una connessione profonda tra perversioni e nevrosi, descrivendo le seconde come delle perversioni immaginarie. Disse che le nevrosi sono il negativo delle perversioni. Che cosa voleva dire con questo, in ultima istanza? Se il perverso (tossicomane incluso) è uno che resta legato ad una forma di godimento che esclude l’altro – potremmo dire, l’altro come soggetto che, come me, desidera e aspira al piacere – analogamente il nevrotico soffre di una dipendenza ad una forma di godimento che esclude l’altro. Ma godimento di che? E che tipo di godimento?

Consideriamo l’esempio di Winnicott: questa bimba, attraverso i suoi vomiti e convulsioni, pare mettere continuamente in scena una sorta di scena-madre a cui la sua vita resta legata. Possiamo supporre che questa scena-madre sia una scena di esclusione, di rifiuto, di rigetto. Non c’è bisogno di denunciare la madre di questa bimba come madre inadeguata: basta supporre che la bimba non sopporti che, di tanto in tanto, sua madre si isoli col padre, per fare cose da cui lei è evidentemente esclusa. Una madre può essere la migliore del mondo, prima o poi mancherà – ovvero, il soggetto si sentirà escluso da lei. Ora, l’enigma della nevrosi consiste nel fatto che questa esperienza più che mai spiacevole – di esclusione e di rigetto da parte dell’altro – diventa paradossalmente una forma di godimento. E’ questa la perversione che traspare anche dietro la nevrosi anche più devastante: Freud pensava che questo dispiacere nevrotico è il prezzo da pagare per un godimento che lui chiamò inconscio. C’è da dire che però la teoria analitica è rimasta a questo punto: una volta visto il godimento perverso dietro la sofferenza nevrotica, la teoria non è mai riuscita a spiegare il perché di questo godimento così anti-economico. Varie spiegazioni sono state offerte, ma tutte appaiono in qualche modo parziali, non risolutive.

          Comunque, anche se l’analista non ha una teoria convincente per spiegare la soluzione perversa o nevrotica di quello che potremmo chiamare il trauma originario – l’esclusione o rigetto da parte dell’altro – talvolta riesce a “svezzare” comunque il soggetto da questa dipendenza. In modi che sfuggono all’analista stesso, questi riesce a far sì che il soggetto operi una conversione o riconversione della propria forma di vita libidica, o affettiva, o erotica, o come dir si voglia. Non diversamente da quel che accade ad un tossicodipendente quando cessa di essere dipendente: tutta la sua vita si riconverte. A che cosa? Ad un modo di vivere nel quale si possano trarre delle soddisfazioni che non ruotino attorno al godimento fornito dalla sostanza. Si tratta di una ristrutturazione soggettiva, pulsionale, per cui la sua esistenza non ruota più attorno ad un appoggio fondamentale – quel godimento che mette il soggetto nei guai. Si tratta di vedere poi, caso per caso, in che cosa consiste questo godimento nevrotico da cui il soggetto è chiamato a separarsi. In fondo, il cambiamento è proprio questo: è rinunciare ad una forma di godimento costoso. E questo godimento è costoso perché esso, paradossalmente, tampona una sofferenza fondamentale, nucleare: come un’esperienza precoce di vuoto, una voragine o caos che allo stesso tempo repelle e attrae. La fantasmagoria nevrotica, con tutta la sua messe di sintomi e agìti, pare essere un velo festonato per addobbare questo vuoto centrale, questo risucchio nell’essere del soggetto. La conversione analitica si compie solo quando, attraverso un’elaborazione, il soggetto rinuncia alla filiera dei surrogati e dei supplementi, alle “droghe” che gli permettono di sfuggire questo vuoto, questa deiezione fondamentale del suo essere. Operazione certo rischiosa, da cui la maggioranza dei soggetti fugge.

La sofferenza nevrotica in fondo è un diversivo: ci distoglie da qualcosa di impensabile, da un trauma che non è nella relazione con l’altro ma direi piuttosto nell’assenza di relazione con l’altro. Il nevrotico – anche se in modo diverso dal perverso – è qualcuno che resta incantato, affascinato, dal trauma che lo ha costituito. Per cui all’analista non resta che una sola cosa da fare: aiutare a disfarsi di questo incantesimo, permettergli di essere infedele al proprio trauma.

 

5.

          Lo si ammetta o meno, tutte le psicoterapie – psicoanalisi inclusa – tendono in fondo a dare una risposta al paziente, insomma a soddisfare una domanda del soggetto. Ma l’analista offre una risposta a quale domanda?

          Ogni analista si sente più o meno in dovere di dare qualcosa ad un soggetto che chiede qualcosa (aiuto, ma anche qualcosa che gli manca). Dare la sua capacitàdi holding – come ha fatto Winnicott con la sua piccola paziente – non gli sembra sufficiente. Infatti, anche altri sono capaci di tenere sulle gambe, tra le braccia, di empatizzare con l’altro. L’analista pretende di dare qualcosa di più di quella holding ed empatia che potrebbero essere date da altri, anche non terapisti. L’analista vuole pensarsi insomma anche come un tecnico, vale a dire capace di qualcosa di speciale, che solo lui o i suoi colleghi possono dare. Perciò tende a pensare che lui o lei è capace di dare delle “interpretazioni mutative” (che solo analisti ferrati possono fornire) o comunque una “relazione adeguata” che genitori o partner amorosi non sono stati o non sono ora in grado di fornire. In effetti, altri terapeuti danno ai loro pazienti qualcosa di quasi-tangibile: prescrizioni, esercizi, consigli, ecc. L’analista si trova a disagio nel pensare che lui non dà nulla di specifico, a parte un ascolto benevolente. Ma quel che lui o lei pretende di dare vale nella misura in cui dovrebbe rispondere ad una domanda del soggetto. Ma a quale domanda?

Molto spesso, i soggetti sono come il Caligola dell’omonimo dramma di Camus, uno o una che dice “in fondo, voglio solamente la luna!” Come poter dare la luna a chi dice di volerla? Con le nevrosi accade come in certi capricci infantili: il bambino chiede cose che lui stesso sa bene essere impossibile ottenere. Credo che la sofferenza nevrotica si distingua da qualsiasi altra sofferenza dovuta a frustrazioni o scacchi per questo: è domanda di un impossibile.

Eppure, il terapeuta cerca di dare comunque una risposta, prova a dare al soggetto quel che lui o lei crede che sotto sotto il soggetto voglia. Ogni scuola tende a definire in modo diverso ciò di cui il soggetto manca e che quindi occorre dargli: chi cerca di dare quella relazione con la madre-abbastanza-buona di cui il soggetto avrebbe bisogno, chi l’empatia, chi l’insight sulle proprie fantasie inconsci, chi un’esperienza emozionale correttiva, chi la holding, chi la reverie di cui la madre originaria era incapace, ecc. A parte poche eccezioni, il terapeuta non cerca di dare certo quella luna che – molto spesso - il soggetto nel fondo richiede, ma cerca di dare qualcosa che, secondo lui, occorre al soggetto. E’ vero, questo “dare” di solito comporta effetti terapeutici. Del resto, questo accade anche con figure non terapeutiche in senso professionale: un soggetto può trovare qualcosa che lo rassereni in una idea politica, in un culto religioso, in una credenza mistica o magica, in un partner sessuale, nel mettere al mondo un figlio, nella creazione artistica, ecc. Una persona di mia conoscenza, dopo lunghi anni di analisi con analisti di svariate scuole ha trovato, pare, un certo equilibrio in pratiche esoteriche, stabilendo in particolare una relazione quotidiana con il fantasma di una donna, certa Anna, secondo lei vissuta nel XVIII secolo. Possiamo dire che in questo caso lo spiritismo è stato più terapeutico delle varie analisi. La relazione con il fantasma di Anna ha fornito un oggetto più soddisfacente e rassicurante di tutte le relazioni analitiche. Allora, ogni psicoterapia è questo? Vale a dire, fornisce una risposta – più o meno illusoria – ad una domanda di fondo del soggetto? L’analista è chi fornisce qualcosa di squisitamente peculiare a chi soffre?

          Credo che questo fornire qualcosa al soggetto sia una fase inevitabile di ogni relazione analitica – è quel che Freud aveva chiamato transfert. Esso, a mio avviso, si produce perché l’analista pare voler davvero dare qualcosa al soggetto: è il controtransfert dell’analista (il suo cercare di dare qualcosa di cui l’altro mancherebbe) a produrre prima o poi transfert. Il punto è che Freud - a differenza della maggior parte dei post-freudiani – considerava il transfert una nevrosi, cioè un’illusione. Freud constatava che il soggetto può superare le sue illusioni nevrotiche solo attraverso un’altra illusione nevrotica: la sua relazione (transferale) con l’analista. Ad una dipendenza originaria – quella che lo getta nell’angoscia o nell’impotenza – sostituisce un’altra dipendenza, quella con l’analista. Ma se l’analisi fosse solo questo – la sostituzione di una nevrosi con un’altra nevrosi – non mi interesserebbe molto. Questa fase transferale – quella in cui l’analista dà, o sembra dare, qualcosa di concreto all’analizzante – va superata. L’illusione analitica va superata grazie all’analisi stessa – l’analisi deve (dialetticamente?) auto-superarsi.

          In effetti, il soggetto si converte – ovvero, opera una riconversione della propria forma di vita – quando realizza che quel che l’analista gli dava o sembrava dargli, in effetti, è nulla. Empatia, interpretazioni, insight, tolleranza, holding: tutto questo erano surrogati, parvenze. Il soggetto realizza che il transfert era insomma un’illusione necessaria, ma pur sempre illusione. L’analista non gli ha dato nulla – certo non la luna, ma non è stato nemmeno quella mamma sufficiente che gli è mancata. In altre parole, il soggetto si separa dall’analisi come dalla propria ultima illusione che possa avere qualcosa che gli è mancato. Ma in che modo questa separazione dall’ultima illusione, questo superamento del transfert e quindi dell’analisi, può portargli giovamento?

          Credo che in ogni nevrosi – malgrado le enormi differenze dall’una all’altra – giochi un paradossale godimento di una sofferenza, di uno scacco o trauma originari. E’ difficile dire in che cosa consista questo scacco o difetto essenziale in tutti i casi – ogni teoria metapsicologica offre scenari diversi di questo basic fault. Ma quel che conta è che il soggetto nevrotico, invece di fuggire questo scacco, vi ruota attorno: ne fa il centro della sua vita. Questo trauma originario – un’esclusione, una deiezione, un rigetto – è come una sorta di vuoto centrale nel cuore del soggetto. Ora, il nevrotico pare restare fedele a questo vuoto: non si decide a separarsene. E spesso utilizza la stessa analisi proprio per continuare a sfruttarlo: si compiace dell’angoscia e della depressione che esso suscita. Così l’ossessivo ossessivizza l’analisi, l’isterico istericizza l’analisi, il perverso la usa per ottenerne piaceri perversi, ecc. In modo rozzo e provvisorio posso dire che il fine (e la fine) dell’analisi dovrebbe essere proprio questo abbandono del trauma costitutivo, questa Gelassenheit (come dicevano i mistici medievali tedeschi), questa separazione dal vuoto. Il nevrotico sembra innamorato di questo vuoto, che è ad un tempo il suo oggetto e la sua identificazione. Il vero passaggio ad altro e all’altro – quella che chiamo conversione, la metanoia di S. Paolo – consiste nell’abbandono di questo oggetto o vuoto che sia. Ma per fare questo, il soggetto deve realizzare che in fondo l’analista non gli ha dato nulla: le soddisfazioni che nel corso del tempo gli aveva fornito erano solo contentino, pis-aller, surrogati, parvenze. Del resto, come avrebbe mai potuto dargli quel che lui o lei veramente volevano: la luna? Ovvero, qualcosa di impossibile? Il soggetto vorrebbe che questo scacco – esclusione, rigetto, abbandono – non sia mai avvenuto. E invece è accaduto! Così l’analisi riesce – non si risolve nella sostituzione di una nevrosi con un’altra, con l’entrata in un’interminabile nevrosi analitica – quando coincide con un processo di lutto: il soggetto deve separarsi non da un oggetto buono perduto, ma dalla perdita stessa. Deve cessare di vivere come Vestale della perdita e del vuoto.

 

 

          Quello che complica la discussione teorica tra analisti è il fatto che hanno un’immagine a mio avviso sbagliata del genere disciplinare a cui appartiene la loro pratica. Gran parte degli analisti credono che la loro pratica sia basata su una sorta di teoria scientifica come sarebbero una teoria sociologica o economica o psicologica: credono che la loro pratica sia scienza applicata. Ma l’analista non ha nulla a che vedere con un sociologo o un economista: se dovessi trovargli un equivalente, sarebbe piuttosto il politico.

Certo, non è male che governanti, educatori e psicoanalisti posseggano anche una qualche cultura scientifica – è auspicabile che il governante sappia di sociologia ed economia, che l’educatore sappia di psicologia evolutiva, e che lo psicoanalista sappia di teorie psicologiche e di altro. Ma questa cultura scientifica, benché meritoria, non è necessaria né sufficiente per essere buoni educatori, o buoni governanti, o buoni analisti. Ci vuole ben altro. Perché sono figure che devono soprattutto fare, ancor prima di spiegare – certo devono capire, ma capire non coincide sempre con lo spiegare scientificamente.

          Si dirà: esiste però anche una “scienza politica”, così come una pretesa “scienza educativa”. Le teorie analitiche sul soggetto sarebbero la scienza della pratica analitica? Ora, il punto è che una cosa è il bravo “scienziato politico” – di solito un professore universitario – altra cosa è il politico di successo. Una cosa è chi fa teoria analitica, altra cosa chi fa l’analista con successo. Si può essere ottimi scienziati politici e pessimi politici, e viceversa. E così, essere un buon analista non implica affatto l’essere un buon teorico analitico. Ora, se mettiamo da parte le “scienze” – della politica, dell’educazione, della psiche – e consideriamo le attività, Freud ci dice di esse che sono impossibili, come abbiamo già visto. Che cosa voleva dire con questo?

          Credo che volesse dire che nessuno può predire i risultati degli atti del governare, dell’educare e dell’analizzare. Non c’è alcuna ricetta sicura, alcun metodo per poter dire “fa’ così, e ti troverai sicuramente bene”. Si tratta di arti o attività incerte, in questo senso impossibili: conta più il fiuto, il sesto senso, che una metodologia precisa. Si tratta insomma di attività che si possono svolgere più o meno bene, ma che si basano su un rischio assoluto. E’ da questa “impossibilità” che ogni seria analisi della psicoanalisi deve partire. La psicoanalisi aspetta ancora il suo Machiavelli. Aspetta l’uomo che non si limiterà più a vedere gli atti analitici come applicazioni di certe teorie, da verificare o falsificare, ma come una forma di vita autonoma e a se stante. Se Machiavelli inventò la scienza politica, c’è ancora da inventare la “scienza psicoterapica”.

          Così come dal politico ci si aspetta non tanto il sapere, quanto il saper fare, così dall’analista ci si aspetta un certo saper-fare. Direi, sostanzialmente, una psicoprudenza. Ma allora, se provassimo a descriverla, a liberarla dai rivestimenti teorici, questa psicoprudenza?

 

          A parte tutto questo, pur avendo un gran rispetto per il genio clinico di Winnicott, ho sempre diffidato delle teorie e pratiche che mettono al centro la relazione madre-bambino, e quindi la relazione analista-analizzante. In effetti, l’idea che tutti i problemi nevrotici o psicotici dipendano dal fatto che la madre, o chi per lei, non sia stata abbastanza buona è una congettura molto seduttiva per la nostra cultura, ma che resta ben lungi dall’essere dimostrata – poco male, nulla o quasi in psicoanalisi è dimostrato. A me appare però un’ipotesi troppo angolata, eccessiva: essa mi sembra soddisfare il nostro istinto che punta a designare un colpevole unico, primario, del nostro malessere. “Tutta la colpa è della mamma”: che confortevole semplificazione della vita! Finalmente sappiamo con chi ce la dobbiamo prendere – e ci convinciamo che l’umanità sarà felice e gioiosa quando finalmente tutte le mamme saranno abbastanza buone. Pur senza essere falsa, la teoria “relazionale” della psicoterapia conforta l’analista garantendogli una sorta di onnipotenza: questi si pone come la-madre-finalmente-abbastanza-buona, come la seconda madre che riparerà i danni della prima, e che quindi farà crescere finalmente il figlio (il paziente) sano e felice. Il mito secondo cui sono le carenze materne a spiegare tutto si completa nella credenza magica secondo cui “la seconda mamma”, l’analista, riparerà tutto.

          Eppure, l’evidenza clinica ci insegna che molti turbamenti dei bambini dipendono da fattori che riguardano solo indirettamente la madre. Ad esempio, ci si è accorti ben presto della correlazione tra disturbi infantili e nascita di un fratellino o di una sorellina. In altre parole, molte nevrosi infantili paiono avere un’origine chiaramente traumatica, in parte esterna alla coppia madre-bambino: la nascita di un fratellino è una catastrofica modificazione dello status del soggetto nella sua casa affettiva. Si dirà: ma la nascita di un terzo incomodo è pur sempre un trauma interno alla relazione madre-bambino. Certo, ma la crisi di questa relazione così importante per un bambino trova la sua origine non esattamente nella relazione stessa, quanto in un evento in qualche modo esterno. Insomma, prima o poi il soggetto si rende conto che il soggetto che lo sostiene non si riduce ad essere unicamente soggetto relazionale, oggetto-per-lui. E’ questo il vero trauma: l’altro non è un mio oggetto, ma un soggetto per conto suo – la relazione con me non lo esaurisce. Il trauma che causa la nevrosi non è il fatto che la madre non risponda adeguatamente ai bisogni del figlio o della figlia, ma il fatto che il soggetto si debba all’improvviso riconvertire ad un modo di relazioni del tutto inedito per lui.

Certo, il winnicottiano subito dirà: "proprio perché la nascita di un fratellino è un trauma, la funzione della madre abbastanza buona è quella di aiutare il figlio ad affrontarlo, dandogli segnali che lei gli vuole ancora bene, ecc.” Non metto in dubbio che i genitori buoni siano quelli che riescono, in qualche modo, ad aiutare i figli a superare le fasi traumatiche di cambiamento nella vita – svezzamento, nascita di un fratellino, pubertà, lutti, ecc. Non nego che l’analista debba comportarsi anche come un buon genitore, che aiuti il figlio-paziente ad affrontare cambiamenti catastrofici – la madre-non-abbastanza-buona risulta essere, in fin dei conti, una madre-non-abbastanza-analista. Eppure spesso l’evento traumatico non proviene dalla madre o dal padre, ma dalla vita esterna alla relazione. E’ questo il punto che la psicoanalisi d’oggi tende a rimuovere, per restituire all’analista una sorta di onnipotere terapeutico.

Io proporrei – come sano antidoto all’orgia di winnicottismo in Italia – di recuperare invece la tesi di Otto Rank (che gli fece meritare l’espulsione dalla cerchia di Freud) sul trauma della nascita: non mi si verrà a dire che la nascita è traumatica per un soggetto perché la madre non è stata abbastanza buona a vivere la gravidanza! La mia impressione è che molti soggetti hanno gravi difficoltà, anche nella loro maturità, perché non hanno mai accettato quel che Cioran chiamava “l’inconveniente di essere nati”. Non si sono mai ripresi dal trauma della nascita e della vita.

Della teoria “relazionista” - oggi prevalente in molta psicoanalisi - si può dire quel che va detto delle teorie “linguistiche” (in particolare quella di Lacan, ma non solo): ambedue finiscono con il considerare causa ultima e fondamentale dei disturbi mentali un riflesso della loro specifica tecnica terapeutica. Lacan notava che, in sostanza, l’analisi opera attraverso parole; ma allora, se i nodi nevrotici possono essere sciolti attraverso una pratica linguistica, perché non concludere che questi nodi sono essi stessi di natura linguistica? L’idea è brillante, e si impone a molte menti come geniale. Anziché chiederci come fanno delle interpretazioni verbali a sciogliere miracolosamente complessi densi di affetti, non è meglio pensare che questi complessi sono appunto, essi stessi, interpretazioni verbali? La cura parteciperebbe insomma della stessa sostanza della malattia. [Questo ragionamento è alla base del duraturo fascino di tutte le filosofie idealiste. Queste fanno sempre notare che la riflessione sul mondo si fa sempre e solo attraverso concetti e pensieri; ma allora, perché non considerare il mondo stesso come costruito, in ultima istanza, da concetti e pensieri?]

Altri analisti invece hanno notato che l’analisi è essenzialmente una relazione tra due persone: questa relazione è capace di modificare la vita di una di queste. Ma allora, ci si è detti, non può essere che la malattia curata dalla relazione analitica sia essa stessa una relazione malata? Anche qui, la causa viene estrapolata a partire dalla tecnica. Certo la psicoanalisi fornisce una sega e una corda perché il prigioniero evada dalla sua prigione - ma da questo troppo spesso si conclude che il soggetto sia in prigione per una mancanza di sega e di corda! In realtà, egli è in prigione per ragioni del tutto diverse.

Teorie “linguistiche” o “relazioniste” in psicoanalisi riflettono una tendenza ricorrente in chi pratica una professione, che chiamerei Ontologizzazione del Ferro del Mestiere. Si pensi ai massoni, originariamente una confraternita di muratori: hanno costruito tutta una teoria cosmica su Dio come Architetto, sull’universo come Costruzione. Immagino che se i calzolai fossero una confraternita mistica, anche loro finirebbero con il teorizzare un Cosmo-Scarpa e una qualche forma di divinità calzolaia... E’ la forma sublime della deformazione professionale: pensare che la propria specifica attività sia una chiave per leggere il mondo. Sappiamo come la stessa filosofia sia caduta spesso in questa tentazione: di dare al mondo stesso caratteri desunti dall’arte filosofica.

Analogamente, è forte la tentazione degli analisti di leggere gran parte dei problemi umani nella chiave offerta dalla loro pratica. Il fatto che l'analisi, per esempio, operando con le produzioni immaginarie dei soggetti, permetta talvolta un'evasione da una forma di vita infelice, non implica affatto che (1) tutta la vita mentale sia dominata dall'immaginario, e (2) che i processi immaginari siano la causa prima e ultima della patologia e sofferenza mentali. Così, senza negare l’importanza di avere una madre sufficientemente buona, ho forti dubbi che le sofferenze mentali siano tutte e fondamentalmente problemi di relazione - anche se l’analista non può far altro che affrontarle proponendo una certa relazione. Se a chi manca di una gamba non posso far meglio che offrire una gamba di legno, questo non implica che la gamba gli manca perché mancava di legno...

 

 

 

          Pur avendo un gran rispetto per il genio clinico di Winnicott, ho sempre diffidato delle teorie e pratiche che mettono al centro la relazione madre-bambino, e quindi la relazione analista-analizzante. In effetti, l’idea che tutti i problemi nevrotici o psicotici dipendano dal fatto che la madre, o chi per lei, non sia stata abbastanza buona è una congettura molto seduttiva per molti di noi, ma che resta ben lungi dall’essere dimostrata – poco male, nulla o quasi in psicoanalisi è dimostrato. A me appare però un’ipotesi troppo angolata: essa mi sembra soddisfare il nostro istinto che punta a designare un colpevole unico, primario, del nostro malessere. “Tutta la colpa è della mamma”: che confortevole semplificazione della vita! Finalmente sappiamo con chi ce la dobbiamo prendere – e ci convinciamo che l’umanità sarà felice e gioiosa quando finalmente tutte le mamme saranno abbastanza buone. Pur senza essere falsa, la teoria “relazionale” conforta l’analista garantendogli una sorta di onnipotenza: questi si pone come la-madre-finalmente-abbastanza-buona, come la seconda madre che riparerà i danni della prima, e che quindi farà crescere finalmente il figlio (il paziente) sano e felice. Il mito secondo cui sono le carenze materne a spiegare tutto si completa nella credenza onnipotente secondo cui “la seconda mamma”, l’analista, riparerà tutto.

          Eppure, l’evidenza clinica ci insegna che molti turbamenti dei bambini dipendono da fattori che riguardano solo indirettamente la madre. Ad esempio, ci si è accorti ben presto della correlazione tra disturbi infantili e nascita di un fratellino o di una sorellina. In altre parole, molte nevrosi infantili paiono avere un’origine chiaramente traumatica, dove spesso la coppia madre-bambino è perturbata dall’esterno: la nascita di un fratellino è una catastrofica modificazione dello status del soggetto in quella che chiamerei la sua “casa affettiva”. Si dirà: ma la nascita di un terzo incomodo è pur sempre un trauma interno alla relazione madre-bambino. Certo, ma la crisi di questa relazione così importante trova la sua origine non esattamente nella relazione stessa, quanto in un evento in qualche modo esterno ad essa. Insomma, prima o poi il soggetto si rende conto che l’altro che lo sostiene non si riduce ad essere unicamente soggetto relazionale, oggetto-per-lui. E’ questo il vero trauma: l’altro non è un mio oggetto, ma un soggetto in se e per se – la relazione con me non lo esaurisce. Il trauma che causa la nevrosi non è il fatto che la madre non risponda adeguatamente ai bisogni del figlio, ma il fatto che il soggetto si debba riconvertire ad un modo di relazioni del tutto inedito per lui.

Certo, il “relazionista2 dirà: "proprio perché la nascita di un fratellino è un trauma, la funzione della madre abbastanza buona è quella di aiutare il figlio ad affrontarlo, dandogli segnali che lei gli vuole ancora bene, ecc.” Non metto in dubbio che i genitori buoni siano quelli che riescono, in qualche modo, ad aiutare i figli a superare le fasi traumatiche di cambiamento nella vita – svezzamento, nascita di un fratellino, pubertà, lutti, ecc. Certo l’analista deve comportarsi anche come un buon genitore – la madre-non-abbastanza-buona risulta essere, in fin dei conti, una madre-non-abbastanza-analista. Eppure spesso l’evento traumatico non proviene dalla madre o dal padre, ma dall’esterno della relazione. E’ questo il punto che la psicoanalisi d’oggi tende a rimuovere, per restituire all’analista una sorta di onnipotere terapeutico.

Io proporrei – come sano antidoto all’orgia di winnicottismo in Italia – di recuperare invece la tesi di Otto Rank (che gli fece meritare l’espulsione dalla cerchia di Freud) sul trauma della nascita. Non mi si verrà a dire che la nascita è traumatica per un soggetto perché la madre non è stata abbastanza buona a vivere la gravidanza! La mia impressione è che molti soggetti hanno gravi difficoltà, anche nella loro maturità, perché non hanno mai accettato quel che Cioran chiamava “l’inconveniente di essere nati”. Non si sono mai ripresi dai traumi della nascita e della vita.

Della teoria “relazionista” si può dire quel che va detto delle teorie “linguistiche” (in particolare quella di Lacan, ma non solo): ambedue finiscono con il considerare causa ultima e fondamentale dei disturbi mentali un riflesso della propria specifica techne terapeutica. Lacan ha fatto notare che, in sostanza, l’analisi opera attraverso parole; ma allora, se i nodi nevrotici possono essere sciolti attraverso una pratica linguistica, perché non concludere che questi nodi sono essi stessi di natura linguistica? L’idea è brillante, direi geniale. Anziché chiederci come fanno delle interpretazioni verbali a sciogliere miracolosamente complessi densi di affetti, non è meglio pensare che questi complessi siano appunto, essi stessi, interpretazioni verbali? La cura parteciperebbe insomma della stessa sostanza della malattia.

Altri analisti invece hanno notato che l’analisi è essenzialmente una relazione tra due persone: questa relazione è capace di modificare la vita di una di queste. Ma allora, ci si è detti, non può essere che la malattia curata dalla relazione analitica sia essa stessa una relazione malata? Anche qui, la causa viene estrapolata a partire dalla tecnica. Certo la psicoanalisi fornisce una sega e una corda perché il prigioniero evada dalla sua prigione - ma da questo troppo spesso si conclude che il soggetto sia in prigione per una mancanza di sega e di corda! In realtà, egli è in prigione per ragioni del tutto diverse.

Teorie “linguistiche” o “relazioniste” in psicoanalisi riflettono una tendenza ricorrente in chi pratica una professione, che chiamerei Ontologizzazione del Ferro del Mestiere. Si pensi ai fra’ massoni, originariamente una confraternita di muratori: hanno costruito tutta una teoria cosmica su Dio come Architetto, sull’universo come Costruzione. Immagino che se i calzolai fossero una confraternita mistica, anche loro finirebbero con il teorizzare un Cosmo-Scarpa e una qualche forma di Divinità Calzolaia... La deformazione professionale raggiunge la sua forma sublime: pensare che la propria specifica attività sia una chiave per leggere il mondo. Sappiamo come la stessa filosofia sia caduta spesso in questa tentazione: di dare al mondo stesso caratteri desunti dall’arte filosofica, il mondo appare filosofizzato.

Analogamente, è forte la tentazione degli analisti di leggere gran parte dei problemi umani nella chiave offerta dalla loro pratica. Eppure il fatto che l'analisi, per esempio, operando con le produzioni immaginarie dei soggetti, permetta talvolta un'evasione da una forma di vita infelice, non implica affatto che (1) tutta la vita mentale sia dominata dall'immaginario, e (2) che i processi immaginari siano la causa prima e ultima della patologia e sofferenza mentali.

Così, senza negare l’importanza di avere una madre sufficientemente buona, ho forti dubbi che le sofferenze mentali siano tutte e fondamentalmente problemi di relazione - anche se l’analista non può far altro che affrontarle proponendo una certa relazione. Se a chi manca di una gamba non posso far meglio che offrire una gamba di legno, questo non implica che la gamba gli manca perché mancava di legno...

          Credo che la prassi analitica possa produrre una conversione soggettiva solo se l’analista accetta che ha a che fare con problemi e sofferenze nei cui confronti la techne non ha presa! La sua efficacia non consiste – come ha creduto a lungo l’analisi convenzionale – nel fare le buone interpretazioni: l’analisi può consistere invece nel mostrare che la soluzione è fuori di quella interminabile interpretazione del vuoto che è stata la vita del soggetto.

Per questo l’analisi, anche se include aspetti tecnici, è quindi sostanzialmente un atto etico: essa mira (o dovrebbe mirare) a far passare il soggetto dalla sofferenza per sé alla sofferenza per l’altro. Ovvero, ad emancipare il soggetto dal proprio narcisismo (in questo senso, ogni sofferenza nevrotica o perversa è narcisistica, aldilà delle sindromi specificamente chiamate narcisistiche): l’analisi può aprire a muove possibilità di godimenti e sofferenze in cui l’altro conti.

 

          L’analisi può essere efficace solo se accetta che ha a che fare con problemi e sofferenze nei cui confronti essa non ha presa! La sua efficacia non consiste – come ha creduto a lungo l’analisi convenzionale – nel fare le buone interpretazioni: essa può consistere solo nel mostrare che la soluzione è fuori di quella interminabile interpretazione di un vuoto che è stata la vita del soggetto.

 

 Sergio Benvenuto



[1] M. Smith, G. Glass, “Meta-analysis of Psychotherapy Outcome Studies”, American Psychologist, 32, 1977, pp. 752-760.

 

[2] R. Dawes, House of Cards, Free Press, New York 1994. Vedi anche J. Horgan, The Undiscovered Mind, The Free Press, New York 1999, capp. 2-3.

 

[3] Preferisco il termine “analizzante” a quello di “analizzando” proprio perché, come risulta dalle ricerche di Smith, Glass e Dawes, è proprio il soggetto in analisi a fare tutto o quasi il lavoro.

[4] Marco Focchi, Il cambiamento in psicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino 2001, p. 49.

[5] D.W. Winnicott, Gioco e realtà, Armando, Roma 1974, pp. 94-6.

 

[6] Allora degli adulti cambiano non perché ottengono un insight – una presa di coscienza – del loro inconscio: è perché ad un certo punto “cambiano gioco”. Con questo non voglio dire che certe interpretazioni analitiche, brillanti e profonde, non siano utili con gli adulti: ma esse valgono non per il loro contenuto semantico. Valgono nella misura in cui si tratta di un gioco a cui essi sono invitati. Certe interpretazioni tengono sulle gambe, altre sono degli schiaffi. Ad esempio, trovo che tante interpretazioni transferali – di cui molti analisti fanno abuso – siano di fatto degli schiaffi rigettanti. L’affetto di verità è prima di tutto un affetto, vale a dire una relazione pulsionale con un altro e con ciò che in noi è “altro”.

 

[7] Un freudiano old-fashioned vedrebbe in particolare nelle convulsioni una mimesi dell’orgasmo. E perché no? La famosa Urszene (scena primaria) è traumatizzante per il bambino proprio perché è un piacere adulto da cui egli è escluso, in tutti i sensi – nel senso che padre e madre godono non di lui, e nel senso che a questo tipo di godimento “convulsivo” il soggetto infante non ha accesso.

 

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