Flussi di Sergio Benvenuto

AMARE VERAMENTE?17/apr/2023


 

Sergio Benvenuto, “Amare veramente?”, in Federico Leoni e Riccardo Panattoni, a cura, Transfert Amore Trauma, Orthotes, Napoli-Salerno, 2016, pp. 65-79.

 

  1. 1.     Parlare d’amore

            E’ un paradosso. Proprio perché la psicoanalisi ha dato, soprattutto all’inizio, un ruolo assolutamente centrale alla sessualità e all’amore, di fatto per uno psicoanalista è estremamente difficile parlare d’amore. Questo perché l’amore – in quanto distinto dalle pulsioni, dalla libido – in fondo per Freud non esiste.

Comunque, anche se non esistesse, ne parliamo spesso. Perché, nota Lacan, “Parlare d’amore è in sé un godimento”[1]. Quasi tutte le canzonette, i film, i romanzi… non parlano di storie d’amore? Siamo insaziabili divoratori di discorsi e di scene d’amore. Ma la questione è allora: che rapporto c’è tra il godimento e l’amore? Ovvero, perché godiamo quando parliamo d’amore?

Quando propongo a studenti di vari corsi di studio “di quale argomento pertinente alla psicoanalisi vogliamo parlare nel prossimo corso?”, nella stragrande maggioranza dei casi le donne propongono “parliamo della sessualità femminile… della sessualità… dell’amore”. Segno che sessualità e amore sono per le donne qualcosa di più problematico che per l’uomo, nel senso che forse le fa godere di più e le fa soffrire di più.

            Intanto, quale estensione diamo al termine “amore”? Gli antichi greci non avevano, in realtà, un termine per il nostro “amore”. Essi distinguevano éros, il desiderio erotico, da philía, tradotto con “amicizia”, la parte non sensuale dell’amore. Per cui il problema è, da secoli: che rapporti tra éros e philía?

            Freud in un saggio si era occupato di casi, all’epoca solo maschili, in cui éros e philía erano del tutto separati[2]: l’uomo non riesce a fare sesso con la donna che ama e stima, e invece fa sesso con donne che non ama, anzi, che trova alquanto spregevoli. Tenerezza e sensualità – zärtliche e sinnliche, dice Freud – non si intersecano. Questo significa che la loro intersezione, anche quando si produce con successo, non è scontata né facile.

Nel film del 1968 Belle de jour, Luis Buñuel ci ha mostrato una versione femminile di questa “comune degenerazione”. Sévérine, bella donna borghese benestante, dall’aria alquanto severa come indica il nome, ama teneramente suo marito, un medico buono e dolce che la ama; ma durante il giorno si prostituisce in una casa d’appuntamenti, e non perché abbia bisogno di denaro. Più si prostituisce, più ama suo marito, a cui però non si concede sessualmente. Mi chiedo se negli ultimi tempi non siano aumentate, in Occidente, le Sévérine.

            Ogni epoca tesse in modo diverso éros e philía. Ad esempio, fino a vent’anni fa, in inglese e in italiano per dire il coito in termini non volgari si diceva “to make love”, “fare all’amore”. Oggi, per indicare il rapporto sessuale si dice “to have sex”, “far sesso”. Qualcosa di simile è accaduto in molte altre lingue. Oggi mettiamo le cose in chiaro: una cosa è il rapporto sessuale, altra cosa è il rapporto d’amore. Parrebbe che éros e philía oggi abbiano molti più problemi a congiungersi rispetto a solo venti o trent’anni fa.

            E che dire dell’amore che esclude la sessualità? Dell’amore per i propri congiunti, per gli amici, per gli animali domestici, ecc.? Quale di questi amori, o quali altri amori, possono essere eretti a modello o paradigma degli altri?

Amiamo anche certi animali. Alcune persone mi confessano che per loro la vita di animali è più importante della vita di esseri umani a loro sconosciuti. Amano i cani come fossero propri figli. L’amore che portiamo a un cane trasferisce sull’animale l’amore per i figli – ma senza ambivalenza, senza intreccio di amore e odio, come già notava Freud. Del resto, è ben noto che, se attraversiamo la strada con un cane o con un bambino, tutte le auto si fermano e ci lasciano passare.

 

  1. 2.     “L’amore non è altro che…”

            Qui mi occuperò dell’amore connesso più o meno apertamente a eros, al desiderio sessuale. Freud non pensava che l’amore tra due soggetti – la philía - fosse qualcosa di primario non ulteriormente analizzabile. Per Freud, ciò che spiega, senza dover essere spiegato, sono le pulsioni, la libido, die Lust. Ora, per Freud l’amore non è mai del tutto “vero” dato che ogni amore è riducibile a due tipi diversi di relazione: o ad amore narcisistico, o ad amore “per appoggio” (Anlehnung), “anaclitico”.

            L’amore narcisistico è amore non per noi stessi, ma per la nostra immagine speculare. E’ amore per l’immagine ideale di noi stessi. L’amore “per appoggio” è quando ci si innamora di un succedaneo della nostra nutrice, di chi insomma ci ha dato da mangiare e ci ha prestato le cure per farci sopravvivere. Ma esiste un terzo tipo di amore? Quel che chiameremmo, ingenuamente, un vero amore? Un amare l’altro non perché ci sia utile, ma perché l’altro lega a esso la nostra soggettività?

Ma Freud – che da grande voleva fare l’uomo di scienza - era “riduzionista”, se per riduzionismo intendiamo qualcosa come “l’amore non è niente altro che…”

            Ora, è proprio di questo altro dell’amore che non è niente che vogliamo parlare qui. Capisco il paradosso: da una parte riconosciamo che amare non è nient’altro che... Dall’altra diciamo che questo “altro” che è niente in qualche modo c’è. Qui si coglie una deriva della psicoanalisi.

Ad esempio, per i riduzionisti biologici l’amore di coppia non è niente altro che una certa interazione di neurotrasmettitori. Quando siamo innamorati, nel nostro cervello prevalgono dopamina, norepinefrina e serotonina; quando l’affetto si stabilizza, e magari ci sposiamo, prevale l’azione di oxitocina e vasopressina.  Non è affascinante?

Vedo vicino il giorno in cui se, ad esempio, a me donna non conviene essere più innamorata di un uomo scomodo, perché ad esempio è povero o donnaiolo, allora basterà ridurre drasticamente i miei livelli di oxitocina o serotonina, così smetterò di volergli bene.

Oggi, in realtà, il termine ‘amore’ è stato espulso dai discorsi sedicenti scientifici. Oggi si parla di attachment; l’essere innamorati non è altro che una delle forme di attaccamento. Anche l’amore per una sostanza tossica, alcool o cocaina, è un attaccamento. Possiamo dire che il cocainomane “ama” la cocaina?

Un altro riduzionismo è quello della psicologia evoluzionista, che si richiama a un darwinismo rigido per spiegare i nostri attaccamenti a certe persone. Essa cerca di dimostrare che, ad esempio, quel che piace in una donna, da parte di un uomo, sono segni indiretti di fertilità; una ragazza giovane piace di più di una donna in menopausa perché la prima mostra molti più segni indiretti di fertilità.

Epperò le cose non sono così semplici: molti tratti delle donne che piacciono agli uomini (ad esempio, un certo tipo di gambe o di seno) non sembrano affatto essere segnali di fertilità; e attraggono le donne molti tratti maschili non correlati alla capacità del maschio di proteggere la famiglia. E poi ci sono gli omosessuali, ecc. Così gli psicologi evoluzionisti non possono dire “il sex appeal femminile non è niente altro che segni di fertilità” o “il fascino maschile non è niente altro che segni del buon difensore del nido”. Potranno dire solo che tendenzialmente i tratti sessuali attraenti tendono a coincidere con questi. Ma una tendenza non è un processo ineluttabile. C’è quindi dell’altro.

Dire che un sentimento complesso come l’amore “non è altro che…” significa escludere che ci sia qualcosa d’altro rispetto ai componenti a cui questo sentimento si riduce. Ora, una parte della psicoanalisi – e Lacan è di questa parte – prova a dire proprio questo nient’altro che è l’amore. Ovvero, cerca di dire cosa l’amore è come altro da ciò che, di fatto, “è”.

            Jacques Lacan dà un nome a questo altro che (non) è niente: l’Altro (A maiuscola). Innanzitutto nel senso che l’Altro non esiste. Ad esempio, il Lettore per cui sto ora scrivendo non esiste. Esistete certo voi, individui che mi state leggendo, ma non il Lettore che vi limitate a incarnare. Potevano leggermi persone del tutto diverse, sempre mio Lettore sarebbero state. Ovvero, il Lettore è l’Altro da cui io, in quanto scrivente, prendo i miei significanti. E io sono, per Lacan, S sbarrato ,  un soggetto che desidera parlare a chi può leggerlo. Ma se non ci fosse l’Altro – il Lettore – non direi nulla, perché siete sempre voi Lettore (l’Altro) a fornire a me quel che devo scrivere. Qui, non credo di inventare granché: scrivo perché ascolto. Chi? Le Muse? Non ci sono più Muse. Diciamo che ascolto quel che, attraverso di me, vuol farsi ascoltare da voi.

            Un riduzionista è come uno che dicesse: “non c’è il Lettore, ci sono solo persone che leggono” (posizione detta nominalista). Lacan direbbe piuttosto che “non esiste il Lettore, ma c’è il significante e funzione Lettore, senza il quale una certa forma di parole non sarebbe possibile.” Emerge qui una distinzione sottile, ma cruciale, tra “esistere” ed “esserci”. Se non si capisce questa distinzione, l’intero pensiero di Lacan non è comprensibile.

 

            Cercherò di riassumere quel che Lacan dice di questo niente altro dell’amore, in particolare nel Seminario Encore (1972-3)[3]. Impresa improba, quasi disperata. Perché Lacan produce sempre di più di quel che ognuno di noi possa spiegare e capire del suo pensiero. Lo disse lui stesso: “Ho pubblicato gli Ecrits non per essere compreso, ma per essere letto”. Voler comprendere tutto quel che Lacan ha detto o voleva dire, è impresa fallimentare. Lacan ci investe come una lava vulcanica, anche se lava di significanti. Qualcuno dice che il pensiero di Lacan è un sistema, ma si sbaglia: è un vulcano. Lacan pratica quella che Claude Lévi-Strauss chiamò “pletora del significante”[4].

Per cui non aspettatevi che io vi spieghi finalmente “quel che Lacan dice dell’amore”. In effetti, credo che Lacan non pensasse nulla di definitivo sull’amore. Lacan solleva una serie di domande, di cui alcune acute; non fornisce una batteria di risposte.

 

3.         Mirare all’essere

            Abbiamo detto che Freud si è occupato della relazione d’oggetto, non dell’amore. Ovvero, tendeva a ridurre l’amato agli oggetti – narcisistici o “di appoggio” – a cui ci attacchiamo. Lacan invece distingue l’amore da quella che chiama jouissance, godimento, sessuale ma non solo. Ora, la sua frase essenziale[5] è:

 “l’amore mira all’essere”.

            L’essere è evidentemente l’essere di chi amiamo.

Poi dirà che non solo l’amore, anche l’odio, coglie a suo modo l’essere dell’altro. E questo perché Lacan, da psicoanalista, pensa che l’amore sia inscindibile dall’odio (l’ambivalenza che risparmiamo solo a certi animali). Se penso di amare qualcuno senza ombra di odio, per la psicoanalisi ho in riserbo sempre dell’odio, così come la parte esterna di un guanto deve necessariamente includere una parte interna che non si vede. Amore e odio sono i due versanti di uno stesso guanto, che Lacan – con un gioco di parole – chiama

Hainamoration[6]

da haine (odio) ed énamoration (innamorarsi). Si vede bene questo risvolto di odio soffocato quando poi la coppia amorosa si separa o divorzia. Sappiamo quanti avvocati si guadagnano il pane grazie a questa hainamoration.

            In che senso l’amore mira all’essere?

Quando diciamo a qualcuno “ti amo”, non vogliamo dire solo l’insieme degli oggetti gradevoli, amabili, che lo compongono. Certo questi oggetti sono essenziali, ma ci si chiede: nell’amore ci capta qualcosa oltre questi? Anche se un’analisi scientifica del sentimento amoroso – analisi significa sciogliere, separare - arrivasse alla specifica combinazione di alcuni oggetti amabili cruciali nella persona amata; e non ci fosse nient’altro che questi oggetti amabili. Mettiamo che – grazie a un’analisi accurata – trovi che amo la mia donna essenzialmente perché è bruna, ha senso dell’humour ed è lacaniana; o meglio, amo quella unica combinazione di questi tratti in lei. Ma se la mia donna invecchiando si incanutisse, e si inacidisse perdendo il senso dell’humour, e si disinteressasse a Lacan, il mio amore potrebbe svanire. Ma allora, amavo davvero quella donna? Amavo quello che era o quello che aveva?

Accade perciò che uno chieda all’amante “perché mi ami?” o “ma cosa ami di me?” E sappiamo che la sola risposta soddisfacente sarebbe, da parte dell’amante: “Ti amo perché esisti.” E’ in questo senso che Lacan dice “l’amore mira all’essere”. Ma la domanda ispida è: lo raggiunge?

Nell’amore, l’amato conta per me come qualcosa in sé e per sé, non è solo mio oggetto di desiderio. L’amore è una relazione paradossale con un essere di per sé sciolto dalla relazione con me.

Ora, la scienza non si cura dell’essere. Per essa amiamo un altro nella misura in cui è un’aggregazione di oggetti desiderabili. Per la scienza, amare l’essere dell’altro è illusione, perché l’essere stesso è illusione. Siamo niente altro che gli oggetti che piacciono agli altri o a noi stessi. E Freud sembrava pensare lo stesso, che l’amore fosse illusione.

Ma allora, esiste davvero questa cosa che in amore l’altro è, questo sovrappiù di essere rispetto a tutti gli oggetti che questo altro ha?

 

Un tempo si diceva che il vero amore è eterno. In effetti Lacan[7] si pone il problema del rapporto tra amore ed eternità. E sembra concludere che l’amore è qualcosa di contingente, quindi non è eterno. Diciamo, come Carlo Verdone, che l’amore è eterno finché dura.

Nella nostra tradizione metafisica e religiosa, si dice che si ama non tanto il corpo quanto l’anima dell’altro. E Lacan si chiede allora: “Ma che cosa è l’anima?” Gli analisti usano il termine greco psiche – che identificano all’Io, o al soggetto. Ma allora che cosa veramente si intende per “anima” quando incautamente usiamo questa parola? La conclusione paradossale di Lacan è che chiamiamo anima proprio ciò che amiamo dell’altro. Per farlo capire, conia un neologismo[8]:

âmer      ‘almare’ [da alma, anima]

termine che condensa âme (anima) ed aimer (amare). Un verbo che secondo lui andrebbe coniugato: Io almo, tu almi, egli alma…

            E’ uno dei tanti giochi di parole a cui indulge Lacan. Ma vuol dire, secondo me, questo: non è vero che ciò che amiamo dell’amato è proprio la sua anima, al contrario, è l’amore che dà qualche senso al nostro concetto di anima; chiamiamo anima questo qual-cosa che pensiamo di amare dell’altro. (Non a caso in molti film i cattivi, quelli che certo non amiamo, sono mostri o robot, esseri senz’anima.) Abbiamo un’anima perché qualcuno ci ama. E difatti, se non siamo più amati, ci succhia l’idea del suicidio – avendo perso la nostra anima, ci disfiamo anche del nostro corpo.

            In realtà, Lacan cerca anche di dire che cosa è essenziale di quest’anima che esiste finché si è amati. A un certo punto dice:

…l’anima potrebbe dirsi solo di quel che permette … all’essere parlante… di sopportare l’intollerabilità del suo mondo, cosa che la suppone essere estranea [a questo mondo], ovvero una fantasia. Cosa che considera quest’anima di esso – vale a dire in questo mondo – solo per la sua pazienza e coraggio a tenervi testa.[9]

Frase sibillina. Da cui però è possibile trarre una lezione: che l’anima è qualcosa fuori dal mondo – qualcosa di fantastico – che però consiste nella sua pazienza e coraggio di fronte a questo mondo. In fondo, dell’altro amiamo sempre la sua pazienza e il suo coraggio.

Preciserei: ci consideriamo anime – non solo corpi – nella misura in cui tolleriamo l’intollerabile e lo affrontiamo. Ad esempio, quando, malati terminali, non sopportiamo più il nostro corpo, e solo la morfina, offuscando la nostra anima, ce lo rende sopportabile; allora non ci resta che il coraggio della nostra anima, che perdutamente ama chi resta al nostro capezzale.  Potremmo dire, in termini che Lacan non usa, che ogni anima, la quale per definizione è anima amata, è quel sorprendente eroismo quotidiano di cui si pasce e si rassicura ogni amore.

4. Sesso e bricolage

            Lacan dice la cosa essenziale sin dall’inizio della sua elucubrazione sull’amore. Tutto quel che dice dopo spiega, dispiega, quel che dice all’inizio:

            L’amore è precisamente quel che supplisce al rapporto sessuale[10]

“Non c’è rapporto sessuale”: è una delle sentenze più misteriose di Lacan, dato che essa suscita molte più domande di quante non siano quelle a cui risponde. Che cosa vuol dire? E perché vi insiste tanto? E perché piace tanto a tanti?

            Certo non vuol dire che quando amiamo veramente qualcuno ci facciamo solo l’amore, non il sesso. Sembra invece voler dire che quando “facciamo sesso” non diventiamo Uno. Anche se talvolta a letto va così bene che si ha l’impressione di essere, se non Uno, perfettamente complementari. Pensiamo di essere simboli, da symbólon greco, che era un frammento il quale doveva trovare il frammento complementare con cui combaciare. Lacan chiama questa apparente complementarietà godimento fallico. Per lui, nel coito sia la donna che l’uomo godono del fallo, uno ricevendolo e l’altro dandolo. Non a caso si è pensato, per secoli, che la vagina fosse una sorta di pene concavo, un pene negativo, un symbólon. Ma questo godimento fallico, nell’ottica di Lacan, è una solitudine a due. E in effetti, non possiamo dire “l’amore non è altro che fare sesso bene, tante volte”. Ci vuole dell’altro – che non è solo niente, abbiamo visto – per fare una coppia amorosa. Quell’’altro’ che l’amore non è, e che pure “è”.

            In verità Lacan vede, oltre al godimento fallico, un godimento più enigmatico che chiama godimento dell’Altro – genitivo sia soggettivo che oggettivo. “Dell’Altro” significa o che io godo dell’Altro (genitivo oggettivo), o che l’Altro gode di me (genitivo soggettivo).

            Dicendo “non c’è rapporto sessuale”, Lacan evidentemente non esclude che si possa “fare sesso”, e anche in modo abbastanza piacevole. Ma si tratta per lui di atti sessuali. Che differenza c’è tra il rapporto sessuale (per lui impossibile) e fare sesso? Non ricorrerò qui al complesso armamentario logico e filosofico che Lacan usa per foderare di senso questa differenza. Cercherò di dirvi che cosa ne ho capito io filtrando questo apparato.

            Credo che per Lacan ogni atto sessuale, in particolare tra donna e uomo, sia qualcosa come un bricolage. Per bricolage, si intende costruire qualcosa a partire da materiali già costruiti. Gli artisti moderni, in particolare i surrealisti, hanno fatto spesso ricorso al bricolage. Si prenda questa “testa di toro” di Picasso (fig. 1[11]):

 fig. 1

 

Qui Picasso utilizza due pezzi che facevano parte di strutture pre-esistenti – un sellino di bicicletta, un tubo ritorto. Li combina in modo da evocare una testa di toro. Per Lacan il rapporto sessuale è qualcosa di simile: si incollano alla men peggio parti maschili e parti femminili e si ha la sensazione che, facendo sesso, si sia Uno.  

6.  Il godimento di Dio

 

 

Fig. 2

Per dirla tutta: Lacan pensa che non ci sia rapporto sessuale perché, tra l’uomo e la donna, ci si mette Dio. Un dio spezza il rapporto. Vedremo in che senso.

Lacan ci propone questo diagramma che qui riproduco (fig. 2[12]).

            Lasciamo stare le formule logiche, che occupano la parte alta di questo grafico.

            La parte sinistra inscrive la posizione maschile, la parte destra la posizione femminile. (Il che non vuol dire che tutti gli esseri dotati di pene si situino nella parte sinistra, e tutti gli esseri dotati di vagina e ovaie si situino sulla parte destra. Alcuni si mettono in posizioni diciamo non anatomicamente coerenti. E non sono solo i transgender. Per esempio, per Lacan i mistici  maschi si situano nella parte femminile, perché per lui il misticismo è cosa femminile.)

            Le frecce, che mettono in relazione elementi maschili con elementi femminili e viceversa, come si vede non si intersecano mai. Si giustappongono, ma non si intersecano. Come a letto: uomo e donna si giustappongono.

            Per Lacan – addirittura - uomini e donne non sono nemmeno soggetti umani dello stesso tipo. Uno, il soggetto maschile, è S sbarrato, (a sinistra). L’altro, il soggetto femminile, è La sbarrato, , a destra. La è l’articolo definito femminile. Potremmo anche scrivere

 

            L’S sbarrato, , è il soggetto in quanto non si riduce mai a tutti i significanti – alcuni direbbero: alle etichette – che lo rappresentano. Ad esempio, io mi chiamo Sergio Benvenuto, esercito come psicoanalista, ecc. ecc. Ma tutti questi significanti che mi rappresentano non dicono il mio essere. Il vero essere soggettivo, per Lacan, è desiderare. Come soggetto desiderante, sono al di là di tutti i titoli, le immagini, le maschere che mi rappresentano. E se sono maschio, non solo anatomicamente, che cosa desidero? Qualcosa che Lacan chiama oggetto a.

            Per Lacan chi preferisce essere donna è soggetto invece solo in quanto si esclude da un’universalità: non è come tutte le altre donne. Per Lacan la soggettività femminile è un sottrarsi alla Donna come categoria universale. Non esiste nessuna identità femminile, ovvero nessuna essenza del femminile, e ciascuna donna è un soggetto in quanto si sottrae a questa essenza femminile. Da qui l’insistenza pretesa di tante donne a essere amate come uniche. Potremmo dire che per Lacan il soggetto maschile è chi è al di qua di tutte le maschere che porta, il soggetto femminile è chi si sottrae alla Maschera femminile che dovrebbe portare.

 

7.         Il duplice godimento della donna

            Si dà il caso che l’uomo, , quando si interessa alle donne, non tenda affatto al soggetto femminile, ma all’oggetto a. Per l’uomo la donna è un oggetto. Molte donne, non solo femministe, se ne lamentano: “per gli uomini siamo solo pezzi di carne”. E’ proprio così. Lacan lo lascia intendere: l’uomo è ‘un porco’. A meno che non si innamori di una donna, oltre che farci sesso.

            Questo perché per Lacan c’è un’amoralità di fondo della sessualità, benché le culture e le religioni abbiano santificato l’atto sessuale, non fosse altro che per la sua funzione riproduttiva. Per la chiesa cattolica c’è sacramento del matrimonio solo quando si consuma un coito che fa di un uomo e di una donna degli sposi. Eppure, malgrado tutta questa santificazione, quando ci accoppiamo sessualmente ne abbiamo vergogna, vogliamo nasconderci, quasi si trattasse di uno sconcio. Il pudore è la spia del fatto che l’atto sessuale è per essenza perverso polimorfo. (A meno che non guardiamo uno spettacolo porno, il quale consiste nello sfruttare perversamente l’atto sessuale mostrandolo come perverso.)

Per Lacan il soggetto maschile è perverso perché punta all’oggetto a. Lo chiama “a piccolo” da ‘altro’ con la minuscola. E’ ‘qualcosa d’altro’ da cui l’uomo è attratto nella donna. Questo sembra invertire la teoria di Freud sull’amore: per lui, l’uomo tende a idealizzare – fin troppo – la donna amata. Freud era debitore di una visione romantica della donna come angelo per l’uomo, che derivava dall’amor cortese.  Visione oggi del tutto superata?

            Ma siamo proprio sicuri che l’oggetto a renda il rapporto sessuale per l’uomo così perverso come sembrerebbe? Perché questo oggetto – ovvero, il bel pezzo di carne che una donna può essere – è a sua volta maschera di un oggetto più fondamentale, qualcosa che Lacan aveva chiamato la Cosa[13].

            Invece il soggetto femminile, , punta al Fallo. Ma come si vede dal grafico, questo Fallo non ha alcun nesso col soggetto maschile. E’ sotto il soggetto, gli penzola sotto, ma non lo definisce. Si dirà: eppure gli uomini sono fieri del loro pene; e soprattutto fieri del fatto che il loro pene faccia godere le donne. Ma si tratta appunto di pene, non di Fallo. Un uomo può anche credere che una donna non cerchi altro che un pene, in realtà, nel suo inconscio – dice Lacan – la donna cerca il Fallo, che è un significante. La donna si accontenta di quel che passa il convento, un semplice pene; ma tende al Fallo.

            Cosa può voler dire Lacan con un’affermazione così strana, che la donna mira a un significante piuttosto che a un pene ben concreto? Probabilmente voleva dire che, di solito, le donne non danno tanta importanza alla forma o grandezza del pene; l’importante per loro è che il pene ci sia quel tanto da potersi significare come fallo.

            Cosa ben diversa con gli omosessuali maschi, per i quali invece forma e dimensione del pene reale risultano di enorme importanza. In effetti, Lacan non si è quasi mai occupato dell’omosessualità. Ma, andando sul suo sentiero, potremmo dire che il gay maschio (a meno che non sia un effeminato) resta completamente sul versante maschile: solo che fa del pene dell’altro il suo oggetto a. Tratta il membro maschile così come l’eterosessuale maschio tratta il corpo femminile, come oggetto direi “estetico”. Analogamente, la lesbica di solito resta completamente sul versante femminile (a meno che non si tratti di una donna mascolina), nel senso che nell’altra donna cerca il fallo, reso puramente significante dalla sua mancanza reale.

            Il punto è che le donne hanno un godimento sessuale più complicato di quello dell’uomo. Esse hanno rapporto non solo col Fallo, ma anche con qualcosa che è solo dalla parte femminile. Lacan chiama questa parte . Tecnicamente, si dice: significante della mancanza nell’Altro. Ma cosa vuol dire? Lacan vuol dire qualcosa di esorbitante: che in amore ogni donna ha rapporto con Dio. Dribbla il povero , e punta direttamente a Dio.

            In effetti, parlare del grande Altro – Lacan lo dice chiaramente – è un modo di dire Dio. Prima parlavo dell’Altro come Lettore: ma, per chi scrive, il pubblico è il suo Dio. Ma un Dio manchevole, un povero dio, che per questo ha bisogno della donna.

Quindi, per Lacan la posizione femminile nell’amore è una posizione mistica. E cioè, in quel poveraccio del suo uomo che manca alquanto di coraggio e di pazienza, la donna pensa di trovare Dio. Essere donne, in amore, per Lacan è godere dell’Altro, e questo Altro al limite è divino. Certo è alquanto difficile un rapporto tra un porco perverso da una parte, e una poveraccia che cerca di essere amante di Dio dall’altra!

Lacan portava come esempio Alcmena della commedia di Plauto Anfitrione[14]. Alcmena è la moglie del generale Anfitrione. Lei fa sesso con Giove credendo di fare all’amore col marito, dato che Giove ha preso le fattezze del cornuto. E’ che ogni donna dietro il suo uomo vede Giove. Questo godimento non è solo amoroso, anche sessuale. In qualche modo, Lacan sottoscriverebbe il detto “l’uomo ama una donna perché la desidera, una donna desidera un uomo perché lo ama”. Nella donna, l’amore viene prima del desiderio sessuale perché la sessualità è un corollario del fatto di aver trovato il dio.

             Per semplificare un po’ la pletora lacaniana, potremmo dire che nell’atto sessuale l’uomo nella donna cerca l’oggetto che causa il suo desiderio; detto volgarmente, ciò che lo fa arrapare. Mentre la donna da una parte cerca nell’uomo ciò di cui egli è in fondo privo, il fallo; e dall’altra è arrapata dal rapporto “divino” con qualcosa a cui l’uomo si presta solo alla lontana. C’è una confusione delle lingue tra uomo e donna. E malgrado questa confusione, tutto questo basta per prolificare.

            Lacan giunge al punto di dire che se abbiamo idea di un qualche dio, è grazie al fatto che delle donne ne godano. Prima aveva detto che l’anima è solo ciò che viene amato dall’altro, non preesiste all’amore. Analogamente potremmo dire che per Lacan Dio è solo ciò di cui una donna gode, senza preesistere a questo godimento. Per lui, la divinità non esisterebbe senza le donne. Perché le donne, mettendone allo scoperto la mancanza, la rendono umanamente concepibile.

            Ovviamente da ciò se ne può trarre l’idea che Lacan sia completamente ateo, oppure, al contrario, che creda talmente in Dio da farne deus ex machina dell’atto sessuale.

 

8.         Godere senza saperlo

            Ancora più ostica è l’idea di Lacan che la relazione tra uomo e donna abbia a che fare con qualcosa che lui chiama sapere. Non si riferisce al sapere conscio, a quello che impariamo a scuola, ma al sapere inconscio. Per Lacan, il nostro inconscio sa. In effetti, quando in analisi emerge qualcosa di molto importante, spesso il soggetto aggiunge “ma in fondo l’avevo sempre saputo”. Il nostro inconscio ne sa più di noi.

            Ora, si dà il caso che, sul versante della donna, ci troviamo di fronte a cose che lei stessa non sa, e che non sapremo mai. Una di queste cose è il godimento dell’Altro, a cui abbiamo già accennato, che è anche un godimento “altro”, un altro tipo di godimento. L’altra cosa è l’amore.

            Lacan è impressionato dal fatto che le donne, anche quando sono grandi scrittrici, non riescano mai veramente a descrivere quel che lui chiama ‘il godimento femminile’. Esse provano un godimento di cui non sanno nulla, perciò alla fine alcune concludono: “è nient’altro che godimento clitorideo…” Oggi c’è un consenso nel dire che l’orgasmo è nient’altro che clitorideo, insomma simil-fallico (la clitoride è un pene in miniatura).

      Eppure le donne spesso descrivono sensazioni molto più complesse. Françoise Dolto[15], che era amica di Lacan oltre che donna, distingueva ben quattro orgasmi:

-        Il clitorideo

-        Il clitorideo-vulvare

-        Il vaginale

-        L’utero-annessiale, un orgasmo di cui le donne non parlano mai e che pure esiste. Sarebbe il tipo d’orgasmo che la donna prova, ma di cui non sa nulla.

Quando Lacan parla di godimento femminile, si riferisce a questo orgasmo che Dolto chiamava utero-annessiale?

Insomma, dell’orgasmo femminile non si può dire “non è nient’altro che… clitorideo”. Perché c’è sempre un godimento… altro. Che è niente? Il dibattito tra le stesse donne sui vari tipi di orgasmo femminile per Lacan segnala un punto importante: che la donna non può dire il proprio godimento, che resta a se stessa ineffabile.

      Per illustrare il godimento femminile non fallico, Lacan riporta una famosa scultura di Bernini, “L’estasi di S. Teresa d’Avila”, che si trova nella chiesa di S. Maria della Vittoria a Roma[16]. Qui, suol dirsi, Bernini ci mostrerebbe, in modo metaforico, un “fare sesso”. L’angelo, bellissimo giovane, è al posto di un amante, e la freccia è al posto del pene. Quanto a S. Teresa, lei sembra davvero avere un orgasmo, così simile al dolore. Ma non è questo il punto di vista di Lacan. Secondo lui lo scultore, usando metafore falliche, ha voluto alludere a un godimento “mistico” appunto, anche se non è appannaggio dei soli mistici. Solo che, in quanto godimento mistico, non se ne può sapere nulla.

            Anche dell’amore, non se ne può saper nulla. Abbiamo detto che il vero amore – se esistesse – sarebbe un amore per l’essere dell’altro, per il fatto che l’altro sia, non per gli oggetti belli o buoni che ha o è. E’ vero che daremmo la vita per l’amato, perché è il suo essere che va tutelato. Ma davvero amare è amare questo essere?

            Lacan non dà una risposta chiara, perché da una parte dice che l’amore è un semblant, una parvenza.  E’ vero che amare è amare l’esistenza dell’altro, ma l’essere dell’amato non esiste veramente, perché da una parte è l’Altro, dall’altra è oggetto a. L’amato oscilla sempre tra un Dio voglioso e il pezzo di carne che ci invoglia. Allora non è altro che… questo? O Madonna, o bella f…? Questa domanda resta sospesa.

            Probabilmente l’amore ha a che fare con qualcosa che Lacan[17] aveva chiamato la chose, la Cosa. La Cosa non è un oggetto qualsiasi di desiderio, è qualcosa che polarizza la nostra esistenza. E’ quel ‘niente altro’ che resta una volta che abbiamo messo da parte tutti gli oggetti che permettono un godimento fallico. E che ha a che fare con l’unicità dell’amato. Oltre all’oggetto a, il soggetto ama la Cosa, che è sempre unica. L’amato, si sa, è (sembra?) insostituibile.

            Perché l’unicità dell’individuo è qualcosa che il linguaggio non può dire, mai. Il linguaggio generalizza sempre, non sa dire l’individuo. Certo possiamo dare un nome all’individuo, a me hanno dato nome Sergio Benvenuto, a un altro Anton Checov, ma Sergio Benvenuto e Anton Checov sono cartellini identificativi che non dicono nulla di quelle unicità che Sergio o Anton sono. Di questi due individui possiamo dire solo cose generalizzabili; ad esempio che Checov era uno scrittore, ma ci sono tanti altri scrittori. Il linguaggio non sa dire l’unico, proprio quello che sembra catalizzare il nostro amore. Perché, come conclude il Lacan più tardo, pur tuttavia c’è dell’Uno. Da qualche parte, c’è amore.

 



[1] Da: Lacan, Le Séminaire, livre XX. Encore, Seuil, Paris 1975, p. 77. Da ora Sé XX.

[2] “Sulla più comune degenerazione della vita amorosa”, 1912, Opere Sigmund Freud, vol.  6, Bollati Boringhieri, Torino.

 

[3] Cit. nota 1.

[4] C. Lévi-Strauss (1949) “Lo stregone e la sua magia”, Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano 1966. Rimando anche a S. Benvenuto e A. Lucci, Lacan, oggi, Mimesis, Milano 2014.

[5] Sé XX, p. 40.

[6] Sé XX, p. 84.

[7] Nel Seminario del 16 gennaio 1973.

[8] “Un lettre d’âmour”, Sé XX, pp. 73-82.

[9] Sé XX, p.78.

[10] Sé XX, p. 44

[12] Sé XX, p. 73.

[13] Cfr. J. Lacan, Le Séminaire, livre VII. L’éthique de la psychanalyse, Seuil, Paris 1996.

[14] J. Lacan, Le Séminaire, livre II. Le moi dans la théorie de Freud et dans la technique de la psychanalyse, Seuil, Paris 1968, pp. 301-316.

[15] F. Dolto, Sexualité féminine, Gallimard, Paris 1996.

[16] Sé XX, pp. 67-71.

[17] Nel seminario precedente L’etica della psicoanalisi, cit.

Flussi © 2016Privacy Policy