Flussi di Sergio Benvenuto

TARTARUGHE E FOCOLARI (2003)02/mar/2017


1. Irraggiungibile tartaruga

 

        Alcuni indiani raccontarono all'antropologo Geertz[1] la reazione di un inglese quando gli oriundi gli dissero che il mondo poggiava su una piattaforma poggiante a sua volta sulla schiena di un elefante, il quale a sua volta era sostenuto dal dorso di una tartaruga. L’inglese, da buon razionalista, chiese su che cosa poggiasse allora la tartaruga. Su un'altra tartaruga, gli risposero.  E questa allora su cosa poggia? "Ah, Sahib, sotto ci sono tante tartarughe!"

        La perplessità del signore inglese, che divertì gli informatori di Geertz, derivava dalla tradizione metafisica occidentale, la quale sente il bisogno fondamentale di fermare - in Dio, nella Materia, nelle forme perenni, negli atomi e nei quarks, ecc. - la fuga all'infinito del fondamento.  E’ un problema che affligge chiunque, dagli antichi filosofi greci fino ai moderni fisici e cosmologi, pensARE al mondo come a una totalità. Gli indiani invece, meno metafisici, non si sentivano annichiliti dall'idea di un rinvio potenzialmente infinito di tartarughe.

        Non so perché la cultura indiana abbia scelto proprio le tartarughe come fondamento – benché differibile – dell’universo. Ma anche noi occidentali abbiamo fatto della tartaruga un animale filosofico. E’ noto il sofisma di Zenone di Elea: il pièveloce Achille non riuscirà mai a raggiungere la tartaruga in una corsa, se le dà un pur piccolo vantaggio iniziale. La distanza tra Achille e la tartaruga si ridurrà asintoticamente, ma non si annullerà mai. In realtà l’esempio della tartaruga non è di Zenone – dei suoi scritti non ci restano frammenti – ma di Simplicio in Aristotelis Physicorum libros quattuor posteriores commentaria[2]. I dossografi e commentatori precedenti parlavano solo di un inseguitore e di un inseguito. Perché allora Simplicio ha scelto proprio la tartaruga per illustrare questo famoso paradosso? Ovviamente perché si tratta di un animale particolarmente lento, ma forse anche perché si porta dietro la propria casa (oikos). Agli occhi degli Antichi, indiani o greci che fossero, la tartaruga doveva apparire una creatura perturbante, unheimlich: a metà strada tra la cosa immobile e l’animale che si muove, tra l’animato e dell’inanimato. Fatto sta che la tradizione cristiana ne ha fatto un rappresentante del mondo infernale[3].

Questa sua ambiguità è filosoficamente attraente: la tartaruga si presta a rappresentare un fondamento ironico. Una casa sì, ma irraggiungibile, che si sposta sempre... Incarna il supplizio tantalico del filosofo fondazionalista: che sta sempre là là per agguantare la Cosa solida, piena, la base sicura di tutto, eppure questa slitta sempre via. Insomma, la tradizione filosofica occidentale non è solo onto-teologica – da Platone e Aristotele in poi – ma anche chelonica (in greco kelòne, tartaruga)[4]. Vale a dire l’idea che il fondamento è, paradossalmente, non fisso ma mobile: la tartaruga ha la parvenza dell’immobilità, pare una pietra tondeggiante poggiata al suolo, ma di fatto si sposta, scivola, vive. E l’Achille-filosofo sarà costretto a una rincorsa senza fine.

 

2. Fondamento e differenza

 

        Al fondamento si oppone, nel pensiero contemporaneo, la differenza. Tutto il pensiero che oggi viene etichettato come post-moderno, decostruzionista, post-strutturalista – insomma, anti-fondazionalista – punta nel fondo non al fondamento ma alla differenza. Lacan ha detto che lo psicoanalista è alla ricerca della “differenza assoluta”. Ma soprattutto Derrida ha precisato la vocazione di questo regime di pensiero attraverso una differenza che lo ha reso famoso: quella tra différence e différance. Vediamola a proposito delle tartarughe. La différence (differenza) è quella per cui ogni tartaruga differisce dall’altra: non appena abbiamo parlato di Tartaruga - come universale - troviamo non solo tutto ciò che differisce da Essa, ma ogni singola tartaruga in quanto differisce dalla Tartaruga. La différance (differimento) è quella per cui il fondamento costituito da ogni tartaruga viene differito – rimandato, posticipato, ritardato – in un’altra tartaruga, che a sua volta differisce....

        Per il differenzialismo o chelonismo moderno non troveremo mai Dio, o eidos, o la Sostanza, o il Motore Immobile, o le categorie kantiane a priori dello spirito, come fondamento del nostro mondo in divenire. Ogni pretesa causa prima differisce in una precedente – insomma, la catena degli eventi è infinita. Questo implica l’idea che la razionalità fondativa certo è possibile anzi necessaria, ma è sempre locale e temporalmente limitata: il fondamento è provvisorio, è sempre pronto a essere “sfondato” storicamente. Questo è il presupposto squisitamente romantico del pensiero detto “continentale”.

“Fondamento” è una metafora edile: la cultura umana e tutto ciò che pensiamo o crediamo sarebbe come un palazzone che oggi immaginiamo molto alto e arzigogolato, lontano insomma dal suolo. Ma abbiamo il dubbio che non sempre questa torre – altrimenti detta cultura, o visione del mondo – sia davvero sostenuta dalla terraferma, o non poggi sul dorso di un’immaginaria tartaruga.

Ma che cosa può essere la terra, il suolo fermo, per una cultura, credenza o teoria? Significa arrivare finalmente a qualcosa che non sia a sua volta derivata, costruita, che non poggi su qualche altra cosa. Ma la domanda, sin dall’inizio del pensiero occidentale, è stata proprio questa: esiste davvero questo non-derivato, questo non-costruito, qualcosa su cui tutto poggi e deriv, e che a sua volta non poggi su altro né da altro derivi?

Gli Antichi non usavano come noi una metafora edilizia ma economica: ousia. Questo termine è tradotto con “sostanza”, “essenza”, ma significava in greco il patrimonio, ovvero la casa con il podere, la masseria, la sostanza inalienabile dei propri averi.  Anche oggi a Napoli si dice “tene a’ sustanza” per dire che una persona ha un fondo patrimoniale solido. Ogni filosofia antica ha cercato di dare nome a questa sostanza, che oggi chiamiamo fondamento in quanto ci interessano più le nostre costruzioni (ideologiche, scientifiche) che l’essenza delle cose. Non bisogna però confondere ousia con arké, che significa a un tempo principio (nel senso di inizio) ma anche comando. Il punto è sapere se l’ousia sia anche arké, vale a dire inizio e comando di tutte le cose sensibili, che sempre divengono.

 

3. Caduta e nostalgia

 

Il problema si poneva in modo acuto nell’interpretazione del mondo fisico: evidentemente ogni evento è effetto di una causa, e ogni causa è a sua volta effetto di qualche altra causa, e così via... all’infinito? No, i greci avevano orrore dell’infinito in atto: rimandare la causa prima dei processi all’infinito equivaleva a non fondare nulla, a pensare insomma il mondo come sfondato, abissale, irrazionale. Tutto ciò che è deve avere un inizio assoluto che lo governi: un’arké. Aristotele trovò l’inizio di tutto, la Causa Prima, il Motore Immobile, il fondamento, in qualcosa che lui chiamò divinità. In seguito, la cultura cristiana si sforzò di dimostrare che il Dio personale in cui essa credeva coincideva con questa divinità metafisica che dava figura al fondamento[5]. Dio (da Aristotele in poi) è il suolo che nessuno ha incontrato, ma che dobbiamo presupporre se vogliamo considerare razionalmente l’universo.

        Gli atomisti invece – come Democrito ed Epicuro – dissero che l’universo è sempre movimento, o, come dissero piuttosto, caduta, di qualcosa di fondamentale: gli atomoi, individui o indivisibili. Come dirà oltre duemila anni dopo Wittgenstein: Die Welt ist alles, was der Fall ist[6], “il mondo è tutto ciò che accade”, vale a dire, tutto ciò che cade[7]. Ma che cosa cade? Cadono tantissimi atomoi: questi sono il fondamento della dinamica sempiterna dell’universo. Gli atomi sono le tartarughe elementari. Comincia con gli atomisti antichi quel che oggi chiamiamo riduzionismo: fornire una spiegazione ultima significa ridurre i fatti complessi che accadono alla “caduta” di parti componenti a loro volta semplici, non-riducibili. Gli individui (atomoi) ci sono e basta: non vengono da nulla ed esisteranno eternamente, senza inizio e senza fine.

Oggi la scienza si è convertita, contro Aristotele, all’atomismo. Il suo compito oggi è analizzare, cioè scomporre le grandi unità in unità più piccole, promosse a fondamento ultimo di ciò che accade o cade. La fisica moderna chiama questi individui fondamentali, nella lingua di James Joyce, quarks[8]. Ma per la fisica di oggi anche lo spazio e il tempo non sono dimensioni continue, bensì discrete. Abbiamo atomi di spazio e atomi di tempo, spazio e tempo stessi sono corpuscolari.

        Oggi veramente la scienza non parla più di caduta ma di esplosione: da decenni gli scienziati ci ripetono che tutto il mondo è effetto di un Big Bang - che tutto, anziché cadere, si dilati. Lo stesso spazio cessa di essere un contenitore nel quale le cose accadono: è esso stesso un effetto della dilatazione delle cose, è un prodotto della relazione storica tra ogni atomo. Il bang è il clinamen[9] della scienza moderna.

        Comunque, la cosmologia moderna non dà risposte alla questione filosofica di fondo posta dagli Antichi: direi anzi che il dibattito al suo interno la riedita. La scienza moderna parla in effetti di singolarità – ad esempio, l’universo super-concentrato prima del Big Bang, o i buchi neri. La singolarità è uno stato delle cose che va al di là di ogni descrizione fisica concepibile (per la fisica del nostro tempo): il mondo – che dobbiamo presumere reale – all’interno dell’universo quando era piccolo come un protone prima del Bang, oppure all’interno di un buco nero, è assolutamente inconcepibile per la stessa scienza che pur ne presuppone o ne pone l’esistenza.

        Da notare che le singolarità, secondo la teoria cosmologica oggi dominante, sono all’inizio e alla fine della materia e del mondo: l’universo descrivibile e intelligibile va da singolarità a singolarità, vale a dire da un buco all’altro. La singolarità è la pre-causa prima dell’universo sensibile ma è anche l’effetto finale dell’universo sensibile. Possiamo dire che per la scienza di oggi il fondamento è il buco.

        Ma torniamo agli Antichi, che si sono posti per primi le questioni fondamentali a cui noi oggi non diamo risposta. Per Platone ogni anima (psyché), vale a dire ogni cosa che si muove da sé, torna alle ideai, a un mondo – che miticamente situiamo al di là del cielo – in cui si manifesta l’Evidenza (eidos) stessa.

Per Aristotele la natura (physis) è movimento, divenire, processo, perché ogni cosa cerca di tornarsene a casa: ogni liquido tende a tornare al mare, ogni cosa vaporosa tende al cielo, ogni oggetto solido tende a tornare alla terra. Per gli Antichi, insomma, l’universo sia fisico che psichico è un immenso tragitto nostalgico[10]: è un processo di ritorno, è sofferenza e dolore per un’abitazione primordiale da cui ogni ente si è allontanato per effetto di oblio o di violenza[11]. Il mondo insomma non è come la tartaruga, che fa corpo con la propria casa: è effetto di un allontanamento da casa, o meglio, di un arrancare nostalgico a tornare nel luogo da cui si è allontanato.

        Questa mancanza di fondamento iniziale e finale vale anche per il mondo dei fini. Insomma, per le nostre norme e scelte etiche. Per Aristotele non solo ogni causa rimanda a una causa precedente, ma anche ogni fine, a sua volta, rimanda a un fine successivo. Ma che cosa è un fine? Per un animale, per un essere cioè dotato di anima, il fine è un bene - chi mai avrebbe come fine il proprio male? Ad esempio, il fine del saggio che sto scrivendo è che esso venga letto da voi che lo state ora leggendo; ma perché il leggerlo da parte vostra è un bene? Perché questo contribuisce a diffondere quel che io ho da dire. Ma perché questa diffusione sarebbe un bene? Perché quel che ho da dire, secondo me, contiene delle verità. Ma perché diffondere delle verità sarebbe un bene? Perché la verità arricchisce l’umanità. E perché l’arricchimento dell’umanità sarebbe un bene? E così via di seguito… all’infinito? Anche qui Aristotele chiama divinità il Fine ultimo, il fine di ogni fine, ovvero quel Bene Supremo a cui rimandano tutti i beni particolari che eleggiamo come nostri fini. Quindi Dio è ad un tempo causa prima e fine ultimo: la storia del mondo è circolare, esso tende a tornare eticamente a quella Casa divina da cui si è allontanata fisicamente.

        Ma anche sui fini non possiamo essere più greci: il rimando dei fini per noi è infinito. Ma un fine infinito non è una contraddizione in termini? Il fine quindi è provvisorio, temporaneo, tempestivo – possiamo temporeggiare più o meno con i nostri fini, essi comunque non possono essere atemporali. Il fine è un arrestarsi sulla strada dell'in-fine.

        Oggi, più laicamente, alcuni pensano che il fine dei fini sia massimizzare la felicità dell’umanità. Eppure sentiamo che questa felicità è irraggiungibile: se tutti in media fossero più felici di quanto lo siano oggi, ciascuno si percepirebbe comunque non abbastanza felice. Di felicità se ne desidera sempre di più – e nella misura in cui l’essere umano è un essere desiderante, è un essere a cui deve mancare sempre una certa felicità supplementare. Così, se la felicità totale venisse raggiunta, sarebbe intollerabile. I fini quindi – ovvero l’etica – sono relativi. Tartarughe essi stessi. I nostri principi etici e politici non possono essere insomma definitivamente fondati: perché i fini sono de-finiti, quindi finiti, sono fini che a un certo punto finiscono, che definiscono quel che facciamo nella misura in cui non sono definitivi.

Ma che cosa è questa abitazione primordiale, che corrisponde in fin dei conti al fine ultimo di noi tutti?

 

4. Estia ed Ermes

 

        Per gli Antichi, si diceva, ogni cosa – e quindi ogni anima – tende a tornarsene a casa, dopo l’emigrazione forzata della violenza e dell’oblio. Ogni cosa ha come meta la propria origine, ovvero la casa-fondamento. Ora, per i greci la casa era prima di tutto Estia, il focolare.

I Greci veneravano come coppia gli dèi Estia ed Ermes. Potremmo chiamarli: Focolare e Angelo. Estia è il nome proprio di una dea, ma anche nome comune che designa sia il focolare domestico che il focolare comune della Polis[12]. Essa è raffigurata anticamente spesso in coppia con Ermes, il messaggero. "Entrambi  recita l'Inno omerico a Estia[13]   abitate nelle belle dimore degli uomini che vivono sulla superficie della terra, con sentimenti di mutua amicizia."

Estia è il focolare circolare, fissato nel suolo, centro della casa e della città, è l'ombelico attorno al quale la casa e la città si radicano nella terra. Essa  nota Jean-Pierre Vernant[14]  è simbolo e pegno di fissità, di immutabilità, di permanenza.  Diventerà la Vesta dei Romani.  Ed è in quanto centro fermo a partire dal quale lo spazio umano si orienta e si organizza, che Estia, per i poeti e i filosofi antichi, potrà identificarsi con la Terra, immobile al centro del cosmo. La Terra, casa degli uomini, è il focolare fisso del mondo. Essa non scambia, resta casta: Estia è vergine. Il fondamento della costruzione, per i greci, era assicurato da Estia.

Anche Ermes abita nelle case dei mortali, anzi, come dice Zeus nell'Iliade[15], "più di tutti gli dèi tu ami far da compagno a un mortale." Ma vi abita come angelos, messaggero, come chi è pronto a ripartire. "Non c'è niente, in lui, di fisso, di stabile, di permanente, di circoscritto, né di chiuso. Egli rappresenta, nello spazio e nel mondo umano, il movimento, il passaggio, il mutamento di stato, le transizioni, i contatti tra elementi estranei. Nella casa,..., protegge la soglia, respinge i ladri perché è lui stesso il Ladro (...), per il quale non esistono né serrature, né recinto, né confine."[16]  Presente alle porte delle città, ai confini degli stati, agli incroci delle vie, sulle tombe, che sono le porte del mondo infernale. Egli è presente ovunque gli uomini, fuori della loro casa privata, entrano in contatto per lo scambio - nelle discussioni e nel commercio - o per la competizione, come nello stadio.  Banditore, dio errante, padrone delle strade, sulla terra e verso la terra. Ermes è quindi inafferrabile, ubiquitario; porta una bacchetta magica che cambia tutto ciò che egli tocca.  E' anche ciò che non si può prevedere né trattenere, il fortuito, la buona o la cattiva sorte, l'incontro imprevisto, e anche il felice ritrovamento casuale.  Ermes è la divinità per eccellenza del cambiamento, del divenire, della transizione, dell’alienazione di sé o di qualcosa di sé – un filosofo moderno direbbe che è dio dell’evento.  Così nei quadrivi greci erano posti i suoi busti col pene in erezione: sempre pronto al coito, cioè a darsi all’altro, e ad essere altro.

L'ambito di Estia è l'interno, il chiuso, il fisso, il ripiegamento del gruppo umano su se stesso; essa assicura al gruppo domestico e alla comunità cittadina la sua perpetuazione nel tempo.  In termini filosofici: essa assicura il fondamento o, se vogliamo, l’identità. Non a caso Platone, nel Cratilo, collega etimologicamente Estia ad ousìa, che altri chiamano anche essìa, cioè "l'essenza fissa e immutabile"[17]. Estia designa insomma tutto ciò che più profondamente ci appartiene proprio perché radicato nella terra.  Invece l'ambito di Ermes è l'esterno, l'apertura, la mobilità, il contatto con l'altro da sé: dio relativista per eccellenza, è il principio stesso di ogni mutamento, ovvero, in termini moderni, della différence e différance.

 

5. Il dio della modernità

 

Varie figure della mitologia greco-romana hanno ispirato la concettualizzazione nel mondo moderno. E' strano invece che sia stata ignorata proprio la strana coppia Estia-Ermes. La figura fortunata è stata Ermes  ancora oggi usiamo il termine ermetismo  non il suo far coppia con Estia. Ma non è casuale che "ermetismo" significhi oggi il contrario di ciò che Ermes rappresentava per i greci: indica oggi un sapere chiuso, non comunicato o non comunicabile agli altri, e per amplificazione ogni sapere non scientifico, ovvero non sottoposto a controllo pubblico. I greci avrebbero attribuito l’ermetico nel nostro senso piuttosto ad Estia.

Eppure nell’antica congiunzione tra Estia ed Ermes cogliamo una polarità ancora insistente della nostra civiltà, e quindi nei suoi modi di pensiero. Da una parte una tensione verso il fondamento nella terra, dall’altra una tensione verso l’evento e la differenza.

Certo, da Ermes, questo dio così mondano, la modernità si sente adeguatamente rappresentata. Apertura, mobilità, scambio con l'altro, affarismo, innovazione perpetua: tutti questi caratteri ermetici sono anche i caratteri dell'uomo moderno, della "società aperta” come si dice oggi sulla scia di Popper. In linea generale, è ciò che è stato esaltato dal pensiero chiamato post-moderno: una cultura che irride ogni forma di assicurazione fondativa, che si compiace nel pensare che tutto è storia, che tutto muta e differisce da se stesso in un differimento perpetuo.

Ma a questa faccia ermetica della modernità risponde la faccia Estia che pur accompagna la progressione illimitata dell'Occidente. Siamo i figli non solo dell'Illuminismo ermetico – critico, progressista - ma anche del Romanticismo che rivaluta le focolarità nazionali e arcaiche, che promuove il ritorno alle radici del "borgo nativo". La modernità non ha prodotto solo scienza, tecnologia e globalizzazione, ma anche le teorie più compiutamente regressive della storia del pensiero, a cominciare da Rousseau. Il Novecento è stato il secolo del grande sviluppo scientifico e quindi delle filosofie razionaliste, ma anche il secolo di Freud, dell’antropologia culturale, di Heidegger, dell’ermeneutica. Freud ci ha spinti a "ritornare" alla nostra infanzia come radice di quello che siamo; l'antropologia culturale ci inizia alle culture selvagge che lo sviluppo ermetico ha accantonato o distrutto; Heidegger ha denunciato l’oblio dell’Essere, e poi l'ermeneutica si fonda sulla rilettura dei testi antichi.  Tutte queste idee hanno riproposto un ritorno rammemorante alle radici arcaiche della nostra forma di vita e del nostro pensiero. 

Dal Settecento in poi, abbiamo avuto a un tempo una corsa esaltata verso il futuro e un ritorno visionario alle nostre supposte origini, alla nostra “abitazione originaria”.  Il rimpianto rousseauiano, come rifiuto dell'ermetismo individualista della civiltà mercantile e come riconversione al grembo di un Focolare naturale, è più vivo e zelante che mai  basti pensare ai movimenti ecologisti e allo stesso “popolo anti-global”, ai culti popolari delle vacanze naturaliste, alla cura pagana del corpo e della nostra “parte animale", all'angoscia ecologica e al moderno culto di Gaia, all'ammirazione per i pensieri selvaggi che danzano con i lupi.

 

6. Dal focolare alla caverna

 

        Gran parte della stessa filosofia occidentale si muove in una sorta di tensione dialettica tra Estia ed Ermes. Ovvero, tra il bisogno di risalire all’arké come sicurezza fondata, e quello di differire in un movimento che ci aliena portandoci altrove.

Il pensiero di Parmenide segnò l'apoteosi metafisica del Focolare: "l'essere è, il non essere non è"[18]. E l'essere stesso è una sfera finita e circolare, un tutto equilibrato e chiuso: ingenerato, imperituro, tutto intero, unico ed Uno, immobile, illimitato nel tempo e compiuto. Questa immobilità atemporale e conclusa ricorda appunto il focolare miceneo, circolare, dei Greci. Questo Tutto è illimitato nel senso che non ha confini, barriere da superare, spigolosità, fratture interne - ma non è certo infinito, perché per i Greci l’infinito era l’imperfezione, l’incompiutezza, tensione che non si placa mai nella meta raggiunta. 

Al contrario, il campione dell'Ermes filosofico è Eraclito, per il quale panta rei, tutto scorre, e "nello stesso fiume entriamo e non entriamo, siamo e non siamo"[19].  Il linguaggio stesso di Eraclito dispiega l'ubiquità inafferrabile di un divenire dove ogni identità stabile e fissa si disgrega. L'ambiguità dei motti eraclitei introduce nel linguaggio stesso uno slittamento irrefrenabile dei significati. "...Per loro vale quel detto: sono qui e sono altrove"[20].

Se quindi il pensiero pre-socratico portava ancora con sé, e pienamente, le tracce dell'opposizione casa-trivio, o focolare-angelo, ben presto però la filosofia cambia i propri paradigmi mitologici.  Dopo Platone, non è più la dialettica tra l'immobilità centripeta e la mutazione centrifuga a strutturare la discussione filosofica  piuttosto è il mito della caverna[21]. Da questo mito platonico in poi, il pensiero occidentale si confronterà con una dialettica alquanto diversa: quella tra le ombre delle rappresentazioni e la chiara luce della verità. Da una parte il mondo cavernoso, oscurantista, delle parvenze, delle doxai - oggi diremmo: dei segni - dall'altra il mondo solare, illuminato o illuminista, delle cose reali e dell'epistheme. I fuochi accesi nella caverna con i prigionieri incatenati appaiono una derisoria caricatura di Estia: essi inaugurano una lunga discendenza metaforica, che chiamerei del Focolare dell'Angustia, vale a dire della casa stretta e seclusa dove lo spirito si imprigiona.

Certo, la questione dell'alternativa tra il movimento e l'immobilità  tra un assolutismo parmenideo e un relativismo eracliteo  non scomparirà mai dalla riflessione filosofica, ma risulterà sempre più agganciata alla questione che apparirà come la questione filosofica per eccellenza: quella dell'essere e dell'apparire. Da qui la ricerca del fondamento, inteso come ciò che àncora il mondo delle parvenze al suolo dell’essere: che seleziona la parvenza infondata dall’apparenza discorsiva adeguata a ciò che è. L'essere sempre più perderà la sua rassomiglianza, che si notava ancora nel poema di Parmenide, con il focolare greco  e con la Terra fissa al centro di un universo tolemaico , e l'apparire perderà la sua parentela di primo grado con il mondo del divenire e del mutamento. In effetti nel mito della caverna è in gioco una differenza tra luce solare non umana, e luce artificiale prodotta dall'uomo, tra ombre e cose viste in piena luce, non tra l'essere stabile e il divenire instabile.  Da Platone fino a Nietzsche, il filosofo fuggirà le penombre dei penetrali domestici e si dedicherà ad una specie di elioterapia concettuale  è il paradigma tacito del filosofo abbronzato. E questo fino ad Heidegger, la cui immagine celeberrima dell'Essere come Lichtung, come slargo o radura che si apre nel mezzo dell'oscura e fitta foresta degli enti, risente ancora del pattern platonico della caverna: si tratta pur sempre del rischiararsi, del farsi luce (Licht), in un bosco denso di cose e quindi oscuro.

La polarità Estia-Ermes non ha quindi mai assunto la dignità del paradigma filosofico. Eppure, a gran parte della nostra tradizione culturale risulta chiaro il compito principale e specifico del filosofo: dare o scoprire un qualche fondamento alle nostre forme di vita e di sapere. La metafora del fondamento apparenta lo sforzo filosofico ad una Odissea verso una madrepateria (e irraggiungibile?) Estia: il filosofo metafisico sente il dovere di puntellare in ciò che non si muove ciò che gli uomini agitano sulla superficie sdrucciolevole della terra. Deve dare supporto a ciò che altrimenti vagherebbe per aria come parole vuote o mere fantasie. Deve radicare ciò che la ragione e la storia costruiscono, come torri, sempre più sublimia, cioè sempre più lontane dal piano-terra. E il suolo viene chiamato l'Essere, "già da sempre al sicuro" come diceva Aristotele. 

Ma questo bisogno di fondamento per molti secoli si è distratto dalla figura focolarista del radicamento terrestre, perché da Platone in poi i filosofi hanno optato per un ossimoro temerario: al radicamento alla terra molto presto hanno preferito la derivazione celeste, anzi oltre-celeste, iperurania. Nella lunga storia cristiana, il cielo “fonda” la terra, ovvero, la seconda promana dal primo.

 

7. Eros ermetico

 

Il pensiero antico aveva interpretato di fatto la tensione focolare-angelo – tra fondamento e differenza, diremmo oggi - soprattutto attraverso la metafora erotica, inclusa nel nome stesso filosofia. Achille insegue la tartaruga perché la desidera[22].

        Per parte del pensiero antico l’essenza delle cose è Eros o Philia, desiderio sessuale o amicizia o amore. Per Platone la filosofia è Eros, e deriva a partire da qualcosa di primario e irriducibile: le Ideai. Per Aristotele Philia viene dal Motore Immobile e Causa Prima. Per gran parte della filosofia, l’universo sensibile e intelligibile è movimento erotico o amichevole delle cose. Questa fondamentalità erotica o amichevole nel Medio Evo viene confiscata dalla teologia cristiana, che pone all’origine e alla fine di tutto il Dio amoroso, il quale crea tutto per infinito amore.

        Cominciò Parmenide col dire che Eros crea l'universo: mescolando la luce e la notte. Questa metafora resta più che mai esplicita nel Simposio e nel Fedro platonici: la filosofia è una sorta di desiderio erotico nel senso che essa porta, ermeticamente, l'uomo verso il mondo delle ideai (aspetti, forme, apparizioni), e questo mondo è la sua vera Casa, anche se all'aperto. Il dialogo socratico-platonico è lo scambio erotico-ermetico che porta fuori l'uomo dalla caverna, vale a dire fuori da un focolare gretto e illusorio. Il mondo mondano  delle cose che divengono  è smosso e tirato da questa attrazione per ciò che chiamerei la sua Casa Iperbolica, vale a dire gli Aspetti o Apparizioni.

In Aristotele alla crudezza del desiderio viene sostituita la philia, amicizia. Il mondo del mutamento e del divenire per Aristotele, come abbiamo visto, è fatto di enti che tornano a casa. Ma la Casa delle case, l'Estia finale di ogni divenire, è la divinità come Motore Immobile. Anche in Aristotele, la mobilità sublunare è frutto di un'attrazione simile a quella erotica: quella che la causa finale, il telos, il Motore Immobile, esercita sul Primo Motore. Possiamo quindi dire che la causa finale aristotelica è Estia come meta amata e divinità immobile. Mentre la causa efficiente, che diventerà poi quella "scientifica" nell'universo meccanicista newtoniano, è Ermes come tensione desiderante e promiscua. Anzi Aristotele darà a questo ermetismo essenziale del mondo la formulazione metafisica più compiuta di tutta la filosofia pre-moderna: a fondamento c'è energheia, il passare all'atto.  Ermes era un dio che più di ogni altro - anche in azioni riprovevoli - passava all'atto.

Quindi, sia in Platone che in Aristotele il mondo ermetico del divenire è descritto attraverso il suo nostalgico amore per il Focolare: Ermes ama Estia.

La cultura cristiana, invece, descriverà il movimento ermetico del mondo non più tanto come tensione erotica verso Dio, perché qui l'amante è Dio stesso. Agape succede a Eros[23]. E' per esuberanza amorosa che Dio crea l'universo, e anche quella creatura recalcitrante al vero amore che è l'essere umano. Questo amore divino è gratuito, pura Grazia: amore senza oggetto che crea il proprio oggetto.  Al primato della metafora erotica-amorosa si sostituisce il paradigma creazionista, anzi paternalista: è per amore che Dio, come un padre, genera il mondo. Possiamo anche dire: nel cristianesimo Estia ama Ermes.

Questo amore debordante di Dio, di cui il mondo è il rampollo, non è l'amore per qualcosa che preesista alla creazione: è amore per la creatura stessa. Il dio cristiano non fa l'amore con la vergine Maria: ama Suo figlio, non una donna.  Il Creatore cristiano ama le sue creature, non l'Altra. Così col cristianesimo viene a crearsi un ulteriore serio squilibrio a vantaggio di Ermes: se Dio è il focolare originario del mondo, esso deriva e si risolve nel mondo ermetico delle sue creature che nascono, mutano, muoiono. Dio stesso, facendosi uomo in Cristo, si ermetizza.

Ma se il cristianesimo rappresenta una svolta ermetizzante rispetto al pensiero greco classico, resta che filosofi greci e cristiani, insieme, hanno lanciato una sfida al mondo pagano attraverso il loro ossimoro iperbolico: ciò che diventa importante assicurare non è il rapporto di radicamento nella terra, ma il radicamento nel cielo. Non è più la terra stabile a fondare, ma il Cielo – anzi, un Oltre-Cielo invisibile che tutto muove.

        Quindi, nel pensiero europeo Focolare e Angelo non scompaiono, ma vengono gerarchicamente sottomessi a Dio-Padre. Così, nella tradizione cristiana Estia sopravvivrà nella forma dei culti mariani, e Ermes nell'angelologia - entrambi in una sorta di teologia minore, subalterna alla Grande Teologia del Dio-Padre e Creatore. Quindi il focolare greco al centro della polis verrà sostituito dalle due abitazioni focali di ogni città occidentale: il Tempio e il Palazzo del principe.  Il Tempio è ancor sempre casa di Dio-Padre, ma concretamente vi sta un prete a cui è riservato uno scambio più diretto con Dio-Padre, arké - origine e comando - della città vivente degli uomini.  Il Palazzo è pur sempre casa del principe, ma casa-vetta da cui il Potere discende verso la comunità.

A loro volta Tempio e Palazzo, abitati da intermediari tra cielo e terra, si enucleano in una figura più radicale e comprensiva: il naòs greco, il Tabernacolo della tradizione giudaica.  Il Tabernacolo è lo spazio inaccessibile, vuoto, sacro, in cui risiede o discende Dio-Padre: esso prende il posto del focolare secolare, in quanto non è luogo di avvitamento alla terra, ma di discesa del celeste sulla terra, punto di radicamento ossimorico della terra nel Cielo. E' la kenosis cristiana, vale a dire quell'abbassamento per cui Dio si fa uomo, per cui il Cielo scende sulla terra, dandole ordine e senso. Nel tempio e nel palazzo il Cielo compie la sua kenosis verso la terra[24].

Ora, il processo della modernità, dal Rinascimento in poi, di ciò che si è convenuto chiamare secolarizzazione, può essere descritto, nel modo più generale ed essenziale, come distruzione del Tabernacolo.  E quindi, correlativamente, distruzione del Palazzo del sovrano e del Tempio come luoghi centrali sottratti all'ermetismo.

 

8. Certezza e Vita

 

Infatti, nel Rinascimento e nel Seicento si produrrà una nuova svolta, connessa alla scoperta dell'infinito. Il mondo antico e medievale diffidava dell'infinito o illimitato, apeiron, come di qualcosa di incompiuto, come di un essere in potenza e non già in atto, come dell’informe non giunto a maturazione.  La perfezione antica era teléias, finita, sferica, conclusa. L’infinito antico era potenziale: come nella serie dei numeri naturali, ci si può sempre aggiungere un uno in più. Gli Antichi non ammettevano l’infinito detto attuale. Con Giordano Bruno e poi con l'universo infinito newtoniano[25], l'uomo si situa baldanzosamente nell'infinito attuale, nuova figura esaltante di una ulteriore ermetizzazione del pensiero e della vita. Esplosa la focolarità circolare del cosmo finito e rotondo degli Antichi, prevale la tensione dei Moderni verso un infinito già da sempre compiuto. E così, Hegel potrà dire che "l'idealismo della filosofia consiste solo in questo: nel non riconoscere il finito come un vero essere"[26].

Abbiamo però anche, nello stesso movimento, alla stessa epoca, un nuovo bisogno di fondare, radicare, centripetare: nella condizione soggettiva della certezza. La certezza è un nuovo fondamento focolaristico cercato questa volta nell'intimità privata dell'Io, e in due versanti: o la si cerca nel cogito cartesiano, oppure - nella tradizione empirista britannica – nella percezione soggettiva. Soggetto cogitante o soggetto percipiente che sia, comunque è nella soggettività che i Moderni cercano ormai il focus della certezza.

        Dal Seicento in poi, quel che è essenziale è da una parte il Metodo, dall’altra lo Spirito Umano. Il Metodo da determinare è quello che ci garantisce la fondatezza dei nostri discorsi; esso ci certifica le nostre credenze, rende verificabili o corroborabili le nostre teorie, garantisce la predicibilità di ciò che accade. Il Metodo – divenuto metodo per fare scienza, ovvero per conoscere sempre di più il mondo - poi presuppone che tutto il mondo, compresi i nostri pensieri, sia Macchina: la scienza moderna è meccanicista. Avremo quindi la meccanica classica, poi la meccanica quantistica, quindi l’idea che esistano “meccanismi psicologici”. Il Metodo scientifico rinvia di fatto alla Macchina ontica come suo fondamento.

        D’altro canto lo Spirito, Geist, appare come edificatore e legislatore del mondo: esso si dispiega soprattutto nella storia, in cui gli esseri umani “costruiscono” i loro mondi. Questo secondo filone poi, nel XX° secolo, sostituisce al primato dello Spirito quello della Vita: quel che conta è come assecondare la vita, come dispiegarla e dilatarla. La vita è reinterpretata ora in termini materialisti come desiderio, bisogno, godimento, volontà di potenza o di affermazione. In questa cultura – che elegge Marx, Nietzsche e Freud come svolte assolute – il fondamento di tutto è quindi la Vita, identificata, a seconda delle scuole, come Lustprinzip, desiderio-godimento, potere, affetto, zoé, praxis.

        Quindi, nella nostra cultura si contrappongono la visione fondamentale del reale come Macchina e la visione che alla Macchina aggiunge o sovrappone la Vita. Nella prima visione il movimento ermetico del mondo viene riportato a Estia come macchina; nella seconda visione la stabilità estiaca viene differita e ironizzata nel mutamento perpetuo.

 

 

9. Temporalità senza fondo

 

        Cercare il fondamento – Estia – equivale a stabilire il fondo atemporale su cui poggia il divenire temporale? Ora, il divenire temporale di solito viene concepito in due modi: o è la freccia irreversibile del tempo che non torna mai indietro (il tempo della termodinamica), oppure è il tempo circolare, dove tutto si ripete eternamente. La freccia irreversibile è ermetica, la circolarità è estiaca.

        Il primato moderno della visione ermetica del tempo – come linea a senso unico, irreversibile – non ha impedito che la modernità si confrontasse anche con le visioni cicliche del tempo, che paiono ristabilire una focolarità: il movimento torna su se stesso, e il divenire disegna l’Estia di un inevitabile ritorno. La modernità ha ritrovato questa idea ciclica nelle culture primitive o arcaiche, anche se essa era già dei greci. Le società arcaiche non vedono, come noi progressisti ed ermetici, il tempo come freccia irreversibile, ma come una circolarità ciclica sul modello dell'alternarsi delle stagioni, del giorno e della notte, del mestruo femminile, ecc.

        Ora, il filosofo più influente nella concezione moderna della soggettività, Nietzsche, ha considerato non a caso nichilistica questa visione circolare del tempo. “Nichilismo” aveva un senso negativo per Nietzsche. A chi dice "Tutto se ne va, tutto ritorna; eternamente gira la ruota dell'essere...", Zarathustra replica  "O voi, buffoni e organetti"[27]. C'è quindi ritorno e ritorno: c'è il ritorno "da buffoni e organetti" che si riduce al serpente, all'Ouroboros, che si morde la coda. E c'è - nei nostri termini - un ritorno ermetico, in cui lo 'stesso' di una cosa si presenta come ritorno. Nietzsche si fa profeta di questa infinita ripetizione. Nella modernità nietzscheana il circolo si sdoppia: c’è una circolarità estiaca, arcaica, nichilista e regressiva, e c’è una paradossale circolarità “ermetica” (percepita quindi come veramente moderna, anzi, oltre-moderna). La distinzione tra le due è sottile, spesso oscura, insomma problematica. Perché è problematico il rapporto della modernità con la nostalgia del focolare e con la febbre iperbolica dell’ermetismo.

 

        Comunque, parte del pensiero moderno tematizza il Ritorno al Focolare. Il Fondamento è quindi Ritorno, e il vero ritorno è quello al fondamento. Questi temi focolaristici frenano l'ermetismo di fondo del pensiero moderno, o ne sono la conseguenza estrema, il risvolto necessario?

        In realtà, molto pensiero moderno si trova confrontato al paradosso di ogni ermetismo: che, portato fino in fondo, sfocia nel (o si rivela come) Focolare. Ovvero, la rinuncia a qualsiasi fondamento, il mutamento perpetuo, si svela – da un altro punto di vista – come fondamento di tutto. E’ questo, credo, il senso meta-metafisico della filosofia di Heidegger: per lui la verità dell’Essere è il tempo, vale a dire ciò che è mutevole per essenza. Ma questo divenire temporale è pur sempre il rifugio finale, autentico: vivere-nel-tempo diventa la sola abitazione decente nel mondo.

        In effetti il mondo moderno ha accelerato e intensificato lo scambio come nessun’altra civiltà prima di ora, col rischio appunto di annullarlo. E difatti, lo scambio implica differenze: ognuno dà agli altri ciò che questi non hanno. Lo scambio è alimentato da sperequazioni di potenziale, da diseguaglianze, scarti. Ma proprio questa apoteosi dello scambio universale minaccia di ridurre, come mai prima era accaduto, l'intero pianeta ad un villaggio omogeneo e indifferenziato, insomma, di fare di esso un unico focolare. Sempre più si teme l’incremento dell’entropia come destino della condizione post-moderna. La cosiddetta globalizzazione ci appare allora la banalizzazione del cambiamento, ovvero un cambiamento perpetuo che non cambia mai, grigiore di un movimento febbrile che, proprio perché perpetuo, è monotono. Quando ogni casa esce dal suo isolamento e scambia (beni, monete, parole, idee, amanti), tradisce la propria centripeticità, ma alla fine può raggiungere l'acme di un'Estia planetaria capace di livellare il mondo in un'unica chiusura frenetica ma omologata. L'agitazione ermetica in un sistema chiuso continuamente tende a sfociare nell'entropia estiaca di un universo sprangato in una circolarità fine a se stessa. Estia è il destino di Ermes, il suo traguardo fatale.

        Ma c’è pur sempre la possibilità che il focolare in cui l’ermetismo si compie non sia appunto una casa ma…. una tartaruga. Una casa che si sposta, che differisce – anche se in modo non appariscente – da se stessa. Il mondo globalizzato allora non ci appare più come un contenitore unico dove tutto si centripeta – magari attorno alla democrazia liberale e mercantile americana - ma piuttosto come un mondo di piccole differenze che si spostano.

        Del resto, incontrare il fondamento alla fine del percorso ermetico non è la stessa cosa che incontrarlo all'inizio, o comunque prima della fine. L'Estia a cui giunge Ermes non è la stessa da cui egli parte  ogni intuizione dialettica, del resto, si basa proprio su questo scarto. Come già in Aristotele, la prima causa efficiente e l'ultima causa finale non coincidono  e in questo scarto consiste, per gli Antichi, tutta l'avventura erotica del cosmo così inquieto di rimpianti. E' una questione di tempi, di scansioni, di occasioni. Nel rapporto circolare tra Estia ed Ermes, è una faccenda di tempestività. E' ciò che a suo modo Nietzsche intuisce. L'eterno ritorno è così il focolare insospettabile in cui si risolve l'ermetica volontà di potenza. Ma è vero anche il contrario: che il divenire eracliteo ha una scaturigine, un focolaio da cui esso emana, un sole iperbole del Focolare. Il circolo tra Focolare ed Angelo non è mai chiuso: esso si ripete, eternamente.

 

10. Il circolo di focolare ed angelo

 

        Nel suo saggio su Estia ed Ermes, Vernant prosegue in modo anche più profondo l'analisi del rapporto tra i due dei polari, visto dal punto di vista di Estia. Il focolare miceneo che Estia rappresenta, proprio perché fissa l'altare della casa nella terra, mette in relazione l'oikos familiare con il mondo infero[28]; fino al punto che una certa tradizione  ripresa anche da Euripide[29]  identifica Estia con Kore o Persefone, la figlia di Demetra che trascorre metà del suo tempo con Ades nell'inferno, e l'altra metà del tempo tra gli uomini. Estia condensa arché e telos, il principio e la fine, il comando e il fine, rivelando nella complicità di ciò che si oppone la necessità ermetica del trasferirsi e del divenire.

        Kore ed Estia quindi, come mediazione e passaggio tra mondo terrestre dei viventi e mondo sotterraneo dei morti, svolgono in fondo lo stesso ruolo di Ermes, custode del passaggio tra vita e morte. D'altro canto, il focolare rotondo è connesso alla lanterna della casa, aperta in alto, da cui esce il fumo: simbolicamente, è il punto della casa in cui le cose umane salgono al cielo. Quindi, Estia stabilisce il contatto tra terra e cielo, proprio come il Messaggero mercuriale. "Per i membri dell'oikos  scrive Vernant[30]   il focolare, centro della casa, segna anche la via degli scambi con gli dèi inferi e con gli dèi superi, l'asse che fa comunicare tra di loro tutte le parti dell'universo, da un'estremità all'altra."

        Prova ne sia che Platone, nel Cratilo, per l'etimologia di Estia[31] escogita due interpretazioni possibili. Una, abbiamo visto, è ousìa, l'essenza fissa; l'altra invece è osìa, vale a dire il movimento incessante, in quanto principio di tutte le cose è l'impulsione al movimento, che alcuni chiamano appunto osìa da tò othoûn, muoversi. 

 

Estia: principio di permanenza; Estia: principio dell'impulso e del movimento , in questa interpretazione doppia e contraddittoria del nome della divinità del Focolare, si riconosceranno gli stessi termini della relazione che allo stesso tempo oppone ed unisce in una coppia di contrari legati da inseparabile 'amicizia' la dea che immobilizza l'estensione attorno ad un centro fisso, e il dio che la rende indefinitamente mobile in tutte le sue parti.[32]

 

        Ermes ed Estia ci appaiono quindi solo ad un primo sguardo distinti, anzi in opposizione. Non è nemmeno corretto dire che essi sono come il Yin e il Yang nell'unità del Tao, o come i due poli in un sistema di tensione elettrica. Seguendo il filo  o meglio, i giri e rigiri  della dialettica del loro "amichevole rapporto”, scopriamo una (possibile) identità essenziale tra il Focolare e l'Angelo, identità come rovescio e verità della loro contraddittoria differenza. Non si tratta della solita solidarietà degli opposti, e nemmeno degli estremi che si toccano: è un reciproco rovesciamento. Estia appare la vera essenza segreta dell'ermetismo, così come Ermes porta alla luce la verità stessa di Estia. In altre parole, andando fino in fondo ad Estia, troviamo l'incessante divenire ermetico; ma andando fino in fondo ad Ermes, troviamo come sua "essenza" l'immobilità permanente del Focolare. Estia ed Ermes sono fondamento l’uno per l’altro. Ed è a questo scivolare degli opposti l'uno nell'altro che molte grandi filosofie, da Platone a Nietzsche, si sono trovate confrontate.        Andrei persino oltre  come Ermes. Forse, ogni grande pensiero  ogni pensiero che non si riduca a cieca militanza sotto qualche bandiera metafisica  si assume questo còmpito audace: istillarci il sospetto che, ad un certo momento, il Focolare e l'Angelo siano la stessa cosa, e che il dramma storico del mondo si basi su un'opposizione che, in fondo, cela una segreta coincidenza. Tutto sta nel come e nel quando la filosofia mostra a se stessa e al mondo questa insospettata identità.

 

11. La filosofia dei Melii

 

        Abbiamo sfruttato qui le due figure mitiche – e rimosse – di Estia ed Ermes per illustrare il rapporto teso che la nostra civiltà ha con il fondamento.

        Da una parte la ricerca razionalista moderna punta ad indicare e scoprire il fondamento, vale a dire Estia che rende tutto, nel mondo, intelligibile, calcolabile, determinabile, ricostruibile: oggi quest’Estia garantista viene chiamato Metodo Scientifico. Il Metodo non è il fondamento ma, come dice l’etimologia del termine (meth’odos), è la via giusta: quella che ci porta al fondamento, alle cose così come sono. Nelle scienze bio-cognitive questa tendenza fondazionalista si esprime oggi nella rivalutazione di una natura umana che sottostà a tutte le differenze e variazioni temporali e culturali: di solito la si ostenta nel genoma umano, comunque in qualcosa che nell’essere umano sarebbe invariante, universale, stabile. Questa tendenza innatista – rappresentata in linguistica da Chomsky – svaluta le differenze storiche e individuali: tutti gli esseri umani hanno la stessa mente, e tutti parliamo una sola Lingua universale, anche se mascherata dalle lingue particolari.

        D’altra parte il pensiero post-moderno – nelle sue varie declinazioni decostruzioniste, ermeneutiche, post-strutturaliste, dialettico-hegeliane – irride l’appello al fondamento e opta per una sorta di storicismo radicale: tutto muta e gioca, e l’Uomo stesso è una produzione storica. I nostri discorsi sono “sfondati”: vanno metonimicamente da un elemento all’altro in una catena illimitata, senza mai trovare il bandolo ontologico della matassa.

        Ho però un sospetto. Queste due mentalità – che oggi si identificano, grosso modo, al razionalismo scientifico da una parte e all’approccio storico-umanistico dall’altra – certo oggi si contrappongono nel grande mercato delle idee, delle istituzioni universitarie e del prestigio sociale: sono in competizione nella nostra forma di vita, risultano reciprocamente incompatibili. Un razionalista o un filosofo analitico nutre un sovrano disprezzo per autori come Derrida, Foucault o Lacan e per i loro emuli, ma questi ultimi di solito non degnano nemmeno di un colpo d’occhio libri e discorsi degli “scientisti”, come li chiamano con simmetrico disprezzo. La nostra Kultur ci chiede, direi ossessivamente, di prendere partito, e penalizza chiunque provi ad avere un piede in due scarpe. Si rischia di fare la fine dei Melii, sterminati perché non vollero prendere partito né per Sparta né per Atene all’epoca della guerra del Peloponneso.

        Ma a uno sguardo più lungimirante queste due culture appaiono – soprattutto nelle loro forme più conformiste e meno creative – come due facce di una stessa medaglia, tra loro segretamente solidali. E questa medaglia ha due facce proprio perché, a differenza degli Antichi, non vuole riconoscere la complementarietà (e forse segreta identità) tra Estia ed Ermes. Ovvero: ambedue le culture sono fondate per un verso e infondate per un altro. La loro differenza consiste nel fatto che Estia ed Ermes, il fondamento e la differenza, occupano momenti e luoghi diversi.

        La cultura post-moderna si presenta come una sfida ermetica a un mondo controllato e governato dalla razionalità scientifica: all’esclusività del metodo scientifico oppone il gusto per “la differenza assoluta”. Ma essa può farlo perché da qualche parte ha assicurata, presupposta, la propria casa: quella che possiamo chiamare la koiné condivisa incarnata filosoficamente dalla Trimurti Moderna, la trinità fondante: Marx, Nietzsche, Freud. In questi tre pensieri “critici” l’ermetismo post-moderno trova l’equivalente dell’Assoluto: essi fondano la Speranza rivoluzionaria in un mondo finalmente giusto, nel Super-Uomo che rompe ogni convenzione estetica ed etica, in un’autenticità soggettiva finalmente raggiunta. Queste tre Buone Novelle sfuggono di fatto a ogni critica, perché sono il presupposto di ogni critica – garantiscono stabilità al villaggio trasversale dei post-moderni. Possiamo dire che l’Estia fondata per questa cultura non è mai posta ma presupposta.

        Quanto al razionalismo scientifico (positivista, analitico, popperiano) esso presuppone un nichilismo in apparenza più radicale del pensiero post-moderno: esso parte dalla convinzione che nulla è certo, nulla è verificabile, nulla è assoluto (tranne la velocità della luce nel vuoto). L’Estia metodologica rinvia quindi a un ermetismo ontico di fondo: l’essere si riduce al calcolabile, al prevedibile, al dimostrabile. Per questa cultura Ermes sfondante non è mai posto ma presupposto.

        Ed è impossibile che sia altrimenti, perché appunto Estia ed Ermes, fondamento e differenza, stabilità e mutamento, non sono essi stessi concetti assoluti ma tra loro relativi: non è possibile tematizzare la differenza senza presupporre da qualche parte una stabilità fondante, e viceversa. Si tratta di due poli, ma un polo esiste appunto perché esiste necessariamente anche l’altro. Il divenire differenziante fa evento solo nella misura in cui si staglia a partire da una identità e appartenenza previe: queste certo sono provvisorie, non assolute, ma presuppongono il divenire. All’inverso, l’appartenenza alla Casa stabile è concepibile solo per opposizione a un mondo esterno che ci trascina fuori di casa, che ci porta fuori di noi stessi, che ci fa diversi da quello che siamo. Si apre quindi una dialettica circolare del fondamento e della differenza, del focolare e dell’angelo, che la nostra cultura – a differenza di quella degli Antichi – fa molta fatica a vedere.

 

Sergio Benvenuto

 

 



[1] Geertz, The Interpretation of Cultures, Basic Books, New York 1973, pp. 28-9. La stessa storia era già stata raccontata da Mary Shelley nel suo Dr. Frankenstein.

 

[2] p. 1014 dell'edizione di Hermann Diels = Phys. Z 9, 239b 9. La questione è trattata da Imre Toth ne I paradossi di Zenone nel Parmenide di Platone, Napoli, L'officina tipografica, 1994, p. 39. Ringrazio Raffaella Ariola e Francesco Fanelli per le informazioni che mi hanno concesso sul termine “tartaruga”.

 

[3] L’italiano tartaruga viene infatti da tartarùko, che significa “governatore del tartaro” ovvero dell’Inferno.

 

[4] L’allegoria di Achille e la Tartaruga è stata riattualizzata dal logico Lewis Carroll – l’autore di Alice in Wonderland – per mostrare l’impossibilità di fondare l’inferenza logica in una qualche definizione esplicita. L. Carroll, “What the Tortoise Said to Achilles”, Complete Works, Nonesuch Press, London 1995; on-line edition in Complete Works, "The Hunting of the Snark", ed e' pubblicato on-line: www.boottlegbooks.com/fiction/Carroll/CompleteWorks. Cfr. P. Winch, Il concetto di scienza sociale e le sue relazioni con la filosofia, Il Saggiatore, Milano 1972, pp. 72-74.

 

[5] Ma per i filosofi antichi non era il dio a garantire il suolo dell’universo, loro piuttosto chiamarono dio questo necessario suolo dell’universo – differenza sottile ma, appunto, fondamentale tra filosofia e religione.

 

[6] Fall in  tedesco significa caso, faccenda; ma anche caduta, decadenza, declino; eventualità, caso clinico, cascata, caso giudiziario.

 

[7] La posizione di Wittgenstein nel Tractatus Logico-Philosophicus viene qualificata di “atomismo logico”, per distinguerla dall’atomismo fisico. Ovvero, il pensiero del primo Wittgenstein può essere considerato una versione moderna – logico-linguistica – dell’antico atomismo.

 

[8] Questo termine è preso difatti da uno che appare nei Finnegans Wake di Joyce. Un termine privo di significato, corruzione di quarts.

 

[9] Per gli antichi atomisti, la complessità del mondo è effetto del clinamen, ovvero del fatto che gli atomi “cadono” in tutte le direzioni. E’ quest’inclinazione delle traiettorie a rendere possibile quei cozzi di cui il mondo come lo conosciamo è la risultante.

 

[10] Da nostos, ritorno, e algia, dolore: dolore per voler tornare.

 

[11] Anche la psicoanalisi vede la vicissitudine psichica umana come effetto di oblio e/o di violenza: rimozione e/o seduzione traumatica. La teoria freudiana è più vicina alla Fisica di Aristotele che alla psicologia cognitiva moderna.

 

[12]Cfr. M. Vegetti, "Akropolis/Hestia. Sul senso di una metafora aristotelica" in Aut aut, n. 22021, 1987.

 

[13]I, 1112.

[14]J.-P. Vernant, "HestiaHermes. Sull'espressione religiosa dello spazio e del movimento presso i Greci" in Mito e pensiero presso i Greci, pp. 147200, Torino 1978, p. 149.

 

[15]XXIV. 3345.

[16]Ibid., p. 150.

[17]Platone, Cratilo, 401 c-e.

[18]M. Untersteiner, Parmenide. Testimonianze e frammenti, 1958; cfr. in particolare Proemio del Perì Fuseos, e Frammento 8.

 

[19]Eraclito, fr. 16.

[20]Eraclito, fr. 4.

[21]Platone, Repubblica, VII, 514 a517 a, 7.

[22] Del resto Ermes era una divinità itifallica, quindi tesa da Eros. La sua statua, eretta a custode dei trivi di Atene, mostrava il suo pene eretto. Ermes significava il desiderio sessuale in quanto sempre pronto ad agganciare l'altro, a ri-produrre prole.

 

[23]Sul rapporto e sulla differenza tra Eros e Agape, cfr. A. Nygren, Eros e Agapé, Edizioni Dehoniane, Bologna 1980.

 

[24]Sul tema del Cristianesimo come kenosis, cioè come abbassamento - o indebolimento - della divinità, cfr. G. Vattimo, Oltre l'interpretazione, Roma-Bari 1994, cap. IV, "Religione".

 

[25]Cfr. a questo proposito: A. Koyré, Dal mondo chiuso all'universo infinito, Feltrinelli, Milano 1984.

 

[26]W. Hegel, Werke (in zwanzig Bänden), V, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M. 1971, p. 172.

[27]Così parlò Zarathustra, "Del convalescente"; tr.it. p. 245.

 

[28] J.-P. Vernant, op.cit. 

 

[29]Fetonte, fr. 781, 55 Nauck.

 

[30]Vernant, cit., p. 198.

 

[31]Cratilo, 401 c-e.

 

[32]Vernant, cit., p. 200.

 

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