Flussi di Sergio Benvenuto

Il godimento che mi resiste23/feb/2022


 

 

Sergio Benvenuto

Intervento al seminario COME GODE UN CORPO?

 

 

1.

             Quale tema è più psicoanalitico di quello del godimento?

             Perché per Freud l’essere umano è soprattutto un essere pulsionale, ovvero un essere che assolutamente, sempre, vuole godere. “L’uomo – dice Freud - è un instancabile ricercatore di piacere”, “unermüdlicher Lustsucher[1]. È questo l’assioma freudiano – il dogma freudiano, per chi detesta Freud.

Decenni fa la psicoanalisi di derivazione lacaniana parlava per lo più di desiderio, mentre oggi essa parla per lo più di godimento. C’è una svolta in questo senso? Perché oggi gli analisti godono di più nel parlare di godimento anziché di desiderio? Quando sento certi analisti lacaniani, o filosofi influenzati dal lacanismo, parlare a più non posso di godimento, mi sembra chiaro che il significante ‘godimento’ stesso li fa godere.

Probabilmente al fondo agisce un’insofferenza per una lunga tradizione filosofica, che inizia già con Platone (Simposio, Fedro) e giunge fino a oggi, la quale consiste nell’esaltare eros, il desiderio, come pulsione insoddisfatta, come rinuncia al piacere immediato – una tradizione che nutre tutto il filone debordante della critica moralista del “consumismo”, della soddisfazione a ogni costo attraverso oggetti. Traspare dietro questa insistenza sul godimento una rivendicazione etico-politica della soddisfazione contro una celebrazione virtuosa, e in molti casi pia, della rinuncia a godere; contro una moralizzazione isterica della vita.

In ogni caso, non vedo una vera alternativa tra leggere in termini di desiderio e leggere in termini di godimento. Perché Lust di cui l’essere umano è instancabilmente sucher significa entrambe le cose. Freud in Tre saggi sulla teoria sessuale evoca questa ambiguità per giustificare la sua scelta del termine latino libido per dire il desiderio: voleva usare il termine comune Lust per dire la stessa cosa, ma Lust significa appunto anche piacere in quanto soddisfazione (Befriedigung)[2].

La psicoanalisi freudiana è una teoria e una pratica che intende rivelare die Lust. Evidentemente, insistendo sulla faccia godimento piuttosto che sulla faccia Bedürfnis (desiderio bisognoso), molta psicoanalisi di oggi intende far emergere la dimensione essenzialmente inconscia del godimento. Questo significa che c’è una differenza categoriale tra godimento e ogni forma di affetto o sentimento piacevoli. Diversamente da molti post-freudiani, Freud non pensava che avesse senso interpretare gli affetti e le emozioni, che sono sempre effetti consci, segnali: ciò che va interpretato, ricostruito, sono piuttosto delle rappresentazioni, non gli affetti alla cui origine esse sono. Con Lacan le rappresentazioni sono diventate “significanti”; affetti ed emozioni sono significative, ma non sono significanti. Se stranamente l’ascensore mi angoscia, non è l’angoscia che va analizzata, ma i significanti connessi ad “ascensore” di cui il soggetto si angoscia.

Es tedesco, terza persona neutra, non è stato tradotto in italiano, o è stato reso con l’Id latino. I francesi si sono sforzati un po’ di più e hanno reso Es con ça, “quello, questo”. E in effetti, se il traduttore italiano fosse rimasto più fedele allo spirito di Freud – ovvero se avesse preferito il linguaggio comune al linguaggio paludato – avrebbe reso Es forse con Quello. Quindi, per Freud non è l’Io a godere ma: Quello gode. Es genieβt. Ça jouit. “Non sono io a godere – anzi, spesso e volentieri soffro – è Quello a godere”. Ma chi è Quello?

Ora, il godimento si distingue dal piacere se intendiamo il piacere come qualcosa di affettivo: essendo una sensazione consapevole, è effetto e non causa. La causa è il godimento, che è essenzialmente inconscio. È questa la grande scommessa di Freud, che non tutti sono disposti ad accettare (nemmeno molti psicoanalisti, in verità): che l’essere umano (non il suo Io!) gode anche quando soffre, che anzi la sofferenza può segnalare che, a scapito dell’Io e degli affetti consci, Es gode. Lacan, non a caso, ha parlato a un certo punto di sostanza godente[3], anche quando l’accidente è sofferente. Uno dei percorsi possibili dell’analisi è rendere piacevole un godimento che prima si imponeva al soggetto come sofferenza: il soggetto, insomma, assume come proprio il godimento dell’Altro. Questo significa che per la psicoanalisi il godimento, essendo dell’Altro, è, per dir così, anonimo. Godimento di un corpo, se vogliamo, nel senso del genitivo soggettivo: è il corpo a godere. Ma un corpo godente non è un vero soggetto, un “nome proprio” che può essere dato al godere, perché declina sempre in genitivo oggettivo: si gode di un corpo (anche del proprio) come di un oggetto. Il corpo è sempre a un tempo soggetto e oggetto di godimento. Il mio corpo non è mai pienamente soggetto del godere perché è abitudine del corpo torcersi come oggetto di cui si gode. Se mangio un dolce e ne godo, la bocca e la gola non sono i soggetti che godono, ma sono io che usufruisco di – o posso rigettare – questo godimento della bocca e della gola. Io traggo piacere dal godimento di un corpo che, stricto sensu, non sono. Godo del mio corpo nella misura in cui mi concedo al godimento del corpo. Ma posso anche non concedermi. È quel che accade nelle forme isteriche di perdita del gusto, ageusia, per esempio: il soggetto mangia e beve, ma non sente i sapori. Ovvero, il soggetto rigetta il godimento orale del proprio corpo; questo godimento c’è, ma è scisso dall’Io ageusico. L’Io qui protesta, potremmo dire, contro il godimento del proprio corpo.

 

2.

Il punto è che la nozione di corpo mal si adatta alle griglie psicoanalitiche. “Corpo” è una nozione del linguaggio comune, che ha in più un suo alone metafisico (“l’anima e il corpo”), e la psicoanalisi ha difficoltà a parlare de il corpo. La psicoanalisi ha a che fare con vari “corpi”, e ci si chiede se tra loro siano congruenti.

In tedesco, per esempio, abbiamo due corpi, Leib e Körper. Se questo seminario fosse stato tenuto in un paese di lingua tedesca, gli organizzatori avrebbero dovuto scegliere uno di questi due termini. Leib è il corpo senziente, vissuto. Körper invece è il corpo come oggetto, il corpo-cosa; non a caso da esso deriva l’inglese corpse, cadavere. Il corpo oggettivo è il corpo in quanto non desidera e non gode, che è già, potenzialmente, cadaverico.

Ma tra tutti questi “corpi” non c’è un Super-corpo che faccia da sfondo comune a tutti, che li sintetizzi – un Super-corpo che includerebbe anche la mente, la funzione intellegibile. Perché per Freud anche la mente è in qualche modo corporea. Dopo tutto, quella che chiamiamo razionalità è l’ingegnarsi per salvare il nostro corpo e i corpi di chi ci è caro.

Da una parte c’è il corpo erogeno e pulsionale, che chiamerei, riprendendo un linguaggio arcaizzante, la carne (come “i peccati della carne”, ecc.). Da un’altra parte c’è il corpo dello stadio dello specchio lacaniano: immagine trionfale del corpo riflesso nello specchio, idealizzazione immaginaria di sé. C’è il corpo come dotato o meno di fallo, il corpo sessuato, che si aggrappa, per dir così, al corpo erogeno senza coincidere mai con esso. C’è il corpo come oggetto di desiderio dell’Altro, il corpo concupito dagli altri o il corpo degli altri concupito da me. C’è il corpo simbolico, attraversato dal linguaggio, che emerge nell’isteria di conversione. C’è il corpo come oggetto di godimento in quanto it fades, in quanto va assottigliandosi e scomparendo, come nell’anoressia “vera”, il corpo filiforme alla Giacometti. E c’è il corpo-macchina di cui si occupa la medicina, il corpo che deve funzionare in qualche modo, che deve sopravvivere e svolgere delle funzioni, le quali vengono meno nelle forme isteriche (paralisi, cecità). Mi chiedo se nell’ipocondria questo corpo-macchina non venga come sequestrato dal corpo erogeno, dalla “carne”; il soggetto si ritrova allora come corpo-macchina malato, come corpo cadaverico. Nell’ipocondria il corpo-macchina è confiscato da Es, da Quello che gode a mio discapito.

             Conosciamo quelli che possiamo chiamare gli scacchi del rapporto soggettivo al proprio corpo: conversione isterica, ipocondria, anoressia e bulimia, cutting del borderline, tossicodipendenze. Sono questi scacchi del rapporto al proprio corpo, o al corpo dell’altro, un effetto del voler costituire un Super-corpo che non esiste? Non vengono tutti i problemi dal non voler accettare la pluralità dei “corpi”? L’idea mi attrae, mi seduce, ma proprio per questo bisogna resistergli.

 

 

3.

             Abbiamo detto che per Freud l’essere umano è un organismo che soprattutto desidera godere; e talvolta gode del proprio desiderio, come accade nell’isteria. È la fondamentale economia freudiana.

Eppure la psicoanalisi si focalizza essenzialmente su sofferenze. Ovvero, questo desiderio-godimento fondamentale che costituisce l’inconscio – l’assioma o dogma freudiano - risulta all’io umano per lo più sofferenza. Sono la sofferenza del sintomo nevrotico o psicotico, quella degli atti mancati, quella degli incubi notturni. Certo la psicoanalisi analizza anche esperienze di piacere: il motto di spirito ad esempio, il comico; e le perversioni, che sono casi di plus-godimento sessuale, potremmo dire. Il fatto che il godimento così essenziale all’umanità secondo Freud venga vissuto come sofferenza illustra una distinzione fondamentale: che da una parte c’è l’Io, das Ich, e dall’altra parte il vero soggetto del godimento, Es.

 

C’è oggi una clinica di disturbi che mettono la psicoanalisi, in particolare quella lacaniana, in un certo imbarazzo. Le cosiddette Nuove Forme del Sintomo (NFS): anoressia e bulimie non nevrotiche, dipendenze da sostanze o da atti (dipendenza dal gioco, dal sesso…)[4]. La difficoltà sta innanzitutto nel fatto che queste NFS sono ego-sintoniche. L’anoressica “vera” (ovvero non nevrotica) gode del suo “mangiare niente”[5] (come dice Lacan[6]). Il tossicodipendente gode della sua droga, non c’è nulla da interpretare. In questi casi ego-sintonia e godimento coincidono. Questi soggetti godono e non soffrono attraverso il proprio corpo. In termini lacaniani: il loro godimento non è dell’Altro, ma il loro proprio. Sono soggetti senza Altro (leggi: senza inconscio), sono Uno. Il che però ha l’aria di un pericoloso boomerang: come la psicoanalisi, per la quale quel che conta sono le dinamiche inconsce, può giungere alla conclusione che alcuni soggetti mancano di inconscio, lo rifiutano? Perché rifiutare l’inconscio (l’Altro) è esso stesso un atto inconscio. Nelle NFS la psicoanalisi tenta comunque di interpretare un’inquietante carenza di inconscio, ovvero di ricondurre questa carenza a qualche inconscio. Di fronte alle NFS, l’analista si trova in una posizione antinomica, in pieno Epimenide[7].

Si sarebbe tentati di rovesciare il rapporto tra “vecchie” e “nuove” forme del sintomo, e dire che tutte le strutture classiche – nevrosi, psicosi, perversioni – in qualche modo sono forme più arzigogolate, simbolicamente travagliate, di una sorta di sintomi di grado zero, per dir così, o elementari, ovvero tutte le forme di dipendenza da un godimento specifico. Le “dipendenze” sono la difficoltà, spesso l’impossibilità, di rinunciare alla ripetizione di un dato godimento – che può andare da quello dell’alcool e delle varie droghe al sesso promiscuo o al gioco, dal dover correre fino al dover per forza scrivere ogni giorno (coazione di molti scrittori, per i quali non scrivere è una tortura)… Ma, portando avanti un’analisi, che cosa emerge in ogni nevrosi, in ogni perversione, in ogni psicosi, se non appunto la difficoltà o l’impossibilità di rinunciare non solo a un certo tipo di relazioni arcaiche, ma al corteo di godimento che queste relazioni comportano? Ogni cosiddetta psicopatologia, a suo modo, è una coazione a godere in un certo modo, una “scimmia sulle spalle” che prende spesso la strada di un accanirsi simbolico. Le dipendenze, addictions, dovrebbero essere viste allora non come eccezioni, ma come il paradigma stesso di ogni forma classificata come psicopatologica: ciò che chiamerei un’eccessiva vischiosità di un modo di godere.

 

4.

             La psicoanalisi di ascendenza francese tiene a distinguere piacere e godimento (plaisir e jouissance), anche se Freud usa raramente il termine Genuβ, godimento. Direi che quando Io partecipo del godimento di Es, allora ne posso trarre piacere. Il caso opposto è quello della malinconia o depressione maggiore, una delle esperienze più devastanti che un Io umano possa attraversare. Ebbene, persino nella malinconia Freud trova del godimento![8] Di contro alla sofferenza abissale dell’Io, il Super-Io gode. Non sono io a godere, ma è l’Altro sadicamente a godere rimproverandomi.

             Possiamo dire che l’Altro è il corpo? Abbiamo detto che ci sono vari “corpi”. Ma la psicoanalisi di quale corpo si occupa?

             Tempo fa a questo stesso seminario Massimo Recalcati ha detto che l’accento messo sul corpo vissuto, sul corpo sentito come proprio, è una passione della fenomenologia filosofica. La fenomenologia ha sempre tenuto a fondere anima e corpo, per dir così; ma non la psicoanalisi. Concordo con Recalcati. La psicoanalisi non si occupa tanto del corpo vissuto, del corpo animato e dell’anima corporea, quanto piuttosto del Körper, del corpo come oggetto degli e per gli altri, e del corpo che mi resiste, che se ne va per conto proprio, che vuole cose che io non voglio, o del corpo che mi perseguita. Che mi incalza, per esempio, attraverso le supposte malattie da cui è affetto e con cui si affetta, ancor prima che lo affettino i chirurghi.

             Oltre a questo Körper, la psicoanalisi evoca il corpo erogeno – la carne - il corpo a partire dal quale le varie pulsioni si scatenano nel loro loop, ma è un corpo senza immagine, aperto (béant) attraverso le zone erogene. Non è il corpo per l’Altro, dell’Altro, ma una sorta di corpo al di qua di ogni sua forma, che dobbiamo sempre presupporre senza mai riuscire a porlo completamente nelle sequele psicoanalitiche, dato che la sua efficienza è sempre intrappolata in fantasie (fantasmes). Possiamo dire che la psicoanalisi si occupa dei vari modi in cui questa “carne” non si chiude su se stessa, degli sbandamenti e delle vie traverse che essa prende per riuscire a chiudersi nel godimento.

 

5.

             Corpo è anche la forma di un corpo. La forma che vedono gli altri, o che, in quanto altra da me, vedo nello specchio.

Alcuni, uomini e donne, ricordano la loro adolescenza come funesta perché erano obesi. Ridicolizzati dai coetanei, esclusi dai flirt e dai giochi della seduzione, si sentivano degli Intoccabili. Grazie all’analisi si rendono conto che l’obesità era da loro inconsciamente scelta, proprio per escludersi dal desiderio dell’altro, per affermare la loro eccezione. L’orrore del proprio corpo grasso era dovuto al fatto che offrivano all’altro un corpo gonfio, disforme, una materia senza forma direi, un corpo-maschera che doveva nascondere la carne, il corpo desiderante e godente. Per mantenere la loro forma soggettiva, dovevano abbandonare alla de-formità il loro corpo, come materia che non prende forma per gli altri.

             A proposito dell’obesità, va citato quel che ne dice Cosenza[9]: l’obeso, soprattutto l’obesa, è convinto che il proprio vero corpo non è quello che gli altri vedono. “Nell’obesità, ciò che l’Altro non vede è che il corpo vero del soggetto non è quello grasso che colpisce il loro sguardo, ma un corpo ideale a cui il soggetto si è identificato come a qualcosa di già realizzato […] È quanto una mia paziente obesa sintetizzò in una seduta affermando, rispetto al suo corpo: ‘Il mio corpo è un altro’”. L’asserzione colpisce, perché cosi analoga a quella famosa di Rimbaud “Je est un autre”. L’obeso avrebbe due corpi: uno intimo, “vero”, proprio; e un altro, grasso, che vedono gli altri. Il corpo offerto allo sguardo evidentemente è il corpo che l’Altro non può desiderare.

             Cogliamo qui una profonda ambiguità del corpo, il suo essere sempre a metà strada tra il soggetto e l’Altro, il suo rischio di scindersi, dividersi, in una proprietà e in una alterità. Da qui quell’irriducibile pluralità di “corpi” che abbiamo segnaato.

 

6.

             Certamente non c’è solo il corpo ma anche la mente, che non è l’anima. La nevrosi ossessivo-compulsiva, ad esempio, si manifesta come una sofferenza della mente non del corpo. La mente è ciò che in filosofia si chiamava la funzione intelligibile. Sia il corpo che la mente godono e soffrono, godono o soffrono, anche se, come è noto, Freud dà una sorta di precedenza logica al corpo; una precedenza che molta psicoanalisi successiva ha vanificato, giudicandola residuo di un presupposto metafisico. Non ci sono godimenti e sofferenze del tutto mentali, che chiamerei, evocando un vecchio film di fantascienza, d’ultra-corpo? Inoltre, molta psicoanalisi ha corto-circuitato il corpo facendone solo un emblema di un riconoscimento intersoggettivo: voglio essere desiderato/a non come corpo, ma per essere riconosciuto/a come soggetto dall’altro. Da notare che Lacan è partito proprio da questo intersoggettivismo di matrice fenomenologica ed esistenzialista, che poi lui ha corretto col tempo, quando ha messo l’accento sull’oggetto a. Per tante donne, in particolare, il desiderio di essere desiderate è desiderio di essere l’oggetto a dell’Altro, è il desiderio di causare il desiderio dell’Altro.

 

7.

             Per far intendere il rapporto di bisticcio, che può diventare spesso burrascoso, che il soggetto godente ha con il proprio corpo (dato che, abbiamo visto, non c’è alcun Super-corpo), vorrei intrattenermi un po’ sull’ipocondria. L’ipocondriaco è una delle figure classiche della caratteriologia europea. Esso appare spesso nelle commedie e nelle satire, è Irène nei Caractères di La Bruyère, è Argan protagonista de Il malato immaginario di Molière. L’ipocondriaco è sostanzialmente una persona convinta di essere malata di qualche malattia fisica. Una convinzione che spesso trova – questo punto Molière lo aveva perfettamente colto – una certa complicità nei medici, i quali finiscono col sostenere, per ragioni non solo di tornaconto economico, quel cullarsi ipocondriaco del soggetto in un corpo malato. Questa complicità medica – che fa dell’ipocondria sempre un gioco a tre, ‘soggetto malato/”malattia”/medico’ – impedisce comunque di riconoscere in ogni ipocondria una angolatura delirante, dato che il delirio è assecondato, puntellato, dal medico. Ma qui vorrei dare a ipocondria un senso più vasto, e più moderno: è il rifiuto, più che l’incapacità, di un soggetto di leggere le sofferenze del proprio corpo come sofferenze soggettive. Nei termini lacaniani: l’ipocondriaco non vuole riconoscere le proprie sofferenze come forme di godimento dell’Altro, dove l’Altro non è però il Körper. Nell’ipocondria, si esclude la carne. In questo senso possiamo dire che l’ipocondria è tra le nevrosi più diffuse, forse è la nevrosi caratteristica del nostro tempo, al pari dei disturbi alimentari e delle tossicodipendenze. È quella che, probabilmente, fa aumentare a dismisura la spesa sanitaria dei paesi occidentali, e che porterà probabilmente, prima o poi, all’esplosione del sistema sanitario dei nostri paesi.

             Continuamente siamo confrontati – non solo nella pratica clinica, ma anche nei nostri rapporti con certi amici e parenti – con questa convinzione: che il soggetto soffre di sintomi corporei, i quali non vengono mai riconosciuti come manifestazione fisica di un malessere che consideriamo soggettivo, “psichico” direbbero alcuni. Ho conosciuto anche psicoanalisti ipocondriaci. Ora, quel che colpisce in questi casi è la rabbia che coglie questi soggetti non appena si profili, anche se da lontano, una diagnosi di ordine psichiatrico piuttosto che di ordine organico e fisiologico. Ad esempio, una psicoanalista lamentava da anni la sindrome della chronic fatigue, di cui però, malgrado la massa di analisi e test, non si riusciva a trovare la causa. La mia impressione è che fosse un modo di declinare quel che si chiama una sindrome depressiva, connessa a un suo tono rabbioso di fondo che spesso eruttava; in effetti, molte fasi depressive nei ciclotimici si annunciano come disturbi squisitamente fisici. È come se il corpo capisse prima della mente che deve deprimersi. In ogni caso, la psicoanalista di cui sopra era convinta, spalleggiata da qualche medico, che l’origine fosse virale. Ma quale era il virus? Non si sapeva. L’importante per lei è che ci fosse un virus. Il significante virus assumeva tutto lo spessore di un Altro che non veniva riconosciuto come tale, come inconscio, ma solo come disturbo della propria unità corporea. Se le si suggeriva la sola possibilità di una diagnosi nel registro depressivo, questo suscitava in lei furibondi attacchi d’ira. Il ventilare una diagnosi psichiatrica aveva per il soggetto il valore di un’offesa personale. Un atteggiamento che ricorda quello di chi ha una dipendenza, ad esempio, nei confronti del tabacco o dell’alcool. Se qualcuno, medico o no, gli ricorda che fumare o bere troppo alcool fa male, questo scatena spesso un’aggressività puntuta che può portare anche alla fine dei rapporti con quel grillo parlante. In questo caso il soggetto sente l’altrui critica al proprio abuso delle sostanze tossiche come un attacco sadico al proprio godimento. Egli crea perciò una serie di teorie mediche strampalate secondo cui il tabacco o l’alcool non fanno affatto male, anzi sono toccasana, e che chi ne sconsiglia l’uso o l’abuso è, lui sì, un malato mentale. (In un ristorante romano si legge: “Ho letto che bere alcool fa male. Così ho smesso di leggere”. La verità è sempre dalla parte della cosa che produce godimento.)

 

8.

             Il bisogno, direi quasi fisico, di diagnosi medica non psichiatrica è più complesso. Distinguere malattie psichiatriche da malattie puramente organiche sembra essere una questione alquanto accademica. Dopo tutto, che senso può avere il ricevere il cartellino “malattia di origine virale” piuttosto che “malattia di tipo mentale ovvero cerebrale”? Sembrano disquisizioni quasi filosofiche, tra res cogitans e res extensa. Ma qui non si tratta appunto di questioni filosofiche. Si tratta di una certa imago inconscia del proprio corpo, vissuto come Altro persecutore. “Ammalandosi, il mio corpo mi perseguita”. L’importante è che il corpo sia radicalmente Altro da me; diciamo che, ancora da vivo, il corpo è il mio cadavere.

             Questa separazione netta tra il corpo come Altro e “me stesso” è probabilmente acuita nella nostra cultura, che esalta questa separazione. È come se ci si lamentasse di sudare freddo e ci si facesse curare per un disturbo di sudorazione, senza ammettere che si ha paura: non si ha paura, si suda freddo. Non si ha vergogna, si arrossisce e si pensa che sia un problema di vasi sanguigni. Non si ha un’eccitazione sessuale, si ha una secrezione vaginale inspiegabile. E così via. Si dirà: nell’isteria di conversione accade la stessa cosa. In effetti c’è una analogia tra questo tipo di ipocondria e l’isteria. La differenza sta però nella caparbietà con cui il soggetto ipocondriaco sostiene l’essenza corporea-fisica del proprio malessere. Non vuol sentire ragioni, vuole una causa non ragioni. Ha bisogno di una malattia del tutto de-soggettivata a cui il medico deve dar nome. Ha bisogno di un nome che escluda l’inconscio, ovvero l’insistenza dell’Altro nel sintomo. L’Altro è schiacciato sull’alterità del corpo-macchina

             Un’analisi più approfondita, caso per caso, ci svela però, quasi sempre, che questa sofferenza del corpo rinvia a un godimento del corpo Altro: il corpo, o meglio la carne come l’ho chiamato, facendomi soffrire, gode a mie spese.

 

9.

             Emerge qui un’analogia interessante tra ipocondria e rancore sociale. Quel che oggi si chiama populismo si enuclea nell’idea che “la casta politica” sia all’origine di tutti i mali sociali, che insomma Loro godano a discapito di noi popolo, e di me singolo. Cito qui il titolo dell’ultimo film di Paolo Sorrentino, Loro appunto. Loro sono i potenti, quelli che contano… Il Quello (es) di Freud proiettato sullo schermo sociale diventa Loro da cui sono separato, loro che godono. Infilandomi magari un gilet giallo, mi ergo a significante di “semplice Io” – di “Io qualunque” - di fronte a Loro. Possiamo dire che i politici – più precisamente gli eletti - sono oggi l’equivalente del corpo nel campo sociale; nella misura in cui li abbiamo eletti noi sono il nostro corpo politico, ma sono un corpo che sfugge completamente al nostro controllo, come nell’ipocondria. I politici, gli eletti (anche da me), sono un male virale - chiunque faccia politica ne resta infetto - e virulenti. Per gran parte della gente comune, in Italia, i politici “sono tutti dei magna-magna”. Mangiare, il godimento orale, diventa la metafora onnicomprensiva del godimento di Loro, dell’Altro pluralizzato. Loro mangiano, ci derubano… e noi non godiamo, soffriamo. Se si dice alla donna e all’uomo comuni che loro stessi hanno votato questi politici che deprecano, che insomma essi stessi hanno una qualche complicità con lo stato delle cose attuale, si otterrà da lei o da lui un rigetto che ricorda molto quello dell’ipocondriaco a cui non si può dire “se questo corpo ti fa soffrire tanto, è perché c’è una sofferenza tua che il corpo esprime”. La donna e l’uomo anti-politici, così come l’ipocondriaco, aborriscono l’idea di essere implicati nella sofferenza che denunciano. L’importante è accusare il politico magna-magna che gode a mie spese, così come il corpo che mi sevizia gode a mie spese.

 

10.

             In che senso il corpo malato è l’Altro che gode? Un caso da me seguito può forse illustrarlo.

 

             Franco è un giovane di 22 anni che da tre anni ha avuto un figlio da una ragazza ed è andato a vivere con lei e il figlio. Dal momento in cui è andato a vivere con la sua nuova famiglia, ha cominciato a subire attacchi virulenti che oggi chiama attacchi di panico, ma che all’origine interpretava come crisi cardiache, o come pressione sanguigna altissima. Gli sembrava che il cuore gli scoppiasse nel petto, ragion per cui non poteva più guidare l’auto da solo, e passava intere giornate chiuso in casa. Andare fuori per strada, soprattutto in luoghi affollati, anche stare in casa tra una folla di parenti, gli procurava questi attacchi. Si è fatto fare una miriade di test cardiaci, si misurava la pressione anche trenta volte al giorno. Tutti questi test non hanno mostrato alcuna patologia cardiaca. A un certo punto un suo amico, leggendo le prescrizioni che gli aveva dato il medico di base, esclamò: “Ma ti rendi conto che tu sei in cura psichiatrica?” In effetti il medico di base, esasperato, gli aveva dato degli ansiolitici. A questo punto Franco ha dovuto cedere: non aveva alcun problema cardio-circolatorio, aveva attacchi d’ansia. Per cui è venuto da me. Ma per mesi ha continuato a misurarsi la pressione e a fare altri elettrocardiogrammi.

             Non era la prima volta in vita sua che aveva avuto questi attacchi, talvolta li aveva vissuti in precedenza. Il primo di cui si ricorda era quando aveva sei anni, in auto: suo padre e sua madre discutevano, senza litigare, e la madre aveva detto al suo uomo che aveva inflitto danni psicologici al figlio. Psicologici, questa parola allora dal significato oscuro lo devastò. Allora ebbe un attacco di rabbia e di angoscia, si gettò fuori dall’auto… Questo termine, psicologia e psicologico, divenne per anni una sorta di bau bau psichico: il solo ascoltare questi termini lo metteva in allarme. Si può essere angosciati da un significante di cui non si conosce nemmeno il senso. Ma occorre ricostruire il contesto.

In effetti il padre per i primi sei anni non aveva accettato di andare a vivere con suo figlio e la madre. Franco, rimasto sempre figlio unico, dormiva con la madre, sostituendo di fatto la presenza paterna nel letto materno. Poi, a sei anni, il padre si era deciso ad andare a vivere con madre e figlio, e poco dopo Franco ebbe questa crisi in auto. Il punto è che Franco continuò a dormire nel letto materno, in mezzo ai suoi due genitori, e questo fino a 11-12 anni, dopo di che… passò a dormire a lato di uno dei due, nello stesso letto. E questo pur essendoci la possibilità fisica di farlo dormire in un’altra stanza. In occasione di quel viaggio in auto la madre rimproverava, anche se blandamente, il suo compagno di aver lasciato solo il figlio con lei, da qui i danni psicologici. Il punto è che Franco si diceva felice del fatto che il padre fosse venuto a vivere con loro, eppure…

             Franco era tornato a subire i cosiddetti attacchi di panico, in forma di paura ipocondriaca per un cuore malato, quando fece quel che suo padre non aveva fatto a suo tempo: seguendo la volontà della sua compagna, era andato a vivere con lei e col bambino. Si era così assoggettato al desiderio dell’Altro, della sua donna. La causa del panico era insomma il suo cambiamento di ruolo simbolico: da figlio unico viziato, a padre e uomo di casa. Prima lavorava, ma non appena divenne padre smise di lavorare… Insomma, la paternità lo fece regredire a una posizione infantile: la sua donna doveva occuparsi ora non di un bambino, ma di due. Comunque, perché questa regressione infantile aveva assunto la forma di attacchi a sfondo ipocondriaco? Perché proprio la forma di angoscia per il cuore o il sistema circolatorio malati?

             L’analisi girò attorno a un’ipotesi: che quegli attacchi di panico mettessero in qualche modo in scena una situazione di coito. Nell’orgasmo il cuore batte forte e la pressione sale. È una ipotesi che rimanda a quella che Freud chiamò Urszene, scena originaria, un’ipotesi che ha tutti i colori del mito. La scena originaria è l’aver assistito a un coito di adulti. Ma come poteva avervi assistito se per anni ha dormito sempre, nessuna notte esclusa – a quel che si ricorda – tra i suoi genitori, così separandoli? Non è forse un caso che proprio a sei anni abbia avuto la sua prima memorabile crisi: quando il suo letto si è affollato, per così dire, con la presenza di un terzo. Questo farebbe scattare in lui un’angoscia che solo superficialmente sembra agorafobica, dato che è in realtà una pletofobia, una fobia della folla (da πλ?θος, folla). Una nostalgia furibonda di tornare solo con la madre. Certo la scena originaria è una congettura, è difficile corroborarla. Eppure il presupposto fondamentale della psicoanalisi è che dietro ogni sofferenza psichica, come nel caso di Franco, c’è un godimento. Godimento non del soggetto, ma dell’Altro. In questo caso, dei due genitori che tornano a copulare… Il batticuore è comunque un segno di emozione, di qualcosa di straordinario, di eccitante, di esaltante. La sensazione del cuore che scoppia evoca un cuore che scoppia di piacere… Ancora una volta, il sintomo appare come modo di godimento dell’Altro.

 

11.

             Colpisce la reazione fobica che hanno molti – persino persone colte – di fronte ai soli termini psicologia o psichiatria o psicoanalisi. Da dove deriva questa sorta di timore che tanti hanno nei confronti della figura e del supposto sapere dello shrink (“strizzacervelli”) come dicono, in modo allo stesso tempo spregiativo e sospettoso, gli americani[10]? Perché per un bambino di sei anni il solo significante psicologia – dato che il senso non gli è chiaro – provoca rigetto o terrore? Eppure il senso dei termini “psic” non è chiaro. Si intuisce che questi termini rimandano a un’implicazione del soggetto con l’Altro che tutta la nostra educazione, tutto il nostro modo di pensare, escludono. Tutti crediamo che le nostre sofferenze o sono mentali consce o sono fisiche, non si dà intersezione tra loro; non si dà inconscio. La mentalità comune coincide con il paradigma cognitivista: la mente è di noi ciò che controlla, il corpo è ciò che controlliamo – non si dà zona grigia tra le due sfere. Psicologia è lo spettro che si aggira per l’Europa, è divenuto cioè per molti il significante di una colpevolezza segreta e incognita del soggetto, lo smascheramento di sé come complice della propria sofferenza.

Si dirà che oggi “la psicologia” è completamente integrata nel paesaggio culturale quotidiano, esistono facoltà di psicologia; libri, riviste, rotocalchi, rubriche di giornali sono dedicati ai problemi psicologici della gente. È da notare però che da queste derive popolari della Psicologia viene eliminata proprio la psicoanalisi. Ci si chiede allora da dove venga questo timore che quel significante incute in molti. Probabilmente dietro i termini psic– si percepisce sullo sfondo proprio qualcosa che disturba, la psicoanalisi, in quanto essa crea un buco nella visione dominante della soggettività, visione che fa della soggettività essenzialmente una mente affettiva e/o cognitiva. La “psic” segnala qualcosa che non quadra non solo nella nostra visione comune, ufficiale, della soggettività, ma anche nella visione che ciascuno ha della propria soggettività: il fatto cioè che ci sia un buco nel nostro essere al mondo, che Freud chiamò inconscio. La fobia per “lo psichico” segnala il fatto che un soggetto è lambito dall’inconscio, che insomma egli non si senta più padrone di sé.

Così il soggetto, nel denunciare il mondo che lo circonda, non si rende conto di quanto egli stesso sia con-causa di questo disordine del mondo. Si crede che il male, il persecutore, venga da fuori: i politici magna-magna, il mio corpo che fa quello che vuole, Loro. È quella che chiamerei una sorta di paranoia generalizzata del nostro rapporto al mondo e all’altro, forse una paranoia ordinaria: il godimento dell’Altro, attraverso il corpo che si impone come malato, mi perseguita. In questo modo io mi colgo come vittima, come patimento querulo che rivendica risarcimento e guarigione.

             La posizione vittimista, in politica come nella vita vegetativa, per molti è assolutamente vitale: costoro non possono tollerare la vita senza lamentarsi di essere vittime di Esso o di Loro. È la versione quotidiana, banalizzata, della querulomania psichiatrica, di solito catalogata tra le paranoie. Lagnarsi è il godimento di tanti. E chiedono una riparazione potenzialmente infinita per un male che subiscono. Questa rivendicazione dolente e piangente da parte della vittima è un sostegno essenziale per l’Io, lo fa sopravvivere in un’insoddisfazione agrodolce. Così ogni sospetto “psicologico”, ogni allusione al fatto che la posizione della vittima sia una costruzione comoda ma vana ha il senso di un attacco alla stabilità narcisistica del soggetto. Il soggetto non vuole saperne dell’Altro, anche se deve tollerarlo come corpo disfunzionante.

 



 

[1] S. Freud, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, OSF, 5, p. 113. GW, 6, p. 142

[2] S. Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale, OSF, 4, p. 451, nota 2. GW, 5, p. 33, Fußnote 2.

[3] J. Lacan, Le Séminaire, livre XX. Encore, Seuil, Paris 1975, p. 26.

 

[4] Vedi D. Cosenza, Il cibo e l’inconscio. Psicoanalisi e disturbi alimentari, Franco Angeli, Milano 2018.

 

[5] J. Lacan, Ecrits II, Seuil, Paris, pp. 75-79.

 

[6] Per una ricostruzione dell’evoluzione del modo di interpretare l’anoressia da parte di Lacan, vedi Natascia Rainieri e Domenico Letterio, Quel che Lacan diceva dell’anoressia, Mimesis, Milano 2017.

 

[7] Il cretese Epimenide diceva che tutti i cretesi sono bugiardi…

 

[8] Cfr. S. Freud, “Lutto e malinconia”, OSF, 8, pp. 102-118.

 

[9] D. Cosenza, cit., p. 68.

[10] Ovvero brainshrinker, restringitore di cervelli.

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