Flussi di Sergio Benvenuto

Commemorazione di Mario Benvenuto - 19 aprile 2023 - discorso di Sergio Benvenuto17/apr/2023


 

 

Michel Foucault ha scritto che fino a oggi abbiamo un’estetica che celebra ciò che è perenne. Ci appare bella, profonda, soprattutto l’eternità. Invece, diceva Foucault, dovremmo pensare a un’estetica che celebri la FUGACITA’, la sparizione assoluta di ciò che è, la dissoluzione mortale di ciascuno.

Mi si permetta allora qui di ricordare mio padre non nella sua perennità ma nella sua transitorietà, nel suo rapporto concreto con me, con i suoi cari…

Del resto a mio padre piacque molto il saggio di Freud “Caducità”. Qui, in una conversazione con Rilke, Freud dice che bisogna sforzarsi di gustare la bellezza pur nella sua caducità. In un certo senso, dice, dobbiamo trasformare in bellezza l’orrore della fugacità.

Antonio Gargano nel corso degli anni ha mantenuto vivo il ricordo di Mario Benvenuto invitando, in vari anniversari, alcune personalità che lo avevano conosciuto e apprezzato. Purtroppo sono venuti meno molti amici che lo avevano commemorato in passato. E’ venuto meno ALDO MASULLO, è venuto meno l’ex-direttore del TG2 RAI ALBERTO LA VOLPE.

Ora, sarebbe ipocrita nasconderci il fatto che questa sarà l’ultima commemorazione di mio madre. Perché moriranno quelli che l’hanno finora commemorato, me incluso.  Mi commuove particolarmente, quindi, questo stare assieme perché questa è una doppia commemorazione: di Mario Benvenuto, mio padre, e delle nostre commemorazioni di lui.

 

Di solito gli intellettuali si consolano pensando che sopravvivere è finire in biblioteca. Per un filosofo idealista, la vera sopravvivenza è quella dei propri libri, o di quello che ha detto. Mio padre non era d’accordo…

Mio padre parlava spesso delle sue conversazioni con Croce, di cui frequentava il salotto. Croce era disturbato quando, evocando l’esistenzialismo, gli si parlava di morte. “Ma io sopravviverò nei miei libri!” diceva, in perfetto dialetto napoletano. E mio padre mostrandomi la copertina di uno dei suoi libri mi disse: “Ecco, un libro con su scritto Mario Benvenuto! E’ questo sopravvivere?” La cosa all’epoca mi suscitò una grande irritazione, perché, come per tutti i giovani, avevo bisogno di immortalità. E’ strano, più si invecchia, meno urge la sette d’immortalità

 

Per ironia della sorte, mio padre è morto anche in biblioteca. Pochi giorni fa sono andato alla Biblioteca Centrale di Roma. Come sapete, per legge tutti gli editori italiani devono mandare alcune copie di tutti i libri che pubblicano alla Biblioteca di Roma e a quella di Firenze. Ebbene, nei cataloghi della Biblioteca Centrale l’autore Mario Benvenuto non esiste. Per una ragione molto semplice: nessuna casa editrice ha pubblicato i suoi libri. Mio padre pagava una tipografia per farli stampare, a sue spese. Non ha mai pensato che i propri libri fossero degni di essere venduti.

Li dava da esporre solo in qualche libreria dove il libraio era amico. Una volta disse scherzando: “la libreria Maone al Vomero ha venduto due copie del mio libro. E’ un bestseller”

 

Vorrei quindi dire qualcosa non dell’uomo pubblico Mario, ma dell’uomo privato. Anche se i due si confondevano. L’intellettuale è chi non nota la differenza tra pubblico e privato. Per l’intellettuale il mondo è una faccenda personale.

Per me mio padre era quell’uomo magro, svirgolante come uno spermatozoo, i capelli sempre ritti all’insù, con fisiognomici baffetti. A scuola i suoi studenti lo chiamavano “o baffo”. Siccome per due anni sono andato nella stessa scuola in cui insegnava, il Vittorio Emanuele di Napoli, glielo dissi: si appioppava a ogni professore un nomignolo, e questo per lui era “o’ baffo”. Allora lui se li fece tagliare. Invano. I giovani non si lasciano turlupinare: continuarono a chiamarlo o’ baffo.

 

Vorrei parlare anche dei difetti dell’uomo privato. Dei difetti che probabilmente ho ereditato. In particolare, della sua ingenuità.

Mio padre con i figli non è stato autoritario, era autorevole. Il che è molto più pesante. I genitori autoritari sono facilmente discreditati, mentre si può essere schiacciati da genitori autorevoli. Lo si vede bene nella pratica analitica: vengono spesso in analisi figli rovinati da genitori molto buoni, ma troppo autorevoli.

Del resto oggi viviamo in una fase storica in cui le masse non si rivoltano affatto contro figure autoritarie, ma contro figure autorevoli. E’ quel che oggi vien chiamato populismo.

La mia rivolta di adolescente contro mio padre non poteva quindi prendere le forme solite di reazione a coercizioni paterne. Doveva prendere altre forme più oblique e capziose. Per esempio, dovevo prendere strade politiche diverse dalle sue. Ma poi mi resi conto che le mie linee divergenti erano ancora le sue… Per esempio, pensai da giovane che dovevo superarlo diventato comunista radicale, mentre lui era rimasto sempre socialista, un moderato. Ma poi capii che non facevo altro che fare quel che lui non osava fare: dirsi comunista. Aveva delegato a me il lavoro sporco, per così dire.

La forza della persona autorevole è che non muore veramente mai per chi gli ha voluto bene. Ve lo devo confessare: per me mio padre non è morto. Non come fantasma, munaciello come si dice a Napoli, ma come l’amico di cui parlava Heidegger. Heidegger diceva che lui parlava di filosofia sempre con un amico dentro di sé, forse con un amico morto. Pensare è un dialogo segreto, mentre spesso i dialoghi veri e propri sono monologhi mascherati. Ecco, io dialogo ancora con mio padre. Mi segue come un ectoplasma. Quando vado a vedere un film, immagino che anche lui lo abbia visto e gli dico “che te ne pare?” Oppure leggo un libro nuovo, e mi chiedo “come lo avrebbe giudicato?”

Così, quando si muore si muore sempre in due, muore anche la persona cara nella cui ombra ci si avvolge.

 

Tra le tante cose, buone e cattive, che ho ereditato da lui, c’è – dicevo - una certa ingenuità. Il non aver nemmeno cercato un editore per i suoi libri è una prova schiacciante di semplicità. Devo dire che i filosofi soffrono di una malattia professionale – ogni professione ha le sue malattie – e questa malattia è una certa ingenuità.  Lo si vede spesso tra i filosofi politici, per esempio, che spesso ignorano tutto della politica come realmente si fa, della Realpolitik, e quindi prendono terribili cantonate.

Per esercitare come psicoanalista ho dovuto disfarmi, poco a poco, lentamente, dell’ingenuità. Un analista può anche essere poco colto, non molto intelligente, ma assolutamente non può essere ingenuo… Gli analisti hanno purtroppo anch’essi una malattia professionale: il dogmatismo. Bisogna combattere anche quello se si vuol essere a un tempo analisti e filosofi. Ingenuità e dogmatismo, la Scilla e Cariddi che bracca chiunque eserciti come analista pur restando filosofo.

Per ingenuità intendo il contrario di quel che diceva Andreotti: “a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca.” Ecco, mio padre non faceva mai peccato… Non pensava mai veramente male delle persone. E quindi non ci azzeccava. Certo trovava spregevoli tante persone, ma non le temeva, non le malediva. Si fidava perfino delle persone che disprezzava. Eppure conosceva la Realpolitik perché scendeva in politica – in politica si scende sempre, non si sale mai… Non mi ha mai insegnato a diffidare, a fare il furbo, a mentire per il mio tornaconto, a battermi per sopravvivere o per vincere… Queste cose ho dovuto impararle tutte da me.

E in effetti da giovane ero terribilmente ingenuo.  Mia sorella Bice si ricorda di quando da adolescenti prendemmo da soli la metropolitana a Napoli. Feci il biglietto e poi lo buttai via, pensando che avevo fatto il mio dovere di pagare il biglietto e questo bastasse… Poi venne il controllore e mi chiese il biglietto. Gli dissi candidamente che lo avevo fatto ma lo avevo buttato. Il controllore, basito dalla mia innocenza, mi lasciò andare.

Ero stupido come Tommaso d’Aquino, che si lanciava verso la finestra per vedere un asino che vola. Perché glielo avevano detto i confratelli…

Un’altra eredità è stata la repulsione per le istituzioni, comprese quelle culturali. In particolare, disprezzava l’istituzione scolastica. Era un magnifico professore, aveva il senso profondo di una missione, educare i giovani – ma derideva l’istituzione scuola. Anche se aveva scelto proprio quella – così mi disse – proprio perché è un’istituzione leggerissima… “Quando entri in una classe – diceva – sei un uomo libero”.

Quando ero piccolo, volevo sempre uscire con lui. Mi piaceva uscire con lui perché mi raccontava tante cose, mi divertivo. Ma quando non poteva portarmi con sé, mi diceva “devo vedere il preside!”… Parlare col preside era la cosa più noiosa e squallida che ci potesse essere nella vita. Mi mentiva, non doveva vedere il preside, ma bastava questo significante perché declinassi la mia pretesa di uscire con lui.

Nella mia vita ho sempre evitato gli equivalenti dei presidi, ovvero chi ti è superiore gerarchicamente ma non lo stimi. Per me, vivere in società significa accettare l’esistenza dei presidi… Quindi mi è stato sempre molto difficile fare carriera.

Credo che, se fosse vissuto ad Atene, mio padre avrebbe seguito Socrate con entusiasmo, ma non sarebbe mai diventato allievo di Platone o di Aristotele. Non avrebbe potuto far parte né dell’Accademia né del Liceo. Eppure ha sempre insegnato al liceo.

 

Era ingenuo in politica: portava voti al partito ma non veniva mai eletto. Il partito non gli dava mai un collegio sicuro, ma lui non sbraitava per farsi mettere nei collegi sicuri. Credeva che si facesse carriera politica per meriti intellettuali. Ma anche in politica devi fare i conti con i presidi di partito.

Aldo Masullo, parlando di lui, disse “non era certo un signore delle tessere, era solo un signore”. E’ vero, ma i signori spesso pensano che sono tali solo se loro stessi sono una causa persa. Pensava di non essere mai degno di vincere. Per me è stato molto difficile superare questo assioma: che chi vale, perde.

Quest’uomo che leggeva varie lingue non è mai andato all’estero, per esempio. Ero studente a Parigi, e non ne hai mai approfittato per venire a Parigi, una delle città che sognava di visitare. Passò la frontiera una sola volta in vita sua, a Chiasso, nel senso che andò nella parte svizzera di Chiasso. Mio fratello Renato, che era con lui ed era un ragazzo, gli disse: “Ti rendi conto che siamo in Svizzera?” Mio padre si guardò attorno e disse “No, mi sembra l’Italia…” Non si rese conto che aveva attorno enormi cartelloni di pubblicità di sigarette… Lui, accanito fumatore, non si era accorto che la pubblicità del tabacco è proibita in Italia.

In ogni caso, non si spinse nemmeno fino a Lugano.

Non era un patriota, detestava le bandiere, ci ha sempre educati a una visione cosmopolitica. Eppure per una sorta di incantesimo maligno non ha mai messo piede fuori d’Italia. Mi fa pensare al famoso film di Bunuel “L’angelo sterminatore”: un gruppo di persone non riesce a uscire da una stanza anche se la porta è aperta spalancata, una sorta di sortilegio impedisce loro di uscire. E impedisce a chiunque altro di entrare. Mio padre non poteva uscire e non poteva entrare.

Per esempio, non ha mai preso un aereo. Io che ero uno studente povero avevo preso varie volte l’aereo, lui mai. Ma soprattutto non prese la libera docenza.

Due volte concorse per la libera docenza. Era qualcosa fatto ad hoc per chi era allergico alla logica universitaria. Se si superava un concorso, potevi insegnare all’università la tua materia pur senza essere nell’organico, senza essere insomma un intellettuale organico all’istituzione. Lui aveva paura di essere respinto perché aveva pubblicato poco, ma i suoi amici filosofi gli dicevano che sarebbe comunque passato. Andò due volte a Roma per sostenere il colloquio, aspettò nella sala… ma quando lo chiamarono, se ne uscì. Tornato a Napoli, si mise a leggere “La filosofia delle università” di Schopenhauer. In verità Schopenhauer era stato preso all’università di Berlino proprio quando la stessa di Hegel era allo zenith in quell’università. Schopenhauer decise di dare lezione nelle stesse ore in cui le dava Hegel – il risultato fu che al suo seminario non ci andava nessuno.

Mio padre poteva affascinare migliaia di persone che lo ascoltavano parlare in un comizio, ma si sentiva indegno di fronte a una commissione di professori che non stimava. Chi vale è amato, ma perde – così pensava.

Ho dovuto confrontarmi con questo fardello: superare un mio senso fondamentale di indegnità. Non avere vergogna di confrontarmi con le istituzioni.

Però mio padre era molto ammirato e amato, e non solo dai suoi studenti. Si amava e si ammirava questa signorilità, anche se non si capivano le ferite che essa implicava. Era un grande oratore, nel senso che riusciva ad affascinare la gente comune, i contadini del casertano, come anche i grandi professori. Aveva carisma, come si dice oggi. Di questa sua capacità seduttiva ne era fiero, ma ne aveva anche il senso di colpa… Voleva scrivere un libro sull’oratoria, perché quel suo talento lo tormentava. Si rendeva conto che affascinava non per il contenuto di quello che diceva, ma per il modo di dirlo… Credeva in quello che diceva, ma sapeva bene che quel che convinceva, seduceva, colti e incolti, era il suo modo di dirlo. E la cosa lo imbarazzava. Una volta mi disse: “E’ terribile per me scrivere. Ogni tanto mi rendo conto che scrivo in modo retorico, come un oratore… e devo cancellare quello che ho scritto. Ma è come scorticare sé stessi”.

Un uomo scorticato dal senso di colpa per la sua capacità di sedurre, ma anche dal suo punirsi per la sua capacità di sedurre. Per il suo sentirsi troppo superiore per vincere.

Ma tutto questo è passato, oppure passerà.

 

Quando incontrai di persona Cesare Musatti, fondatore della psicoanalisi in Italia, ci raccontò del suo viaggio in Cina, negli anni 60. Era in un gruppo di intellettuali italiani invitati nella Cina della Rivoluzione culturale, quando agli stranieri si mostravano solo poche cose e sempre le stesse. Uno del gruppo, un antropologo credo, insisté con i compagni di viaggio: bisognava assolutamente visitare un cimitero cinese. Non si può capire una civiltà, diceva, se non si vede come e dove seppelliscono i loro morti. Tutti si convinsero, e chiesero di vedere un cimitero. I loro tutor cinesi sembravano però perplessi. Alla fine li portarono a visitare un cimitero protestante, pieno di tombe di occidentali… Ma no, vogliamo vedere il cimitero cinese!

Alla fine si resero conto che non c’erano cimiteri cinesi. Per tradizione, il corpo viene inumato nella terra, in un posto qualsiasi, e viene messo un bastone o qualche altro festone, per lo più senza nome. Chi ha amato il morto sa dove trovare la tomba. Ma poi, col tempo, con i venti e con le piogge, il festone va via, la sabbia va via, le ceneri vanno via… e nulla resta più.

In ogni caso, spero di avere anche io piantato sulla sabbia il festone per ricordare mio padre.

 

 

 

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