Flussi di Sergio Benvenuto

NARCISISMO E MALINCONIA. UNA RILETTURA DELLA TEORIA FREUDIANA DELLA DEPRESSIONE* 16/ott/2020


 

1.

 

La psichiatria e la psicoanalisi anglo-americane paiono dominate e affascinate dalla depressione e dal narcisismo.  (Dire psichiatria anglo-americana equivale ormai quasi a dire psichiatria tout court, o quasi, data l'egemonia della cultura angloamericana anche in questo campo. In psicoanalisi le correnti anglo-americane non sono più egemoni come un tempo, ma restano preponderanti in Italia.) Perché tutta questa importanza data a queste categorie?

La stessa preferenza per il termine depressione piuttosto che malinconia - anche le malinconie, in senso kraepeliniano, vengono chiamate "depressioni psicotiche" - è un segno del tenore della cultura psichiatrica odierna. Difatti il termine "depressione" ha una connotazione ad un tempo affettiva e meccanica, come se in essa fosse in gioco solo una fisica dei puri affetti, e nulla dell'ordine della morale, del pensiero, insomma della cultura. Alla psichiatria dominata dal DSM l'umore che accompagna certi discorsi appare più importante di quello che viene espresso da questi stessi discorsi; l'umore appare qualcosa di più tangibile e "calcolabile" di tutte le idee depressive che galleggiano in quella palude della vita. Si suppone che tristezza o allegria, per quanto ineffabili, siano meglio quantificabili delle idee, tristi o allegre che siano. E poi Malinconia è un dotto grecismo che odora di studi umanistici, cosa che infastidisce i moderni tecnocrati del buon umore: costoro di solito non hanno studiato nei licei classici.

     Questa preferenza moderna per la depressione e il narcisismo appaia due concetti che già per Freud erano intimamente connessi. La malinconia per Freud è il lutto ambivalente del narcisista. Per intendere la sua teoria della malinconia, quindi, occorrerà soffermarci su cosa Freud intenda per narcisismo – e non sempre egli riesce a dirlo fino in fondo – Freud, come tutti i grandi teorici, dice sempre molto di più di quanto non intenda dire. Proponiamo qui una rilettura di Freud su questi temi. Rileggere Freud non è una semplice ripetizione perché ogni epoca - anche la nostra - rilegge gli autori del passato ponendo loro domande che quelli non avevano esplicitato: ogni epoca “analizza” gli autori importanti del passato, e Freud non può sfuggire a questa ri-analisi. Freud scriveva in un'epoca in cui non si era così preoccupati dal narcisismo e dalla malinconia come noi oggi siamo.  All'epoca Binswanger (1971) non aveva ancora pubblicato il suo celebre studio sulla malinconia e mania, né era stato ancora pubblicato La cultura del narcisismo di Lasch (1979), non c'era la Self Pychology di Kohut né si era consumato il definitivo passaggio dal puritanesimo vittoriano all'edonismo paganeggiante di oggi. Quindi la teoria "classica" di Freud necessariamente ci dice cose che non diceva ai suoi contemporanei.

 

 

Narcisismo come ostacolo

 

Quando oggi si pensa al narcisismo freudiano, si pensa subito agli specchi e alla riflessione. Il mito poetico di Narciso non è tutto svolto su una doppia mortifera riflessione ? acustica e visiva ? tra il risuonare di Eco e l'immagine tremolante nell'acqua? Inoltre i contributi successivi a Freud - soprattutto di Lacan (1966; 1975) e Winnicott (1960; 1971) - hanno accentuato ulteriormente l'aspetto visivo e speculare del narcisismo.

          In realtà, quando Freud avverte l'esigenza di introdurre questo concetto (nel 1914), lo centra piuttosto sulla figura dell'ostacolo.  Prima che riflesso, il narcisismo è ostacolo. In particolare, ostacolo della cura analitica. Il narcisista è, quasi paradigmaticamente, il soggetto che l’analisi non raggiunge, o che raggiunge solo con difficoltà: troppo occupato di sé per essere toccato da quel che dice l’Altro, incarnato nell’analista. Sin da Per introdurre il narcisismo[1], Freud (1914) afferma che il termine va applicato a tutta una dimensione della soggettività, per lo meno latente in ogni essere umano. E aggiunge che "alla stessa supposizione si è stati indotti dalle difficoltà del lavoro psicoanalitico sui nevrotici, poiché è sembrato che tale comportamento narcisistico si instauri in essi come una delle barriere[2] [corsivo di Benvenuto] che si frappongono alla nostra possibilità di influenzarli" (Freud 1914; GW, X, p. 139; OSF, VII, p. 444).

          Troppo spesso si dimentica il marchio di fabbrica del narcisismo freudiano: nella clinica analitica, è il far ostacolo del soggetto analizzante all'influenza [Beeinflussbarkheit], come dice Freud in modo poco psychoanalytically correct, dell'analista. In effetti qui il creatore della psicoanalisi osa dire, senza pudore, che l'analista influenza! Una certa ipocrisia psicoanalitica odierna aborrisce "l'influenza" – parente stretta della suggestione - come un doppio peccato capitale: contro la libertà del paziente e contro l'oggettività scientifica[3].

          Ma il narcisismo è ostacolo in un senso ad un tempo più ambiguo e più radicale, proprio nella misura in cui si impernia attorno alla riflessione. In effetti, l'innamorarsi di Narciso per la propria immagine significa per Freud che la pulsione non giunge all'oggetto come altro, ma trova come suo oggetto l'immagine stessa del soggetto. E come può il soggetto scambiare come oggetto altro il riflesso immaginario di sé?   Perché c'è una superficie riflettente, come specchio o acqua. Una superficie che, facendo schermo, non lascia passare la pulsione ? la quale tenderebbe genuinamente all'oggetto, all'altro ? e l'irretisce nel soggetto stesso.

          Immaginiamo un soggetto incandescente che emani raggi di luce. Immaginiamo anche che uno schermo opaco si frapponga tra la fonte luminosa e l'oggetto che questi raggi investono, così tagliando vari raggi di luce. Lo schermo lascerà in ombra l'oggetto, ma rifletterà, come lo schermo cinematografico, la fonte stessa, vale a dire i vari raggi, che io soggetto, fonte di luce, potrò così vedere.  Grazie allo schermo, l'oggetto resta avvolto nel buio ? ma il soggetto irradiante la luce "conosce sé stesso" grazie all'immagine che lo schermo gli rinvia.

          Il narcisismo non è solo quindi amore speculare per sé stessi: è soprattutto il ritornare a sé della propria immagine. Ma se qualcosa della soggettività ritorna indietro, allora la soggettività è conoscibile; l'uomo può conoscere qualcosa di sé solo se la sua intenzionalità o pulsionalità non si disperde nelle cose, se parte di essa gli ritorna indietro come proprio spettacolo. Da qui un’importante conseguenza: che il narcisismo è il fondamento della psicologia. Se per psicologia intendiamo la scienza del soggetto, la scienza il cui oggetto è il soggetto, e che quindi oggettiva il soggetto. Da qui la classica critica rivolta dalla fenomenologia ad ogni forma di psicologia: che la “psiche” della psicologia è soggettività oggettivata.

          Introducendo il narcisismo, Freud in sostanza ci ha voluto dire: è possibile una conoscenza del soggetto solo narcisistica ? una conoscenza solo dell'immagine del soggetto, e del soggetto solo in quanto immagine per me.

          Il narcisismo è allora come una flessione grammaticale della pulsione. Se la pulsione freudiana stricto sensu è transitiva, il narcisismo è la riflessività della pulsione ? di qualsiasi pulsione. Ogni pulsione a cui capita di riflettersi è narcisistica. In questo senso ogni nevrosi ha un versante narcisistico ? possiamo anzi dire che l'amore narcisistico è il vantaggio secondario di ogni nevrosi. Insomma, il narcisismo è intransitivo[4].

          Sfruttiamo questa analogia grammaticale. Possiamo allora dire che la paranoia - che Freud connette strettamente al narcisismo - declina il versante deponente di questa intransitività. In latino i verbi deponenti sono quelli che hanno una forma passiva ma un significato intransitivo: videor ha la forma "sono visto" e significa "sembro". Nella passione paranoica il paziente si sembra (se mi si permette questa espressione) come oggetto passivo di una azione che ? insinua Freud ? non è azione transitiva ma riflessione intransitiva.  Il paranoico persecutorio "si vede" perseguitato da un Grande; l'erotomane "si vede" amata da un Grande; il geloso "si vede" grandemente tradito; il megalomane "si vede" come un Grande; il querulomane “si vede” vittima di una grande ingiustizia. 

          L'intransitività malinconica invece non è deponente, è declino. La malinconia non è un semplice parlare, è come declinare un paradigma.  La malinconia è allora come un linguaggio che non parla, che resta spettacolo stigmatizzante della propria struttura. In effetti, la lamentela depressiva è paradigmatica ? così paradigmatica che ha fatto nascere l'idea, sin dall'Antichità, di un'affinità essenziale tra malinconia e filosofia, e tra genio e malinconia. Infatti il malinconico, come il filosofo, enuncia paradigmi: del tipo "la Vita Non ha Senso", oppure "Io Sono L'Uomo più Indegno del Mondo", oppure, come diceva Murphy, “Le Cose Lasciate a Sé Stesse Andranno Sempre al Peggio”. I suoi sintagmi tendono al paradigmatico. La malinconia è la scienza triste del soggetto (ma ci può essere scienza che non sia triste?) ? soggetto (di)spiegato ed esaurito nella sua declinazione.

          Perciò malinconia e psicologia intrattengono tra loro una certa complicità. Perché la scienza dell'anima - psico-logia - come ogni scienza, è certo ancora interpretazione, e per "interpretazione" intendo il vivo dar senso, il trovare valore negli eventi. Ma l'interpretazione della scienza, di ogni scienza, è un'interpretazione che si vuole conclusa: l’effetto finale va detto.

          La scienza tende a proclamare che la natura non è libera - altrimenti, che natura sarebbe? - ma determinata. È vero che il principio di indeterminazione della meccanica quantistica stabilisce un limite a questa determinazione: ma si tratta appunto di un limite, che lascia determinare tutto ciò che resta entro questo limite. La natura è come una macchina, e la scienza-base è una meccanica. Una teoria scientifica si pretende vera nella misura in cui scommette che la natura è obbligata a seguire la legge descritta dalla teoria, come una macchina funziona grazie agli ingranaggi che la compongono. La scienza quindi spiega (o piega?) la natura come qualcosa che si piega sempre ad una legge.

          Così, in quella mancata interpretazione che è la malinconia, la vita interpretante dell'uomo si ritorce come natura, come ciò che è obbligato a seguire la legge. Il malinconico ripete sempre la stessa conclusione, egli non fa che ritornare allo stesso punto, senza speranza. Come gli astri, che ripeteranno eternamente le loro orbite, così il malinconico esaspera i suoi vicini ritornando sempre alla stessa interpretazione, sempre “oggettiva” e quindi sempre pessimista. Il malinconico pare applicare al mondo vivente il secondo principio della termodinamica, secondo il quale tutto in un sistema chiuso va inesorabilmente verso il disordine, verso l’insensato: il malinconico si vede appunto come un sistema chiuso, destinato irreparabilmente all’entropia. Il malinconico interpreta depressivamente non tanto perché lui si senta infelice ? come pretende una frettolosa fenomenologia psichiatrica ? ma piuttosto perché è infelice la sua interpretazione. Ogni interpretazione infelice è malinconica. Lo sanno bene i kleiniani, la cui etica consiste appunto nel far accedere i soggetti alla posizione depressiva: ma non è questa depressione l'aura disegnata dalle loro interpretazioni in quanto "infelici"? Difatti, il succo dell'interpretazione kleiniana consiste nel dire al soggetto: "nel fondo di te, sei un bebè paranoico! così hai danneggiato ciò che ti era anche più caro! devi pentirtene e riparare!". Le manovre riparative in clima depressivo rispondono ad una massiccia ortopedia morale, quella del pentimento con la sua aura di tristezza[5].

          Il malinconico anzi non interpreta la propria vita ma, come lo scienziato, la spiega. O meglio: la sua interpretazione si riduce ad una spiegazione. Egli si accontenta "solo dei fatti" ? cioè del passato. Il depresso denuncia la sua vita come senza senso perché è appunto una vita senza futuro, vista come già passata, e quindi senza valore. Il mondo dei fatti è il mondo delle cose passate, delle ripetizioni degli astri che non hanno un progetto - anche se tanti, attraverso gli oroscopi, "proiettano" in essi il loro futuro e i loro desideri.  Il mondo del senso è il mondo del futuro, di ciò che si deve ancora fare, della novità della vita.

L’idea che la malinconia sia una forma di oggettività può apparire una forzatura, e non mancherà di scandalizzare alcuni analisti psicoanaliticamente corretti. Eppure alcune ricerche di psicologia cognitiva vanno proprio in questo senso: le persone “ottimiste”, con un grado elevato di autostima, presentano alcune distorsioni sistematiche della realtà, mentre i soggetti con bassa autostima e quindi depressi sembrano avere una percezione molto più esatta della realtà e delle sue cause (Ackermann & Derubeis 1991)[6]. Se questi dati sperimentali fossero esatti, essi mostrerebbero che illudersi su sé stessi è di grande aiuto pratico: un certo margine di sopravvalutazione di sé e una certa cecità nei confronti della dura realtà è una condizione per essere efficienti e per incidere sul reale. Occorre disconoscere un po’ la realtà – eccedere in soggettivazione – per viverci bene.

Ma perché il malinconico è così attaccato al passato, vale a dire ai fatti?

 

 

…Cade l’ombra

 

          La metafora visiva e riflettente domina la teoria freudiana della malinconia ancor più di quanto non domini la teoria della paranoia. È invalsa l'abitudine di descrivere la paranoia e la malinconia come inversi l'uno dell'altro: rovesciando il guanto della malinconia, si metterebbe in luce il verso o retro della paranoia. "La malinconia è una paranoia interna", dice la psicoanalisi classica. Per i kleiniani occorre che la posizione paranoidea si rovesci in posizione depressiva, cioè malinconica. Suggerisco di interpretare questo gioco del verso e del retto come un altro modo in cui la psicoanalisi legge visivamente la "spazialità" del narcisismo.

          Condizione della malinconia è che "l’ombra dell’oggetto cadde così sull’Io"[7] [Der Schatten des Objekts fiel so auf das Ich]: questa bella espressione di Freud è citata a destra e a manca, ma pochi tentano di spiegare che cosa essa significhi e perché essa ci attragga tanto ? e forse ci attira tanto proprio perché non la capiamo completamente. Come spesso accade in Freud, questa chiarificazione è non priva di ombra. Riflettere, gettare ombra, fare ostacolo visivo, proiettare e deflettere: tutti questi termini verbali tradiscono una chiara fenomenologia visuale.

          Quando Freud dice che nella malinconia l'oggetto getta ombra sull'io, per oggetto egli intende l'oggetto perduto o odiato. Ma l'essere mancanti e l'essere odiati non sono due qualità forse tra loro inseparabili di ogni oggetto? L'oggetto che getta malinconicamente ombra sull'io è l'ostacolo o limite che la pulsione amorosa trova grazie alla mancanza e all'assenza. Si abbozza qui una dialettica ? che opera sempre nelle concettualizzazioni freudiane ? tra specchio ed ombra.

 

        Between the idea

        And the reality

        Between the motion

        And the act

        Falls the Shadow

 

        Between the desire

        And the spasm

        Between the potency

        And the existence

        Between the essence

        And the descent

        Falls the Shadow[8]

 

 

          Che cosa è quest'ombra che cade tra la potenza e l'esistenza, questa flessione frustrante della volontà che non si traduce in azione, questa volontà di potenza che non riesce a manifestare la potenza della volontà?

          Da Freud in poi sospettiamo che quest'ombra che cade sia appunto il narcisismo. E che l'ombra malinconica dell'oggetto sull'io non sia altro che il rivelarsi di questo fare ombra, o comunque fare ostacolo, del narcisismo stesso.

          Per esempio, che cosa rende tanti eroi di Cechov - o comunque russi - pigri, passivi, annoiati, infingardi, blasés? Oggi rispondiamo: il loro narcisismo. Vale a dire, la loro alta idea di sé. Ciò che rende Oblomov[9] un oblomovista ? vale a dire uno incapace di fare qualsiasi cosa ? è il suo essere affascinato dal proprio sé come eterna e gloriosa potenzialità.   La pigrizia è il marchio del narcisismo, perciò il narcisista ha nostalgia della vita nel momento in cui la vive[10]. A differenza di Pablo Neruda, teme che non potrà mai confessare di aver vissuto. Perché il solo modo che abbiamo di vivere chiaramente ? senza averne nostalgia, senza avere dolore per il nostos, per il ritorno allo specchio ? è quello di darci ciecamente, senza riflettere ciò che facciamo. Il narcisista è chi non si spreca nel mondo, che non spreca pulsione, perché pre-vede troppo: trattiene in sé l'amore, non lo liquida né lo dissipa nell'azione e nella passione. Il narcisismo è l'amore che non ce la fa ad attraversare l'Io, ma si frange, si rifrange nuovamente contro l'ostacolo: l’Io così appare accecato dalla propria luce. Non è propriamente avarizia: è renitenza alla pulsione a trascendersi.  Questa pulsione a trascendersi, questo pro-gettarsi, secondo Freud come secondo Heidegger, caratterizza ogni essere umano compiuto. Da qui l'incompiutezza del narcisista.

          Ma in che cosa consiste questo ostacolo che, in fin dei conti, è ogni specchio? Qual è la consistenza di questo ostacolo in fondo inconsistente, anche se così insistente?

          Nel mito ovidiano di Narciso, l'ostacolo è la ninfa Eco, proprio in quanto costei, troppo timida, non c'è: è essa stessa riflesso della parola altrui, non suo oggetto. L'amore di Eco non può essere ricambiato, in quanto è essa stessa un ricambio. L'ostacolo è il venire a mancare dell'oggetto, il quale venire a mancare può ad un certo punto diventare una superficie liscia, così levigata da coincidere con la purezza cristallina del vuoto, del niente. Questo vuoto, che segnala la buca dell'oggetto, assume i contorni inquietanti, paranoidi, dello specchio. In quel buco che è l'oggetto freudiano, che ha dato buca all'appuntamento con la pulsione, interviene uno specchio che riflette. L'assenza del nostro amato ci fa riflettere ? ci fa riflettere così a lungo, ci impensierisce, da farci innamorare di questa nostra riflessione.

          Fino al punto che ci si chiede: se l'incontro con lo specchio riflettente avviene inevitabilmente in ogni esperienza di delusione, di appuntamento mancato, in che cosa consiste la specificità della specularità narcisista?

          Il narcisismo freudiano non è, come si pensa pigramente, amore per la propria immagine speculare ? amore dell'Idealich, del proprio io come Ideale ? ma è amore dello specchio stesso. Come disse in modo perspicuo Winnicott: "...uno specchio sarà una cosa da guardare ma non una cosa in cui guardare." (Winnicott 1974, p. 192) Ciò che distingue il narcisista da ciò che si ri-trova di narcisistico in ogni essere umano è questo amore della riflessività - in altre parole, questa rinuncia alla transitività.

          Una rinuncia che può prendere due versanti.

O l'abbandono di un principio, implicito in Freud, ma che si oppone al Lustprinzip (al principio di piacere e/o di desiderio): il principio di trascendenza. Questo principio si oppone al Principio di Piacere-Desiderio (Lustprinzip) radicalmente, non blandamente come il principio di realtà.

Oppure la falsa trascendenza paranoica, il trascendersi nell'immagine riflessa di sé, un trascendersi che si ritorce.

 

 

4.  Malinconia versus Paranoia

 

          Rispetto a questa dialettica dello specchio e dell'ombra, cogliamo allora una differenza di struttura tra la paranoia e il suo rovescio malinconico. Il delirio paranoico consiste nel fatto che un altro fa ombra su di me soggetto: mio persecutore, mia (creduta) innamorata che per questo riamo, rivale con cui lei mi tradisce, massa che non riconosce la mia grandezza. Di rado si tratta di persone specifiche in carne ed ossa. Gli “altri” del paranoico sono agenti che gettano un'ombra persecutoria o libidinosa, o entrambe, sulla mia vita. Ma Freud ci suggerisce che questi altri le cui ombre sovrastano minacciosamente l’io paranoico sono in sostanza sue immagini speculari ? riflessi dell'io che l'io non riconosce come riflessi. Nella paranoia è lo specchio dell'io che fa ombra.

          Nella malinconia invece è l'ombra che fa da specchio.  In un quadro di Böcklin intitolato Melancolia (al Museo di Basilea), la malinconia è una donna in nero con uno specchio davanti, ma lo specchio è coperto da un panno nero.  Dire che il malinconico vede tutto nero è dire solo una parte della verità: questo nero ch'egli vede è la sua immagine, l'oggetto che in fin dei conti lo attrae. Egli denuncia come sua verità quel buco nero ch'egli vede, come un cieco.

          Da una parte il paranoico non vede Sé nello specchio in cui l'altro, o meglio l'ombra dell'altro, si agita ? dall'altra il malinconico non vede l'Altro in Sé. Perciò Freud dice che il malinconico, lamentandosi di sé, querela l'Altro. Il malinconico, rivendicatore senza saperlo, non sa che il sé che gli fa ostacolo è l'altro... Così, se il paranoico crede di vedere l'Altro e invece vede sé, il depresso al contrario crede di vedere sé, e invece vede l'altro. Questo è il nocciolo dell’interpretazione freudiana di malinconia e paranoia.

          In questo senso quello paranoico è un narcisismo che manca di introspezione. Tutto (apparente) transitività effervescente, il paranoico non si ferma mai a riflettere; vive le passioni nella forma ritorta, passiva appunto, del suo patire per l'iniziativa odiosa o amorosa dell'altro. Il paranoico è un focomelico psichico che manca dell'organo dell'introspezione - organo che invece si espande mostruosamente nella malinconia. La malinconia è esacerbata dal rovello introspettivo nella sua consistenza più acerba: l'introspezione come ipocondria dell'anima. Il malinconico denuncia la propria anima come organo malato, si auto-querela come afflitto da un'anima malata[11].

 

 

5. Querelanti

 

          Da chi è invece perseguitato il paranoico? Secondo Freud, il paranoico è perseguitato dal proprio Io Ideale, che pur egli ama. Freud sottolinea anche – per far quadrare la sua teoria sessuale – che questo Io Ideale è dello stesso gender del soggetto stesso. In questa ritorsione dell'Ideale consiste l'amore feroce del paranoico.

          Ma non è perseguitato anche il malinconico dal proprio Ideale? Capire in che senso malinconia e paranoia sono due modalità del tutto diverse di per-secuzione (nel doppio senso: perseguire e perseguitare), malgrado si sia indotti a descriverle con parole del tutto simili, equivale a capire il fondo della teoria freudiana del narcisismo.

          Il soggetto malinconico è invidioso del proprio Ideale. Questo Ideale proprio, ma inappropriato, gli fa ombra... E, proprio perché egli è come oscurato dal proprio Ideale, finisce con il percepire se stesso come ostacolo e schermo del proprio ideale. Il malinconico è il rompiscatole del proprio idillio con Sé, ciò che a Sé impedisce di realizzarsi.

          Questo spiega il tenore delle prolisse lamentele del malinconico. Qui Freud ha uno dei suoi colpi di genio, ed osa dire: "Perché il malinconico non la smette di auto-denigrarsi, perché persiste a lamentarsi, con tanta petulanza? E' semplice: perché questo lamentarsi lo fa godere"[12]. Nella lamentela si esprime tutto l'erotismo del malinconico.

          Ma Freud aggiunge: le Klage, lamentele, del malinconico, sono in realtà delle Anklagen, delle querele. Il vero oggetto di cui il malinconico si lamenta non è se stesso, ma l'Altro ch'egli querela. La querela non è solo un lamentarsi, è un perseguire o perseguitare attivamente l'altro.  Il malinconico nel perseguitare se stesso perseguita l'Altro. La compagna di un depresso, il quale passava ore ad elencare avvilito le sue deficienze, descriveva così la sua reazione a queste auto-fustigazioni: "mi sento ferita, come se qualcuno lo stesse diffamando in pubblico".  Diffamando se stesso di fronte all'altro che gli vuole bene, il malinconico lo ferisce: punisce l'altro che lo ama avvilendone l'oggetto d'amore. Depriva la persona che lo ama della soddisfazione di ammirare il suo oggetto amato. Il depresso trascina chi lo ama nella ferita mostruosa del suo narcisismo. Il godimento di questo trascinamento allevia la sua sofferenza.

          Il paranoico è incline a querelare l'altro - nel reale, andando magari al commissariato di polizia - ma Freud vede in questo altro querelato il riflesso del paranoico stesso. Invece il malinconico querela se stesso, ma mai nella realtà giuridica; egli si comporta piuttosto da proprio poliziotto-aguzzino - ma solo perché attraverso se stesso egli querela l'altro, di cui lui soggetto è il riflesso.

          Così in questo Through the Looking Glass psicopatologico la teoria analitica si riflette in se stessa, imitando nel suo dis-piegarsi la riflessione del proprio oggetto. La teoria stessa di Freud ha spesso maniere malinconiche, altre volte ha garbi paranoici.

          Ma quale pulsione è alla base della lamentela, o querela, malinconica? Freud azzarda i suoi cavalli di battaglia pulsionali: è una pulsione anale[13]. Insomma, una pulsione evacuativa, e l'escremento da evacuare è se stesso. Proprio come nel linguaggio comune: essere malinconici è sentirsi una merda. Che va espulsa, come ogni merda che meriti questo nome.

          Ma perché l'io è diventato questo sterco, agli occhi severi del proprio Ideale? Perché l'io, in vari modi, ostacola il progetto o la proiezione dell'Ideale? E in che cosa consiste l'ideale dell'Ideale dell'Io? Per Freud non ci sono dubbi: l'ideale dell'Ideale è godere il più possibile, a più non posso, nella gloria del piacere. Questo è il corollario del Lustprinzip, la legge che regola gli esseri viventi. Questa merda che è l'io fa restare di merda l'Ideale, che è ostacolato dall'io nel proprio progetto glorioso di godere. Togliere di mezzo l'io, sopprimerlo, diventa allora il godimento residuale, il solo possibile, per il soggetto, identificato qui culo-e-camicia al proprio esoso ideale.

 

 

6. Morso e smerdato

 

          E il senso di colpa, che emana da tante malinconie come il suo odore più caratteristico? Perché l'auto-evacuazione depressiva grave è condita con i "morsi e rimorsi della coscienza"?

          Qui le lingue latine hanno la risorsa di un'ambiguità fruttuosa – co-scienza ? che il tedesco e l'inglese, invece, non possiedono. "Coscienza" significa sia Bewusstsein, l'essere consapevole, sia Gewissen, la coscienza morale; significa sia conscience (coscienza morale) che consciousness (essere coscienti). In italiano quindi, ben più che in altre lingue, è possibile capire come il Super-Io freudiano sia veramente coscienza: ad un tempo istanza riflessiva speculare e agente morale che morde e rimorde.

          Per Freud il Super-Io è fondamentalmente l'Altro che mi guarda. Ai miei tempi, il prete distoglieva noi ragazzini dalla masturbazione ripetendo "Dio ti guarda!" Dio non aveva bisogno di dirmi niente: bastava che mi accorgessi del suo sguardo. Non c'è bisogno che il Super-Io rimproveri, comandi, proibisca, tuoni, tartassi, per bersagliarmi: gli basta adocchiarmi severamente, senza amore[14]. Il Super-Io è l'Altro che mi fa da specchio, "da coscienza", nella misura in cui ogni coscienza è specchio.  Che cosa significa dire "sono cosciente che sto scrivendo" se non il dire "il fatto di star scrivendo si specchia in me"? Equivale a dire: "Io non sono solo ciò, o colui, che scrive, ma lo specchio di ciò, o di colui, che scrive".

          Heidegger diceva che l'essenza dell'uomo è esserci, essere nel mondo. L'uomo non è tutto comportamento perché gli supponiamo la coscienza, vale a dire lo specchio che egli è per se stesso ? quello specchio grazie al quale egli ha il mondo, e grazie al quale, simultaneamente, il mondo lo ha.

          Ma questo specchio che è la coscienza può non essere la mia coscienza, bensì quella dell'Altro, ed io posso essere oggetto di questa coscienza dell'Altro, posso diventare suo "mondo". Ciò è evidente nelle personalità dette narcisistiche, che paiono vivere per dare spettacolo all'Altro, come un attore sul palcoscenico. Come un guitto che recita per ammirarsi negli occhi degli spettatori, così alcuni soggetti possono vivere solo facendosi ammirare dall'Altro, ai cui occhi essi si danno in pasto. Nella malinconia appunto lo spettacolo fallisce: ma il soggetto-attore non dispone di quinte nelle quali ritirarsi, a parte il sonno coatto, o la morte.

          Ma questa coscienza del fatto che l'Altro mi guarda ? che cioè l'Altro ha coscienza di me ? la rende severa, non-amichevole, persecutoria, sadica. Il Super-Io è uno sguardo che rimprovera, è uno specchio che mi guarda, che mi fa suo mondo. Il francese reprocher, rimproverare, viene dal latino repropriare che significava "metter sotto gli occhi": il rimproverare è squadrare con gli occhi, obiettivare. E’ una severa appropriazione attraverso gli occhi. La sensazione originaria del rimprovero super-egoico è quella che sentiamo quando, in un dato consesso, ci sentiamo fuori posto. Quando qualcuno pare dirci "ma guardati con chi te la fai!" (In questo senso, potremmo vedere la stessa scienza fisica, che mette la natura sotto i nostri occhi, che la s-piega piegandola ai suoi calcoli, la pre-vede e la de-scrive, come un nostro rimproverare la Natura; certo la scienza guarda la natura senza giudicarla, però senza amicizia, severamente. Al contrario gli Antichi erano amici della natura, perciò denunciavano tutto ciò che a loro appariva “contro natura”.).

          Ma Freud non può rinunciare a trovare in questa fenomenologia dello sguardo-specchio mortificante dell'Altro qualcosa dell'ordine della pulsione, del desiderio, insomma del Principio di Piacere-Desiderio (Lustprinzip). Egli ci garantisce che questo sguardo dell'Altro non è coscienza neutra, disinteressata, priva di passioni. L'Altro, tanto quanto il soggetto, è mosso e smosso dal Principio di Piacere-Desiderio. Questo sguardo dell'Altro è originariamente quello concupiscente dei genitori, i quali quando guardano il figlio ? tacendo ?, desiderano.  L'Altro per Freud non è indifferente allo spettacolo del soggetto. Il soggetto-figlio, quando dimora nel narcisismo, dà spettacolo di sé, ma talvolta questo spettacolo trova nell'Altro un pubblico arcigno.

          Per Freud così la paranoia e la malinconia sono la prova ? potremmo dire per assurdo ? del fatto che l'Altro, guardandomi e così mortificandomi, gode. Questo godimento per il mio disdoro è più incerto e male-inteso nella paranoia: l'Altro mi perseguita perché mi odia, oppure mi ama (erotomania), oppure ricambia l'amore del mio amato (delirio di gelosia), oppure mi identifica a Sé (megalomania). Nella malinconia questo godimento dell'Altro pare escludere ogni amore ed amicizia, è francamente sadico: gode nel rimproverarmi, nel querelarmi senza sosta. Quindi la super-egoicità malinconica non è puro sguardo.

Freud fu colpito dalla garrulità del depresso, fino ad esclamare: "perché, invece di starsene buono buono in un angolino con la coda tra le gambe, questo peccatore non la smette di denunciarsi?[15]" Questa petulanza ciarliera dispiega un godimento della parola, risolta nel furor querelante. Certo, anche nella malinconia il primo rimprovero è lo sguardo ? la coscienza che l'Altro ha di me, rendendomi così cosciente di me stesso; ma è uno sguardo sadico-anale, tiene a precisare Freud. Questo significa che lo sguardo di quello specchio che è l'Altro mi "cosifica", mi fa suo oggetto, ob-jectum. Con le sue contumelie l'Altro mi getta via, mi ob-getta come... un pezzo di merda. Dopo avermi smerdato con lo sguardo, mi identifica ad una deiezione che va evacuata. La malinconia, per Freud, è una penosa stitichezza morale.

 

 

7. L’interpretazione malinconica

 

          A prima vista la malinconia appare il risultato di un'interpretazione pessimistica della vita. Come è noto, per l'ottimista il bicchiere è mezzo pieno, per il pessimista è mezzo vuoto. Molte terapie della malinconia, alquanto ingenue e sommarie, consistono sostanzialmente nel cercare di convincere il depresso che la sua vita non è solo mezzo vuota, ma anche mezzo piena. Questo tentativo di persuasione di norma è un fallimento, perché l'interpretazione malinconica è più radicale dell'interpretazione pessimistica.

          Difatti l'interpretazione malinconica è sforzo di rinunciare all'interpretazione tout court: è indicare il reale dell'assenza di liquido nel bicchiere nella sua sostanza bruta di ostacolo che fa ombra. La malinconia è depressione per il reale. La depressione è vivere in modo mortificante il reale come solo reale.

          In quanto il malinconico non interpreta, ma si lamenta del reale ? si lamenta di una cosa che noi tutti sappiamo bene: che la vita è insostenibile ? egli può apparire lungimirante. Non a caso un'antichissima tradizione filosofica lega strettamente malinconia, saggezza e filosofia. Il filosofo non può essere allegro, il filosofo si lamenta, protesta ? non si distrae con le fatue illusioni della vita. Eppure oggi noi, che consideriamo la malinconia non più saggezza ma follia, pensiamo che quella del malinconico, querelante il mondo e la vita, sia una saggezza inutile, una falsa saggezza. Egli è saggio con gli dei, non con gli uomini. E a noi ormai interessano solo gli uomini, non gli dei. (In questo senso la malinconia sconta un tentativo di essere immortali; è una condanna della vita come illusione, perché ci si mette dal punto di vista della disillusione della morte. Solo per chi crede di essere già morto "la vita è illusione", passione inutile).

          Per tutti noi umani il reale fa ostacolo alle nostre pulsioni ? dato che il reale, come insinua Freud, è quando il mondo dà buca alle nostre pulsioni, facendo del reale un buco. Il guaio è che il malinconico non si diverte a superare gli ostacoli. Egli non è qui, nel mondo, in questa nostra vita affaccendata irta di ostacoli, ma altrove. E che cosa è questo altrove nel quale pare assorto, od esiliato, il malinconico?

          Heinz Kohut (1971) ha parlato di Sé Grandone[16]. L'altrove dove sta ? o non sta ? il malinconico è la grande scena dove egli dovrebbe stare. Egli è depresso perché non è una star, non brilla: la sua vita non fa scena. Quando Freud, con un colpo da maestro, lega a doppio legame narcisismo e malinconia, smaschera la vanità, la vanagloria essenziale della forma di vita depressiva.

          Perciò il malinconico non si diverte, come la maggior parte di noi, a superare eternamente ostacoli: non cerca la gloria in questo superamento. La sua vita concreta è il suo ostacolo invalicabile, anzi, il suo tunnel. "Quando e come uscirò dal tunnel?" Tunnel da cui vorrebbe uscire verso la gloria. Nel caso della donna - il sesso più debole nei confronti della malinconia - essa vorrebbe uscire verso la gloria di essere finalmente amata.

          E in che senso nella depressione malinconica la vita fa ostacolo alla gloria?

 

 

8. Arrivismo della felicità 

 

          Si constata spesso una gioia, una liberazione estrema ed orgasmica, nel suicidio malinconico. Un urlo di rabbia e di trionfo. La propria vita era percepita come ostacolo implacabile del godimento. Uccidendosi, il malinconico non fa altro che evacuare quell'ostacolo che il suo io era diventato per le sue pulsioni.

          Qui forse interviene un criterio diagnostico differenziale tra depressione nevrotica e malinconia. E difatti, i clinici delle depressioni hanno messo in evidenza la fame, quasi straziante, di piaceri e di felicità del depresso definito "non endogeno". Questi, a differenza del malinconico, fa di tutto per non collaborare con la propria depressione, vale a dire con il proprio Super-Io.  Il depresso non endogeno, in quella querela senza fine che è diventata la sua vita, finisce sempre con l'aggiungere, come postilla, "...eppure amo la vita".

          Anzi, la depressione è il prezzo da pagare per un vero e proprio arrivismo della felicità. Ma il guaio è che questo arrivismo non è oggi solo di chi è stato beccato, decimato, dalla malinconia, ma è di noi tutti oggi, moderni ? o post?moderni. Analisti, sociologi, moralisti, antropologi, non cessano di parlare di narcisismo e di depressione perché sentono che in queste pieghe di illusioni o di dolore si annida una verità costosa della nostra civiltà o forma di vita. Il nostro ideale è cambiato. Ma qual è appunto il nostro Ideale?

          Il nostro Ideale comune è ormai freudiano. Anche per chi non ha letto un solo rigo di Freud. Freud aveva detto che l'uomo è regolato da una legge ? ad un tempo biologica ed etica ? che egli ha chiamato Lustprinzip, principio di piacere-desiderio. Riducendolo a nostro principio di piacere, abbiamo fatto del Principio di Piacere il nostro moderno ideale narcisistico. E la potenza di desiderare è il nostro ideale, quello che prima di tutto desideriamo.

          Ma sappiamo che il Piacere è per l'uomo ciò che resta di ideale quando una vita ha perso senso, quando ha perso ogni ideale. Il Piacere è il principio del nichilista. E non è la nostra civiltà ? almeno da Nietzsche in poi ? visceralmente e trionfalmente nichilista? Una civiltà dove cioè i grandi ideali non sono più idealizzabili?

          Ma la fenomenologia della depressione dimostra proprio che il piacere non può essere senso, che esso non può vivificare la vita. La malinconia dimostra ? empiricamente ? che il Piacere, come Ideale o Principio, può diventare l'ostacolo più micidiale del godimento. A meno di non fare del piacere, come facevano certi eroi settecenteschi, un ideale libertino della vita. In questo modo il piacere diventa, come per il Visconte di Valmont delle Liaisons dangereuses, il nuovo Super-Io della modernità.   Che come ogni grande ideale esige martirî, lacrime e sangue[17]. Valmont muore difatti da martire del piacere sessuale. E’ martire anche Don Giovanni, che sprofondando nell'Inferno viene assunto nel Paradiso illuminista dei Libertini.

          Ma se la categoria depressiva polarizza il pensiero moderno, questo avviene perché la nostra moderna forma di vita legge nella malinconia e nel narcisismo il riflesso e il rovescio del proprio nichilismo: la difficoltà a fare della caduta di ogni valore, qual è il Principio di Piacere, l'ultimo e radicale valore.

 

 

9. Lutto e festa

 

La teoria di Freud è così attraente anche per il suo tentativo di riportare due sindromi così impressionanti, come la malinconia e la mania, a due esperienze molto normali, comprensibili a tutti. Freud inscrive la malinconia nella fenomenologia del lutto ? e riporta l'eccitazione maniacale alla fenomenologia della festa.  "La gioia, il giubilo, il trionfo", dice Freud[18] a proposito della mania.

          Mentre nella malinconia il soggetto è tutto un oggetto – pesante, oppressivo, cupo – invece nella mania il soggetto (magari lo stesso che era malinconico prima) tende a gettare tutti gli oggetti via. In particolare gli oggetti di sua proprietà: ogni oggetto pare ingombrare, ostacolare l’esplosione maniacale, e quindi va buttato via dalla finestra, proiettato fuori, estromesso. Del resto questo gettar via gli oggetti è parte dell’esibizione tipica delle ricchezze ostentate. Nel Cinquecento, il banchiere Chigi, dopo cene sfarzose nella sua Villa della Farnesina a Roma, faceva gettare i piatti e le posate d’oro dalle finestre della sala da pranzo nel Tevere – anche se, in realtà, una rete piazzata sotto le finestre raccoglieva i preziosi oggetti defenestrati. Gettar via gli oggetti posseduti è parte della festa rabbiosa di chi si è arricchito, ma anche del maniaco: esprime la dilatazione espansiva dell’Io, che così si libera di ogni oggetto che faccia ombra sulla festa del proprio scatenamento. Nella mania il soggetto si libera di ogni oggetto-ostacolo, col rischio però di essere lui stesso defenestrato dalla vita sociale, come disturbo e ostacolo alla vita normale degli altri.

          Comunque, la teoria freudiana del lutto è stata sempre più modificata, se non stravolta, dalla letteratura psicoanalitica posteriore, anche se in modo non a tutti percettibile. Per esempio, in M. Klein non è più tanto la malinconia ad esser letta sul modello del lutto, ma è il lutto ad esser letto sul modello della malinconia. In altre parole, l'essere umano anche più normale, quando è vittima di una perdita, entra in paranoia (è un'espressione ormai comune in Italia, generata forse dall'influenza kleiniana?) e, se ce la fa (se ha un buon analista kleiniano, o se ha capacità particolari di elaborazione psichica), se ne esce in malinconia. Le famose posizioni kleiniane ? la schizo-paranoidea e la depressiva ? descrivono in sostanza la risonanza affettivo-esistenziale di qualsiasi perdita. Questo perché per la Klein l'inconscio è lo storicizzarsi di un lutto: quello per la perdita del seno materno. La stessa fortuna del termine depressivo ? fortuna a cui il kleinismo ha contribuito ? nasce dal fatto che viene a perdersi tra Trauer e Melancholie (lutto e malinconia), la precisa distinzione che, paradossalmente, Freud aveva stabilito tra i due proprio mentre li metteva in relazione. La depressione diventa il concetto master dal momento in cui viene meno la distinzione strutturale tra patologia e normalità.

          In altre tradizioni post-freudiane, per esempio in quella dell'Ego Psychology americana, il modello della malinconia cessa di essere il lutto, il mourning, e diventa piuttosto il despair, la disperazione, la hopelessness, la helplessness. Il malinconico per gli americani diventa sempre più chi dispera di sopravvivere e di vincere, e di vincere sempre più che di sopravvivere (dato che negli USA è piuttosto raro che la gente muoia di fame, ed è molto più comune che venga sconfitta nella competizione generale). Questo perché nella filosofia che guida la deriva americana di Freud l'inconscio non è riconosciuto più come dominato dal principio di piacere-desiderio, ma da un principio di sopravvivenza e di prevalenza. Lo slittamento dal lutto alla disperazione illustra questo principio della filosofia pragmatista americana, per la quale l'uomo è comandato dall'imperativo utilitario della sopravvivenza e del pre-valere.

 

          Da notare che la malinconia per Freud è lutto, non tristezza eccessiva. Una certa fenomenologia psichiatrica (ad esempio Minkovski) assimilerà la malinconia a tristezza, ma non Freud. Egli preferisce rendere "comprensibile" la depressione a partire dal lutto e non dalla generica tristezza perché il lutto non è una tristezza qualsiasi: è cordoglio per una perdita di oggetto. Nella teoria freudiana la fenomenologia degli affetti non è mai sconnessa dall'organizzazione degli oggetti.

          Analogamente, Freud, quando parla dello stato maniacale, lo pensa non come allegria ma come festa. Anche la festa è un'allegria particolare: è essere contenti assieme agli altri. Mentre la malinconia lamenta la povertà oggettuale, la mania esalta, come la festa, una ricchezza oggettuale. Il maniacale non è un povero che si crede ricco ? non cade in un'illusione megalomane ? è un povero che si comporta come se fosse ricco; è chi decide di essere libero pur restando allacciato alla povertà. In questo modo, Freud non riporta due stati affettivi patologici a due stati affettivi normali, ma a due tipi di relazioni con il mondo degli oggetti libidinali.

          Anche la malinconia è tentata continuamente dalla festa, pur essendone il rovescio. E non solo perché ogni funerale a suo modo è una festa, per quanto cupa. Del resto, è noto che alcune persone festeggiano i funerali dei loro cari, nel senso letterale del termine: ridono, bevono, vanno a ballare, ecc. E in molte culture i funerali sono una vera e propria festa, come il Wake irlandese, a partire dal quale Joyce ha scritto Finnegans Wake. Anche se dopo, di solito, queste persone affondano in un lutto lungo e denso. Sarebbe affrettato interpretare questa reazione solo come espressione dell’ambivalenza nei confronti della persona cara. E’ che l’euforia festaiola e la depressione luttuosa slittano l’una nell’altra: proprio perché la perdita è troppo grave, la si “festeggia” per esorcizzarla.

Inoltre, si nota nei depressi una certa inclinazione a prestazioni sessuali perverse, direi a vere e proprie feste sessuali; d’altro canto, molti perversi sono inclini alla depressione. Si diceva prima che il depresso, almeno quello nevrotico, è per lo più un affamato di anti-depressivi: alcool, fumo, fare l'amore, giocare, viaggiare, dormire, ingurgitare prozac, tutto ciò che può smuovere la massa gelida della depressione è ricercato famelicamente. Il depresso, come il tossicomane, è in una crisi di astinenza da piacere. Nella malinconia, il piacere ? sempre più difficile da raggiungere ? è il solo antidoto al marcire della vita. E la vita si putrefà ? perde forma e consistenza, si disfa ? quando essa non è più divertita piacevolmente, quando il vivere si riduce al mero passare del tempo. Come ripetono sempre i personaggi malinconici di Cechov: "sta passando il tempo!"

 

 

10. Narcisismo degli analisti

 

          Diciamo un po' aforisticamente: il narcisista, in senso freudiano, non crede nella parola. Il narcisista o è attratto, tirato, dalla vanagloria delle immagini, oppure ripiega sul reale. In ambedue i casi, non si lascia piegare dalla parola.

          Si capisce allora quale grave ostacolo egli sia per l'impresa psicoanalitica, che si fonda invece sulla fede della e nella parola. L'analisi mobilita la parola che riconosce, che dice il vero, che flette e cura.

          Affascinato dal narcisismo, cioè da chi snoba la parola, lo psicoanalista indulge allora nel contemplare il proprio limite, il proprio scacco. E che cosa è il narcisismo se non il fare del proprio scacco il proprio oggetto d'amore? Lo psicoanalista si consola narcisisticamente pensando che attraverso il narcisismo egli scoprirà la verità dell'Io, anzi del Self. Ma appunto, per Freud né l'Io né il Self sono il vero soggetto ? perché il vero "soggetto" del soggetto sono le pulsioni, il desiderio.

          Husserl diceva che il programma fenomenologico consisteva "nell'andare verso le cose stesse".  Il soggetto freudiano non va, come il fenomenologo, verso le cose stesse, ma verso i suoi oggetti d'amore stessi. A meno che egli non faccia del proprio io la cosa verso cui egli si accontenta di andare.

          Oggi tutti gli analisti più anziani affermano che la clientela è cambiata negli ultimi decenni: che tutti i pazienti sono diventati narcisisti. In questo, tra l'altro, si colgono le note della tipica protesta degli anziani:  mala tempora currunt, si stava meglio prima, ai miei bei tempi. Anche i nevrotici erano meglio prima.

          Ma che cosa vogliono dire sottolineando che un po' tutti i pazienti sono ormai narcisisti? Vogliono dire che nella loro pratica incontrano più ostacoli. Ovvero che i pazienti, aggiungerei, non sono più ingenui come un tempo ? non si bevono più qualsiasi parola, qualsiasi interpretazione. O peggio: le parole a loro non fanno più né caldo né freddo. In una modernità sempre più fredda, narcisistica ? vale a dire sempre più nichilista ? la psicoanalisi, che si fonda sul calore del transfert, incontra il proprio maggiore ostacolo, e quindi la sua più grande sfida.

          Perché il narcisista - chi non crede più nella parola - mette in scena l'io nella sua purezza. Che cosa è l'io se non ciò che si lascia incantare dalle immagini esterne, e non assorbe più alcuna parola?

          Ma d'altro canto, come avviene sempre in giochi di temperie narcisista, c'è uno scambio delle parti, un gioco dei miraggi. Se i pazienti degli analisti risultano sempre più narcisisti, questo non è dovuto al fatto che gli analisti stessi diventano sempre più narcisisti? E' nella natura del narcisismo il suo essere sempre simmetrico e reciproco.  Questi pazienti sempre più narcisisti che gli analisti lamentano, o di cui si gloriano, non sono il riflesso speculare di un narcisismo crescente della psicoanalisi?

          In un dibattito, il filosofo Giulio Giorello fece notare che Freud interpretava ancora dei sogni, invece gli analisti di oggi interpretano piuttosto testi di sogni. Al che, in quell’occasione, mi sono sentito di aggiungere: "non solo testi di sogni, ma testi articolati per me (l'analista)". Lo psicoanalista di oggi si suppone al centro del mondo del paziente. Se il paziente parla della sua infanzia ? pardon, del testo della sua infanzia ? l'analista di oggi si dice "lui mi sta raccontando questo passato, quindi vuole da me ora qualche cosa".

          Ma che cosa è questa specie di delirio di riferimento dello psicoterapeuta se non il trionfo del narcisismo dell'analista non tanto come soggetto, ma direi come funzione? Con il narcisismo psicoanalitico, sogni, lapsus, sintomi, motti di spirito, si riducono a testi ? e testi che mi ri-guardano, che mi guardano e mi interrogano continuamente.

 

          In effetti, legando intimamente lo specchio riflettente e l'ostacolo frustrante, Freud ha marcato il narcisismo con un carattere specifico: la mia immagine riflessa non è solo il mio oggetto d'amore più sublime, più commovente ? è anche il mio più implacabile ostacolo. Il narcisismo è questo essere perdutamente innamorati del riflesso persecutorio: si persegue un riflesso, il cui proseguire nel mondo ci perseguita. L'analista pare oggi inseguire l'io del paziente attraverso gli ostacoli sempre più irti del narcisismo ? come se Achille correndo non si avvicinasse sempre più alla sua tartaruga, ma si allontanasse gradualmente da essa. In questo modo l'analista sconta una sua crescente impotenza: il suo sapere gli fa ormai da ostacolo, getta ombra sulla sua pratica.

          Ma questo suo sapere che gli fa da ostacolo è riflesso nell'analizzante, il quale gli risulta sempre più narcisistico proprio in forza del diffondersi del sapere analitico, della fortuna di Freud: più il soggetto ne sa di sé, più si ignora. Perché non c'è niente di più facile che far slittare la psicoanalisi nella psicologia, vale a dire far slittare il riconoscimento analitico nel narcisismo conoscitivo. Chi non sta molto attento, declina sempre nell'impotenza narcisistica.  Non si ri-trova più, trova solo se stesso ? o, come dicono gli americani, trova il proprio Self. Trovare Self senza ritrovarsi, questo è il marchio del narcisismo della teoria.

          Questo leggo nel modo in cui Freud introduce ? come si introduce un ospite ? il narcisismo nella drammatica festa delle pulsioni e dei loro oggetti.

 

 

11. Exit

 

          Ma come leggere, in fin dei conti, la lettura freudiana della malinconia?

          Vi dirò come la vedo io: per Freud il malinconico è un nazista. Tartassando sé stesso, perseguita ciò che in lui è debole, ciò che è "ebreo": il bambino, l'anziano, l'inadeguato, lo stupido, la fragile donna, o semplicemente la brava persona che vuol vivere spensierata senza troppi scrupoli. Tutti questi deboli sono le propaggini di sé che egli vuole sopprimere.  Quando Freud parla del Super-Io sadico del malinconico, vuol dire che il depresso preferisce sopprimere ciò che è insufficiente piuttosto che "lasciar vivere" o “lasciar essere”. Il malinconico non dice mai "così sia", egli non si attarda mai a trasportare con sé i deboli, vale a dire ciò che in lui è debole. In questo consiste il fondo megalomane di ogni malinconia, la sua fretta eutanasica. Perciò la megalomania maniacale coesiste sempre in qualche modo – come hanno intuito clinici acuti - con la depressione. La ciclicità maniaco-depressiva dispiega nel tempo una sorta di sincronia, di implicazione logica: la mania non è solo il rovescio della malinconia, ne è anche la regola.

          Quando, negli anni 60, venne giustiziato in Israele Eichmann, grande manager nazista dello sterminio degli ebrei, circolò una barzelletta. Quando chiedono ad Eichmann quale sia il suo ultimo desiderio prima dell'esecuzione, egli dice "Voglio convertirmi all’ebraismo".  Viene accontentato. Avviandosi verso la camera a gas, Eichmann si frega le mani mormorando "Un altro fatto fuori!".

          È una battuta, ma coglie qualcosa di importante dell'auto-querela malinconica.

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

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*Testo rielaborato a partire dalla relazione tenuta il 1. giugno 1989 a Napoli, al congresso internazionale "Storia di un genere naturale: la melancolia", promosso dal Centro Ricerche sulle Scienze Umane e la Psichiatria. Pubblicato in tedesco: Benvenuto (2001).

 

 

     [1]Il titolo originale - "Per introdurre il narcisismo" - afferma l'introduzione di un nuovo ospite concettuale nel club dei concetti psicoanalitici. Per una ricostruzione della teoria freudiana del narcisismo, cfr. Benvenuto (1995).

 

[2] Grenzen: piuttosto limiti, confini, frontiere. Qualcosa che non si può oltrepassare.

 

     [3]Per una critica del rifiuto inorridito dell'influenza o della "suggestione" da parte degli analisti, cfr. Stengers & Chertok (1989) e Stengers (1995).

 

     [4]Questa formulazione incappa però nelle critiche potenziali di Marco Focchi (1991, cap. IV). Un suo paper si basa sull'idea ? contraria a quella di Heinz Hartmann ? che il narcisismo non è affatto riflessivo, ma transitivo. Mentre in Hartmann (1976) il narcisismo viene definito in termini "riflessivi" come investimento sulla propria persona in contrapposizione all'investimento su altre persone, per Focchi invece occorre seguire Lacan quando considera l'io come "oggetto d'amore" del narcisista, e quindi in una prospettiva "oggettualista" e transitiva. Questo perché il narcisismo non sfugge alla dialettica del desiderio, e il desiderio in quanto tale è "oggettuale", mira ad oggetti esterni all'io, fosero anche pezzi del proprio corpo.

     La verità è che quando si manipolano concetti del tipo "io", "riflessività", "sé", "auto?erotismo", "amore dell'amore", si entra presto in un vortice vertiginoso di inversioni. Come in certi film di Orson Welles - ad esempio in A Lady from Shangai - diventa impossibile distinguere l'immagine riflessa e l'oggetto riflettente. Avviene con questi concetti, globalmente ri?flessivi, della psicoanalisi quello che avviene in logica, o in filosofia, non appena si convocano enunciati detti auto?referenziali: cataloghi di cataloghi, enunciati che enunciano se stessi, "io mento", auto?citazioni, ecc. Logici e filosofi devono fare i conti, in tutti questi casi, con il prodursi di inestricabili paradossi. Ora, benché Focchi contrapponga la riflessività alla transitività, possiamo vedere anche la riflessività come una variante di transitività. "Io batto me stesso" è una frase riflessiva e transitiva, mentre non è riflessivo l'intransitivo "Cammino". A questo punto parrebbe che le questioni siano squisitamente terminologiche, e che basti mettersi d'accordo su certi termini. In realtà, in queste questioni terminologiche si giocano i problemi fondamentali non solo della teoria, ma anche della clinica ed etica psicoanalitiche.  Qui mi limito a sottolineare questo aspetto "intransitivo" del narcisismo, proprio perché esso è in una stridente contraddizione con la "transitività" fondamentale che Freud attribuisce appunto alle pulsioni, al desiderio, alla libido. L'introduzione del narcisismo, da parte di Freud, equivale all'introduzione di un ospite paradossale, di un virus di contraddizione, in una cittadella teorica che fino ad allora poteva apparire bene ordinata, coerente e completa. Come cercherò di mostrare, la stessa malinconia deve essere vista come un paradosso del narcisismo.

 

     [5]Non sto cercando di diffamare le interpretazioni kleiniane. Probabilmente la strategia etica kleiniana coglie aspetti anche rilevanti dell'immaginario umano, soprattutto nella primissima infanzia.

 

[6]Sul dibattito tra psicologi sul „realismo“ maggiore o minore dei depressi, vedi anche: Maria Miceli e Cristiano Castelfranchi (1995, capp. XI e XIII).

 

     [7]S. Freud (1915, GW X, p. 435; OSF VIII, p. 108): "L'ombra dell'oggetto cadde sull'Io che d'ora in avanti poté esser giudicato da un'istanza particolare come un oggetto, e precisamente come l'oggetto abbandonato".

 

     [8]T.S. Eliot, The hollow men.

 

     [9]Mi riferisco al romanzo Oblomov di Ivan A. Goncarov (1857).

 

[10] Sarebbe interessante un confronto con la cultura maori. A Tahiti è perfettamente accettato il fatto che una persona, soprattutto maschio, entri in fasi di paralisi che viene chiamata fiù. Questo stato fortissima astenia probabilmente non sfocia in malinconia perché non viene colpevolizzato: si considera normale che si sprofondi di tanto in tanto in stati del genere, e si aspetta che passino. Si racconta la leggenda di un giovane che un giorno trovò un magnifico tesoro. Egli fece bisboccia con gli amici per festeggiare la scoperta, ma subito dopo cadde nel fiù – non andò più a prendere il tesoro, di cui si appropriarono altri.

 

     [11]Da qui l'importanza di una sindrome alquanto negletta, se non altro perché difficilmente classificabile (anche come paranoia): la querulomania.  Cfr. in particolare, in una prospettiva lacaniana, il lavoro di Contri (1987), il quale propone di chiamare i querulomani "querelanti".

 

     [12]Scrive Freud: "...accade che l'odio si metta all'opera contro questo oggetto sostitutivo oltraggiandolo, denigrandolo, facendolo soffrire e derivando da questa sofferenza un sadico soddisfacimento. L'auto-tormentarsi del malinconico, certamente foriero di godimento, significa (...) il soddisfacimento di tendenze sadiche o di odio" (Freud 1915, GW  X,  p. 438; OSF  VIII, p.110-111).

 

     [13]Gli psicoanalisti successivi si meraviglieranno di questo, e diranno "possibile che Freud non si accorgesse che il depresso è risucchiato invece nell'oralità?"  Questo scivolamento dall'analità all'oralità è un segno del cambiamento dei paradigmi psicoanalitici: il modello di ogni patologia viene ricercato nel precoce rapporto orale con la madre, e non più, come in Freud, in una dialettica tra il corpo erogeno e i suoi oggetti.

 

[14] Il termine severo viene difatti dall'antico sassone sed waer, che significa "senza amici": la severità è il non essere amichevoli.

 

     [15]"...[I]l malinconico non si comporta comunque come un individuo normalmente contristato da rimorsi e autorimproveri.  Il senso di vergogna di fronte agli altri, che caratterizza (...) quest'ultima situazione, manca nel melanconico (...). Si potrebbe anzi mettere in rilievo nel melanconico la caratteristica opposta, di un assillante bisogno di comunicare, che trova soddisfacimento nel mettere a nudo il proprio Io" (Freud 1915, GW X, p. 433; OSF VIII, p. 106).  Il malinconico è un esibizionista del proprio degrado, che gode quindi dello sguardo altrui su quell'oggetto cattivo che lui è diventato.

 

     [16]"Sé grandioso" è una traduzione insufficiente del termine grandiose Self. L'inglese grandiose ha una connotazione decisamente negativa, e andrebbe reso come "troppo ampolloso" o "grandone". Dietro le forme di una teoria sofisticata del narcisismo, si annida nella Self?psychology di Kohut una valutazione ad un tempo estetica e morale del narcisismo come grandiose; essa promuove una specifica stilistica dell'esistenza basata sulla reciproca empatia,  una chiara opzione educativa sul come aggiustare il tiro delle nostre ambizioni.

 

            [17] Ad esempio, nel film Valmont (1990) di Milos Forman, ripreso dal libro di Choderlos de Laclos. Qui Valmont – che alla fine muore a causa delle sue passioni - è presentato senza mezzi termini come un eroe martire della modernità.

 

     [18]"Lutto e malinconia" (Freud 1915,  GW X, p. 441; OSF VIII, p. 113).

 

Sergio Benvenuto

 

16/10/2020

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