Flussi di Sergio Benvenuto

IL FILOSOFO NEL GIARDINO DELLE SCIENZE COGNITIVE19/mar/2021


Sergio Benvenuto

 

IL  FILOSOFO  NEL  GIARDINO  DELLE  SCIENZE  COGNITIVE[1]

 

A proposito del libro di Diego Marconi, Filosofia e scienza cognitiva (Laterza, Bari-Roma 2001)

 

1.

Questo agile libretto di Diego Marconi non cade nella pedanteria compilativa, che caratterizza certi digests delle questioni oggi chiamate Philosophy of Mind, proprio perché è una rassegna angolata – non “obiettiva”, per fortuna, ma soggettiva. Marconi mette a fuoco le questioni filosofiche più importanti connesse alle scienze cognitive perché per lui - e non solo per lui – queste scienze si identificano grosso modo con l’approccio post-chomskyano: vale a dire con una concezione funzionalista, oggettivista e computazionale. Questa sua opzione spiega alcune importanti esclusioni dalla sua rassegna: dei lavori di Aleksandr Luria, Lev S. Vygotskij, Gerald Edelman, Mark Johnson, George Lakoff, Humberto Maturana, Francisco Varela, Ronald Langacker, Alan Gauld, Benny Shanon, Claes von Hofsten, della “memetica” di Dawkins, ecc. Vengono cioè sacrificati molti contributi delle neuroscienze, i filoni che si rifanno alle teorie della complessità e dei sistemi, e in genere la riflessione che va in senso anti-mentalista.

Queste esclusioni si spiegano in parte con il fatto che il concetto di scienze cognitive risente di un’ambiguità che assomiglia molto alle ambiguità concettuali studiate proprio – in modo sofisticato - dalle scienze cognitive. Lo stesso Marconi illustra le ricerche che puntano a dimostrare l’inutilizzabilità dei concetti classici di categorizzazione (criteri individualmente necessari e congiuntamente sufficienti[2]), e che ad essi sostituiscono, come più pertinente, il modello dei prototipi e la tesi wittgensteiniana delle “somiglianze di famiglia”. Ad esempio, il concetto di “Vienna” nel nostro reale scambio linguistico è qualcosa di fluido e indeterminato: dipende da vari prototipi, che variano al limite da persona a persona. Per me Vienna è prototipicamente la capitale dell’Austria, per te è la città di Wittgenstein, per altri è dove si trova il Kunsthistorische Museum, per un altro ancora la città dove abita la zia Charlotte. Può accadere addirittura che due elementi - in questo caso, due diverse immagini mentali di Vienna - possano non avere alcuna caratteristica in comune (a parte il suono “Vienna”). I logici dicono che “Vienna” – come qualsiasi altro concetto non logico-matematico - è un insieme polimorfo. Ora, questa ambiguità – dovuta alla diversità dei prototipi – riguarda anche il concetto “scienze cognitive”. Per alcuni si tratta di tutte le ricerche che cercano di dire qualcosa di razionale sul funzionamento delle menti (e che quindi comprendono teorie francamente anti-cognitiviste), per altri – per Marconi stesso, sembra – le scienze cognitive sono pensate attraverso il prototipo del funzionalismo computazionale. Morale: l’attuale dibattito nelle e attorno alle scienze cognitive può essere evocato come una confutazione de facto della teoria cognitiva secondo cui la categorizzazione non-classica (teoria dei prototipi) sarebbe valida solo per il linguaggio comune, mentre il discorso scientifico seguirebbe la categorizzazione classica. Torneremo su questo punto.

         Nell’ultimo capitolo – intitolato programmaticamente “Il ritorno della natura umana” - Marconi pare aprire fino in fondo il suo cuore filosofico. Assume che il dibattito sulla mente umana si è focalizzato in due approcci alternativi: chiamerò uno universalismo oggettivista (abbracciato dal funzionalismo cognitivo) e l’altro relativismo culturalista. E’ evidente che Diego Marconi tifa per l’universalismo oggettivista, ma egli ci riporta ugualmente argomenti dei relativisti culturalisti. Lui stesso pare ogni tanto oscillare: dà l’impressione di essere un convertito al funzionalismo oggettivista (essendo Marconi un autorevole studioso di Wittgenstein, come non pensare che il suo aderire al funzionalismo oggettivista sia una conversione?) scosso però da certi argomenti del relativismo.

 

2.

         Marconi rileva che il cognitivismo – soprattutto attraverso la linguistica chomskyana – ha reagito contro lo storicismo e il culturalismo (ripresi poi dall’approccio detto post-moderno), sottolineando invece il carattere universale della mente umana, e quindi l’unità dei sistemi simbolici in quanto esprimono un’unica capacità o facoltà umana. Fodor ha detto chiaramente che tutti gli esseri umani parlano una sola vera lingua, il mentalese; le singole lingue non fanno altro che fornire l’”hardware” di suoni e preferenze grammaticali diverse a questo software unico. “La scienza cognitiva ha agito in senso universalistico e antirelativistico - scrive Marconi (p. 80) - contribuendo a rivalutare un concetto – quello di natura umana – che ancora alla fine degli anni Sessanta veniva dato per definitivamente screditato”.

         Marconi elegge come paradigma del relativismo moderno l’opera di Michel Foucault – avrebbe potuto prendere anche altri autori, ma certo Foucault è tra i più popolari.  Sicuramente molte forme di relativismo culturalista derivano da una visione romantica che mette al centro la libertà umana: ovvero, l’enorme libertà di cui godrebbero le culture nel dare forma al mondo e ordine e senso alle vite umane. Contro questa credenza nell’autonomia di ciò che Hegel aveva chiamato Spirito Oggettivo - e che oggi si chiama piuttosto: culture, sistemi o strutture storico-sociali -, Marconi riafferma gli universali cognitivi, vale a dire, certe capacità mentali innate di tutti i membri della specie homo sapiens.

Anch’io, come Marconi, penso che la questione dell’assolutezza (più che universalità)[3] e della differenza sia il punto filosofico centrale sollevato dalle scienze cognitive. Si prenda il dibattito sulle theory-laden observations: alcuni storici della scienza affermano che non si dà osservazione di fatti del tutto indipendenti dalla teoria di riferimento dell’osservatore, che un “fatto” (come dice l’etimologia del termine) è qualcosa appunto di fatto, di costruito, da un paradigma teorico. Dietro una questione classicamente gnoseologica, di fatto è in gioco la questione dell’assolutezza e quindi universalità, o meno, delle osservazioni: il tipo di osservazioni che noi possiamo effettuare sono uniche, oppure possono essere variabili a seconda la teoria e metodologia che seguiamo?

         Le ricerche empiriche nelle scienze cognitive – e in altri campi limitrofi – confortano un approccio universalista e oggettivista o uno relativista culturalista? Dove schierarsi? Ora, credo che possiamo sfuggire a questo dilemma: che una risposta forse può essere trovata cambiando la domanda.

         Mi pare difatti che vada emergendo una nuova concezione, che definirei relativista naturalista. O meglio, dato che il termine “relativismo” gode di pessima fama come tara di irrazionalismo e cinismo morale, lo definirei piuttosto un differenzialismo naturalista. Quest’ultimo filone è sorto all’interno delle stesse scienze cognitive, in particolare nelle neuroscienze - non può essere insomma tacciato di essere una teoria romantica, come il relativismo culturalista, un’emanazione della storiografia, dell’antropologia culturale e della linguistica pre-chomskyana. In breve: non bisogna pensare che sia un naturalista solo chi invochi la natura umana – trascurando le variazioni storiche e culturali – mentre chi insiste sulle differenze sarebbe senza scampo un culturalista. Fiorisce un approccio naturalista che non assume la “natura umana” come eidos (essenza, forma-aspetto, specie, identità).

 

3.

         Per rispondere alla domanda sull’universalità o meno di certe facoltà umane – la domanda che a mio parere andrebbe cambiata - molti antropologi hanno fatto un po’ quello che fece Socrate, nel Menone di Platone, con uno schiavo ignorante, quando lo portò a dimostrare un teorema geometrico. Ad esempio, gli antropologi hanno cercato di indurre gli indigeni di qualche cultura primitiva a trarre delle inferenze sillogistiche, come “X è un uomo, tutti gli uomini sono mortali, dunque X è mortale”[4]. Di solito i suddetti antropologi ottengono dagli indigeni risposte del tipo “veramente non conosco X molto bene, non posso sapere davvero che sarà di lui, ecc.”, il che delude i sostenitori della logica come facoltà innata. Perché allora questi indigeni appaiono così stupidi, mentre bambini occidentali sono già in grado di trarre inferenze dalla forma sillogistica?

I sostenitori del relativismo culturalista si rifanno anche alle ricerche classiche di Luria[5]. Egli mise a confronto varie capacità cognitive di (1) uzbeki analfabeti, (2) uzbeki con un debole livello di cultura, e (3) uzbeki con un discreto livello culturale. La conclusione, da buon marxista sovietico, fu che “la struttura dell’attività cognitiva nelle singole fasi dello sviluppo storico non resta immutata, e che le forme più importanti dei processi cognitivi – la percezione e la generalizzazione, la deduzione e il ragionamento, l’immaginazione e l’analisi della propria vita interiore – hanno carattere storico e cambiano col mutare delle condizioni della vita sociale e con il possesso delle basi della conoscenza”[6]. Ma oggi un fodoriano direbbe che le conclusioni di Luria erano affrettate: l’uzbeko analfabeta, come chiunque, è profondamente capace delle operazioni logiche e semantiche più raffinate, anche se superficialmente questa capacità spesso non si manifesta. Non diversamente da chi parla cinese: anche questi usa la struttura logico-sintattica delle frasi, anche se questa struttura non si manifesta nella lingua cinese.

Eppure queste ricerche “differenzialiste” mostrano che ragionare, essere logici, saper trarre inferenze, valutare argomentazioni, ecc., sono anche tecniche che si apprendono, quindi sono strumenti culturali. Del resto, non c’è bisogno di andare fino in Uzbekistan o in Amazzonia per trovare esempi della carenza raziocinante degli esseri umani: ci troviamo spesso confrontati a deficienze logiche spettacolari tra i nostri concittadini, anche laureati. Costoro non sono addestrati a sufficienza alla tecnica argomentativa – e a molti, pur essendo addestrati, non gliene importa niente.

         E’ un errore credere nella teoria modulare di Fodor: che cioè quando argomentiamo logicamente non esprimiamo affatto i nostri desideri o impulsi; che quando descriviamo cose non argomentiamo; che se godiamo di un’opera artistica non pronunciamo giudizi morali né sviluppiamo argomentazioni logiche; che se percepiamo non valutiamo ciò che percepiamo, ecc. ecc. La teoria di Fodor è una generalizzazione della tesi di Chomsky, secondo cui la capacità linguistica è indipendente dalle altre attività cognitive[7]. La teoria modulare aderisce ad un paradigma secondo cui la nostra mente è divisa in tanti comportamenti-stagno – ragionare o esprimere o descrivere o percepire o godere, ecc. – che non interferiscono tra loro. Eppure la nostra esperienza quotidiana ci mostra che quando parliamo e agiamo molte attività mentali si intrecciano (anche se spesso non lo vogliamo ammettere). Nei termini di Wittgenstein: il nostro linguaggio esprime diverse forme di vita contemporaneamente, e non una alla volta. Facoltà e bisogni umani non si mettono quasi mai ordinatamente in fila, come sono abituati a fare i sudditi britannici; fanno piuttosto come a Napoli, si mescolano in una folla disordinata.

         Leggendo il libro di Marconi, aspettavo l’autobus al capolinea del 60 a Roma. In quel momento nessun autobus era presente; in genere, ne parte uno ogni dieci minuti. Una signora non molto anziana arriva trafelata e chiede ad un signore, anch’egli evidentemente in attesa dell’autobus: “Il 60 è già partito?” Il signore risponde distrattamente “Ma non è nemmeno arrivato!” Sensibilizzato da Marconi, fui colpito dall’assurdità di questo scambio di battute: è evidente che se non c’era nessun autobus, l’ultimo era già partito, nemmeno La Palisse lo avrebbe chiesto. Ma replicare “non è nemmeno arrivato” è non meno assurdo, come è facile capire. Inseguii la signora e trovai il modo di attaccare conversazione con lei per verificare se fosse già preda dell’Alzheimer: mi sembrò una donna ancora in gamba. Ogni giorno, in effetti, facciamo “ragionamenti” più o meno assurdi senza accorgercene, e alcune persone ne fanno più di altri. Ma come era accaduto che due “animali razionali” si fossero cimentati in quel duetto alla Ionesco? Il punto è che anche quando le nostre domande e risposte sembrano vertere su dati di fatto, non sono quasi mai sempre solo attorno a delle informazioni. In quel caso, la signora aveva espresso qualcosa di diverso da una richiesta di informazione: era un modo di esprimere la sua disdetta per non aver trovato l’autobus pronto. Il suo linguaggio evidentemente non era “modulare”[8].

         Occorre ricordare una delle più celebri argomentazioni del XXo secolo: l’Argomento del Linguaggio Privato di Wittgenstein[9]. Non entrerò nel lungo dibattito su questo straordinario tour de force logico-filosofico. Detto in breve, Wittgenstein pare rigettare l’idea stessa di “scienza del mentale” affermando che esprimiamo certo le nostre sensazioni private, ma in fondo non le possiamo veramente conoscere. Il cognitivismo classico si basa sull’idea che, quando diciamo “ho mal di denti”, stiamo descrivendo un oggetto particolare - in questo caso mentale - non diversamente da quando diciamo “sono seduto su una sedia”. La sedia sarebbe un oggetto materiale in relazione con me, e il mal di denti sarebbe un oggetto mentale in relazione con me. Il “sofisma” di Wittgenstein[10] mira a mostrare che, malgrado la loro forma superficiale denotativa, espressioni come “ho mal di denti” non sono di fatto denotazioni di oggetti; piuttosto esse hanno natura espressiva. Dire “ho mal di denti” in contesti normali è un modo linguistico di esprimere il mio mal di denti, non di descriverlo o denotarlo. Questo perché il linguaggio non serve solo a descrivere, rappresentare, denotare, informare, anche se adotta forme grammaticali denotative: serve a molte altre cose, e le funzioni espressive sono tra queste. Il punto è che gli usi linguistici bollono in un costante melting-pot – cosa che non va condannata, perché c’est la vie.

L’Argomento wittgensteiniano di solito viene invocato dai behavioristi: se non è possibile alcuna descrizione oggettiva degli stati mentali, la sola psicologia possibile è quella dei comportamenti pubblici, esterni. L’ascesa delle scienze cognitive, negli ultimi decenni, ha sancito di fatto il declino delle filosofie in odore di behaviorismo, come quella di Wittgenstein. (Non credo però che Wittgenstein fosse ostile alle scienze cognitive: la sua argomentazione era di carattere squisitamente filosofico. Dubito che Wittgenstein avesse l’intenzione di invalidare a priori delle ricerche scientifiche. Né credo che il suo Argomento si riducesse ad un sostegno epistemologico al behaviorismo. Ma non è questo il luogo per discuterne.)

         Tornando al nostro aneddoto curioso, possiamo dire che “l’autobus 60” tematizzato da quella signora non era lo stesso autobus di cui parlano i manager dell’ATAC (l’azienda tranviaria di Roma) quando devono stilare gli orari degli autobus; tra loro c’è solo una “somiglianza di famiglia”. Questo perché stilare orari di autobus e prendere un autobus sono giochi diversi. “Capire” quella signora – e non limitarsi a deriderla – significa capire che nel suo gioco, in quel contesto, “il 60” era l’autobus che la avrebbe portata presto a casa, perché magari doveva dar da mangiare al gatto (la sua domanda bizzarra sarebbe allora piuttosto un’esclamazione). Per nessun manager dell’ATAC il 60 è connesso estensionalmente al gatto della signora XY, ma per la signora XY “il 60” può essere una metonimia del suo gatto. Questo esempio ci porta al nocciolo della critica al funzionalismo oggettivista: quando parliamo e comunichiamo con gli altri, non tematizziamo necessariamente gli stessi “oggetti”. Innanzitutto perché col linguaggio facciamo cose diverse.

         Questo che diciamo per i ragionamenti vale anche per le nostre percezioni. Così come quando ragioniamo non facciamo delle pure inferenze formali, analogamente quando percepiamo non riflettiamo semplicemente le cose reali come fa una macchina fotografica. Buona parte della filosofia analitica non-cognitivista respinge l’idea che la percezione sia “innocente”, rispecchiamento oggettivo del mondo. Come diceva Kant, “l’occhio innocente è cieco e la mente vergine vuota”. Come è evidente in particolare dalla storia dell’arte, il nostro modo di percepire il mondo è sempre intriso delle nostre attese e credenze culturalmente determinate. Come scrive Goodman:

 

Non solo come, ma ciò che [l’occhio] vede è regolato da bisogni e presunzioni. Esso seleziona, respinge, organizza, discrimina, associa, classifica, analizza, costruisce. Non tanto rispecchia, quanto raccoglie ed elabora; e ciò che raccoglie ed elabora, esso non lo vede spoglio, come una serie di elementi senza attributi, ma come cose, cibo, gente, nemici, stelle, armi. Non si vede nulla schiettamente o nella sua schiettezza[11].

 

Come si vede, talvolta i logici sono anche più “relativisti” di Michel Foucault.

 

4.

Ora, la critica demolitiva di Wittgenstein nei confronti della “obiettivazione del mentale” – per dir così – è stata fatta propria da alcune ricerche cognitive, questa volta non per demolire ma forse per costruire. Queste ricerche - che chiamo qui differenzialismo naturalista – spesso si rifanno al darwinismo. Esse cercano di ripetere l’exploit che riuscì a Darwin nel campo delle scienze dell’evoluzione: l’abbandono di fatto del concetto di specie (cioè di un eidos naturale) per concentrarsi invece sulla dinamica delle differenze e delle selezioni in una popolazione. Per questo approccio darwinista e differenzialista non esiste veramente una “natura umana” proprio perché l’uomo è un essere naturale[12].

Come con Darwin si sfaldò il concetto di specie (concetto aristotelico passato alla biologia), oggi si tende a sfaldare un’idea equivalente nelle scienze cognitive: quella di categoria. Nelle scienze cognitive, come già in immunologia e in teorie dell’evoluzione, si affronterebbero due paradigmi rivali: l’istruzionista e il selezionista. La biologia di Buffon e Lamarck era istruzionista (credeva nella specie animale come eidos) ed è stata soppiantata dal selezionismo darwiniano, che eleva la differenza a proprietà prima degli esseri viventi. Mutatis mutandis, la teoria funzionalista ed oggettivista della cognizione è istruzionista – essa andrebbe soppiantata da una teoria selezionista. L’istruzionismo oggettivista suppone che il mondo sia strutturato in categorie definite, che consistono in entità, proprietà e relazioni tra queste: la mente umana sarebbe quindi lo specchio della struttura categoriale del proprio ambiente. Perciò di tutto sarebbe possibile dare una definizione secondo i criteri classici di categorizzazione, individualmente necessari e congiuntamente sufficienti. Marconi descrive questa concezione istruzionista come “la concezione comune”:

 

che la realtà si lasci naturalmente ritagliare in classi ben determinate e reciprocamente disgiunte di cose, animali, persone; che questa articolazione in classi sia intellettualmente dominabile; che dominarla sia disporre di regole mentali – i concetti – che determinano, per ciascun oggetto, se appartiene o no a una determinata classe. (p. 94)

 

Invece per le teorie selezioniste la nostra mente non rispecchia affatto il mondo. Abbiamo a che fare con una natura “senza etichette”, e le aggregazioni e ripartizioni degli oggetti cambiano a seconda della persona e del momento. Insomma, la nostra mente si misura con il Caos:

 

il mondo [...] non si può suddividere in categorie fisse ed immutabili, ossia in oggetti ed eventi caratterizzabili in termini di condizioni necessarie e sufficienti. Al contrario, il mondo è ambiguo ed interpretabile in modi diversi, a seconda delle caratteristiche e delle necessità adattative di ogni organismo. La categorizzazione percettiva e la generalizzazione sono perciò relative ad un dato organismo e ad un dato ambiente, e hanno luogo tramite un processo di variazione e selezione. Analogamente al ruolo della selezione naturale, la variazione nel sistema nervoso non va concepita come una deviazione irrilevante o erronea rispetto ad una categoria tipica, ma costituisce la base per la formazione, tramite la selezione neurale, delle categorie[13].

 

Questo paradigma darwiniano – che chiamo differenzialista - applicato alla mente, respinge quindi l’idea secondo cui il cervello funzionerebbe come una macchina di Turing[14]. Secondo il funzionalismo, il cervello sarebbe una sorta di hardware che si limiterebbe a far “girare” un software costituito da codici e regole precise (in sostanza, da algoritmi), le quali verrebbero utilizzate per rappresentare e manipolare categorie univoche, in qualche modo predefinite. Tutto quel che devia da queste categorie univoche va considerato rumore di fondo, che un buon cervello-computer deve ridurre al minimo. Secondo questa teoria funzionalista e istruttivista, non è il cervello che pensa ma noi pensiamo con il cervello: si dà il caso che sia proprio la macchina-cervello a farci da hardware, ma una qualsiasi ferraglia sarebbe andata altrettanto bene.

Secondo il differenzialismo, invece, il cervello e la mente non hanno nulla a che vedere con una macchina di Turing: la mente è piuttosto un processo vivente sempre mutevole, come mutevole è ogni popolazione biologica. La mente sarebbe quindi più che un’unità una popolazione – di neuroni, concetti, processi, rappresentazioni. Il mondo con cui la mente si confronta non è definibile a priori - non è rappresentabile in un algoritmo - ma è imprevedibile e ambiguo. E la differenza che poi andrà selezionata è la condizione di ogni categorizzazione, la quale prevale in quanto si adegua meglio all’esperienza peculiare dell’individuo.

Quindi, sarebbe ora di abbandonare la metafora informativa che ha prevalso, in molte scienze, in questi ultimi decenni. Per molto tempo, l’organismo è stato rappresentato come un sistema di scambi di informazioni; il che era coerente con la concezione istruzionista prevalente (ripresa oggi dalla concezione genetica dominante). Secondo il neo-darwinismo, invece, i segnali sensoriali di cui dispone il sistema nervoso non sono digitali ma analogici, sono ambigui, e in numero non finito; e le transizioni tra stati nel cervello umano sono ampiamente indeterminate. Quindi, più che “informati” noi siamo “selezionati” dal mondo: alcune nostre disposizioni a pensare sono rinforzate e premiate dal mondo esterno (nel quale fanno la parte del leone i nostri simili), altre invece sono lasciate cadere. La biologia torna a modelli biologici, dopo aver coltivato a lungo modelli cibernetici[15]. Avanza di nuovo la figura tragica della lotta per la sopravvivenza e la riproduzione.

 

5.

Sarebbe ingenuo credere che ci si decida a respingere la teoria classica dei concetti oppure ad accettarla sulla base delle evidenze sperimentali fino ad oggi disponibili. Tutti sappiamo che in pratica è vero il contrario: di solito si fa ricerca sperimentale proprio perché si è convinti di una certa metafisica - per misteriose ragioni che vanno aldilà della pura argomentazione razionale. Ora, che cosa non convince alcuni (me incluso) della metafisica universalista oggettivista? Non ci convince la concezione della mente umana come specchio, in ultima istanza fedele, del mondo – e tanto meno l’idea che questo specchio sia necessariamente identico per ogni essere umano, di qualsiasi epoca e latitudine. Questa metafisica eredita il vecchio ideale greco della theoria come contemplazione disinteressata: ignora che percepire, ragionare, conoscere sono attività della vita animale, intrecciate quindi ai bisogni e desideri del vivente[16]. Chi propende al differenzialismo trova più persuasiva la metafisica secondo cui la nostra rappresentazione del mondo – che cambia storicamente, anche grazie alla scienza – è parte della nostra abitazione del mondo. Quindi, la nostra stessa percezione – come notava Goodman citato più sopra – non è passiva registrazione di dati ma esplorazione attiva e tendenziosa del mondo nel quale ci muoviamo.

Da migliaia di anni, gli uomini hanno elaborato il concetto di “acqua” - magari con differenze interessanti da cultura a cultura. Poi è venuta la chimica che ha deciso che l’acqua vera e propria è H2O - anche se di fatto quel che chiamiamo comunemente acqua contiene vari sali, minerali, ecc., e varia quindi da zona a zona.  Come Eraclito, potremmo dire che non troviamo mai due acque chimicamente eguali – chi ha palato buono lo sa bene. Se oggi crediamo che la vera acqua è quella della chimica è perché la nostra attuale abitazione del mondo dà un posto di rilievo al “gioco della chimica”, questo gode nella nostra epoca di un’autorevolezza particolare. In un’epoca in cui il gioco autorevole era quello religioso, invece, la differenza fondamentale era sapere se una vasca contenesse acqua benedetta oppure no. Insomma, non è cambiato solo il nostro sapere: è cambiato il nostro modo di vivere, dominato oggi dalla scienza e non (più tanto) dalla religione.

Ma allora, aderisco al relativismo storicista? No, perché credo che, aldilà dell’acqua dei teologi come di quella dei chimici, c’è qualcosa di reale che chiamiamo acqua o altrimenti. E’ la cosa in sé kantiana? Forse. L’illusione dei filosofi detti “realisti” comunque è pensare che l’epistemologia di una data epoca colga il reale autentico – anche se ogni epoca è come magnetizzata da questo reale; ma si lascia magnetizzare in modo diverso.

Nella tradizione classica, conoscere è avere delle rappresentazioni delle cose adeguate alle cose stesse - la verità è adaequatio rei et intellectus; l’ideale conoscitivo è essere uno specchio fedele del mondo. Ora, il nuovo differenzialismo sostituisce alla metafora-chiave dello specchio un’altra metafora, quella della popolazione che sopravvive e si riproduce. La nostra conoscenza più che rispecchiare le cose vi abita, come un animale abita la sua nicchia ecologica. Gli organismi animali che vivono in una giungla sono anche una forma di conoscenza di alberi, temperatura, foglie, serpenti, piogge, ecc., che costituiscono il loro ambiente. Nella metafisica naturalista non solo il nostro sapere è parte della nostra vita, la vita stessa è una forma di sapere. Ora, il differenzialista darwiniano pensa che le forme della vita abbiano sempre origine da differenze casuali, e quelle selezionate dall’ambiente vivono in questo ambiente[17]. Così, il nostro sapere e la nostra cultura sono ciò che, tra tante idee, è riuscito a riprodursi, sia nel nostro cervello che in quello degli altri.

 

6.

         Contro la teoria classica della categorizzazione (alla base delle teorie funzionaliste, oggettiviste, istruzioniste), i “differenzialisti” ricorrono al concetto di Wittgenstein di “somiglianze di famiglia”[18] – che peraltro Marconi riassume in modo egregio nel suo libretto. Secondo questa impostazione, certe categorie possono avere gradi di appartenenza ma non confini netti. Inoltre certe categorie possono avere elementi che sono più prototipici di altri: quando parliamo di satelliti, il nostro prototipo è la luna (difatti parliamo di “lune di Giove”) - quando in Italia parliamo di religioni, i nostri prototipi sono il giudaismo e il cristianesimo. Ma questo non vuol dire che tutte quelle che siamo disposti a chiamare religioni assomiglino al giudaismo e al cristianesimo (difatti siamo incerti se chiamare certe cose “religioni”: ad esempio il confucianesimo o il buddhismo zen). La conoscenza degli elementi di una categoria si struttura spesso attorno ad una categoria di base, cioè attorno ad elementi che si ricordano e si immaginano con più facilità. Si è constatato, per esempio, che per la gente “cavallo” è una categoria di base, ma non “quadrupede”[19].

         Abbiamo visto che il modello funzionalista oggettivista presuppone che il nostro linguaggio è correlato al reale attraverso definizioni complete ed esaustive: ci capiamo quando usiamo il termine “Vienna” perché condivideremmo una certa definizione di che cosa sia la città di Vienna, ad esempio “la capitale dell’Austria e la città di Wittgenstein”. Ma si tratta di una condizione che opera solo in contesti speciali come quelli matematici o logici: nella realtà, condividiamo ben poche definizioni, e non usiamo categorie le cui condizioni siano individualmente necessarie e congiuntamente sufficienti. Di fatto, ogni volta che parliamo con gli altri – anche con colleghi – brancoliamo nel buio: attraverso milioni di fraintendimenti, solo nel confronto prolungato possiamo riuscire (se ci va bene) a stabilire punti fermi tra noi. Il significato dei concetti è il risultato di un’illimitata negoziazione tra noi parlanti; i significati sono più simili ai prezzi determinati dal mercato che alle definizioni aristoteliche (i prezzi variano, le definizioni aristoteliche no).

Del resto ci sono molti concetti che è impossibile definire – ad esempio i colori. Come definire “rosso” ad esempio? Nessuna definizione, per quanto rigorosa - ad esempio, evocando le linee dello spettro solare -, del rosso ne darà mai il senso ad un cieco dalla nascita. Quando dico “adoro il rosso di quel quadro di Renoir”, suppongo che per l’altro il senso della mia frase consista nel fatto che anche lui può percepire quel rosso e rimanerne impressionato – non perché condivide con me una definizione formale (ammesso che esista) di rosso. Assumiamo che i nostri simili – e anche certi animali – sentano come noi; anche se, di tanto in tanto, dobbiamo ricrederci. Sentire e percepire aprono quell’orizzonte che chiamiamo significato. E non a caso, del resto, in molte lingue per senso intendiamo sia i sensi della percezione, sia i significati concettuali.

In effetti, secondo questo naturalismo differenzialista noi siamo menti non perché manipoliamo simboli come un computer, ma perché siamo corpi sensibili che vedono colori e distinguono suoni - e ogni nostra sensazione è peculiare. In altre parole, il nostro pensiero è sempre incorporato: è il nostro corpo senziente a dare significato ai nostri pensieri. Il significato nasce quindi dalla nostra concreta interazione con gli altri e le cose, vale a dire con una serie potenzialmente infinita di eventi senza limiti precisi. Ogni significato - di “rosso”, “quadrupede”, “Vienna”, ecc. - non può prescindere dal nostro corpo vivente e dalla sua storia.

Comunque, le rappresentazioni mentali di Vienna o del rosso di tutti noi si intersecano in vari modi, e tra tutte queste rappresentazioni possiamo cogliere somiglianze di famiglia. Due persone che parlano di “Vienna” e che hanno immagini completamente diverse della città possono intendersi perché queste immagini si riferiscono ad un orizzonte di esperienze possibili, la Vienna reale, da cui possono attingere esperienze “attuali” nel futuro. Se si danno appuntamento un giorno alla Südbanhof di Vienna ad una certa ora, è probabile che si incontrino. Quando comunichiamo, quel che conta non è che i nostri concetti collimino: conta che con-viviamo in una stessa realtà concreta, in modo che i nostri concetti da qualche parte ci aiutino ad incontrarci.

 

7.

         Già la filosofia analitica, sin dagli anni 60, era giunta ad una revisione importante dell’idea dei concetti come definizioni. La “teoria causale del riferimento” di Putnam e Kripke aveva già confutato l’idea che quando diciamo “Vienna” ci intendiamo in forza di una definizione di questo nome. Diciamo “Vienna” – dicono Putnam e Kripke - perché di fatto abbiamo messo un cartellino o etichetta sulla città reale, fissando così un referente. Come quando si mette l’etichetta “Brunello di Montalcino” su una bottiglia di vino. In verità, quando parlo di questa teoria con intellettuali non addetti ai lavori della filosofia analitica, questi mi dicono che trovano questa tesi alquanto stupida: appare allo stesso tempo ovvia e superficiale. Ma bisogna vedere questa teoria all’interno della storia della filosofia logica.

Per l’empirismo classico, potevamo parlare in modo sensato di Vienna solo quando implicitamente la definivamo, ad esempio come “La capitale dell’Austria”. Per l’empirismo, insomma, dobbiamo sapere necessariamente ciò di cui stiamo parlando (fosse il cielo!). Per un empirista, esiste in fondo solo ciò che sappiamo o che possiamo sapere. E’ una coincidenza presa in giro dal Dr Johnson, il quale disse al vescovo Berkeley, quando questi voleva congedarsi dal suo salotto: “E’ meglio che lei resti qui tra noi; altrimenti, non essendo percepito da nessuno, rischia di non esistere più!”

La teoria detta “realista” di Putnam e Kripke - la scriveremo da ora PK - dice invece chiaramente che nominare non significa affatto che sappiamo molto della cosa nominata. Etichettare qualcosa come “Vienna” non significa che io sappia quanti abitanti ha, che lingua vi si parla, chi ne è il sindaco, ecc. Il resto va scoperto, per così dire. Parlare significa, etichettando le cose, aprirsi al mondo, il che non significa ancora conoscerlo. PK sconnette quindi il sapere dall’essere. Con il nome “Vienna” ci riferiamo ad una città realmente esistente (dimensione metafisica) anche se le mie immagini di Vienna possono essere molto diverse da quelle di un altro (dimensione epistemologica). Gli esseri umani hanno designato qualcosa come “acqua” (metafisica) e solo dopo hanno scoperto che è H2O (epistemologia)[20].

         Anche se questa concezione rappresenta un progresso rispetto alla concezione classica del riferimento, essa va comunque incontro ad obiezioni serie. PK dà per scontato che quando etichettiamo qualcosa come “Vienna” esiste appunto un qualcosa chiamato Vienna[21]. Se diciamo “nel 1683 i turchi stavano per giungere a Vienna”, la Vienna a cui ci riferiamo è la stessa di quella di oggi? Eppure nel 1683 non c’era quasi nulla della Vienna di oggi: pochi palazzi che allora esistevano esistono ancor oggi, sono cambiati il regime politico, vi vivono individui del tutto diversi, persino la lingua tedesca di allora è cambiata, insomma sono cambiate moltissime cose. In breve: è vero che ci riferiamo sempre alla Vienna reale (è la parte metafisica del nostro linguaggio) ma di fatto comunichiamo attraverso le nostre epistemologie di Vienna, vale a dire sempre e solo attraverso le nostre rappresentazioni di essa; è la nostra epistemologia che ci fa identificare la Vienna del 1683 con quella del 2002, non qualcosa di reale. La Vienna-in-sé nel commercio umano resta sempre sullo sfondo, non viene mai ultimativamente determinata. In altre parole, qualsiasi riferimento metafisico può essere messo in discussione dall’epistemologia.

         Ma se PK non convince nel descrivere il nostro nominare enti singoli come Vienna, ancor più essa fa acqua (è proprio il caso di dirlo) quando pretende di descrivere il nostro nominare classi o categorie come “acqua”. Secondo PK certe proprietà sono necessarie anche se sono a posteriori. Ad esempio, il fatto che l’acqua sia composta di due atomi di idrogeno ed uno di ossigeno è una verità a posteriori – frutto cioè di ricerche scientifiche – eppure necessaria. In effetti, se ad un certo punto la chimica scoprisse che si era sbagliata, che molta „acqua“ ha una composizione chimica diversa, allora – dicono i „realisti“ – non si tratterebbe più di acqua. Ma nulla ci assicura che le cose andrebbero così: la gente potrebbe continuare benissimo a chiamare „acqua“ questo composto chimico diverso da H2O. PK fa passare come una conseguenza necessaria una sua decisione ontologica: „non chiameremo mai acqua qualcosa che, pur avendo tutte le caratteristiche dell’acqua nel senso comune, non abbia la composizione chimica oggi nota“. Grazie a questa decisione quasi politica, PK cerca di far apparire l’epistemologia scientifica come qualcosa di necessario, mentre non lo è mai.

Insomma, la distinzione tra epistemologia e metafisica è giusta, ma non è accettabile l’idea di PK secondo cui solo la scienza moderna conoscerebbe il vero significato metafisico dei concetti (per cui l’acqua è necessariamente composta di idrogeno ed ossigeno) – in questo modo la distinzione viene di fatto ridotta a differenza tra epistemologia comune ed epistemologia scientifica. Alla base c’è l’idea secondo cui solo la scienza sarebbe in grado di determinare le reali suddivisioni del mondo – ma le suddivisioni sono qualcosa di epistemologico, non qualcosa di metafisico. Ovvero, le cose sono metafisiche, ma non le loro distinzioni. Siamo sempre noi a distinguere: altrimenti non potremmo vivere. Certamente il modo in cui la scienza suddivide oggi il mondo è quello pragmaticamente più utile e conveniente – la scienza funziona – ma questo non implica affatto che essa ci abbia detto assolutamente la vera essenza dell’acqua, ad esempio. Questo significherebbe negare che il sapere scientifico possa avere un’evoluzione, e passare per delle rivoluzioni. Del resto nulla ci garantisce, tra l’altro, che la struttura reale delle cose debba per forza restare stabile nel corso del tempo; pensare che le leggi naturali siano eterne è una regola del gioco della scienza moderna, non qualcosa di empiricamente verificato.

 

8.

         L’impostazione differenzialista – che deve al darwinismo, a Wittgenstein e ad alcune moderne filosofie della scienza e della mente (Kuhn, Hanson, Searle, ecc.) – non significa un ritorno puro e semplice al relativismo culturalista romantico, di cui “il maledetto Foucault” sarebbe il prototipo.

In effetti, la linguistica computazionale ha avuto buon gioco nel mostrare quanto fossero insostenibili e spesso ridicole le pretese del relativismo culturale di evidenziare l’abissale differenza tra lingue e culture. Il caso più citato è quello della “neve” per gli eschimesi: per decenni i linguisti dicevano che nella lingua inuit ci sono tantissimi nomi per vari tipi di neve e nessun termine per indicare il concetto generale “neve”. Ma era una leggenda: i vari dialetti eschimesi hanno anche un termine unico per “neve”[22]. L’argomento relativista non consisteva nel sottolineare la grande varietà di termini eschimesi per neve – cosa alquanto ovvia – ma nel sottolineare l’assenza di un termine per noi generale. Questo per convalidare l’assunto di Ferdinand de Saussure, secondo il quale ogni lingua - e in generale ogni cultura - è come una griglia, di volta in volta diversa, che dà forma e significato al reale amorfo. Ogni lingua e cultura darebbe forma – in modo arbitraire – a questo magma, darebbe ordine al disordine radicale delle cose. L’universalismo oggettivista, al contrario, porta prove per mostrare come di fatto ogni linguaggio e cultura esibisca differenze solo superficiali rispetto ad ogni altro linguaggio o cultura: in profondità, ogni lingua e cultura sono la stessa cosa.

         Eppure, bisogna diffidare di ciò che appare universale aldilà delle lingue, come ad esempio il concetto di cavallo. Il fatto che ci sia un’ampia, quasi-totale, convergenza tra lingue nel categorizzare certi quadrupedi come cavalli non implica ipso facto che quella categorizzazione sia necessaria: basterà trovare un solo esempio discorde in tutto il mondo, e già l’idea di un’universalità necessaria crolla.

Ad esempio, è vero che quasi tutte le culture umane riconoscono un legame di parentela (“di sangue”) tra padre e figlio, e ancor più ovviamente tra madre e figlio. Ovvero, le varie divisioni culturali che costituiscono i sistemi di parentela paiono riflettere le divisioni biologiche - il fatto che una certa persona abbia dato lo sperma e un’altra l’ovulo per generare un bebé. Eppure c’è almeno una cultura in cui il legame tra padre e figli non è riconosciuto: gli abitanti delle isole Trobriand, descritti da Malinowski[23]. E c’è almeno una cultura in cui addirittura il legame tra madre e figlio non viene riconosciuto, quella dei Lacker, che abitano sulle colline Mizoram dell’India: per questi eccentrici indiani, la madre è solo la moglie del padre[24]; per la loro la madre è quel che noi chiamiamo oggi “utero in affitto”. Ora, dal punto di vista filosofico le eccezioni sono non meno importanti delle convergenze generalizzanti: esse sono la prova che la quasi-universalità non è necessaria ma contingente.

In quasi tutte le culture si è portati ad interpretare i singoli cavalli come membri di una classe o eidos comune, “cavallo”, perché questa interpretazione risulta la più comoda e conveniente – ma non per questo è obbligatoria. In quasi tutte le culture si dà un riconoscimento giuridico e simbolico al legame biologico tra genitori e figli: è l’interpretazione più verosimile, ma non inevitabile. E’ altamente probabile – ma non certo - che le varie lingue finiscano col categorizzare la maggior parte delle cose in modo simile. Ciò che si è chiamato natura umana non è altro, nei migliori dei casi, che un’alta probabilità di somiglianza tra attività umane – e nei peggiori, la generalizzazione etnocentrica della propria particolare visione del mondo. Anche se in casi rari, infatti, la categorizzazione risulta diversa. Ed è (mi si lasci dire) una fortuna che sia così: ciò rende possibile l’evoluzione storica, vale a dire il cambiamento delle nostre categorie. Il progresso scientifico è di fatto un mutamento di categorizzazione rispetto al linguaggio originario. Non basta dire che la chimica ha rivelato che ciò che chiamavamo acqua è H2O: allo stesso tempo, la chimica ci prescrive di chiamare acqua solo H2O. La scienza non si limita a dare nuove proprietà a certe categorie previe: spesso cambia la categorizzazione stessa. La scienza non descrive solo, prescrive: ha uno spessore etico-politico.

         Si prenda un esempio hot: l’interpretazione delle donne come “sesso inferiore all’uomo”. Di fatto, quasi tutte le culture a noi note, quale più quale meno, hanno creduto o credono in una qualche forma di inferiorità femminile rispetto ai maschi, anche se le varie culture hanno distribuito questa sperequazione in modi diversi. Questo perché certi tratti femminili sono stati interpretati dalle varie culture come segni di inferiorità: su questa interpretazione si è verificata una convergenza “naturalizzante” (che Aristotele avallò filosoficamente). Da un paio di secoli a questa parte una sola cultura – la nostra, industriale e moderna – ha rischiato un’interpretazione diversa: ha deciso di considerare le donne come sostanzialmente eguali agli uomini, e quindi ha trovato una serie di prove scientifiche per giustificare questa decisione[25]. Si è allora visto che l’inferiorità femminile era qualcosa che appariva agli esseri umani come molto verosimigliante, ma questo non implica che essa sia reale. Per utilizzare la distinzione di PK: la società moderna tende a dimostrare – è un esperimento ancora in corso – che la maggior parte delle differenze tra i sessi sono epistemologiche, non metafisiche. La nostra civiltà ha rotto una supposta universalità, categorizzando i sessi in modo originale[26]. E’ come se la nostra civiltà si fosse rifiutata di vedere “il cavallo”, per esempio, riconoscendo invece nel cosiddetto cavallo più specie diverse. Il mutamento culturale[27] illustra la possibilità di ricategorizzare il mondo – in altri termini, la storia permette di concepire la natura (compresa la “natura umana”) altrimenti. Non si tratta quindi di esaltare una pretesa assoluta libertà delle culture nell’interpretare il mondo, secondo la concezione culturalista romantica: piuttosto, le nostre esperienze e forme di vita ci suggeriscono certe interpretazioni e categorizzazioni come più verosimili di altre, nel senso che risultano più adattative. Ma persiste sempre un margine di libertà: le nostre categorizzazioni – anche quelle che ci appaiono le più ovvie - possono essere sempre criticate e riformate. Dietro ogni consenso universale, quindi, va vista sempre la possibilità di una dissidenza, insomma di una differenza. Questa possibilità è la fonte della storia e anche della vita.

 

9.

         Che cosa allora un differenzialista naturalista - al quale la cultura non appare più in opposizione alla natura - può pensare del mentalese di Fodor?

Certo che, considerate come sistemi formali, tutte le lingue naturali sono equivalenti, quindi irrilevanti: posso pensare il teorema di Pitagora in cinese, in greco o in swahili, sempre teorema di Pitagora resta. Ogni lingua è in grado di farmi pensare il teorema di Pitagora perché ognuna implementa un’essenza unica, universale della Mente umana? Oppure perché è avvenuta una sorta di convergenza storica, per cui nel corso del tempo pratiche linguistiche diverse sono state “selezionate” per poter di fatto permettere di pensare qualcosa di astratto e logico?

Ogni mente umana, qualsiasi lingua parli, in potenza arriva (sappiamo bene che molte menti non ci arrivano attualmente…) a concepire i concetti matematici più astratti e raffinati. Ma sarebbe assurdo pretendere che Homo sapiens sia nato con il sapere matematico moderno impresso nel proprio genoma! Un popolo il cui genio matematico è fuori discussione – i greci antichi – non aveva nemmeno il concetto di zero. Ora, secondo la formalizzazione di Giuseppe Peano dell’aritmetica, lo zero è uno dei princìpi costitutivi della successione aritmetica. Che cosa concludere allora, che i greci di fatto ignoravano l’aritmetica? Sarebbe assurdo sostenerlo. Diciamo semplicemente che non avevano inventato lo zero; qualcuno, più ‘platonico’ e ‘russelliano’, dirà che non lo avevano scoperto. Quindi, la razionalità stessa ha una storia – ad un tempo culturale e naturale. Il dogma essenzialista del chomskismo va quindi ridimensionato: è vero che, a partire da ogni lingua, possiamo esprimere e pensare qualsiasi cosa, ma non è detto che sin dall’inizio gli animali parlanti abbiano implementato un programma per cui avevano già tutte le competenze che il linguaggio rende possibili. E’ molto probabile invece che il cervello umano si sia modificato.

La linguistica chomskyana ha certo il merito di trattare il linguaggio e il pensiero come un organo umano come qualsiasi altro, come il cuore o il pancreas. Come nelle lezioni di anatomia, si insegna il funzionamento e la struttura del cuore e del pancreas come eidoi universali, si trascurano le differenze individuali. In un certo senso, l’approccio cognitivo-computazionale è un’anatomia della mente: descrive sincronicamente quel che oggi possiamo dire che siano le performances mentali, astraendo dalle differenze individuali e culturali.

Ma se ci mettiamo dal punto di vista delle scienze dell’evoluzione, ad esempio, il cuore e il pancreas non appariranno più come la realizzazione di un eidos, come una sorta di essenza che ogni cuore e pancreas individuali metterebbero in atto: appariranno piuttosto come un prodotto storico. Ovvero, tra varie “ipotesi” di cuore e di pancreas, la storia biologica ha selezionato un certo ventaglio di cuori e pancreas accettabili, spingendo l’evoluzione in un certo senso. Ciò che in un approccio essenzialista avevamo considerato forma universale o essenza, in un approccio storico risulta essere il risultato contingente di un equilibrio demografico, di un’interazione tra mutanti, peraltro sempre in progress. Mentre l’universalista oggettivista pensa che l’universalità sia necessaria[28], il differenzialista pensa che l’universalità sia sempre contingente. Per l’oggettivista l’umanità è un dato di natura, per il differenzialista è un prodotto storico-evolutivo. Qui è tutta la differenza.

 

10.

Di fatto l’abbandono della teoria classica delle categorie ci ricorda qualcosa che tutti noi conosciamo attraverso le nostre relazioni con gli altri: che le discussioni su ogni argomento sono piene di malintesi, di presupposti mai analizzati, che usiamo gli stessi termini dando loro significati diversi e usiamo termini diversi senza capire che diamo loro lo stesso significato, ecc. E’ esperienza comune che la comunicazione “chiara e distinta” è difficile, rara, talvolta impossibile. La teoria dei prototipi non fa altro che opporre a un’immagine ideale, aulica, confortevole della razionalità e della comunicazione, la realtà - problematica, ambigua, confusa - delle comunicazioni concrete. Marconi se ne rende conto, ma pare propendere per la tesi secondo cui la teoria dei prototipi va bene per descrivere il nostro linguaggio comune, e invece risparmierebbe il linguaggio scientifico – quest’ultimo restaurerebbe la concezione classica. Per esempio, può darsi che ognuno di noi abbia una rappresentazione diversa del concetto di acqua, e quindi possiamo continuamente cadere in malintesi – ma per il chimico l’acqua è sempre e assolutamente H2O. Ovvero, nella nostra vita comune saremmo “wittgensteiniani”, quando facciamo scienza saremmo “classici”.

Ora, si dà il caso che la storia delle scienze degli ultimi decenni stia sempre più demolendo questa idea rassicurante secondo cui il discorso scientifico si baserebbe sulla concezione classica. Per esempio, Needham[29] ha mostrato che la maggior parte dei concetti usati nelle scienze sociali sono concetti fluidi (che chiama politetici), il cui significato cambia a seconda del contesto. Anche Boudon ha ripreso questa idea, mostrando come il dibattito nelle scienze sociali avvenga più per slittamento di significati di certi concetti che per argomentazioni nel senso classico[30].

Ma anche nelle scienze “dure” abbiamo a che fare con un’ambiguità di fondo di certi concetti fondamentali. Il filosofo della scienza forse più influente del Novecento – comunque il più citato – Thomas S. Kuhn lo ha ripetuto senza posa:

 

“Comunque gli scienziati applichino alla natura termini come ‘massa’, ‘elettricità’, ‘calore’, ‘misto’ o ‘composto’, ciò non avviene di solito acquisendo un elenco di criteri necessari e sufficienti a determinare i referenti dei termini corrispondenti.”[31]

 

Si prenda l’attuale dibattito all’interno della biologia, tra chi sostiene concezioni “informazioniste” e chi invece sostiene concezioni “selettiviste”;  o tra darwinisti forti (come Dawkins) e darwinisti deboli (come Gould e Lewontin), per non parlare degli anti-darwinisti (Fodor, Piattelli Palamarini). Ora, ho la sensazione che il loro dibattito, che prosegue da decenni, si basi sul senso diverso che ciascuna scuola dà a certi concetti basilari, come “adattamento”, “specie” o “ambiente”. Nel corso del dibattito e dell’assimilazione delle nuove scoperte i concetti usati dagli scienziati subiscono torsioni importanti – spesso in modo inconsapevole – nel senso che cambiano i prototipi attraverso cui identificano certi concetti. Questo trascina certi dibattiti scientifici talvolta per secoli: l’oscillazione continua del senso di certi concetti-chiave permette a ogni scuola di trarre conseguenze diverse dai dati empirici.

Quella che noi chiamiamo “oggettività della scienza” è quindi de facto il consenso che – in una data epoca – si viene a creare tra tutti o quasi i membri di quella comunità scientifica su certi concetti. Come disse una volta Umberto Eco in una conferenza, “possiamo ragionevolmente credere che davvero alcuni  americani siano giunti nel 1969 sulla luna perché la notizia non fu mai smentita dai sovietici”.

In teoria, certo, potremmo portare il dibattito scientifico – ad esempio, tra il connessionista Parisi e il cognitivista Marconi su Sistemi intelligenti – a un tale livello di chiarezza, attraverso una disanima analitica per cui vedremmo esattamente dove consiste il nocciolo del dissenso tra Parisi e Marconi nel dibattito tra loro articolato. Certo ci vorrebbe il genio di Wittgenstein o di pochi altri per giungere a questa Klarheit. Brillanti storici della scienza oggi riescono, in parte, a scoprire il nocciolo per le controversie del passato. Ma una rigorosa chiarificazione di questo tipo – che analizzasse davvero in ogni caso cosa uno scienziato intende, volta per volta, per “determinismo”, “dualismo”, “monismo”, “simulazione”, “teoria”, “rappresentazione”, ecc. – probabilmente non potrebbe giungere a far pendere la bilancia da una parte o dall’altra: essa arriverebbe tutt’al più a indicare che nelle controversie si confrontano concetti incommensurabili dietro apparenze commensurabili; certamente si scoprirebbero mere omonimie dietro l'uso di parole eguali[32]. Morale: non è la filosofia a decidere alla fine le controversie scientifiche, è la storia. Di solito una teoria prevale sull’altra perché mostra di aver maggior potere predittivo e genera quindi più tecnologia.

In alcune pagine di La società aperta e i suoi nemici, Popper mostra in che modo la scienza moderna è potuta nascere proprio abbandonando il metodo “essenzialista” aristotelico. Questo consisteva nel far partire ogni indagine scientifica da una definizione precisa di un concetto, cioè dalla determinazione della sua essenza (eidos): se si definiva essenzialmente l’acqua, allora era possibile conoscerne qualcosa attorno. La scienza invece – sostiene Popper – parte sempre dal linguaggio comune, con tutta la sua vaghezza e ambiguità: la chimica ha potuto scoprire che l’acqua è H2O perché è partita dal concetto comune - fluido, è proprio il caso di dirlo - di acqua. L’evoluzione scientifica di fatto seleziona certi sensi dei concetti comuni, eliminandone altri.

Ora, il funzionalista oggettivista potrebbe replicare che questo va bene quando la scienza prende per oggetto cose inanimate, ma che quando si tratta di indagare le menti, allora il metodo definitorio aristotelico rimane adeguato. Ma non si vede perché le scienze cognitive – se vogliono essere appunto scienze – dovrebbero cambiare il modo fondamentale dell’indagine scientifica, che opera con concetti comuni. E di fatto tutti i concetti-chiave delle scienze cognitive, come “mente”, “rappresentazione”, “capacità”, “prototipo”, ecc., sono presi dal linguaggio comune, o dal linguaggio filosofico comune se mi si permette quest’espressione che sembra paradossale. Se fosse altrimenti, le scienze cognitive finirebbero con l’avallare quel dualismo cartesiano che hanno cercato – giustamente – di demolire: finirebbero col dire che esistono due approcci scientifici eterogenei, quello che tematizza cose e quello che tematizza menti.

 

11.

Un ultimo cenno alla discussione in corso tra Parisi e Marconi. Si tratta di una discussione che – in termini diversi – prosegue da millenni. Parte del dibattito tra atomisti epicurei, aristotelici e stoici, nel mondo antico, verteva proprio su questo: la spiegazione definitiva delle cose è in processi atomici elementari (epicurei) oppure non possiamo eliminare la “causa finale” dalla considerazione delle cose, per lo meno delle azioni umane (aristotelici)? E’ verosimile pensare che, come si discute di questo da oltre duemila anni, se ne continuerà a discutere per almeno altri duemila. Marconi e Parisi hanno tutto il tempo davanti a loro.

E’ possibile anche qui però un terzo approccio. Il punto forse non è decidere tra una metafisica secondo la quale la spiegazione ultima delle cose è nei meccanismi fisio-chimici, e un’altra metafisica secondo cui dobbiamo riservare una parte di autonomia al mentale. Oggi la via che trovo più interessante è quella che sottolinea gli isomorfismi tra processi di ordine diverso. Non si tratta di ridurre i fatti mentali o culturali alla fisica e alla chimica, né di affermare che il mentale e il culturale sono in parte irriducibili al fisio-chimico: si può far notare che nelle interazioni tra molecole, tra formiche e tra esseri umani – ad esempio - si producono processi alquanto simili.

Sono colpito da come gli studi di teoria economica oggi all’avanguardia abbandonino di fatto la metafora informatica e computazionale per assimilare sempre più metafore di tipo biologico. Ad esempio, Ormerod[33] ci illustra come la forma delle variazioni di certi dati economici nel corso del tempo abbia la stessa struttura delle variazioni nel corso del tempo dei luoghi di approvvigionamento di una colonia di formiche – o con le variazioni delle macchie solari. Il confronto è interessante non perché presuppone che il cervello degli operatori economici sia del tutto simile al cervello delle formiche – sarebbe assurdo ostenerlo anche per gli economisti più imbecilli – quanto per il fatto che in entrambi i casi si tratta di popolazioni viventi. C’è una dinamica delle popolazioni – si tratti di formiche, di scambi di mercato, o di idee filosofiche – che mostra una comunanza non di sostanza ma di forma. Questi isomorfismi andrebbero valorizzati in quanto effetti della dinamica di qualsiasi vivente (e secondo alcuni, dei sistemi complessi in generale). Qui le teorie del caos e della complessità hanno molto da insegnarci.

Il vivente è un sistema lontano dall’equilibrio – un “sistema dissipativo” lo chiama Prigogine – e quindi ci sono forse caratteristiche generali dei sistemi lontani dall’equilibrio. C’è una “logica” generale dei processi di interazione, ad esempio, qualunque siano gli interattori. Uno dei caratteri salienti, in qualsiasi sistema vivente (compreso quello delle scienze cognitive: anche le scienze cognitive sono un sistema vivente), è il ruolo fondamentale che vi giocano la mutazione e la differenza.

Prima mi chiedevo perché parteggio per una metafisica non-oggettivista e non-funzionalista: perché vedo dietro i proclami oggettivisti e assolutisti in fondo l’affermazione di un ideale di morta staticità. Non condivido il sogno di eliminare il cambiamento e la storia come dimensioni costitutive della mente umana e della creazione culturale. Non mi persuade l’ideale razionalista di rappresentare l’essere umano come morto – anche se vive in un paradiso di concetti chiari e distinti – piuttosto che come essere vivente, e quindi sempre sul punto di stupirci o di deluderci.

 



[1] Pubblicato in Sistemi Intelligenti, anno XIV, n. 1, aprile 2002, pp. 173-196.

 

[2] Secondo la concezione classica, un concetto determina una classe di oggetti: ad esempio, il concetto di “tavolo” determina la classe di tutti i tavoli, passati presenti e futuri. Perché un oggetto cada sotto questo concetto, occorre che soddisfi un certo numero di condizioni necessarie: ad esempio, essere un mobile, avere un piano parallelo al suolo, avere un numero di gambe superiore a due, ecc. Ognuna di queste condizioni è necessaria nel senso che se è assente, l’oggetto non cade sotto questo concetto: ad esempio, se il piano di questo oggetto non è parallelo al suolo ma è inclinato, non è un tavolo (sarà piuttosto un leggio). Prese tutte insieme, le condizioni per cui un tavolo è un tavolo sono tra loro sufficienti: se un oggetto soddisfa tutte le condizioni per cui qualcosa è un tavolo, allora è un tavolo. Non conta insomma che il tavolo sia di legno o di marmo, piccolo o immenso, bianco o rosso, ecc.: tutte queste qualità non sono condizioni necessarie per cui un oggetto è un tavolo. Grazie a questi criteri, i nostri concetti e categorie rispecchiano il mondo: il concetto di tavolo determinerebbe precisamente una data categoria reale di oggetti, i tavoli.

 

[3] I teorici relativisti si oppongono non tanto all’universalismo quanto all’assolutismo, all’idea che esista un’oggettività del tutto indipendente dalle operazioni umane, quindi assoluta. Il relativista non nega le universalità ricostruite a posteriori, si rifiuta di assumere a priori certe universalità sulla base di presupposti assoluti. Ad esempio, non nega che di fatto tutte le lingue distinguano certi colori (anche se alcune culture ne distinguono solo due), nega che necessariamente la capacità linguistica umana porti a distinguere certi colori.

 

 

[4] Cfr. per esempio Alain Caillé, „Per un universalismo relativista. Al di là del razionalismo e del relativismo“, Tasgressioni, 16, 1993, pp. 29-54.

 

[5] La storia sociale dei processi cognitivi, Giunti Barbera, Firenze 1976.

 

[6] Ibidem, p. 246.

 

[7] Questo principio della grammatica generativa trasformazionale è stato seriamente criticato. Cfr. Margaret Donaldson, Children’s Minds, Norton, New York 1978. Autori come Langacker e Lakoff del resto hanno elaborato delle „grammatiche cognitive“ del tutto alternative al modello chomskyano, che non si basano cioè sull’assioma secondo cui la sintassi è del tutto indipendente dalla semantica.

 

[8] Il presupposto di Descartes – secondo cui ogni essere umano, sulla base del buon senso (“la virtù meglio distribuita tra gli uomini, prova ne sia che nessuno ne desidera di più”), ragiona sempre bene – è smentita ogni giorno in ogni bar del mondo dove si conversa. Come dice lo psicologo David Good di Cambridge: “gli esseri umani si conformano molto male agli standard esigenti dei modelli della sana ragione”. Ma non basta nemmeno dire quel che sosteneva J.S. Mill, secondo cui gli esseri umani ragionano spesso male perché il loro modo di pensare non è disciplinato. Il punto è che quando parliamo esprimiamo forme di vita spesso diverse da quelle dell’argomentazione. Ovvero, varie attività, non solo cognitive, confluiscono nel nostro parlare.

 

[9] Esposto nelle Philosophische Untersuchungen (tr.it. Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1967).

 

[10] Lo taccia di sofisma Saul Kripke in Wittgenstein. On Rules and Private Language (Blackwell, Oxford 1982) – il che non gli impedisce però di prenderlo maledettamente sul serio.

 

[11] Nelson Goodman, I linguaggi dell’arte, Il Saggiatore, Milano 1976, p. 13.

 

[12] Qualcuno potrebbe dire: non è una contraddizione dire „l’uomo non ha natura umana“? No, perché la specie umana, come ogni specie, può essere vista darwinianamente come una determinazione provvisoria: significa semplicemente che un maschio e una femmina homo sapiens, se si accoppiano, si possono riprodurre. Le cose sarebbero state molto più complesse se fossero sopravvissute altre specie – ad esempio, l’uomo di Neanderthal – che, pare, avevano capacità simboliche e una qualche forma di linguaggio. Fino a che punto avremmo potuto considerare „altri da noi“ ominidi capaci ad esempio di far di conto oppure di venerare un dio?

 

[13] Giulio Tononi, Prefazione all’edizione italiana di Gerald M. Edelman, Darwinismo neurale, Einaudi, Torino 1995, p. XXIV.

 

[14] La confutazione del modello della mente-computer è sviluppata da Edelman: Sulla materia della mente, Adelphi, Milano 1993, “Post Scriptum critico”, pp. 327-390. Sulla discussione attorno al cognitivismo, cfr. Sergio Benvenuto, “Il cervello e il computer”, Lettera Internazionale, 56, 2o trimestre 1998, pp. 37-9; “Edelman e l’uomo darwiniano”, Lettera Internazionale, 69, 3o trimestre 2001, pp. 21-24..

 

[15] Questa svolta non si limita alle neuroscienze, ma sta investendo l’intera ricerca biologica. Cfr. Jean-Jacques Kupiec e Pierre Sonigo, Ni Dieu ni gène, Seuil, Paris 2000.

 

[16] Detto in modo grossolano, questo in fondo è il messaggio della maggior parte delle filosofie non analitiche, da Nietzsche al pragmatismo americano, passando anche per la fenomenologia: che capire e conoscere sono da vedere come attività dell’essere vivente. Per le concezioni oggettiviste o realiste, invece, l’essere vivente è solo oggetto di comprensione e conoscenza di una mente disincarnata.

 

[17] Oggi molti biologi (come Lewontin) concepiscono l’ambiente non come indipendente dall’organismo, dato che questo ambiente ne è sempre – almeno in parte – anche il prodotto (del resto per ambiente deve intendersi anche i membri della propria stessa specie – in particolare i membri dell’altro sesso). Certamente ambiente e organismo specificato interagiscono sempre. In un’ottica differenzialista possiamo dire che ogni singolo organismo introduce una (pur minima) differenza nell’ambiente, la quale produrrà a sua volta altre differenze con cui quell’organismo dovrà misurarsi producendo altre differenze, e così via. L’ambiente produce non meno varianti della specie stessa.

 

[18] Ludwig Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, Schriften, Frankfurt a.M. 1960, par. 66, p. 324: “Vediamo un complicato intreccio di somiglianze [tra giochi] che si sovrappongono e si incrociano tra loro. Somiglianze generali e particolari. [...] Non trovo di meglio, per caratterizzare queste somiglianze, della parola ‘affinità di famiglia’; perché è così che si incrociano e si sovrappongono le diverse affinità esistenti tra i membri di una famiglia: statura, tratti del volto, colore degli occhi, portamento, temperamento ecc. Ecc. - Dirò dunque: i “giochi” costituiscono una famiglia.”

 

[19] Cfr. la ricerca di Eleanor Rosch, „Human categorization“,in N. Warren, ed., Studies in Cross-Cultural Psychology, Academic Press, New York 1977, pp. 1-49.

 

[20] Per questa distinzione tra epistemologia e metafisica secondo PK, rimando al libro di Marconi, p. 95-6.

 

[21] Che cosa etichettiamo quando parliamo di cose la cui esistenza è alquanto incerta come „Dio“, „i transfiniti cantoriani“ o „la classe operaia“? Per il realista la dimensione epistemologica (il fatto che crediamo o meno nell’esistenza di Dio, dei transfiniti cantoriani o della classe operaia) non va confusa con la dimensione metafisica, con il fatto cioè che queste cose esistano o meno. Quel che conta per il realista è che se esistesse un Dio immortale e onnipotente, allora esso sarebbe necessariamente immortale e onnipotente (anche se non lo sapremo mai). E se invece si scoprisse un Dio che fosse mortale e non-onnipotente? Il realista risponde „allora non sarebbe Dio“. E perché no? Anche Dioniso era un dio mortale, eppure ebbe molta importanza nella religione pagana. Di fatto, il realista non lo è davvero a sufficienza: finisce col ridurre la metafisica ad un’epistemologia dominante. Perpetua l‘arroganza eterna di tutta la filosofia: confondere l’universo con l’immagine autorevole che in un’epoca abbiamo di esso.

 

[22]Io stesso ho potuto verificarlo parlando con degli eschimesi: neve si dice aput in Groenlandia, aputi in Canada, e apun piuttosto in Alaska.

 

[23] Bronislaw Malinowsky, The Sexual Life of Savages, Beacon Press, London 1987.

 

[24] Cfr. Edmund R. Leach, „Antropologia ripensata“ in Nuove vie dell’antropologia, Il Saggiatore, Milano 1973.

 

[25] E‘ un dato storico: i movimenti femministi alla fine dell‘800 sono sorti ben prima che le scienze cognitive si occupassero intensamente delle differenze di capacità mentali tra uomini e donne.

 

[26] Questo esempio può apparire non cogente perché qui sono cambiate solo le proprietà dei due sessi (quello femminile cessa di essere „inferiore“ e quello maschile cessa di essere „superiore“) non le categorie sessuali stesse: cambia il gender, non il sex. Ma il mutamento culturale e scientifico, cambiando le proprietà di certe categorie, finisce anche col cambiare le categorie stesse. Ad esempio, il concetto di omosessuale (maschile e femminile) è alquanto recente: nel mondo antico l’importante era essere nel rapporto sessuale attivi o passivi, non esisteva il concetto stesso di omosessualità (era disapprovato l’uomo che fosse passivo nel rapporto sessuale, non chi era attivo con un altro uomo). Passando dal sesso ai cieli: con il copernicanesimo, la luna ha cessato di essere un pianeta ed è diventata un satellite. Ma questo cambiamento di proprietà ha coinciso con l’invenzione della categoria stessa di „satellite“. 

 

[27] Di solito evito di usare „evoluzione culturale“ perché è invalsa l’abitudine di interpretare „evoluzione“ in termini „progressisti“, come miglioramento o perfezionamento. Perciò preferisco il termine neutro „mutamento culturale“.

 

[28] Ed anche a priori. Egli pretende di sapere a priori che qualsiasi lingua umana classificherà nello stesso modo cose come la neve, l’acqua, i cavalli, ecc.

 

[29] Robert Needham, “Polythetic Classification: Convergence and Consequences”, Man, 10, 3, 1975, pp. 349-369.

 

[30] Raymond Boudon, L’art de se persuader des idées douteuses, fragiles ou fausses, Fayard, Paris 1990.

 

[31] Richard Boyd & Thomas Kuhn, La metafora nella scienza, Feltrinelli, Milano 1983, p. 98.

 

[32] L’idea dell’incommensurabilità tra concetti scientifici connessi a diversi paradigmi è stata avanzata da Kuhn. Questo non significa però che i concetti incommensurabili non siano comparabili! Anche la diagonale e il lato di un quadrato sono incommensurabili, ma questo non toglie che li si possa confrontare… Su questo punto, mi permetto di rimandare al mio Un cannibale alla nostra mensa, Dedalo, Bari 2000, capp. 3-9.

 

[33] Cfr. Paul Ormerod, Butterfly Economics, Pantheon Books, New York 1998.

 

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