Flussi di Sergio Benvenuto

Le sei tappe di Karl Abraham15/ott/2020


Sergio Benvenuto

 

(gennaio 1983)

 

Proponiamo qui una lettura critica di due saggi di Karl Abraham, del 1923 e 1924[1], sulla storia evolutiva della libido e sullo sviluppo dell’amore oggettuale. Abrahan considerava il saggio del 1924 come il suo capolavoro. La mia sarà una lettura orientata, in quanto nel testo di Abraham mi premeva soprattutto rilevare le coordinate e i nodi della sua teoria della malinconia – questo nell’ambito di una rilettura generale delle teorie post-freudiane delle depressioni[2]. Potrà allora sembrare strano che non facciamo riferimento a un saggio precedente di Abraham incentrato proprio sulla malinconia[3]: è che esso ci è sembrato in fin dei conti riassorbito e superato dal saggio freudiano successivo Lutto e melanconia[4].[i]

 

  1. 1.    L’oggetto e la sua ombra

 

Nel saggio posteriore Abraham affronta un nodo di problemi assolutamente centrale in psicoanalisi: il concetto di oggetto in quanto concetto-matrice di una serie di divisioni e differenziazioni (oggetto della pulsione e oggetto d’amore, oggetto parziale e totale, oggetto buono e cattivo, relazione d’oggetto versus narcisismo, ecc.). Ora il concetto di oggetto – o meglio la sua intersecazione con le pulsioni, l’amore, il narcisismo – è centrale anche nella teoria psicoanalitica classica delle depressioni. Per capire la formula solo in apparenza così chiarificatrice, come quella di Freud - «nella malinconia l’ombra dell’oggetto cade sull’io»[5] - occorreva interrogarsi prima di tutto sulla consistenza di questo oggetto, oltre che sulla sua capacità di ‘fare ombra’.

Qui sembra che Abraham voglia rispondere a due domande lasciate in sospeso nella teoria freudiana della malinconia: perché «si sceglie» la malinconia al posto della nevrosi ossessiva? E perché il sadismo (super-egoico) implicito nella malinconia è così doloroso?

È per rispondere a questi interrogativi che Abraham sdoppia le tre fasi preedipiche di Freud in sei fasi (vedere lo schema alla fine del saggio). La malinconia sarebbe una sindrome più regressiva della nevrosi ossessiva, perché pur riportandosi tutt’e due alla fase anale, la prima corrisponde alla fase in cui il bambino espelle le materie fecali, mentre l’ossessivo le trattiene; e a livello orale la malionconia corrisponde al livello sadico del mordere (e non a quello del succhiare, come nell’oralità pre-ambivalente). Così “proiettata” l’eziologia della malinconia sul film dello sviluppo libidico, la malinconia risulta allora più regressiva non solo in relazione all’ossessione, ma anche in relazione alla paranoia: difatti il paranoico regredisce allo stadio che Abraham classifica “terzo” (primo stadio sadico-anale di incorporazione parziale dell’oggetto), il malinconico regredisce direttamente al secondo stadio (stadio orale cannibalico).

È da notare comunque che questo riferimento allo sviluppo libidico è imperniato soprattutto sulle vicissitudini dell’oggetto, anziché in rapporto alle mete pulsionali. In effetti nel piacere di trattenere gli escrementi (meta del quarto stadio) Abraham legge essenzialmente una cura per l’oggetto, il fine di mantenerlo (come nella nevrosi ossessiva), mentre nella meta espulsiva della prima fase sadico-anale (meta del terzo stadio) l’oggetto tende a essere eliminato. In altre parole, è nell’evoluzione - a senso unico, con un solo télos - dei rapporti con l’oggetto che Abraham legge e classifica, differenzia le varie mete pulsionali specifiche di ogni fase: succhiare, divorare, espellere, trattenere nel corpo, penetrare e/o essere penetrato? La storia delle mete pulsionali è la storia di un progresso verso l’oggetto.

Per dimostrare la tesi della fissazione orale e anale del malinconico, Abraham deve, evidentemente, portare esempi clinici. La “prova” sarebbe nella frequenza delle perversioni sessuali di tipo orale (cunnilinguo[6], desiderio di mordere il partner, ecc.) nei depressi; frequenza da lui interpretata in relazione alla forza delle pulsioni cannibaliche della fase sadico-orale. Tuttavia questi esempi clinici creano ad Abraham una difficoltà: se il malinconico finisce con il mettere in atto, o desidera consciamente, dei godimenti perversi regressivi orali, da dove proverrebbe allora la sua sofferenza? Tanto più che, come nota lo stesso Abraham, questi desideri non comportano disgusto, né orrore, anzi possono essere espressi «in modo infantile, disinibito»[7]. Occorre allora spiegare la sofferenza prodotta da questa regressione libidica, «…questo strano rapporto tra libido e io» nel malinconico[8].

La risposta si basa sulla tesi che la fase sadico-orale è di per sé ambivalente, e quindi fonte di sofferenza e di conflitto per il soggetto che vi regredisce. Anche il piacere di mordere è conflittuale, perché come atto di divorazione introiettiva è un atto d’amore, mentre squarciarlo, distruggerlo, conseguenze più o meno connesse alla divorazione, sono atti di odio. Abraham ritrova questa ambivalenza, in qualche modo caratteriale, persino negli intervalli liberi della ciclotimia: nota con acume che la forma di dedizione del ciclotimico ai propri interessi professionali, intellettuali, amorosi, ecc. è di tipo «violento e spasmodico»[9][ii] e come tale preannuncia il crollo certo di questa dedizione. D’altro canto gli sembra che la stessa oscillazione tra mania e malinconia confermi l’ambivalenza di fondo del maniaco-depressivo.

Abraham ritrova questa ambivalenza anche a livello del vissuto malinconico, per esempio nell’esibizione del disprezzo di sé e nel bisogno di autosminuirsi: egli insiste sul fatto che sotto l’auto-umiliazione bisogna leggere un complesso di superiorità. Il malinconico del resto è ambivalente non solo nei confronti dell’oggetto, ma anche nei confronti dell’Io, identificato all’oggetto introiettato. Alla base del cosiddetto “delirio di piccolezza” Abraham ritrova una forma, anche se ambivalente, di “grandezza” - grandezza nel peccato e nella mostruosità, ma sempre grandezza. Tutta la sofferenza malinconica proverebbe il conflitto tra due narcisismi, uno negativo (per esempio, sottostima, sottovalutazione di sé) e l’altro positivo (per esempio sovrastima, sopravvalutazione di sé).

Ma allora sorgono due domande:

1) se la sofferenza è inerente all’ambivalenza di questa fase (e quasi tutte le fasi libidiche, salvo la prima e l’ultima, sono caratterizzate da una specifica ambivalenza nei confronti dell’oggetto) perché allora non succede che ogni bambino in cui predomina questa fase sia un depresso?

2) se alla base del “delirio di piccolezza” e delle autoaccuse malinconiche c’è un narcisismo (cioè un amore di sé) virulento, perché questo si esprime unicamente in questa forma rovesciata, come odio di sé?

Non sono domande che Abraham articola esplicitamente. Comunque può valere come risposta alla prima la sua insistenza sull’ipotesi di una lesione grave del narcisismo infantile a causa di gravi delusioni amorose. In altri termini: un bambino si deprime (e l’adulto non fa che ricadere in questa depressione primitiva) perché si sente abbandonato, innanzitutto dalla madre, ma anche dal padre (delusione bilaterale). Da notare che questa delusione è malinconicogena solo se avviene prima dell’edipo: infatti la delusione amorosa è costituiva del complesso edipico. Le ricadute depressive della vita adulta sono ripetizioni di questa prima delusione sopraggiunta in un contesto di erotismo orale molto forte per costituzione. Alla base ci sarebbe dunque qualcosa dell’ordine del trauma, una delusione amorosa. In sintesi, il processo di “melanconizzazione” può essere così ricostruito:

1) delusione da parte dell’oggetto amato,

2) tendenza a espellerlo,

3) introiezione di questo stesso oggetto espulso,

4) vendetta sadica contro l’io che ha incorporato l’oggetto.

Come si vede, ci sono tutte le grandi linee dei successivi sviluppi delle teorie di Melanie Klein, che fu analizzata da Abraham.

Però si ha l’impressione che manchi un anello alla concatenazione: la seconda fase, espulsiva, presuppone già che si tratti di un oggetto interno – quindi bisognerebbe supporre un’introiezione ancora più originaria dell’oggetto (ma allora come potrebbe deludere all’esterno?). Abraham storna la difficoltà riprendendo da Freud la tesi dell’autoerotismo originario, quando il soggetto è ancora confuso con l’oggetto- L’atto espulsivo costituirebbe allora il clivaggio, la separazione originaria tra io e non-io. Forse più che di una “espulsione dell’oggetto”, converrebbe parlare allora di una costituzione, se non di una genesi, dell’oggetto attraverso un’espulsione che è tale solo metaforicamente, dato che corrisponde in realtà a una differenziazione inaugurale.

Resta però la perplessità: se l’oggetto non è ancora nemmeno costituito come tale, come può deludere? Come si vede questa è la difficoltà che Melanie Klein cercherà di risolvere elaborando un sistema in cui l’oggetto (primo tra tutti il seno) viene dato sin dall’inizio come correlativo al fantasma pulsionale, a un tempo oggetto (per un soggetto) e luogo di fantasmi originari.

 

  1. 2.    L’enigma dell’ambivalenza

 

Ma c’è anche da risolvere una seconda difficoltà: se tutta la sofferenza malinconica è dovuta all’ambivalenza, perché appare solo il versante della sofferenza?

Abraham propone una soluzione molto simile al processo che Freud descrive ne L’Io e l’Es[10]: l’introiezione del malinconico è bilaterale, anzi doppia. Abbiamo un oggetto introiettato agente (il “criticante”) e un oggetto introiettato agito, passivo (il “criticato”). L’oggetto-agente è l’Ideale dell’io (che costituisce l’istanza super-egoica: ma Abraham non disponeva ancora della nozione di Superio, introdotta solo da poco da Freud), mentre la parte sofferente dell’io è quel che potremmo chiamare l’oggetto-agito. Il godimento sadico è quindi appannaggio esclusivo del “criticante”, tutta la sofferenza è del “criticato”.

Come si può vedere, almeno fino a questa fase, la tesi di Abraham va nel senso di riportare la sofferenza patologica, anche quella così radicale nella malinconia, al Lustprinzip, a una “dialettica” del piacere[11].[iii] Questo progetto si basa sul principio che die Lust è il piacere-desiderio di un corpo, che questo Lust ha un suo luogo elettivo. Da qui la tesi di una primarietà, non solo archeo-logica, del narcisismo: anche ciò che sembra radicalmente antinarcisistico (per esempio il “delirio di piccolezza”, le auto-accuse depressive, ecc.) viene riportato, trova una sua verità, in un narcisismo più fondamentale. Per riportare la sofferenza al godimento, la diminuzione di sé al narcisismo, Abraham fa quindi appello all’ambivalenza costitutiva delle fasi narcisistiche, ambivalenza che permane fino al dischiudersi dell’amore oggettuale post-ambivalente. In altre parole egli fa appello a una discordanza essenziale a die Lust, al fatto che essa diverge originariamente in amore e odio. Ma come rendere conto di questa divergenza? Ricorrendo a una delusione primaria del bambino, a una mancanza fondamentale dell’oggetto per la pulsione. Ma d’altra parte l’oggetto, come altro del soggetto, a sua volta è costituito proprio dal fatto che manca all’appuntamento. L’autoerotismo non significa in effetti l’autosufficienza erotica del corpo, ma al contrario, significa che il mondo esterno (innanzitutto la madre) fornisce di volta in volta la gratificazione attesa. Paradossalmente, è l’assenza dell’oggetto reale gratificante a costituire l’oggetto (Objekt) come rottura della beatitudine autoerotica. Sarà questo l’aspetto messo in rilievo soprattutto dal filone che verrà chiamato dell’object-relation (a partire da Ronald Fairbairn). Ma sarà messa in rilievo anche da Lacan: secondo lui, la pulsione stessa si articola come tale proprio in relazione all’oggetto che la causa (oggetto a, lo chiamerà), il quale oggetto a sua volta però è un ammanco; è l’assenza della “cosa” gratificante che sferra appunto la pulsione. In quest’ottica la pulsione, der Trieb, è il risultato di questa differenza tra l’oggetto che dovrebbe esserci e la sua assenza, chiamata da Abraham delusione. Non ci sarebbe cioè prima la pulsione, e poi la sua delusione per assenza dell’oggetto, ma la delusione sarebbe il motore, la differenza inaugurale della pulsione stessa, la quale in quanto tale, nella sua essenza, risulterebbe perciò ambivalente.

Abraham, attribuendo un ruolo essenziale alle pulsioni sadico-orali (in pratica ai morsi) nella spiegazione della malinconia, è portato evidentemente a mettere in rilievo soprattutto il ruolo della madre e quindi lo stadio dell’allattamento. Pensa di trovare una conferma a questa preponderanza materna nell’ostilità, molto forte, constatata nella clinica, nei confronti della madre da parte soprattutto del malinconico maschio, a differenza delle altre nevrosi dove invece sembrerebbe predominare l’ostilità nei confronti del padre. Senonché Abraham si rende ben conto, benché non esplicitamente, del fatto che si tratta di una conferma apparente: se la melanconia consiste proprio nell’introiezione dell’oggetto deludente (la madre), questa ostilità verso l’esterno potrebbe fare obiezione alla teoria dell’introiezione. È probabilmente questa difficoltà a indurre Abraham ad attribuire questa ostilità nei confronti della madre alle vicissitudini dell’edipo, e non quindi direttamente alla fase sadico-orale a cui il depresso regredirebbe.

È proprio per render conto di questa sovrapposizione tra affetti (ma anche: effetti) edipici e affetti preedipici, che M. Klein sarà portata a teorizzare l’edipo precoce, e i conflitti edipici pregenitali (un oggetto paterno prima del padre reale). La tesi della precocità dell’edipo ha in parte la funzione di spiegare l’ambivalenza di tutta la storia pregenitale, dato che in Abraham questa ambivalenza è postulata, supposta, ma non ancora spiegata. Ora in Abraham, come in Klein, l’ambivalenza serve a spiegare la sofferenza che risulta da ogni regressione. L’idea-guida è che la fase (o “posizione”, come la chiamerà Klein) a cui si regredisce è costituita da un conflitto, ha una base conflittuale. Cerchiamo di capire allora, guardando lo schema di Abraham, da dove sorge questa conflittualità e ambivalenza.

 

  1. 3.    Freud hegelianizzato

 

Le sei fasi dello sviluppo libidico[12][iv], differenziate a seconda della meta e dell’oggetto, delineano una progressione che va da un autoerotismo non ambivalente all’amore oggettuale anch’esso non ambivalente. Tutto lo sviluppo e la trasformazione delle organizzazioni libidiche sono presi in circuito circolare: dalla non-ambivalenza alla non-ambivalenza, attraverso i tunnel dell’ambivalenza (diremmo anche: dal vero amore al vero amore). L’ambivalenza dà inizio all’avventura della pulsione, la quale mano a mano ritorna, nell’amore oggettuale, alla propria condizione iniziale non ambivalente, ma acquisendo proprio ciò che aveva sferrato [dato inizio a] l’avventura, cioè l’oggetto. In effetti questo schema evolutivo non rinvia affatto a un modello evoluzionista classico, come quello di ispirazione darwiniana, per esempio, in quanto il modello evoluzionista non prevede alcun limite all’evoluzione, la quale avviene per mutazioni e selezioni illimitate. Piuttosto questo schema rinvia a un modello di tipo dialettico, direi hegeliano. Non si tratta qui certo della Fenomenologia dello Spirito, si tratta però sempre di una fenomenologia di Lust di cui la libido diventa il supporto (la libido sarebbe una sorta di Geist hegeliano fisicalizzato).

Si noterà che lo stadio orale primario della suzione scandisce la tesi, le quattro fasi successive costituiscono l’antitesi (in quanto comportano uno sbilanciamento verso l’oggetto ‘antitetico’ al soggetto), e la sintesi è segnata dallo stadio genitale definitivo, sintesi per cui l’amore senza buchi della fase iniziale viene ricostituito, ma avendo incluso e assunto l’oggetto, cioè il fattore anti-tetico. Certo questa analogia con la dialettica hegeliana potrà apparire semplicistica e pretestuosa; non so se Abraham abbia mai letto Hegel. Mi interessa evocarla, tuttavia, perché dietro il paravento ‘evolutivo’ essa designa il reale lavoro concettuale della teoria, la ‘logica’ che lo guida, in particolare il modo in cui la teoria ‘proietta’ in una storia essenzialmente mitica, in una disposizione concettuale, certi problemi e difficoltà costitutivi della teoria stessa, in particolare la relazione tra pulsione, oggetto e ambivalenza. Torneremo tra breve su questo punto.

Per quanto riguarda la mania, infine, Abraham accentua anche qui il ruolo della fantasmatica orale. Freud aveva detto che la mania è una festa di liberazione celebrata dall’Io – Abraham aggiunge che si tratta in effetti di una festa cannibalica, di una vera e propria orgia sia alimentare che sessuale[13]. Come la malinconia, la mania è ambivalente: il maniaco ingurgita e allo stesso tempo espelle l’oggetto-cibo, compiendo però i due processi a grande velocità. Il “metabolismo psicosessuale”, come lo chiama Abraham, del maniaco è accelerato. Questo significa che non c’è alcuna differenza di struttura profonda tra malinconia e mania, perché nei due casi si tratta di introiezione e di espulsione. Ma perché allora la mania è (o appare al soggetto) come uno stato piacevole, al contrario della malinconia? Nemmeno qui Abraham dà una risposta chiara, benché si possa essere indotti a pensare che in fin dei conti la differenza ‘affettiva’ risieda proprio nella differenza di velocità tra i due processi di ingurgitazione e di espulsione – processo alternante, lento nella malinconia, rapido nella mania. D’altra parte la mania, che segna la fine del lutto (l’evacuazione dell’oggetto o comunque della sua ombra), è allo stesso tempo una ripetizione di questo stesso lutto, come il pasto totemico (nel mito freudiano) è la riconciliazione con il padre proprio perché ne ripete simbolicamente l’omicidio. Si tratta però di una ripetizione del lutto en raccourci, in versione rapidissima. Qui Abraham si rifà alle osservazioni antropologiche di Geza Roheim[14]: la conclusione del lutto, la mania, si risolve nella ripetizione dell’uccisione e della divorazione dell’oggetto (che secondo la teoria è il Padre).

Dunque la mania è una ripetizione in sintesi, abbreviata, della malinconia, ma non possiamo dire l’inverso, che la malinconia è una ripetizione della mania al rallentatore. La malinconia spiega la mania, ma la reciproca non è vera. Interviene qui un fattore temporale, o meglio un fattore di differenze nel ritmo temporale, nella scansione processuale, che resta puramente abbozzato in Abraham. A questa qualità temporale, alla ‘velocità’, sembra essere legata la qualità gradevole, piacevole della mania, a dispetto del fatto che anche qui si tratta di un meccanismo ambivalenziale e quindi conflittuale. Su quale base affermare, in effetti, che il pasto totemico è maniacale per essenza, e non malinconico? Il padre mangiato è anch’esso amato e odiato allo stesso tempo[15]. D’altra parte, in parallelo con la malinconia, Abraham sottolinea anche che i fantasmi maniacali criminali riguardano la madre e non il padre.

In sostanza, in quanto ripetizione abbreviata della malinconia (la quale a sua volta è ripetizione del lutto primario del bambino precocemente deluso), la mania presenta simmetricamente le stesse difficoltà esplicative della malinconia: da dove proviene il piacere maniacale?

In questo saggio del 1924 Abraham si occupa della malinconia solo in quanto è l’occasione, l’oggetto focalizzato che gli permette di svolgere un lavoro più ambizioso: quello di sistematizzare e di completare la storia evolutiva freudiana, l’evoluzione delle organizzazioni libidiche, di produrre insomma il supplemento indispensabile ai Tre saggi sulla teoria sessuale[16]. Abbiamo già sottolineato la struttura dialettica (in senso hegeliano) implicita in questa supposta evoluzione. Quel che la struttura e la orienta è il progredire dell’assimilazione dell’oggetto da parte del soggetto – e in effetti le differenze di meta sono più debolmente strutturate rispetto a questa dialettica dell’assimilazione dell’oggetto.

Per quanto riguarda le mete, basterà dire che esse si succedono secondo un’alternanza che possiamo chiamare centripeta/centrifuga, nel senso che a una meta imperniata sul “ritorno” al corpo succede una meta imperniata invece sull’allontanamento dal corpo (la suzione, l’espulsione e la fallicità sarebbero più sul piano centrifugo; mentre il cannibalismo, la ritenzione e la genitalità reciproca compiuta sarebbero più sul piano centripeto). Invece l’Oggetto in questo schema funziona esso stesso come antitesi della pulsione, almeno della pulsione di “grado zero”, pulsione allo stato auto-erotico senza oggetto (pulsione, a questo stadio, indiscernibile dalla soddisfazione pura e semplice).

 

  1. 4.    La dialettica dell’oggetto

 

Una traccia di questo primato strutturante dell’oggetto si trova nella definizione dello stadio 5, costituto dall’amore oggettuale con esclusione dell’organo genitale. Ricorderemo che questa “esclusione” è stata denunciata, per esempio, dal buon senso di Marie Bonaparte[17], la quale si chiede non senza ragione che cosa possa mai essere uno stadio fallico da cui è escluso proprio il fallo! Non rientreremo qui nelle polemiche connesse con l’introduzione della fase fallica in psicoanalisi. Si potrebbe rispondere comunque alla Bonaparte che la fase è “fallica” per la zona erogena e non fallica (“fase di castrazione”) per quanto riguarda l’oggetto. Tralasciamo l’appello alle “prove” cliniche, in questo caso ai casi di scotomizzazione isterica dei genitali. Ci si potrebbe certo limitare a notare che questa strana esclusione dei genitali nell’amore oggettuale allo stadio 5 (nell’oggetto è escluso proprio l’organo che caratterizza la prevalenza erogena in questa fase) obbedisce a una preoccupazione di simmetria da parte di Abraham, mentre in realtà è l’asimmetria che fa da motore a ogni dialettica. Abraham lascia cioè supporre che quel che manca all’oggetto nella fase 5 è quel che ricopre l’oggetto nella fase “corrispondente”, nella fase 2, caratterizzata dal narcisismo.

Questa storia del soggetto attraverso il progresso dei propri oggetti inizia con l’autoerotismo anoggettuale (o meglio, con lo stadio in cui l’oggetto è così totale che si confonde con il soggetto stesso, cioè con la pulsione) per giungere all’amore oggettuale in cui l’oggetto è assunto nella sua totalità. In altri termini, parallelamente al passaggio da una non-ambivalenza originaria a una non-ambivalenza conclusiva, c’è il passaggio graduale dalla totalità dell’oggetto, che corrisponde alla sua assenza autoerotica, alla totalità “altra” dell’oggetto della genitalità definitiva; il tutto attraverso una vicissitudine di frammentazioni dove l’oggetto si scinde per ricostituirsi.

Queste Sei Tappe di Abraham possono perciò tradursi, e non solo per scherzo, in termini dialettici: come tesi si pone la totalità dell’oggetto non in quanto esso è incorporato, ma in quanto esso fa uno con il corpo del soggetto (il corpo e il suo oggetto coincidono). Questa totalità è quindi così spessa allo stadio della suzione orale, che l’oggetto, possiamo dire, manca. Poi nello stadio 2 (riedito nella regressione malinconica) l’oggetto sembra ancora qui totale, ma è narcisistico: il narcisismo identifica qui l’oggetto al soggetto in quanto, si suppone, il soggetto è ridotto a oggetto parziale, al proprio “fallo”, potremmo dire. Abbiamo scritto questo oggetto parziale 1/4 nel nostro schema, facendo ricorso a una quantificazione fantasiosa e puramente indicativa. Passando dal narcisismo puro, per antitesi, all’“amore” dello stadio 3, l’oggetto appare qui sul serio staccato dal soggetto, ma puramente parziale; parzialità che caratterizza appunto le fasi 3 (amore parziale con incorporazione) e 4 (amore parziale senza incorporazione).

Questa de-totalizzazione dell’oggetto in queste fasi fa sì che l’oggetto si districhi dal narcisismo, che si metta sulla via di una autonomizzazione in rapporto al soggetto libidico. La riduzione dell’oggetto a oggetto parziale è dunque il momento antitetico attraverso cui l’oggetto deve passare per emanciparsi dalla fusione libidica, per affermarsi per quell’antitesi libidica che esso è (l’oggetto è attivatore dell’odio, è ciò che spezza la pulsione in polo amore-odio). All’interno di questa antitesi possiamo distinguere del resto ancora tre momenti. Tesi (stadio 3): amore per l’oggetto parziale incorporato. Antitesi (stadio 4): amore per l’oggetto parziale non incorporato. Sintesi (stadio 5): amore per l’oggetto quasi totale (genitale escluso). Al di là ancora, si arriva alla Terra Promessa della genialità compiuta: è l’amore per l’oggetto totale ricostituito, genitali compresi, e senza ambivalenza.

Come si vede, possiamo dire che l’oggetto a ogni stadio è aufgehoben[18], “elevato”, “mantenuto” e “annullato”, attraverso un processo dialettico. Per “elevazione” intendiamo il fatto che l’oggetto non si afferma come semplice aumento di estensione (e qui certo il modo frazionario con cui lo abbiamo reso nel nostro schema apparirà sviante), ma compie “salti di livello”. Per esempio, il passaggio da “oggetto parziale” a “oggetto totale” non è qui semplicemente il passaggio da un frammento di cosa alla cosa intera: in effetti, c’è in questa terminologia una confusione di livelli, in quanto “parziale” e “totale” sono categorie che funzionano nella valutazione di oggetti reali, di cose, non di oggetti immaginari. Ma qui “parziale” si confonde con la qualità direi “immaginaria” dell’oggetto, mentre “totale” mette piuttosto l’accento sulla qualità “reale”. Il passaggio dall’oggetto parziale a quello totale è di fatto un passaggio dall’immaginario al reale. Identificazione che sarà esplicita in Melanie Klein: nel passaggio dal “parziale” al “totale” si connota in realtà il passaggio da una dimensione ancora immaginaria dell’oggetto (dove fantasia e realtà sono fusi) a una dimensione di sollecitudine realistica per un oggetto assunto come “identità esterna”. Ma questa elevazione è anche soppressione, perché ogni tappa significa il passaggio da un “oggetto odiato”, che come tale viene soppresso, a un “oggetto amato”, da un livello in cui l’oggetto appare ‘resistenza’ alla soddisfazione a un livello in cui esso oggetto esige e chiama la soddisfazione.



[1] Raccolti in «Tentativo di una storia evolutiva della libido sulla base della psicoanalisi dei disturbi psichici» (1924) in Karl Abraham, Opere, vol. I, Torino, Boringhieri, 1975, pp. 286-354.

 

[2] Lavoro proseguito in seguito con: S. Benvenuto, “Narcisismo e melanconia. Una rilettura della teoria freudiana della depressione”, Rivista Italiana di Gruppoanalisi. Accordi analitici tra individuo, gruppo e istituzioni, vol. XVIII, n. 3/2004, 6, pp. 85-109. Accidia, Bologna, Il Mulino, 2008.

 

[3] Karl Abraham «Note per l’indagine e il trattamento psicoanalitico della follia maniaco-depressiva e di stati affini» (1912), in Abraham, op. cit., pp. 241-257.

 

[4] S. Freud, “Lutto e malinconia”, Opere, vol. VIII, 1915-1917, Torino, Boringhieri, 1976, pp. 102-118.

 

[5] Freud, op. cit., p. 108.

 

[6] Evidentemente all’epoca il cunnilinguo era considerato una perversione dalla medicina.

 

[7]K. Abraham, op. cit., p. 310. 

 

[8] Ibid. p. 317.

 

[9] Ibid. p. 315.

 

[10] S. Freud, L’Io e l’Es, Opere Sigmund Freud, vol. 9, Bollati Boringhieri, Torino, pp. 475.523.

 

[11] Ho approfondito la funzione e il senso – a mio avviso fondamentali – del Lustprinzip (principio di piacere/desiderio) in Freud, in «Riconoscimento e ripetizione», Giornale storico di psicologia dinamica, n. 7, gennaio 1980, pp. 168-186; «Dialettica della prevaricazione», Giornale storico di psicologia dinamica, n. 9, gennaio 1981, pp. 42-64.

 

[12] K. Abraham, op. cit., p. 349.

 

[13] Ibid., p. 330.

 

[14] In Nach dem Tode des Urvaters, «Imago», 1923.

 

[15] Potrebbe essere qui utile un confronto con il cannibalismo praticato da certe popolazioni, Per esempio, i Fataleka delle isole Solomon mangiano una vittima designata dal capo morto affinché questi possa accedere al rango di antenato. Il cannibalismo qui è un rito funerario, un atto di lutto triste e disgustoso, difatti chi mangia ha schifo della carne umana e talvolta la vomita. cfr. R. Guidieri, La route des morts. Introduction à la vie cérémonielle Fataleka”, Journal de la Société des Océanistes, 1972, 37, pp. 323-335, Cfr. anche, AA.VV., Destins du cannibalisme, Automne 1972, Nouvelle Revue de Psychanalyse, 6, Gallimard.

 

[16] S. Freud, Opere, vol. IV, 1900-1905, Torino, Bollati Boringhieri, 1975, pp. 447-546.

 

[17] La sessualità della donna, Roma, Newton Compton, 1972.

 

[18] Hegel si serve dell’ambiguità del termine aufgehoben (lett. “sollevato”): nella sua terminologia, nel processo dialettico la tesi e l’antitesi vengono 1) ridotte a componenti della sintesi, 2) quindi cancellate o annullate, e allo stesso tempo 3) vengono preservate, accantonate, o salvate e 4) elevate ad un livello superiore. Ricordiamo che il concetto hegeliano di Aufhebung è stato più volte utilizzato da Lacan, per render conto di vari aspetti della teoria freudiana, in «Nota sulla relazione di D. Lagache», Scritti, Torino, Einaudi, 1974, p. 662; in «La significazione del fallo», op. cit., pp. 682-693; in «Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio», op. cit., pp. 795-831



 

 

 

 

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