Flussi di Sergio Benvenuto

Franco Basaglia30/lug/2017


 

          Rimasi un paio di mesi all’ospedale San Giovanni di Trieste nella primavera del 1971, diretto allora da Franco Basaglia. Partecipai intensamente alla vita di quello che era ancora un manicomio tradizionale, come ormai non esistono più in Italia. Alcuni reparti erano sconvolgenti: i pazienti si aggiravano come spettri o larve nella loro grezza divisa manicomiale, e, un po’ come gli zombi, si avventavano famelici di curiosità e affetto su chi, come me, veniva “da Fuori”. Le donne dei reparti dei più regrediti avevano il cranio rasato o capelli cortissimi, come nei Lager nazisti.

          Studente di psicologia all’università di Parigi 7, ero stato ammesso come stagiaire all’ospedale di Trieste. Benché anch’io un po’ abbacinato dalla crescente celebrità di Basaglia, già allora però non aderivo al suo sistema di valori. Gli avevo detto chiaro e tondo che tendevo alla psicoanalisi, che apprezzavo esperimenti come la psicoterapia istituzionale alla Clinique di La Borde, diretta da Jean Oury e animata da Felix Guattari – e Basaglia aborriva la psicoterapia istituzionale, proprio perché “istituzionale”. Secondo lui, difatti, non aveva senso sostituire le istituzioni psichiatriche tradizionali con istituzioni migliori, più aperte, più democratiche, meno totalitarie: un’istituzione curativa per lui era una contraddizione in termini. Eppure, benché io non fossi sulla sua stessa lunghezza d’onda, rimasi impressionato dal personaggio, che allora frequentai quotidianamente. Apprezzai in particolare le sue capacità di psichiatra tradizionale: di entrare in contatto e di interagire allo stesso tempo in modo fresco e competente con i malati.

          Mi trattava con i guanti – forse perché ero uno studente che veniva pur sempre dalla Sorbona? Del resto la sua stanza di direttore era quasi sempre aperta, e io ne approfittavo. Mi fece partecipare a incontri in case private riservati ai “cospiratori”, ovvero a quegli psichiatri che lui aveva fatto venire a Trieste proprio per smantellare l’ospedale. Ricordo con quale disprezzo e irritazione parlasse dei vecchi psichiatri dell’ospedale che cercavano di cavalcare la tigre del nuovo corso. Lui e la sua équipe vivevano per l’ospedale anche quando fisicamente non vi stavano: si pasteggiava parlando dell’ospedale, si andava al cinema pensando all’ospedale…

Il primo giorno mi disse “lei qui si troverà male! perché qui non funzioniamo in modo psicoanalitico.” Di fatto mi trovai male o bene? Diciamo che fui troppo occupato a fare esperienze e a imparare per realizzare che mi “trovavo male”. Partecipando assiduamente al lavoro dei basagliani, capii finalmente quello che volevano fare. Il loro intento, fondamentalmente etico-politico, partiva da una sorta di assunto filosofico basilare: contestare e cercare di distruggere La Tecnica in psichiatria. Questa demonizzazione della tecnica in tutte le sue forme derivava dalla cultura squisitamente fenomenologica di Basaglia. Husserl, Binswanger, Minkowski, ecc., erano l’orizzonte entro cui lui pensava la psichiatria. La psicoanalisi veniva anch’essa esclusa in quanto tecnica. Come proclamò un basagliano coram populo: “Noi rifiutiamo tutto il Sistema tecnico della psichiatria: questa va dal miserabile degente che marcisce nel manicomio più degradato, fino al giovane bello, ricco, biondo e con gli occhi azzurri che va da uno psicoanalista tre volte a settimana”. La psicoanalisi è una tecnica oggettivante per benestanti, ma sempre tecnica oggettivante è.

Un giorno mi disse “sono convinto che l’elettroshock in molti casi è efficace; ad esempio nelle crisi di malinconia. Ma qui non lo usiamo per la sua connotazione violenta e repressiva”. Non era quindi l’efficacia tecnica dell’elettroshock in questione. Eppure a Trieste si usavano molti psicofarmaci, e allora io con impertinenza gli chiesi “lei è contrario a ogni tecnica? ma non a quella farmaceutica”. Mi rispose che gli psicofarmaci erano un aiuto per superare la segregazione manicomiale. Ebbi persino la prontezza di spirito di ribattergli “ma forse molte altre tecniche, psicoanalisi inclusa, possono aiutare a superare la segregazione manicomiale.” A Trieste mi resi conto quanto l’eliminazione progressiva degli ospedali psichiatrici – e non solo in Italia – non sarebbe mai stata possibile se non si fossero inventati psicofarmaci un tantino efficaci. La storia della psicofarmacologia e quella della demanicomializzazione, contrariamente a quel che ancora alcuni credono, sono tra loro indissolubili.

          La pratica dell’équipe di Basaglia si basava sulla promozione di una agitazione liberatoria: “creare il movimento”. Si aprivano le porte dell’ospedale, si facevano comunicare i reparti tra loro, si favoriva un’osmosi crescente tra ospedale, quartiere e città. Si “aprivano spazi”: non solo fisici, ma anche di iniziativa sociale e di animazione. Si faceva “circolare la gente”. Alla Tecnica (concepita come chiusura) si opponeva una mistica dell’Apertura.

A Trieste, comunque, mi lasciava perplesso una pudica ritrosia degli operatori, coerenti col progetto del capo, a riflettere sui loro conflitti, e sulle loro dinamiche interpersonali. Quando facevo presente questa esigenza di riflettere anche su se stessi come “soggetti in sofferenza” nel lavoro quotidiano, venivo benevolmente canzonato come uno traviato dalla mentalità psicoanalitica. In effetti, a Trieste nell’équipe curante si poteva parlare solo dei bisogni dei degenti, del lavoro centrifugo da fare. Azione e riflessione andavano sempre in un senso solo, dal curante al curato, non andavano mai centripetamente all’interno del campo dei “tecnici” (come gli operatori di Trieste chiamavano se stessi, alquanto ironicamente) in forma di auto-riflessione.

Alcuni basagliani di Trieste erano persone stimabili, e divenni loro amico. Ma molti di loro erano dei comunistelli un po’ saccenti inclini alle simplifications terribles. A tutti era chiara comunque una cosa: la loro non era anti-psichiatria! Né da parte loro c’era alcuna intenzione di inventare una “nuova psichiatria”, o una nuova scienza: la loro azione si voleva puramente anti-istituzionale. Spesso a Trieste arrivavano in visita frotte di militanti della Rivoluzione il cui Leit Motiv era: “contro la vecchia psichiatria, qui a Trieste si fa vera scienza psichiatrica, quella nuova!” Costoro venivano subito sconfessati e spesso apertamente derisi dall’équipe di Trieste. Negli anni successivi, ho potuto constatare quanto il progetto di Basaglia, malgrado la sua grande popolarità fino agli anni 80, sia stato poco capito, e poco soprattutto da coloro che dicono di ammirarlo.

L’idea di fondo è che si dovesse rispondere ai veri bisogni dei malati. Ma quali erano questi veri bisogni? Basaglia mi disse una volta che “un vero bisogno” dei malati era di avere la carta igienica, non di avere carta igienica patinata o di color rosa; questi ultimi erano “bisogni ideologici”, insomma non veri bisogni. Certo che il desiderio di carta igienica raffinata può portare a disturbi intestinali, diceva, “anche una diarrea può essere ideologica”. Questa faccenda della diarrea ideologica all’epoca mi impressionò. Dopo tutto, qualsiasi sintomo nevrotico, per un fenomenologo marxista quale lui era, esprime un bisogno ideologico. Ma perché quello di carta igienica basic sarebbe un bisogno vero? Perché non usare l’acqua, rinunciando anche alla carta igienica? Del resto, per i taoisti o per i filosofi cinici greci, il bisogno per qualsiasi oggetto era inessenziale (“ideologico”). Salvo per un oggetto, la ciotola - ma Diogene gettò via anche quella. Insomma, a partire da quale momento un manufatto soddisfa un vero bisogno o crea desideri, ovvero bisogni ideologici? Il limite tra bisogno –  come desiderio che è legittimo soddisfare – e desideri non è mai assoluto, ma storicamente fluttuante: dipende da ciò che una società, in una data fase di sviluppo dei consumi, considera bene indispensabile o meno. Oggi il comfort hi-tech – cellulari, auto, computer, internet, ecc. - è la nostra indispensabile ciotola.

Basaglia era come divorato dalla necessità di agire, e certo era una persona irritabile. Anche con me una volta montò su tutte le furie perché gli avevo fatto non so più quale obiezione sulla strategia di de-manicomializzazione. I suoi stessi tic oculari esprimevano la sua impazienza, la sua fretta….  Ma in fondo Basaglia era soprattutto un intellettuale raffinato, appassionato di fenomenologia e di arte (suo fratello era un artista quotato), che si era forzato a fare il Grande Riformatore. Era tanto incazzato proprio contro i suoi colleghi psichiatri, contro il sistema manicomiale? o contro il fatto che, nel fondo, non aveva potuto seguire la sua vera vocazione?

 

 

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