Flussi di Sergio Benvenuto

Il focolare e l’angelo04/set/2021


 


Sergio Benvenuto

 

            Alcuni filosofi del secolo scorso hanno citato più volte questa frase di Novalis: “La filosofia è propriamente nostalgia (Heimweh), una pulsione (ein Trieb) a essere a casa propria ovunque”[1].

            Questa frase sorprende molti, perché molto spesso si ha del filosofo un’immagine inversa: come errante, come andare ramingo per territori sconosciuti e privi di qualsiasi mappa.

                         

            Da una parte c’è l’immagine scolastica della filosofia come tempio storicamente consolidato a cui si accede attraverso i manuali universitari; dall’altra ci assilla un’immagine inversa, che gli stessi filosofi di solito rimuovono, del filosofo come homeless, barbone, che si arrangia per trovare casa dove può. Il Palazzo delle argomentazioni e delle fondazioni è il sogno del barbone.

 

1.    

 

I Greci veneravano una coppia di dei: Estia ed Ermes. Se fossimo ancora politeisti, oggi potremmo chiamarli: Focolare e Angelo.

Estia era il nome proprio di una dea, ma anche nome comune che designava sia il focolare domestico che il focolare comune della Polis[2]. Era raffigurata anticamente spesso in coppia con Ermes. "Entrambi ? recita l'Inno omerico a Estia[3] ? abitate nelle belle dimore degli uomini che vivono sulla superficie della terra, con sentimenti di mutua amicizia."

Estia era il focolare circolare, fissato nel suolo, era l'ombelico attorno al quale la casa si radica nella terra. Essa ? nota Jean-Pierre Vernant[4] ? era simbolo e pegno di fissità, di immutabilità, di permanenza.  Ed era in quanto centro fermo a partire dal quale lo spazio umano si orienta e si organizza, che Estia, per i poeti e i filosofi antichi, poté identificarsi con la terra, immobile al centro del cosmo tolemaico. La terra intera, casa degli uomini, diventò il focolare fisso del mondo. Essa non scambiava, restava casta: Estia era vergine, come Atena e Artemide. Estia diventerà poi la Vesta dei latini; le vestali, dedite al focolare cittadino, erano sacerdotesse che dovevano restare caste per trent’anni, come era casta la dea.

            Gli altri dei importanti sono protagonisti di avventure e traversie varie, che hanno nutrito per secoli quel pettegolezzo teologico detto mitologia. Invece su Estia non abbiamo alcun racconto: a lei non è accaduto né accade nulla. Su di lei non si raccontano storie perché lei è l’esclusione stessa dei mutamenti, quindi della Storia: nel focolare non ci sono eventi, tutto è immobile, nello spazio e nel tempo.

Anche Ermes abita nelle case dei mortali, anzi, come gli dice Zeus nell'Iliade[5], "più di tutti gli dei tu ami far da compagno a un mortale." Ma vi abita come ángelos, il messaggero, come chi è pronto a ripartire.

 

Non c'è niente, in lui, di fisso, di stabile, di permanente, di circoscritto, né di chiuso. Egli rappresenta, nello spazio e nel mondo umano, il movimento, il passaggio, il mutamento di stato, le transizioni, i contatti tra elementi estranei. Nella casa,..., protegge la soglia, respinge i ladri perché è lui stesso il Ladro (...), per il quale non esistono né serrature, né recinto, né confine.[6]

 

Presente alle porte delle città, ai confini degli stati, agli incroci delle vie, sulle tombe, che sono le porte del mondo infernale. Egli è presente ovunque gli uomini, fuori della loro casa privata, entrano in contatto per lo scambio - nelle discussioni e nel commercio -, o per la competizione, come nello stadio. Banditore, dio errante, padrone delle strade, sulla terra e verso la terra; introduce una dopo l'altra le stagioni, fa passare dalla veglia al sonno, dal sonno alla veglia, dalla vita alla morte. Ermes è quindi inafferrabile, ubiquitario – è il passaggio stesso.  Quando una conversazione cade subitamente e subentra il silenzio, il Greco dice: "Passa Ermes"[7].  (Questa espressione sopravvive anche oggi; nei paesi anglofoni quando la conversazione cade si dice "an angel passes".) Ermes porta una bacchetta magica che cambia tutto ciò che egli tocca. E' anche ciò che non si può prevedere né trattenere, il fortuito, la buona o la cattiva sorte, l'incontro imprevisto, e anche il felice ritrovamento casuale.

            Ermes era rappresentato come itifallico. Ad Atene il suo busto con un pene in erezione marcava ogni trivio. Il pene eretto è in effetti esso stesso un simbolo dell’alienarsi e dello spostarsi: nel commercio sessuale il maschio “passa” nella donna.

Insomma, l'ambito di Estia è l'interno, il chiuso, il fisso, il ripiegamento del gruppo umano su se stesso; essa assicura al gruppo domestico - e per estensione alla comunità cittadina, o addirittura alla terra intera - la sua perpetuazione nel tempo. Non a caso Platone, nel Cratilo, collega etimologicamente Estia a ousìa, che altri chiamano anche essìa, cioè "l'essenza fissa e immutabile"[8], la substantia diranno i latini, quel che è sostanziale. Invece l'ambito di Ermes è l'esterno, l'apertura, la mobilità, il contatto con l'altro da sé.

 

 

2.   

Varie figure ? in opposizione o in complementarietà o in contiguità – della mitologia greco?romana hanno ispirato la concettualizzazione nel mondo cristiano e moderno. Basti pensare alla fortuna della coppia Apollo?Dioniso (grazie a Nietzsche), o di quella Eros?Thanatos (grazie a Freud), ecc. E' strano invece che sia stata ignorata proprio questa strana coppia, così dialettica, di Estia ed Ermes. La figura fortunata è stata certamente Ermes ? ancora oggi usiamo il termine ermetismo ?, non il suo far coppia con Estia. Ma non è casuale che "ermetismo" significhi oggi il contrario di ciò che Ermes rappresentava per i Greci: indica un sapere chiuso, non comunicato o non comunicabile agli altri, e per amplificazione ogni sapere non scientifico, vale a dire non sottoposto al controllo pubblico. I greci avrebbero attribuito piuttosto queste caratteristiche a Estia. Il fatto che Ermes abbia finito con l'accaparrare anche il significato della sua "dea amica" ci segnala quanto la solidarietà di quella coppia greca sia andata per noi perduta, ma anche ellitticamente conservata.

Invece in questa congiunzione tra Estia ed Ermes, tra il Focolare e il Trivio ? possiamo tradurre in questo modo Ermes ?, cogliamo una polarità ancora insistente della nostra civiltà, che nel mondo greco si inaugura, e che attraversa segretamente le forme di vita dell'Occidente.

Se la modernità avesse ereditato qualcosa della religiosità pagana, certamente almeno un dio avrebbe conservato: Ermes. Da questo dio così mondano la modernità si sarebbe sentita adeguatamente rappresentata. Apertura, mobilità, scambio con l'altro, affarismo, innovazione perpetua: tutti questi caratteri hermetici (lo scriverò così per distinguerlo da “ermetico” nel senso attuale) sono anche i caratteri dell'uomo moderno, della "società aperta" di Popper, dell'uomo che, da Descartes in poi, si è progettato come "padrone e signore della Natura". E cioè: l'accelerazione spasmodica degli scambi, la razionalizzazione tecnologica, l'intensificazione parossistica della mobilità, una socialità basata sulla comunicazione. Che cosa è il nostro culto del Progresso se non l'apoteosi della cronica instabilità del Messaggero, che non sosta mai, ed è sempre sul punto di ripartire?

Di solito però si vede solo questo lato hermetico della modernità, e ci rendiamo ciechi alla faccia Estia che pur accompagna senza un'ombra la progressione hermetica dell'Occidente. Siamo i figli non solo dell'Illuminismo hermetico, ma anche del Romanticismo che rivaluta le focolarità nazionali e arcaiche, che promuove il ritorno alle radici del "borgo nativo". La modernità non ha prodotto solo scienza, tecnologia e cosmopolitismo, ma anche le teorie più compiutamente regressive della storia del pensiero, a cominciare proprio da Rousseau, per finire con certe teorie ecologiste della de-industrializzazione. Questo è stato il secolo del grande sviluppo scientifico e delle filosofie della scienza, ma anche il secolo di Freud (che ci ha spinti a "ritornare" sulla nostra infanzia), dell'antropologia culturale (la quale studia le culture selvagge che lo sviluppo hermetico ha accantonato o distrutto), di Heidegger che denuncia l’oblio dell’Essere, dell'angoscia ecologica, e poi dell'ermeneutica che si fonda sulla rilettura dei testi antichi... Tutte queste idee hanno riproposto un ritorno meditante o rammemorante alle radici arcaiche della nostra forma di vita e del nostro pensiero. Per lo meno dal Settecento in poi abbiamo avuto a un tempo una corsa esaltata verso il futuro e un ritorno visionario alle nostre supposte origini. Il rousseauismo, come rifiuto dell'hermetismo individualista della Civiltà mercantile e come riconversione al grembo di un Focolare naturale, è più vivo e zelante che mai ? basti pensare ai movimenti “verdi”, ai culti popolari delle vacanze naturaliste, alla cura pagana del corpo e della nostra parte "animale", all'ammirazione per i "pensieri selvaggi" che "danzano con i lupi".

Pensiamo solo all'importanza di un concetto così fortunato nel nostro secolo: l'autenticità. Nel mondo sempre più dominato dalla razionalità scientifica e tecnica, come per contrapposizione il pensiero e l'arte del Novecento hanno proclamato come assolutamente necessario l'ideale di autenticità ? cioè un modo di pensare e di essere secondo la propria verità intima. Questo ideale, certo, è stato declinato a seconda delle varie teorie. Lo si può intendere, con Nietzsche, come riconoscimento della amorale Volontà di Potenza che ci muove. Oppure, con Freud, come accettazione della propria libido e dei propri impulsi fino ad allora rimossi. Oppure, via Heidegger, come autenticità dell'essere gettato e progettante che si accetta come essere?per?la?morte; e con l'esistenzialismo, in genere, come disvelamento angoscioso della propria libertà incondizionata. Anche in molto marxismo, l'autenticità è il ritorno all'originario valore d'uso contro un mondo dominato dalla alienazione del valore di scambio, dal mondo “finanziario”.

Ma, al di là delle varianti, questo desiderio di autenticità si contrappone radicalmente alla verità nel senso della scienza moderna, come adaequatio rei et intellectus, come adeguazione del discorso alla cosa. L'ideale di autenticità afferma piuttosto l'adaequatio animae et intellectus, l’adeguazione dell’anima al discorso. E’ il ritorno del discorso a una "focolarità" originaria del soggetto. Se il mondo sociale ? dello scambio come do ut des, del "vile danaro", della mauvaise foi, delle macchine burocratiche, dell'ipocrisia, della alienazione ? ci separa da noi stessi, il cammino verso l'autenticità ristabilisce il contatto con il centro primigenio del nostro io (isolato di volta in volta come volontà, o bisogni, o desiderio, Wille zur Macht o Lust, volontà di potenza o principio di piacere, o senso della mortalità e della finitezza, o singolarità, o Vita). Mentre Ermes avanzante separa in un movimento sempre centrifugo (“il progresso”), in un backlash eguale e contrario Estia riunisce in un movimento centripeto e riporta al centro e al fondo. Ermes è scambio e comunicazione, ma che oggettificano lo scambiante dividendolo definitivamente dall'oggetto scambiato. Estia è riappropriazione e riunione di ciò che è stato frammentato e disperso nello scambio e nella comunicazione.

Questa simultanea oscillazione tra progressione hermetica e ritorno estiaco non deve essere letta solo come tensione, contraddizione, dilemma, dolore, conflitto; ma, come già i Greci fecero, va interpretata come una solidarietà segreta e profonda, dove il Focolare apre il Trivio, e il Trivio conduce inesorabilmente al Focolare.

 

 

3.

 

            Credo che però oggi l’opposizione-complementarietà tra Estia ed Ermes abbia un nuova attualità. Certamente nel confronto politico di oggi, dove sempre più si contrappongono da una parte una visione globalista, cosmopolitica, che esalta lo scambio e la comunicazione (che chiamerei hermetica) e dall’altra una visione che oggi in Italia chiamiamo sovranista, altrove identitaria, che esalta invece le tradizioni, il radicamento nella propria terra lingua e nazione (che chiamerei estiaca). Come mostrano i risultati delle elezioni degli ultimi anni, in particolare nel mondo più industrializzato (Europa e Nord-America), l’hermetico è essenzialmente giovane, donna, colto con alto titolo di studio, abitante nelle grandi metropoli, di reddito medio-alto. L’estiaco è essenzialmente anziano, uomo, poco colto con basso titolo di studio, abitante di piccoli centri o di zone rurali, di reddito medio-basso. Ma mentre per i Greci c’era un equilibrio tra Estia ed Ermes, per noi moderni c’è invece contrapposizione e conflitto.

            Ma, oltre alla polarizzazione politica, credo che oggi anche la problematica filosofica si sia focalizzata su una polarità diciamo irrisolvibile.

 

            Da una parte abbiamo una visione oggettivista, incarnata soprattutto dalla scienza e dalle filosofie scientiste. Essa pensa che possiamo conoscere la realtà in quanto realtà, come la scienza, nel senso che questa rende prevedibili certi fenomeni e quindi ci mette in grado di creare una tecnologia che si basi su questa prevedibilità. Questa conoscenza oggettiva si estende anche agli esseri umani e alle loro culture e creazioni – è l’impostazione oggi detta cognitivista.

Non a caso spesso, nei dibattiti teorici o giornalistici, si invoca la figura del marziano che giunge sulla terra. Che cosa vedrebbe oggettivamente il marziano degli esseri umani? Non condividendo nulla dei nostri desideri, pregiudizi, passioni umane, il marziano è l’allegoria dello sguardo oggettivo e spassionato della scienza. E il marziano è una tipica figura hermetica, non a caso viene da tanto lontano (il marziano è la versione moderna dell’angelo della cultura ebraica e cristiana): l’ideale della scienza è quello di un sguardo marziano sulla realtà. Ovvero uno sguardo da fuori, esterno, lontano. Una visione oggettiva degli esseri umani è una visione non partecipe di quei comportamenti umani o di quelle culture umane che si studiano. Il metodo scientifico ci permette di astrarci da quell’umanità che noi siamo e di guardare a noi stessi, esseri umani, come oggetti esterni a noi stessi.

            Dall’altra abbiamo una visione che è difficile definire, perché attraversa varie tradizioni filosofiche, ma che chiamerei oggi, globalmente, ermeneutica. Oggi la si chiama anche “continentale”, per distinguerla dalla filosofia analitica. Essa ci fa notare che la conoscenza è sempre conoscenza da parte di esseri umani, non da parte di marziani, ovvero coloro che conoscono sono esseri che hanno la loro storia, le loro passioni, i loro bisogni. La stessa scienza non è frutto di una pura contemplazione del mondo, ma effetto di un fare, di un interrogare la natura, di sperimentare in essa. Come scriveva Vico, verum factum est, ovvero, la verità è effetto di un fare. Il moderno pragmatismo filosofico insiste su questo punto. Quindi, ogni visione delle cose e degli esseri umani è sempre antropocentrica ed etnocentrica. La nostra visione del mondo, e quindi anche dell’umanità, è centrata sugli umani e sui loro bisogni; se i leoni costruissero una loro scienza, sarebbe del tutto diversa dalla nostra. Quindi, possiamo chiamare questa filosofia estiaca: anche la nostra visione dell’Altro è auto-centrica, è a partire dal proprio focolare.

E’ quindi illusorio condannare “i punti di vista etnocentrici” sugli altri esseri umani: ogni visione delle altre culture è sempre la visione della nostra cultura. Per esempio, quando gli antropologi, di solito europei e nordamericani, hanno cominciato a studiare “scientificamente” le popolazioni dette primitive o esotiche, di fatto hanno applicato a quelle società e culture le griglie della società euro-americana in cui vivevano. E occorre giungere: il conoscerle è stato il primo atto della loro disgregazione… Dopo lo sguardo della scienza occidentale, sono arrivati i modi di vita della cultura occidentale, che tendono a dissolvere l’oggetto antropologico.

            Questa visione ermeneutica e pragmatista porta a forme marcate di relativismo e nichilismo. Siccome “non esistono fatti, ma solo interpretazioni”, non potremo mai uscire dalla nostra casa, dal nostro focolare: non potremo evadere dalle esigenze del nostro essere la specie Homo sapiens, né dalla nostra cultura di appartenenza e di riferimento, né dalle regole della disciplina scientifica con cui studiamo gli altri esseri umani (psicologia, sociologia, antropologia culturale, neuroscienze…). Il marziano hermetico è un’illusione. La frase di Novalis andrebbe quindi riformulata come: “L’essere umano è un essere nostalgico, ha un impulso irrefrenabile a ritrovare la propria casa ovunque”.

 

 

4

 

            Non esamineremo qui le ragioni degli oggettivisti e degli ermeneutici, che sono entrambe convincenti. Il punto è che a noi moderni appare opposizione filosofica una differenza tra hermetico ed estiaco che gli Antichi avrebbe visto invece come “mutua amicizia”. E cercherò di illustrare in che senso le due concezioni in qualche modo si implicano a vicenda.

            Per illustrarlo, riandiamo al mito filosofico in assoluto più celebre: quello della caverna platonica. Potremmo prendere questa caverna, in cui vediamo solo ombre, come immagine spregiativa del Focolare domestico: chiusi nei nostri pregiudizi, nel mondo gretto e parochial, incatenati dalle nostre credenze tramandate, non possiamo accedere alla verità. Il filosofo invece è l’eroe hermetico che osa spostarsi, che riesce ad andar fuori dalla caverna e vedere le vere cose, non le ombre. Dobbiamo aggiungere che però per Platone il filosofo dovrà comunque rientrare nella casa-caverna, dove continueranno a vivere, per sempre, i suoi simili. Il filosofo produrrà nei suoi simili incatenati quel che oggi si chiama disincanto o secolarizzazione: grazie alla filosofia, gli umani sapranno che c’è del vero altrove, ma di fatto vedranno sempre e solo ombre.

            Possiamo dire che la modernità filosofica (non tutta, probabilmente, ma diciamo che è la tendenza predominante) consiste in un altro disincanto: non c’è nessun filosofo che possa uscire dalla casa-caverna. Non esiste questo privilegio. Per cui sono possibili, filosoficamente, solo due soluzioni.

            La visione che ho chiamato oggettivista (e che in realtà trova la sua filosofia di base nell’empirismo) dice sostanzialmente: Dobbiamo studiare le ombre e convivere con esse. Le ombre disegnano comunque delle regolarità, sono prevedibili, e quindi possiamo interagire con esse. Non c’è alcuna verità fuori dal gioco delle ombre. Dobbiamo dimenticarci delle cose vere, illuminate dal sole. Come vediamo, la prospettiva hermetica che avevamo attribuito all’oggettivismo da un altro punto di vista si rivela essere una prospettiva più che mai estiaca: si resta sempre nella casa delle nostre esperienze, l’importante è trovar loro delle leggi. In questo modo, la nostra casa-caverna sarà il mondo stesso, dato che solo in questo possiamo abitare.

            La visione che ho chiamato ermeneutica invece insiste proprio sul fatto che saremo sempre costretti a vedere sempre e solo ombre. Da qui il nichilismo e il relativismo: un sapere oggettivo è impossibile, abbiamo solo un’evoluzione storica di ombre. La sola cosa che conti, è come convivere tra gli incatenati. Ciascuno vede le sue ombre dal proprio punto di vista, da qui la necessità di una tolleranza, come in una casa in cui debbano convivere varie famiglie, ognuna con le proprie etiche e i propri gusti. Il mondo sarà visto come una pluralità illimitata di case-caverne. Alla figura del marziano che giunge sulla terra, l’impostazione ermeneutica ha come riferimento mitico di fondo il terrestre che visita gli altri pianeti. Si rende conto che questi pianeti sono “altri”, ma li vede sempre da un punto di vista terrestre.

            Come si vede, a un certo livello abbiamo un rovesciamento delle posizioni (hermetica ed estiaca) tra le due filosofie. Il marziano che vede dall’esterno è comunque qualcuno che deve vivere sempre in una caverna di ombre, diciamo che il focolare gli è alle spalle. Il terrestre ermeneutico è comunque qualcuno che va alla ricerca dell’Altro, e che quindi si deterittorializza, si de-terra direi, e appare quindi una figura radicalmente hermetica. La scienza che vede lontano si rivela un addomesticamento del mondo, mentre la rassegnazione ermeneutica alle interpretazioni, che sono sempre le proprie, etnocentriche, è il solo modo di entrare in conttato con qualcosa di radicalmente diverso da noi.

            Ci si chiede se esista una terza possibilità filosofica.  Vorrei provare a farla intravvedere rifacendomi a una famosa teoria biologica.

 

5

 

            Non si può dire che il saggio dei biologi Jakob von Uexküll e Georg Kriszat, Streifzüge durch die Umwelten von Tieren und Menschen: Ein Bilderbuch unsichtbarer Welten, pubblicato nel 1934, sia passato inosservato tra i filosofi.  La traduzione italiana del titolo è Erranze attraverso gli ambienti degli animali e degli umani: Un libro illustrato di mondi invisibili.  La scelta di Streifzüge, erranze, nel titolo mi sembra più che mai azzeccata (come la traduzione inglese, a foray: un’incursione, una razzia): essa anticipa l’ermetizzazione radicale del rapporto dell’essere umano al mondo.

            In questo lavoro von Uexküll chiama Umwelt, ambiente, letteralmente ‘mondo-attorno’, il mondo con cui ha a che fare ogni organismo.  Ma, contrariamente a quel che si pensa, l’ambiente non è quell’insieme di cose e condizioni che vengono a trovarsi all’esterno di un corpo animale, insieme quindi sostanzialmente uguale per tutti gli organismi che vivono in un determinato spazio.  (Da notare che nelle varie lingue il termine corrispondente ad ‘ambiente’ sottolinea questo “stare attorno”: l’italiano ambiente viene dal latino ambire, andare attorno; il francese environnement, come l’inglese environment, vengono dall’antico francese environer, accerchiare, circondare.)  L’Umwelt accerchiante, circolare come il nostro orizzonte, è quel che risulta rilevante, significativo, sempre e solo per un organismo di una data specie: è quell’insieme di tratti che costituiscono un segnale pertinente per l’animale, capace cioè di innescare certe reazioni pre-scritte – scritte prima dello stimolo - nell’organismo.  Questo significa che per le specie che abitano in uno stesso territorio (stesso dal punto di vista di noi umani, ovvero nell’ambiente umano), gli ambienti sono diversi: ogni specie ha il proprio.  Questo porta von Uexküll a un’affermazione di tenore kantiano: «nessun animale può entrare in relazione con un oggetto come tale».  L’oggetto-come-tale è una cosa-in-sé anche per l’animale umano.

            La circolarità dell’Umwelt richiama irresistibilmente la circolarità del focolare greco: l’ambiente è la casa biologica di Homo sapiens, e siccome è centrata su Ego, non può che essere circolare.

            Quel che è essenziale in von Uexküll è il fatto che il nostro corpo-mente risponde solo a segnali che sono tali, appunto, per un determinato corpo-mente.

Per ogni specie contano i segnali che provengono dall’ambiente.  La teoria della comunicazione distingue il segnale dal rumore.  Ed è impossibile assegnare un senso al rumore, perché è extra-ambientale.  Il rumore è il non-pertinente che tutti gli organismi trascurano, anche se esso può avere effetti drammatici sull’organismo.  In effetti, il rumore può distruggerci, perché a esso non abbiamo risposta.

L’esempio più famoso dato da von Uexküll è quello dell’ixodes ricinus, zecca dei boschi.  In effetti, quest’animale reagisce elettivamente a tre soli elementi esterni: a) l’odore dell’acido butirrico, b) la temperatura di 37°, c) una certa tipologia pelosa della pelle dei mammiferi.  Tutto il resto non ha rilevanza per questo aracnide.  Solo quell’acido, il grado di calore e i peli dei mammiferi sono «portatori di significato» per l’animale, diciamo che sono il suo mondo.  Heidegger[9] poi, riprendendo von Uexküll, chiamerà disinibitori di certi impulsi dell’animale ciò che il suo allievo von Uexküll chiamava «portatori di significato»; e ribattezzerà «cerchio disinibitore» (Enthemmungsring) ciò che il biologo chiamava Umwelt.  Di fatto, i disinibitori di Heidegger corrispondono ai segnali della teoria dell’informazione.  Certamente, siccome l’ambiente – alias cerchio disinibitore - di Homo sapiens è molto più ricco e complesso di quello della zecca (dal punto di vista di Homo sapiens) e quindi molti più segnali lo disinibiscono, allora siamo indotti a pensare, erroneamente, che l’ambiente di Homo sapiens coincida con il dintorno reale (Umgebung) in cui viviamo.  Ci interessiamo sia allo straordinariamente piccolo come le particelle sub-atomiche, sia allo straordinariamente grande e distante come le galassie – così crediamo di conoscere “il mondo”.  Ma dimentichiamo che anche l’ambiente della nostra specie non è definito dalla sua estensione spaziale, bensì da ciò che è rilevante e pertinente per gli esseri umani.  Insomma, dell’universo che consideriamo reale, di fatto, ci accorgiamo solo di quello che fa segnale per la nostra specie.  La definizione dell’ambiente per Homo sapiens non è diversa da quella dell’ambiente per l’ixodes.  Quel che chiamiamo “realtà” è solo tutto ciò che disinibisce le nostre umane pulsioni.  In fondo, la conoscenza scientifica stessa non ci fa reagire ad altro che a ciò che era già là per farci reagire.  Possiamo dire che per la biologia non usciamo mai dalla nostra Estia, dal nostro mondo-attorno, che è sempre circolare.  Perché il nostro orizzonte è sempre circolare.

Heidegger però teneva a distinguere nettamente il modo di essere animale da quello umano.  Per Heidegger l’animale, in quanto correlativo al suo Umwelt, all’ambiente, è «povero di mondo» (weltarm).  Per lui l’essere umano, invece, in quanto Dasein non si limita al proprio Umwelt, ha relazione con qualcosa che va oltre i segnali disinibitori, ha relazione con die Welt, il mondo.  Ma per Heidegger questo mondo non è la pura realtà extra-ambientale che ci circonda, è qualcosa che ha una forma, una struttura, un senso – come quando diciamo «il mondo di Goethe».  L’uomo insomma è «formatore di mondo» (weltbindend).  Quindi, anche in Heidegger il mondo è del tutto correlativo all’essere umano, anzi, ne è un suo prodotto. 

            La biologia invece, nella misura in cui vede Homo sapiens come una specie animale tra le altre (perché questa è la regola del suo gioco), pensa che anche l’essere umano abbia un solo mondo-attorno, Umwelt, anche se tanto più vasto di quello della ixodida.  Ma qui cominciano i problemi.  Nella misura in cui un essere umano, un animale parlante, dice “posso avere accesso solo al mio mondo, solo a ciò che disinibisce certe mie pulsioni, comprese le mie pulsioni cognitive”, ipso facto entra in una sorta di paradosso, perché è come se si scindesse in due menti diverse: nella misura in cui egli stabilisce un limite al proprio rapporto con la realtà, dà per scontato che ci sia una realtà a cui non ha accesso, non perché gli sia ignota, ma semplicemente perché non è realtà-per-Homo.  Il problema non è - come per il positivismo – che ci sia e sempre ci sarà dell’ignoto, ma che ci sia dell’inconoscibile, e il punto è che questo inconoscibile dobbiamo, proprio nella misura in cui lo poniamo, ri-conoscerlo.  Da una parte Homo dice “non c’è altro che il mio mondo” e dall’altra dice “c’è dell’altro dal mio mondo, un mondo che non è mio”.  L’altro viene a trovarsi in una zona intermedia, inquietante, tra l’essere e il non-essere. Ammettere che il solo mondo con cui abbiamo rapporto è il nostro – quello dei segnali che ci disinibiscono – implica ipso facto che c’è del non-mondo con cui non abbiamo rapporto.  Che c’è del rumore del mondo, che chiamerei il Reale. Esso si manifesta a noi in qualche modo? Se si manifestasse, dovrebbe manifestarsi solo come non-mondo, come extra-mondo, come alterità radicale da noi… Vi ricorda questo qualche cosa?

            Ritroviamo qui il paradosso detto dell’Epimenide: il cretese Epimenide dice “tutti i cretesi sono bugiardi”.  Credo che gran parte della filosofia sia come incantata da, o incastrata in, questo paradosso.  E non solo la filosofia.

In effetti, Homo è come una zecca che stranamente lamenti di essere tale, ovvero, che senta la ristrettezza del proprio ambiente, che denunci spesso uno scarto tra ambiente e Reale.  Non tutti gli umani sono così lamentosi, ma la riflessione filosofica comincia a partire da questo lamento. Homo è un essere estiaco che anela a un vero hermetismo. Che cosa pensare di un ragno che denunci la riduzione del proprio ambiente ad acido butirrico, a una certa temperatura e a pelle di mammiferi?  Sarebbe ancora un ragno?  Per la teoria positivista standard nel fondo sì: se individui di una specie a un certo punto sono scontenti del proprio ambiente, quest’insoddisfazione sarà pur sempre adattiva al proprio ambiente.  Anche quando l’essere umano afferma che c’è qualcosa di estraneo al proprio ambiente, resta pur sempre nel proprio ambiente, e magari questo suo sentimento di estraneità migliorerà l’adattamento al proprio ambiente.

            In fondo, quella che chiamerei Divisione von Uexküll replica a suo modo, in termini biologici, quel che già Platone aveva cercato di dire attraverso l’allegoria della caverna.  Possiamo dire che la nostra relazione fondamentalmente chiusa al nostro mondo-attorno, alla nostra Estia ambientale, riedita le ombre sul fondo della caverna del mito platonico; mentre il rendersi conto che c’è del Reale oltre l’ambientalità riedita il mondo della luce solare, non riflessa.  Anche se la Divisione von Uexküll è più pessimista dell’allegoria platonica.  Abbiamo detto che Platone contava pur sempre su un’aristocrazia che sarebbe capace finalmente di liberarsi dai ceppi delle illusioni domestiche e guardare in faccia la luce, accecante, del Reale.  Quest’aristocrazia spirituale dovrebbe anche reggere e guidare la Città.

            Ma non pare che in Uexküll questa eccezione sia possibile, nella misura in cui siamo una specie animale.  Resteremo sempre zecche, non usciremo mai da quell’acido butirrico che chiamiamo enfaticamente “il gran mondo”.  Ma in fondo anche la Divisione von Uexküll finisce con l’instaurare un’aristocrazia: non di coloro che sanno, ma di coloro che si lamentano per la nostra angustia, per la ristrettezza del proprio mondo. L’aristocrazia non è allora più quella che ha visto la verità, che ha epistheme essendosi liberata delle doxai, ma è una comunità caratterizzata dall’Unbehagen, dal disagio, dallo scontento per l’umanità stessa come limitazione. E’ un margine umano amateur, dilettante del reale.

Questo a meno di non ammettere che nella nostra specie ci sia qualcosa di divino, un accesso in-naturale, a-biologico a una realtà non relativa, a un Reale che si impone a noi senza disinibirci.  Francamente, questo “in più” che l’essere umano avrebbe rispetto al suo essere naturale viene deriso oggi da noi, gente “positiva” che crede solo nell’immanente, come un’illusione: ma dimentichiamo che l’illusione della trascendenza, in tutte le sue forme, è anche un tentativo di uscire da quell’illusione del mondo-segnale che da Platone a von Uexküll chi sa pensare non cessa di enunciare.

 

La questione è: una volta assodato – filosoficamente e biologicamente – che il nostro mondo-attorno non esaurisce il Reale, che c’è necessariamente del Reale absolutus, assoluto, sciolto da ciò che ci disinibisce, possiamo dire di avere un qualche rapporto con questo assoluto che a noi non si rapporta?  Ovvero, c’è un paradossale rapporto tra il nostro essere-dentro-il-nostro-mondo con ciò che è fuori-del-nostro-mondo? Credo che l’umanità, anche prima della filosofia, abbia cercato di risolvere, sempre, questo enigma, e questo ben prima che nascesse Jakob von Uexküll.  Gli esseri umani si sono (non sempre) interessati al rumore, a ciò che non fa segnale; certo per decifrarlo come segnale segreto (è quel che fa sempre la scienza), ma anche – e qui la mia ipotesi si fa problematica – per farsi pungere dal Reale, da ciò che non ci disinibisce.

Quindi, in fin dei conti, Ermes ed Estia sono amici. Estia va a dormire, la sera, sognando di volare come Ermes. Ed Ermes, quanto a lui, sa che volando non potrà mai uscire dalla cerchia di Estia che, immobile, al centro dell’universo, lo tiene sempre al guinzaglio, anche quando l’angelo, avventurandosi molto lontana, la perde di vista e la dimentica.

 

 



[1] NovalisOpera filosofica, a cura di F.Desideri e G.Moretti, Einaudi 1993, 2 voll, p.466.

 

    [2]Cfr. Mario Vegetti, "Akropolis/Hestia. Sul senso di una metafora aristotelica" in Aut aut, n. 220?21, 1987, pp.

 

    [3]I, 11?12.

    [4]J.?P. Vernant, "Hestia?Hermes. Sull'espressione religiosa dello spazio e del movimento presso i Greci" in Mito e pensiero presso i Greci, pp. 147?200, Torino, Einaudi 1978, p. 149.

 

    [5]XXIV. 334?5.

    [6]Ibid., p. 150.

    [7]Cfr. Plutarco, Sulla loquacità, 502f.

    [8]Platone, Cratilo, 401 c?e.

[9] M. Heidegger, Gesamtausgabe, XXIX-XXX: Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt – Endlichkeit – Einsamkeit, Frankfurt a.M., Klostermann, 1983.

 

Flussi © 2016Privacy Policy