Flussi di Sergio Benvenuto

Lacan, Seminario VII, L’etica della psicoanalisi. Una lettura22/apr/2021


 

Sergio Benvenuto

 

Abstract

 

The author reads Lacan’s 1959-60 seminar as something altogether out of the ordinary with respect to Lacan’s actual teaching. Eccentric, and marginal, even with respect to psychoanalysis taken as a whole. The author doesn’t wager on the evolutive continuity of Lacan’s thought, but instead stresses its breaks, gaps, and vanishing points. In so doing, he doesn’t reduce the Thing (das Ding)—over which Lacan will linger in Seminar VII—to the object’ ‘a ' that will take on a more definitive position in his system of thought.  The Thing is an extimacy of the Lacanian system, that is, of the unconscious. Lacan’s wager starts from the idea that the Freudian system is not a psychological theory, but an ethical system.  This seminar's sense of vertigo derives from its wanting to demonstrate that each of us is polarised by a Thing (one's own duty) that in its turn is the byproduct of a dialectic of pleasure.  And what we call ethics is the continuous, unresolved tension between Utilitarianist Accounting and the Kantian Imperative.

 

L’autore legge il seminario lacaniano del 1959-1960 come un seminario del tutto eccentrico nell’insegnamento di Lacan. Eccentrico, marginale, anche rispetto alla psicoanalisi nel suo insieme. Non scommette sulla continuità evolutiva del pensiero di Lacan, ma ne mette in evidenza rotture, salti, punti di fuga. Così, non riduce la Cosa (das Ding) su cui Lacan si intratterrà nel seminario VII all’oggetto a che prenderà una posizione più definita nel suo sistema di pensiero. La Cosa è una extimity del sistema lacaniano, ovvero all’inconscio. La scommessa da cui parte Lacan è l’idea che il sistema di Freud non sia una teoria psicologica, ma un sistema etico. La vertigine di questo seminario consiste allora nel voler mostrare che ciascuno di noi è polarizzato da una Cosa (il proprio dovere) che a sua volta è il precipitato di una dialettica del piacere. E quel che chiamiamo etica è la tensione continua, irrisolta, tra contabilità utilitarista e imperatività kantiana.

 

 

Parole chiavi: Lacan, etica della psicoanalisi, das Ding, Sade, Antigone di Sofocle, etica kantiana

 

 

1.

            Alcuni, soprattutto se sono filosofi, considerano il seminario VII il migliore, il più denso di pensiero di tutti i seminari lacaniani[1]. Non so se sia il migliore, certamente è il più eccentrico. Per esempio, non compaiono mai grafi; che invece affollano gli altri seminari.

            Quando Jacques-Alain Miller cominciò a editare e pubblicare i vari seminari, Lacan dichiarò che il seminario VII sarebbe stato l’unico che lui avrebbe curato personalmente, che cioè avrebbe riscritto[2]. Perché era quello che lui considerava il più importante e quindi gli doveva dedicare una cura particolare? Oppure perché era quello di cui egli era più scontento, che non si poteva pubblicare tel quel, ma andava revisionato? Probabilmente per entrambe le ragioni, anche se appaiono contraddittorie.

            Doveva considerare quel Seminario il suo più importante proprio perché in un certo senso era fuori della psicoanalisi. Era il più importante non perché fosse il più centrale nel suo pensiero, ma perché era il più marginale, ai limiti della psicoanalisi. È un seminario singolare che mette al centro, come vedremo, proprio la singolarità.

            Sembra che a un certo punto, nel 1959, in una sorta di intervallo del suo percorso, Lacan si sia messo in una posizione esterna al proprio stesso discorso, e così per tutto l’anno parlerà di das Ding, la Cosa.

Lacan tematizzerà la Cosa solo in questo seminario (segno che si era spinto troppo oltre?), anche se ne varierà la forma avanzando altri concetti. Nel Seminario dell’anno successivo, sul transfert[3], si soffermerà su αγαζμα, ágalma, letteralmente statuetta, ripresa dal Simposio di Platone. Agalma avrà la forma di un bagliore che si sprigiona da Socrate e che lega certi giovani a lui: quella strana “cosa” che lega, ancor oggi, ogni analizzante all’analista nel transfert.

 

2.

            Innanzitutto il titolo, “l’etica della psicoanalisi”, che possiamo interpretare come un genitivo soggettivo (l’etica della professione psicanalitica), ma anche come per, “l’etica per (o secondo) la psicoanalisi”, ovvero come la psicoanalisi rende conto di quel che chiamiamo dimensione etica della vita. Anche qui, credo che Lacan faccia tutte e due le cose: comincia col parlarci dei principi etici che governano la pratica dell’analista[4], e poi slitta verso un’etica universale, o meglio verso l’universalità di ogni particolarità etica, di cui alla fine va a rintracciarne il paradigma nella tragedia greca.

            I seminari che Lacan dedica ad Antigone di Sofocle (il XIX°, il XX° e il XXI°) sono celeberrimi, fino al punto che si dice che mentre il pensiero di Freud ruota attorno all’Edipo tiranno[5] di Sofocle, quello di Lacan ruoterebbe attorno all’Antigone di Sofocle. Lacan avrebbe apportato una dimensione “antigonica” alla psicoanalisi.

            In effetti, possiamo leggerlo come un seminario sul tragico. Non a caso si dilunga anche sul marchese de Sade, un autore che – come Lacan ripete – va oltre ogni limite. Forse questo seminario piace tanto perché enuncia il carattere tragico della psicoanalisi. Con questo non voglio dire che le analisi finiscano tutte male, o che la psicoanalisi in toto finisca male, dato che la psicoanalisi è un sintomo (come più tardi dirà Lacan). Anzi, proprio in questo seminario ci offre un’immagine alquanto rassicurante della cura analitica: alla fine dell’analisi “il soggetto si pone in una posizione tale che le cose, misteriosamente e quasi miracolosamente, lui arrivent à bien, gli vanno bene, se le prende dal lato giusto”[6]. Il che contrasta con un pessimismo terapeutico, spesso ostentato e compiaciuto, di molti lacaniani.

Del resto, le tragedie antiche non finivano tutte male, al contrario. Erano trilogie, e l’ultima tragedia della trilogia poteva sciogliere i nodi in modo fausto. Dico che Lacan mette in evidenza il carattere tragico della psicoanalisi perché questa mette in luce una contraddizione fondamentale dell’essere umano, così come nelle tragedie greche i personaggi sono irretiti in una contraddizione fondamentale. E l’analisi, intesa come cura, scioglie questa contraddizione dell’essere umano? Oppure aiuta i soggetti a convivere con essa, non a superarla ma a integrarla in un assetto più retto?

La psicoanalisi ha una dimensione tragica nel senso che non è una Pastorale[7], non porta verso il mito di un’”etica naturale”. Non punta a un assetto perfetto della società o della soggettività a cui tendere, ma ad accettare qualcosa che ci supera e ci decide, das Ding.

Insomma, Lacan cerca di evitare assolutamente le due soluzioni riduzioniste a cui inclina la psicoanalisi quando cerca di render conto dell’etica: da una parte la spiegazione che chiamerei imposizionista, dall’altra la spiegazione che chiamerei compassionista. Nell’un caso si riducono gli atti etici a obbedienza a comandi prima dei genitori, poi del nostro ambiente sociale, che avremmo più o meno interiorizzato; l’etica è il Super-io che ci vessa ma a cui dobbiamo assoggettarci, foss’anche inconsciamente. Nell’altro caso l’etica è ridotta a effetto dell’empatia, del nostro compatire l’altro, a una sorta di nostra originaria benevolenza verso il prossimo che l’analisi dovrebbe restaurare. Lacan vuole evitare queste due “soluzioni” come Scilla e Cariddi, e così osa attraversare lo stretto burrascoso della Cosa.

 

3.

Ma che cosa è questa Ding, questa chose? Abbiamo detto che Lacan si dedica a essa solo in questo seminario. Quando mi confronto su questo con amici lacaniani diciamo ortodossi – qualifica paradossale, perché il pensiero di Lacan è tutto eterodosso – mi dicono che la Cosa viene ripresa da Lacan come oggetto a. Un concetto che era certo presente prima di questo seminario sull’etica, ma che dopo di esso assumerebbe un senso diverso, come causa del desiderio. In effetti Lacan ricorda che il francese chose (come l’italiano cosa) vengono dal latino causa, e possiamo dire che in Lacan la Cosa è causa del desiderio. E l’oggetto a verrà descritto come causa del desiderio. (Ma la Cosa come causa non è la causa efficiente, come di solito immaginiamo che sia una causa fisica: è piuttosto una causa finale, come la chiamerebbe Aristotele[8].)

Eppure, come Lacan stesso ci insegna, la scelta di un termine piuttosto che di un altro che appare sinonimo non è mai neutra, innocente, insignificante. La Cosa non è l’oggetto a… Del resto, lo dice a chiare lettere lo stesso Lacan (a pag. 188 del seminario): “Quel che non può essere raggiunto nella Cosa, è appunto la Cosa, e non un oggetto”.

In tedesco cosa si dice Ding ma anche Sache. Questo secondo termine ha piuttosto il senso di “materia”, come nella “materia del contendere”. Ora, Lacan dice che le Sachen in Freud sono inscindibili dalle parole (Worte), nel senso che esse sono le cose del mondo che abbiamo formattato – diremmo oggi – attraverso i significanti, il linguaggio. Lacan non è un “realista”, nel senso che per lui la realtà così come risulta a noi esseri umani è qualcosa di selezionato, setacciato dalla nostra psiche, che insomma il cosiddetto mondo esterno è sin dall’inizio fortemente soggettivato. Come per Kant, viviamo da sempre in un mondo ordinato da noi. Das Ding invece è qualcosa prima dell’ordinamento linguistico, è “al-di-fuori del significato”[9]. Può sorprendere il fatto che per l’autore che ha affermato il primato del linguaggio in psicoanalisi ciò che conta non sia ciò che è addomesticato dal linguaggio (Sache) ma ciò che resta al di qua del linguaggio stesso (Ding).

Anche oggetto può dirsi in due modi, Objekt e Gegenstand. Gegenstand è l’oggetto come stare-di-fronte-a-un-soggetto, l’oggetto di quando siamo “oggettivi”. L’Objekt è invece l’oggetto della pulsione, qualcosa che viene investito da un soggetto come proprio oggetto. La psicoanalisi si occupa essenzialmente di Objekt.

Ora, il termine oggetto nelle nostre lingue è inscindibile da quello di soggetto. In entrambi si tratta di jectum, di qualcosa di gettato o messo: oggetto è ob-jectum (da obicere, porre innanzi); sub-jectum (da subicere, mettere sotto) gettato sotto, assoggettato. Quando diciamo “oggetto di interesse” oppure “oggetto d’amore” presupponiamo sempre un soggetto che vi si interessa e che lo/la ama. Oggetto e soggetto sono sempre termini relazionali. E non a caso, la corrente detta object-relation (Gregory Hamilton, Glen Gabbard, Jessica Benjamin) in psicoanalisi è poi evoluta in relazionismo, che vede l’inconscio tutto risolto in relazioni tra soggetti che sono reciprocamente oggetti per l’altro. È una delle linee storicamente prevalenti in psicoanalisi, che chiamerei relativista: nell’inconscio si tratta sempre di relazioni, in particolare tra analista e analizzando.

È vero che usiamo “oggetti” anche per dire “cose”. Ma la specificità della Cosa è di non essere relativa a un soggetto, cosa-per-un-soggetto, ma qualcosa di sciolto da ogni relazione. E credo che sia proprio questa emergenza di un absolutus, di uno sciolto da ogni legame sociale, quel che costituisce l’eccezionalità o la marginalità di questo seminario: emerge qualcosa che trascende drasticamente le relazioni pulsione-oggetto, o soggetto-significante, o le relazioni tra i significanti tra loro. Ma la psicoanalisi in fondo dispiega proprio tutto ciò: relazioni pulsioni-oggetti, relazioni tra soggetto e significanti, relazioni tra significanti… Se la psicoanalisi, come teoria dello psichico, assume un assoluto oltre le relazioni, è ancora una psico-analisi, un’analisi della psiche? In effetti, ammette Lacan, “questa [mia] ricerca è in qualche modo una ricerca antipsichica”[10], in quanto al di là del Lustprinzip. Ma lo psichico è tutto entro i limiti del Lustprinzip, del principio di desiderio/godimento[11].

Quanto al principio di realtà, che si opporrebbe al Lustprinzip, Lacan mostra qualcosa che dovrebbe tagliar corto all’eterna diatriba tra realismo e anti-realismo: che il principio di realtà è prima di tutto un principio etico. Nulla ci costringe ad accettare la realtà. Lo sappiamo bene: tanti esseri umani, forse la maggioranza, non sceglie la realtà come principio. Tanti preferiscono vivere nell’irrealtà delle illusioni. Quelle che alimentano di continuo la vita politica degli umani.

 

 

3.

Qui Lacan elabora il concetto di Cosa attraverso un’analisi dell’Entwurf, del Progetto di una psicologia, di Freud, in particolare del rapporto originario di ogni soggetto alla realtà. Lacan pensa che ogni soggetto abbia rapporto con un originario Nebemmensch, il suo prossimo o vicino, il quale ha però i caratteri di uno straniero, Fremde (pp. 64-5), talvolta persino di uno straniero ostile, che risulta da una divisione originaria dell’esperienza della realtà. È il primo “esterno” al soggetto, l’Altro assoluto del soggetto, che questi non cesserà di cercare, ma – puntualizza Lacan – senza mai più ritrovarlo, se non nella forma del rimpianto. Eppure questa originaria estraneità si situa, per ciascun soggetto, come but e visée (bersaglio, obiettivo, finalità) della propria ricerca.

In effetti, la dottrina di Lacan non si basa affatto sul rapporto col nostro prossimo, ma con l’altro. E l’altro in tre forme: l’Altro simbolico che originalmente è il linguaggio stesso, l’altro immaginario che più o meno amiamo od odiamo, e l’oggetto a (a da altro), che è l’estraneità di un oggetto che viene dal reale. Ora, tutte queste dimensioni dell’alterità non coincidono affatto con ciò che nel discorso comune chiamiamo “gli altri soggetti”, il nostro supporre gli altri come soggetti al pari di noi. Insomma, l’alterità lacaniana non si fonda su alcuna soggettività, foss’anche quella più sofisticata, quella teorizzata dalla fenomenologia. Lacan non risolve il Dasein nel Mit-sein. Ma in questo seminario egli non può non tematizzare il Nebenmensch, il prossimo nostro come costitutivo di ogni rapporto etico.

            Ha a che fare questo Nebemensch, questo prossimo – che Lacan stesso indicherà come l’esperienza originaria del bambino con la nutrice, con la madre – con quel “prossimo tuo” evocato da ogni etica? Non è ogni etica, nel fondo, una regolazione dei nostri rapporti col prossimo? Anche i Dieci Comandamenti mosaici sono modi di regolare i nostri rapporti con gli altri e con l’Altro (Dio). C’è una tendenza a ridurre la fede religiosa a un sotterfugio etico, e a ricondurre l’etica a sua volta a precetti su come comportarsi con gli altri. Ora qui Lacan sembra rovesciare (come è suo solito, nei confronti delle concezioni comuni) il ruolo del Nebenmensch: costui non è gli altri di cui dobbiamo accorgerci e di cui dobbiamo prenderci cura come appunto nostri “vicini”. All’inverso, l’etica nasce dalla perdita fondamentale di questo prossimo caratterizzato, malgrado la sua vicinanza, da un’assoluta estraneità. È l’altro in quanto non ce ne possiamo affatto prendere cura, è l’Altro assoluto appunto. È il buon Samaritano, non la persona che lui aiuta: il buon Samaritano è per Gesù il prossimo proprio perché è chi prende cura, non colui di cui occorre curarsi[12]. Il mio prossimo è chi mi cura, e che al limite ignoro.

Ma come si può parlare, oggi, dopo gli acidi corrosivi del pensiero del XX° secolo, di assoluto? Chi ne avrà mai l’ardire? Il secolo scorso è stato di fatto – attraverso la fenomenologia e il pragmatismo – il secolo del relativismo, che ha respinto qualsiasi appello allo sciolto da relazioni, a un’unicità irrelata. Lacan sa di inoltrarsi insomma in un campo, non solo filosoficamente, minato. Già Wittgenstein aveva detto che l’etica (e anche l’estetica) sono assolute, ma proprio per questo – aggiungeva subito – non se ne può parlare sensatamente[13]. Etica ed estetica sono oltre i limiti del linguaggio, e quindi oltre i limiti del mondo. Sono al di là del senso, che è sempre relativo, sempre proposizionale (ogni proposizione mette in relazione un soggetto e un predicato, ovvero almeno due oggetti). E il fatto che Lacan parlerà della Cosa solo in questo seminario eccentrico è un sintomo: non si può ripetere qualcosa sulla Cosa, proprio perché essa è l’inizio, mai contato, di ogni ripetizione.

“Questo das Ding non è nella relazione – dice Lacan - che porta l’uomo a mettere in questione le sue parole come riferentesi alle cose che esse parole hanno tuttavia creato” (p. 58). La Cosa è al di fuori di quella fondamentale relazione tra cose (Sache) e parole che dà forma alla realtà.

Non a caso, a proposito di Antigone, Lacan criticherà la tesi hegeliana, secondo cui la tragedia di Sofocle contrapporrebbe due leggi: quella della Città e dell’ordine politico (incarnata dal re Creonte) e quella della famiglia o dei valori ancestrali pre-politici (incarnata da Antigone). La lettura di Lacan è più radicale: la legge della Città è quella delle relazioni (tra cittadini, tra duci e sottoposti, tra uomini e donne…) mentre Antigone contrappone non un canone di valori alternativo, ma l’assolutezza di un unicum, il fratello Polinice, in quanto insostituibile, singolare. Al mondo che è sempre relazioni, oppone la scorbutica perentorietà di quel Nebenmensch, di quel così prossimo a lei che è il fratello.

            Oggetto a si chiama così perché “a” abbrevia autre, altro. Ogni volta che si parla di ‘altro’, si implica un sé, un altro dall’altro, un soggetto, sbarrato o meno che sia. Sappiamo il carattere fondante che ha in Lacan il fronteggiarsi, direi così, tra Je e Altro, dal miraggio precoce dello stadio dello specchio, fino al nostro rapporto col linguaggio come appunto Altro da me. La Cosa invece non è veramente altra, ma nemmeno propria, sfugge alla dialettica del proprio e dell’altrui. In questo senso sostengo che la Chose di Lacan resta eccentrica al suo pensiero. Così come la Cosa resta eccentrica al mondo oggettuale.

 

4.

            Lacan estrae la nozione di das Ding da Freud, ma certamente lui pensava a un saggio di Heidegger, che peraltro cita, “Das Ding” appunto[14]. In questo saggio Heidegger intende descrivere la cosità della cosa, l’essenza della cosa. Ora, è molto significativo che Heidegger citi solo en passant cose indipendenti dal lavoro umano, come alberi, pietre, stelle… La figura su cui si sofferma – e che certamente ha influenzato Lacan – è quella della brocca. Non abbiamo qui spazio per commentare questo saggio heideggeriano. Notiamo comunque che Heidegger sceglie come paradigma della cosa un utensile – potremmo anche dire una macchina primordiale – come la brocca. Qualcosa costruita dagli umani per certi usi. Un utensile che ha questa particolarità: che il vuoto ne costituisce la sostanzialità. “Il vuoto – scrive Heidegger - è nel recipiente quel che contiene. Il vuoto, quel che nella brocca non è niente, ecco che cosa è la brocca in quanto essa è un vaso, un contenente”. E quindi “Quel che fa del vaso una cosa non risiede affatto nella materia che lo costituisce, ma nel vuoto che contiene”[15]. Quando Lacan insiste nel dire che l’incontro con la Cosa è un incontro con un vuoto, pensa evidentemente alla brocca di Heidegger.

            La brocca, il vaso, la ciotola, sono gli attrezzi più primitivi nella storia umana. La ciotola è l’ultima cosa a cui il filosofo cinico o il monaco taoista rinuncia, essendosi privato prima di tutti gli altri “beni”. Questi utensili cavi sono vuoti fatti per raccogliere – e del resto l’etimologia di Ding à proprio la raccolta, l’assemblea. Ora, questa figura del vaso attrae Lacan in quanto è il significante del significante. Questo significante è utile, è uno strumento – una sorta di computer primitivo. Il vaso o è vuoto, o è pieno, sembra illustrare il sistema binario, 0 e 1. Ora, il significante è fatto per farsi usare, per parlare, ma Lacan sottolinea che esso anche ci usa.

            Nel seminario Lacan racconta un aneddoto a proposito di Jacques Prévert. Questi aveva creato in casa un lunghissimo festone costituito da una lunga serie di scatole di fiammiferi a parallelepipedo, dove il tiretto aperto di ogni scatola veniva inserito nel vuoto della scatola successiva. È l’uso dei vuoti per creare “qualcosa” quel che colpisce qui Lacan. Lo colpisce il fatto che, per quanto la serie possa essere lunga, ci sarà sempre un’ultima scatola béante, aperta, come un resto vuoto che non potrà mai venire suturato. È come tra due lunghezze incommensurabili (ad esempio, il perimetro e il diametro di una circonferenza): per quanto si possa rimpicciolire un segmento per farlo entrare un numero intero di volte nelle due lunghezze, ci sarà sempre un di più, un resto che non potrà mai essere a sua volta ridotto a segmenti interi. È questa eccedenza residuale, frazionale, di un vuoto quel che colpì Lacan. E mi chiedo allora se la Cosa non sia – nella psicoanalisi in generale – proprio questa non evacuabile eccedenza, un vuoto inassorbibile che pure è necessario perché una catena – in particolare, una catena significante, simbolizzata dalla sequela di scatolette di Prévert – possa costituirsi. Ma la Cosa eccede che cosa? La base stessa dello psichismo, il Lustprinzip. In questo seminario, insomma, Lacan re-interpreta l’Al di là del principio di Lust.

            Lacan poi darà risalto alla figura topologica del toro, proprio perché il centro del toro è nel vuoto che il toroide (il tubo circolare) costituisce.

 

 

La Cosa viene promossa da Lacan come vuoto centrale dello psichismo, ma in fondo resta esterna al sistema di Lacan, così come il centro di un toro resta esterno al toro. La Cosa è una estimità (opposta a intimità) del sistema lacaniano, ovvero all’inconscio. Così Lacan è preoccupato dalla Cosa, nel senso proprio che occupa uno spazio previo a ogni catena significante, a ogni messa in forma fantasmatica (res, la cosa in latino – ricorda Lacan – è quel che preoccupa). La Cosa è l’impensabile che ogni pensiero cerca di pensare.

 

5.

            Il Seminario VII segna un eccesso anche nel senso che qui Lacan fa ricorso a una massa di riferimenti culturali, come forse mai in nessun altro seminario. Basti farne una rapida (parziale) lista:

la sublimazione in psicoanalisi; l’amor cortese, la scolastica dell’amore infelice, la Dama del fin amor messa al posto della Cosa; l’etica di Kant e la funzione dell’imperativo categorico; il sistema di Sade e la funzione della crudeltà assoluta; il tema della ‘seconda morte’; il Bene e il Bello; l’utilitarismo di Bentham, Freud e l’etica dei beni; l’architettura e il vuoto; il fool e il knave nella drammaturgia shakespeariana; la crocefissione e il tema della morte di Dio; l’analisi di Antigone, ecc.

Non bisogna considerare questa molteplicità di riferimenti come una serie di teorie sui temi affrontati. Lacan, come un’ape con i fiori, sembra foraggiarsi degli autori e testi che impollina, passando dall’uno all’altro. Lacan sembra sparare in tutte le direzioni come a voler infrangere un limite, quello che esiste tra vari campi del sapere, ma anche il limite che una teoria rappresenta. È come se desse una disperata caccia alla Cosa per farla emergere ovunque la veda luccicare, ubiqua e puntuale allo stesso tempo. Oserei dire che questo Seminario vuole infrangere il limite del senso stesso. In fondo, è un seminario al di là del senso, senza senso.

            Quando lessi per la prima volta questo seminario, in giovane età – in una delle edizioni clandestine che allora circolavano in Francia – lo trovai del tutto comprensibile e persino luminoso. Poi, col tempo, ogni volta che l’ho riletto, l’ho trovato sempre più enigmatico. E non solo perché ho smesso di essere “lacaniano”, ovvero di credere in una ortodossia, orthodoxa, in un’opinione psicoanalitica retta. È che il suo pensiero non si chiude mai in una descrizione o definizione univoca della Cosa, la quale resta in fondo qualcosa di impensabile. Quello di Lacan è un pensiero allegramente metonimico, che non si chiude mai in un senso metaforico finale, è una Begriffenflucht direi, una fuga di concetti (ricorda l’Ideenflucht schizofrenico). Lacan fa appello – sempre – a una nostra personalissima complicità, come in certa arte moderna: capiamo quello che l’artista vuol dire non perché siamo in grado di ri-dirlo, di trasmetterlo, ma – come nella musica – captiamo i passaggi. Anche in musica non c’è senso, eppure, se “capiamo” una composizione musicale, ovvero la gustiamo, capiamo perché il musicista ha messo quella nota dopo quell’altra nota, perché varia un tema fondamentale in quel modo e non in un altro…. Quindi, tutto quello che dico qui non pretende di dire il senso ultimo di questo seminario, riassumendolo magari in un manuale per studenti, ma semplicemente di offrire delle chiavi come in musica, come quando si fanno notare certe consonanze, o certe dissonanze, che l’orecchio inesperto non intende. Direi che meno capisco Lacan, più lo intendo.

            Ma, volendo essere razionali, ci si chiede che cosa unisca tutte quelle epifanie che abbiamo enumerato più sopra. Razionalizzare Lacan è come trasporre la poesia in prosa, ma, come ho detto, l’elemento comune tra tutti quei temi disparati è un certo carattere di assoluto, di sciolto dalle relazioni. Eppure nella vita psichica tutto è relazione. E il nostro linguaggio proposizionale è sempre una messa in relazione.

            In fondo, dato che il nostro linguaggio concettuale è proposizionale, non possiamo parlar altro che di relazioni di oggetto. La Cosa è invece un intervallo, una latitanza dell’oggettualità. Lacan quindi in questo seminario moltiplica a dismisura gli oggetti della propria riflessione per farci cogliere qualcosa di non oggettuale, ovvero di non relativo.

 

6.

            A questo punto occorre scoprire le carte, e dire in che cosa consiste l’essenziale scommessa di Lacan in questo seminario.

            La scommessa da cui parte Lacan è l’idea che il sistema di Freud non sia una teoria psicologica, ma un sistema etico. Quindi, non si tratta di fare una psicologia del comportamento etico, ma di fare una teoria etica dello psichico. Cosa può mai voler dire questo? Non certo nel senso che l’essere umano è libero, dato che di solito leghiamo la possibilità di una dimensione etica all’esistenza del libero arbitrio. Lacan non parlerà mai di libertà. Egli imbocca una strada filosoficamente del tutto inusitata, forse non-filosofica: che il “dover essere” non va spiegato come fatto dell’”essere”, ma che quella parte di essere che è la psiche umana va interpretata come modalità del “dover essere”. Questo grazie all’ambiguità di Lust, desiderio e godimento: fatti del mondo, ma anche aspirazioni, fini.

            Dicendo che la psiche freudiana è un sistema etico, vuol dire che essa è sottoposta a princìpi che sono fuori di essa. Detto in termini filosofici: la psiche è utilitarista (nel senso dell’utilitarismo filosofico, da Bentham in poi), mentre l’etica è kantiana. L’essere umano è un animale utilitarista inconsapevolmente kantiano.

            In effetti, il principale riferimento filosofico di questo Seminario è la Critica della ragion pratica di Kant, a cui rivolge delle critiche puntuali che, anch’esse, corrono sull’orlo dell’argomentazione filosofica, col sospetto di cadere fuori di essa. In effetti, dice Lacan, quel che dice si ritrova “nella filosofia di qualcuno che, meglio di chiunque altro, ha intravisto la funzione di das Ding, pur abbordandola soltanto attraverso le vie della filosofia della scienza, ovvero Kant” (p. 68). Potremmo obiettare certo all’idea che il concetto kantiano di Ding-an-sich, di cosa in sé, sia parte di una filosofia della cono-scienza, e dire invece che quella di Kant è una vera e propria ontologia (come pensava Heidegger). Eppure Lacan ha tenuto a dire spesso che il suo ‘reale’ non è affatto la cosa-in-sé kantiana, ovvero qualcosa di puramente pensabile e inconoscibile, che dobbiamo presupporre in ogni nostro rapporto conoscitivo col mondo. L’ontologia di Lacan non è kantiana, ma la sua etica è kantiana, a dispetto del fatto che egli in qualche modo la critichi, direi che anzi la denunci.

È come denuncia del kantismo (o come rivalutazione di Sade?) che bisogna leggere il suo raffronto tra Kant e Sade. Raffronto che svilupperà poi nel saggio “Kant con Sade”[16]. Trovata geniale: mai nessuno prima aveva pensato a una affinità profonda tra kantismo e sadismo. Kant diceva:

“Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere nello stesso tempo come principio di una legislazione universale”[17]

E Sade disse:

“Prendi come massima della tua azione il diritto di godere di chiunque altro, come strumento del tuo piacere.”

            Non si tratta di un isomorfismo superficiale: di fatto Lacan denuncia il carattere in fondo sadico dell’etica kantiana; ovvero, svela a un tempo il kantismo di Sade e il sadismo di Kant. Suol dirsi che quella kantiana è un’etica formalista. In realtà è un’etica inumana, nel senso che espunge ogni pathos, insomma è anti-patica, non compassionevole, oggi si direbbe non empatica. È una morale identificata al dovere assoluto. Kant elimina dall’etica il “patologico” come dice lui, il pathos, il patire del soggetto. E Lacan ci dà esempi in cui l’imperativo etico kantiano coincide con una certa spietatezza.

(Direi comunque che l’etica kantiana è una virtualità pura: egli non dice mai che essa sia praticabile da esseri umani concreti.  Se fossimo etici, saremmo kantiani, ma nella realtà siamo tutti “patologici”. Ci sentiamo tutti peccatori proprio perché l’etica kantiana è troppo categorica per essere il nostro habitus).

            Quella di Sade è in fondo un’antifrasi, una sorta di caricatura, dell’etica kantiana che ne mette però in luce l’aspetto direi insostenibile: l’esclusione della compassione per mon prochain. Ma proprio così sia la morale kantiana che la sua satira sadiana si pongono entrambe come impossibili, paradossali, perché puntano su das Ding.

            Sarebbe però un errore pensare che, imbarcando Kant con Sade, Lacan smonti l’etica kantiana per rifiutarla radicalmente. Al contrario, svela che c’è in ciascuno di noi qualcosa di “kantiano”, nella misura in cui i nostri desideri sono come attirati da un non-oggetto radicale, la Cosa.

            Lacan si rende conto che deve congiungere due posizioni che nella filosofia risultano opposte. Da una parte l’utilitarismo, che mette al centro dell’etica la massimizzazione del piacere e la minimizzazione del dispiacere, che è il presupposto da cui parte tutto il sistema freudiano. Dall’altra una visione kantiana, che elimina dall’essenza dell’etica tutto il “patologico”, ovvero i nostri affetti, a cominciare dal piacere e dal dispiacere. Da una parte, la sempre relativa esigenza di Lust, del desiderio-piacere, dall’altra l’assolutezza del dovere. La vertigine di questo seminario consiste nel voler mostrare che ciascuno di noi è polarizzato da una Cosa (il proprio dovere) che a sua volta è il precipitato di una dialettica del piacere.

Molti hanno deriso Lacan per quelle che lui sembra articolare come prescrizioni etiche fondamentali per lo psicoanalista, il quale dovrebbe chiedere all’altro: “Hai tu agito in conformità al desiderio che ti abita?”[18] (Allora Lacan preferiva il termine desiderio, solo in seguito punterà sul godimento.) Per Freud, come per Spinoza, l’essere umano è essenzialmente desiderio, quindi etica è la conformità di ogni soggetto al proprio desiderio. Di conseguenza, “La sola cosa di cui si possa essere colpevoli, è di aver ceduto sul proprio desiderio”[19]. Si tratta, anche qui, di un rovesciamento più che provocatorio del pensiero comune, secondo il quale l’etica al contrario è ciò che limita il nostro desiderio, ciò che lo inibisce, in nome del nostro quieto con-vivere con gli altri. Rovesciare il pensiero comune è il godimento di Lacan, sempre. Da qui le critiche piovute: “Ma nell’inconscio noi desideriamo l’omicidio, l’incesto, la vendetta, la crudeltà! Sarebbe etico agire in conformità a questi desideri orribili?[20]” Appunto, la sfida di Lacan consiste nel dirci che il desiderio vero – e ci parla anche dei desideri non veri, quelli “al servizio dei beni” – è quello che ha come visée (vista, scopo, obiettivo) la Cosa stessa. Quindi l’etica è sempre kantiano-sadiana, ovvero è etica del fare il proprio dovere, foss’anche il dovere di godere. Paradossalmente, agire in conformità col proprio desiderio significa fare il proprio dovere, il che equivale a dire che si vive veramente per una causa. In fondo, dice Lacan, al contrario di quel che si pensa, gli esseri umani tendono per lo più a fare quello che si deve fare.

La psicoanalisi quindi non è “al servizio dei beni”, i beni a cui tutti aspiriamo, quelli essenziali per la filosofia utilitarista, e che sono sempre beni relativi al principio di piacere. È questo il versante decisamente dionisiaco di Lacan, probabilmente influenzato da Georges Bataille, che aveva insistito appunto sulla differenza tra l’”economia ristretta” (quella dei beni) e la dimensione estatica della dépense, dello spreco. Per Lacan, l’essere umano tende fondamentalmente all’inutile, allo spreco.

(Leggo in un libro di sociologia[21] che nel 2018 gli italiani hanno speso 107,3 miliardi di euro per il gioco d’azzardo, che ammonta più o meno alla spesa italiana per la sanità. In teoria, dunque, se gli italiani smettessero di giocare, si potrebbe finanziare interamente la sanità pubblica, pagando così anche molte meno tasse. Bataille gioirebbe di questo dato? Non lo so, ma conferma l’idea lacaniana che l’essere umano tende più allo spreco che alle buone economie. Tranne alcuni, quelli che ci comanderanno.)

Ma questo dovere non ha appunto qualcosa di inumano, proprio perché assoluto? In cosa si distinguerebbe allora l’etica di Sade da quella di altri dediti all’assoluto, come Cristo o Francesco d’Assisi, che invece appaiono del tutto benevoli? Ma anche in Cristo, nota Lacan, c’è del sadiano. In effetti, che cosa c’è di più crudele della crocefissione? E non c’era della crudeltà nelle penitenze dure, nei cilici, nelle umiliazioni volutamente cercate, di S. Francesco? L’etica porta sempre a qualche crudeltà, subita o fatta subire. È là che il kantismo etico di Lacan si torce su sé stesso, e apre di fatto una prospettiva abissale. Perché non so dire se anche Lacan parta dal presupposto (tutto da dimostrare) che chi agisce in conformità al proprio desiderio – chi è autentico, diciamo – sia ipso facto una persona buona. Lacan ha detto che bisogna rifiutare il discorso analitico alle canaglie[22], egli non aveva certo simpatia per i farabutti. Il non-detto di Lacan è che, a dispetto di Sade, una morale kantiana implica il rifiuto dell’omicidio, dello stupro, del ricatto, ecc.? Senza dirlo, Lacan sembra presupporre che gli atti malvagi siano inautentici, che siano rivalse per la propria infedeltà al proprio desiderio. Il che è possibile, ma è tutto da dimostrare.

            Molti dicono che Lacan è paradossale e contraddittorio. Lo è, perché mette in evidenza paradossi e contraddizioni della psicoanalisi, che altre teorie analitiche invece dissimulano o rimuovono. La verità è che la teoria analitica nell’insieme non funziona, ma questo perché l’essere umano di cui si occupa non funziona, e la teoria ricalca questa fondamentale imperfezione.

            E in effetti la pratica analitica si basa sul presupposto che far emergere il rimosso, far esprimere il desiderio, non resuscita demoni malvagi. Anche se molti si tengono lontani dalla psicoanalisi proprio per questo timore, che propri demoni incontrollabili possano essere liberati. Occorre però dire anche che certi analisti, quindi persone analizzate, sono alquanto canaglie.

 

7.

Quel che interessa Lacan dell’eroina Antigone è il fatto che lei compia “una scelta assoluta, una scelta non motivata da alcun bene”[23]. Kant direbbe che non c’è nulla di “patologico” in Antigone: non seppellisce il fratello perché la cosa le fa piacere, né fa piacere al fratello, perché è morto. In effetti, quando onoriamo i morti o li rievochiamo, è far loro piacere? Non direi[24]. Antigone segue un imperativo categorico, che sfugge a ogni logica utilitarista (nel senso di Bentham e di Mill), ovvero fa qualcosa di assolutamente inutile dal punto di vista di massimizzazione del piacere.

Ci si chiede perché Lacan non abbia lanciato un nuovo complesso, “il complesso di Antigone”. Ovvero, il complesso che ci porta all’eroico sacrificio per nulla.

            Dei vari aspetti della tragedia, mi soffermerò su un concetto greco antico che ci intriga, data la sua intraducibilità nelle lingue moderne: quello di ?τη. Lacan lo designa come “il limite che la vita umana non saprebbe oltrepassare troppo a lungo”[25]. Antigone vorrebbe andare oltre quel limite costituito da ?τη. Ma questo termine ha fatto scorrere molto inchiostro da parte dei grecisti[26].

?τη non è “disgrazia”, e nemmeno ?μαρτ?α, “errore”. La si usava nel senso di confusione mentale, di infatuazione dovuta alle illusioni prodotte dagli dei negli esseri umani. Personificata, ?τη è dea della malizia, quindi autrice o ispiratrice di azioni avventate. È il peccato di essere incauti. Diciamo che ?τη è a un tempo l’artefice e la vittima del nostro agire eccentrico.

Ha anche il senso di rovina dovuta ai colpi del fato. È l’angoscia del destino, o più genericamente fastidio per un guaio. ?τη designava anche la persona che non aveva avuto fortuna per un fato avverso, oggi diremmo uno sfigato.

Gli dei possono dare ?τη agli umani nel senso di renderli folli. “Sono stato accecato dall’?τη” diceva un greco quando si rendeva conto di aver agito in modo stravagante, nocivo per sé. Per influsso dell’?τη, ci si abbandona a un comportamento imprudente o inspiegabile.

Ma l’?τη è essenzialmente uno stato d’animo, ad esempio una follia passeggera o parziale. Se si beve troppo vino si ha ?τη, lo stato mentale prodotto dall’essere brilli o sbronzi. L’?τη “è mandata dagli dei soprattutto come punizione della temerità colpevole”, che diverge dal senso che avevamo dato prima, dove era frutto dell’arbitrarietà del destino. Ma la temerità è essa stessa ?τη. Ci sono insomma atti normali, e atti compiuti in uno stato di ?τη.

Quale tratto semantico comune possiamo trovare in tutte le diverse declinazioni di questo termine? Wittgenstein direbbe che i sensi di questo termine hanno solo “rassomiglianza di famiglia”, non coprono un concetto unitario[27]. Penso che la sua ambiguità sia la stessa che, oggi, ci inquieta, ci lascia meditabondi, nella tragedia greca in generale, dove c’è sempre oscillazione, incertezza, tra la colpa come effetto di errore umano, e la colpa come inscritta nel destino di un essere umano. Si è colpevoli per esser stati colpiti dal fato. Edipo è colpevole per aver ucciso suo padre e aver fatto figli a sua madre? Oppure per essere finito sotto i colpi del fato a cui voleva sfuggire? In certi momenti la tragedia sembra dare la prima risposta, in altri momenti la seconda. In fondo, nel tragico si è colpevoli del proprio destino, e allo stesso tempo si ha un destino che ci rende colpevoli. Il primo senso è quello che collega i guai dell’eroe e dell’eroina a un errore commesso, ?μαρτ?α, il secondo è più vicino al senso di ?τη, che cercherei di rendere col termine erranza. Sfruttando di questo termine tutta la sua ambiguità: come l’aver errato, o come l’andare errando per il mondo perché ci si è smarriti. Direi che ?τη designa lo spazio di uno scarto, sia affettivo che pratico, tra un essere nella norma, un essere nella via giusta, e un deviare da essa, sia perché gli dei ci hanno preso di mira, sia perché siamo stati incauti o intemperanti. Che venga da un nostro errore o dall’esterno (dal vino o dagli dei), ?τη è una passione accecante che ci perde. Lacan non ha torto quindi del tutto torto nel connetterla alla trasgressione di un limite, che Antigone in particolare mette in atto non solo infrangendo la legge della Città, ma nella sua testardaggine, che non ammette compromessi, di dover fare.

Ora, per Lacan l’?τη, l’erranza di Antigone, è polarizzata sulla Cosa, che qui si manifesta nell’unicità costituita dal fratello. Dice Antigone, secondo Lacan: “Mio fratello è quel che è, ed è perché è quel che è, e che solo lui può esserlo, che mi porto verso quel limite fatale”[28]. E questo non solo perché Antigone non potrà avere più fratelli (l’altro, Eteocle, è anch’egli morto) e perché i genitori sono troppo anziani per generare altri fratelli, ma perché Polinice è l’unicità polarizzante che la dedica al suo atto. In filosofia si direbbe che il fratello non è quid, è il quod. Il quid è ciò che qualcosa è (la sua essenza), il quod è il fatto che un qualcosa esista. La scienza si occupa sempre di quid, non può dare alcun senso al quod. Polinice è il quod di Antigone, e perciò insostituibile.

Antigone rinuncia quindi ai propri beni – al letto coniugale con Emone, alla vita – perché la sua visée, il suo scopo, è la Cosa. Il che permette a Lacan di dire – in un modo che qualcuno troverà troppo romantico – che il desiderio puro è desiderio di morte[29] (cosa che a suo modo disse Freud in Al di là del principio di desiderio/godimento).

Ho l’impressione che, parlando di Antigone, Lacan parli in fondo di sé. Sembra identificarsi ad Antigone. Come Antigone, egli vuole andare oltre ate, sorpassare un limite, ed è proprio questo sorpassare ate l’erranza. Da qui una sua certa caparbietà che ritrova in Antigone. E lo stile errante, seminante e disseminante, della sua parola. Ma è soprattutto in questo seminario che Lacan vuole andare oltre ?τη.

Indubbiamente Lacan vede Antigone come una pura eroina kantiana, che non mira a massimizzare il piacere di nessuno. Ma allo stesso tempo Lacan ci invita a considerare freudianamente l’atto di Antigone come atto di godimento, dove però il godimento sembra tagliare gli ormeggi dal piacere.

Forse la pertinenza filosofica di quel che dice Lacan consiste proprio in questo: che quel che chiamiamo etica è la tensione continua, irrisolta, tra contabilità utilitaria e imperatività kantiana.

E in effetti all’esempio tragico di Antigone associo uno moderno e comico – un episodio di Sessomatto, un film di Dino Risi del genere della commedia all’italiana – dove invece gioca al massimo grado l’amore erotico. Un cafone pugliese – interpretato da Giancarlo Giannini – arriva per la prima volta a Milano, non ha alcuna esperienza del mondo urbano. Così prende per una brava signorina un travestito che si prostituisce al parco; se ne innamora, ‘la’ porta a casa sua. Poi, a tappe, Giannini scopre che costei è un costui che batte, e che per di più ha moglie e figli. Poi lo riconosce come suo fratello, partito molti anni prima dal paese…  Errore totale, quindi, sull’oggetto dei propri desideri; lui credeva di desiderare una brava ragazza vergine. Ma qualcosa fa sì che Giannini resti attratto da quel fratello, e pronuncia di fronte a lui il discorso impareggiabile: “Bastava solo che tu non fossi uomo ma una donna; bastava che tu non fossi sposata ma solo fidanzata; che tu non fossi puttana ma una brava ragazza; e che tu non fossi mio fratello, ma, che so, mia cugina… ebbene, saremmo stati fatti veramente l’uno per l’altro!” E difatti, alla fine, faranno coppia.

            Un analista rozzo direbbe che Giannini era innamorato del fratello sin da bambino, che ha ritrovato il suo oggetto incestuoso malgrado le trasfigurazioni, ecc. ecc. Lacan non andrebbe su questa strada. Certo il fratello travestito non è Polinice, ma questi sembra possedere per il cafone qualcosa di unico e prezioso. Il suo oggetto – la ragazza perbene – era quello prescritto dalla legge del paese d’origine, che Giannini aveva preso per il proprio desiderio. Ma d’un tratto incontra un qualc’uno – o meglio, una qual Cosa – che sembra rivelare un’autentica ‘legge del desiderio’, ovvero l’attrazione irresistibile che quell’unicum esercita su di lui. È la cosa amata assoluta, slegata cioè da tutti gli oggetti detti desiderabili, ovvero consentiti.

            Noto che sia l’esempio tragico (Antigone) che quello comico vertono su un fratello, che è la persona a un tempo più vicina ma anche abissalmente lontana, Nebenmensch. In entrambi i casi si rivela una hybris, una vicinanza al fratello prossimo che è anche un’immensa distanza. La Cosa è ciò che ci è più vicino e più lontano al tempo stesso. Cosa unheimlich, la più intima e familiare, e allo stesso tempo la più abissalmente estranea.

 

8.

Quindi, in questo seminario Lacan tenta una temeraria quadratura del cerchio. Lacan accetta il fondamentale presupposto che l’essenziale dell’essere umano è desiderio – io direi che è die Lust, desiderio e piacere, desiderio o piacere. Ma l’etica per Lacan è in fondo quella kantiana dell’imperativo incondizionato. Come pensare ciò che evade dalla dinamica di Lust in termini di dialettica di Lust? La Cosa come causa non-psichica dello psichico, questo trascendersi del desiderio in qualcosa al di là del desiderio, è il tentativo tormentato di pensare l’etica in termini freudiani senza ridurla a psicologismo.

Lacan si rende conto che l’impegno etico sfugge al Lustprinzip, eppure in fin dei conti la psicoanalisi, avendo a che fare con lo psichico, fa sempre appello, alla fin fine, al Lustprinzip. L’etica, come la ripetizione e la pulsione di morte – l’ate - mette di fronte lo psicoanalista a un al di là dell’interpretabilità analitica, insomma la fedeltà etica (che è anche un’erranza) confuta la teoria psicoanalitica. Se questa fosse una teoria scientifica, dovrebbe considerare sé stessa come falsificata. Ma la psicoanalisi non è una teoria scientifica, è una dottrina etica: per cui ciò che è al di là del Lustprinzip, ciò che è al di là dello psichico, va messo al centro della pratica analitica.  Questa si misura, prima o poi, con questo non-psichico, con questo umano forgiarsi il proprio destino, il quale, proprio perché costruito, si rivela prestabilito, già tracciato.

E direi che proprio nella clinica, ovvero a stretto contatto con lo smarrimento e l’erranza dei nostri coevi, ciò si mostra ogni giorno. Tante persone vengono in analisi perché, semplicemente, non sanno quello che vogliono. Spesso non lamentano nemmeno sintomi grazie ai quali il desiderio inconscio si esprime loro malgrado. Diciamo che sono essenzialmente scontenti di quello che sono, e vorrebbero essere altro da quello che sono. Ma siccome non sanno quello che vogliono essere, non possono avere una Causa grazie a cui desiderare, per cui vivono in una dimensione del vivere “come se”, als ob[30]. Persone che si rendono conto di aver fallito, ma non sanno in che cosa e perché, dato che, spesso, non mancano di beni nel senso utilitarista del termine. Poco a poco queste persone si rendono conto di aver ceduto sul proprio desiderio, insomma, non hanno una Causa per cui vivere, perché in fondo l’hanno smarrita. E quindi diremmo, per parafrasare la frase di Sade che ogni francese conosce – “Français, encore un effort pour être républicains!” –, che l’etica della psicoanalisi è un appello: “Esseri umani, ancora una sforzo per essere desideranti!”

 

 

 

 

 

 

 



[1] J. Lacan, Le Séminaire, livre VII. L’éthique de la psychanalyse, Seuil, Paris, 1986. Qui mi riferirò alle pagine dell’edizione originale francese.

 

[2] Era anche l’unico che gli era stato chiesto di pubblicare come libro a sé. J. Lacan, Le Séminaire, livre XX. Encore, Seuil, Paris, 1975: «Mi è capitato di non pubblicare L’etica della psicoanalisi. Allora era da parte mia una forma di gentilezza – dopo di lei, la prego, la peggio… [après vous j’ vous en prie, j ’vous en pire…] Col tempo, ho imparato che potevo dirne un po’ di più. E poi mi sono accorto che quel che costituiva il mio cammino era dell’ordine del non ne voglio saper nulla». Affermazioni enigmatiche invero. Sembra voler dire: “pensavo di essere andato avanti rispetto a quel seminario, ma poi ho capito che sviluppavo una forclusion, un pignoramento del sapere. Volevo essere gentile nel pubblicare il seminario, ma…”

 

[3] J. Lacan, Il Seminario. Libro VIII. Il transfert, Einaudi, Torino 2008.

 

[4] L’éthique de la psychanalyse, cit., pp. 14-20.

 

[5] Non è una mia svista: Ο?δ?πoυς τ?ραννoς, Oidíp?s týrannos. In Sofocle Edipo è una figura tirannica, ha ben poco di saggio.

 

[6] Cit., p. 339.

 

[7] Intendo qui pastorale nel senso in cui ne parla M. Foucault: Les aveux de la chair, Gallimard, Paris 2018 (cfr. S. Benvenuto, “La pastorale, antica e moderna. Riflessioni a partire da M. Foucault, Les aveux de la chair”, POL.it, 18 settembre 2018, http://www.psychiatryonline.it/node/7642.). Ma la evoca anche Lacan in questo seminario, cit., p. 107.

[8] Ricordiamo qui le quattro cause secondo la Fisica aristotelica: causa efficiente, finale, materiale, formale. Fisica, 194b 15-195a 2; 198a 24-25.

 

[9] Cit., p. 67.

[10] Cit. p. 142.

 

[11] E’ questo il modo abituale in cui mi riferisco al freudiano Lustprinzip, tradotto per lo più come “principio di piacere”. Cfr. Benvenuto, Leggere Freud, Orthotes, Salerno, 2018.

[12] Una particolarità che di solito non si nota, ma che mi ha fatto notare la psicoanalista Emma Lieber.

 

[13] L. Wittgenstein, A Lecture on Ethics; tr.it. Lezioni e conversazioni, Milano 1967, pp. 5-19.

 

[14] M. Heidegger, “Das Ding”, in Voträge und Aufsätze, G. Neske, Pfullingen 1954; tr. it. di G. Vattimo, “La cosa”, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976.

 

[15] Heidegger, “La cosa”, cit., p. 112.

[16] “Kant avec Sade”, Ecrits II, Seuil, Paris 1999, pp. 243-269.

 

[17] Fondazione della metafisica dei costumi, BA 52, "Akademie Augabe" IV, p. 421, 7-8.

[18] Cit., p. 362.

 

[19] Cit., p. 368.

 

[20] Ad esempio S. Benvenuto, ”Conversazione con Cornelius Castoriadis”, Psicoterapia e Scienze Umane, anno XXXIII, n. 4, 2000, pp. 109-123.

 

[21] L. Ricolfi, La società signorile di massa, La nave di Teseo, 2019, pp. 124-5.

 

[22] J. Lacan, Télévision, Seuil, Paris 1974, p. 67 : “… e se oso articolare che l’analisi deve rifiutarsi alle canaglie, è che le canaglie attraverso di essa diventano stupide [bêtes], il che è certo una miglioria, ma senza speranza”.

 

[23] Le Séminaire VII, cit., p. 281.

 

[24] In verità, cerchiamo di compiacere i morti, ma immaginariamente. Cfr. S. Benvenuto, “Sono uno spettro, ma non lo so”, Milano, Mimesis 2013.

 

[25] Le Séminaire VII, cit., p. 305.

 

[26] Si veda in particolare E. R. Dodds, I greci e l’irrazionale, Milano, Rizzoli 2008. P. Grimal, Dictionnaire de la mythologie grecque et romaine, 15e édition, Paris, PUF, 1999 (The Dictionary of Classical Mythology, Wiley-Blackwell, 1996). 

 

 

[27] L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1967, §§ 66-68.

 

[28] Le Séminaire, livre VII, cit., p. 324.

 

[29] Cit., cap. XXI, pp. 328-9. “Ma Antigone porta fino al limite il compimento di quello che possiamo chiamare il desiderio puro, il puro e semplice desiderio di morte come tale.”

 

[30] H. Deutsch, “Über einen Typus der Pseudoaffektivität ("Als ob")”, Internationale Zeitschrift für Psychoanalyse, 20, 1934.

 

 

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