Flussi di Sergio Benvenuto

La nebbia silenziosa (La noia)10/giu/2023


 

 

Sergio Benvenuto

 

“La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani.”

G. Leopardi (1969, LXVIII)

 

“La noia è la più sterile delle passioni umane. Com'ella è figlia della nullità, così è madre del nulla: giacché non solo è sterile per sé, ma rende tale tutto ciò a cui si mesce o avvicina.”

G Leopardi (Zibaldone, 1815, 1)

 

1. Acedia

            Noia, pigrizia, disgusto, depressione, malinconia, disperazione,  abulia sono concetti tra loro intrecciati. Ogni epoca ha preferito focalizzarsi su uno di questi concetti. Alla fine dell’Antichità e nel Medioevo si è scritto molto sull’akedia, malattia specifica dei monaci.

In effetti, un pericolo micidiale pendeva sul capo del monaco, solo nel deserto di pietra in Egitto, dov’egli passava la vita cercando di rassomigliare, il più possibile, a Cristo. A mezzogiorno, quando il sole era al culmine nel cielo e il calore si faceva opprimente, il “demone meridiano” si impadroniva dell’anima del solitario. Monakos in greco significa solitario e celibe. Quei singoli, alquanto singolari, chiameranno akedia, in greco, quel flagello di mezzogiorno, termine poi latinizzato in acedia.  L’”a” è privativo e kédos significava cura - insomma, l’accidia è noncuranza, indifferenza, negligenza, e sconforto.

            Poi, dalle tebaidi egiziane l’acedia passò nei monasteri d’Occidente. Anzi, possiamo considerare la tradizione monastica occidentale, europea, come una grande strategia per evitare l’acedia. Non a caso è importante che il monaco nel convento abbia sempre qualcosa da fare, che non sia preda dei vuoti.

            A mezzodì, scrive San Nilo in De octo spiritibus malitiae, l’homo religiosus se ne sta “torpido e come allibito”:

 

Se legge, s’interrompe inquieto e, un minuto dopo, scivola nel sonno; si frega la faccia con le mani, distende le dita e, tolti gli occhi dal libro, li fissa sulla parete; di nuovo li rimette sul libro, va avanti per qualche riga, ribalbettando la fine di ogni parola che legge; e intanto si riempie la testa con calcoli oziosi, conta il numero delle pagine e i fogli dei quaderni[1].

 

Insomma, non riesce a concentrarsi nella lettura, cade spesso in un sonno breve, dal quale si desta con una fame compulsiva.

            Quando il demone meridiano lo coglie, scrive Cassiano (ca. 360-435) in De instituis coenobiorum, “gli insinua dentro un orrore del luogo in cui si trova, un fastidio della propria cella e uno schifo dei fratelli che vivono con lui, che ora gli sembrano negligenti e grossolani.” Allora l’acedico si lagna dell’inutilità della vita conventuale, geme perché il suo spirito resterà arido se rimane in quel luogo. Si affligge per starsene svuotato e immobile sempre nella stessa cella.

 

Si profonde in sperticati elogi di monasteri assenti e lontani ed evoca i luoghi dove potrebbe essere sano e felice; [...] e, all’opposto, tutto quel che ha a portata di mano gli sembra aspro e difficile, i suoi fratelli privi di qualsiasi qualità e persino il cibo gli pare di non poterselo procurare là senza grande fatica. [Medita di abbandonare la sua cella, poi, nel pomeriggio,] gli prende un languore del corpo e una rabbiosa fame di cibo, come [...] se avesse digiunato per due o tre giorni. Allora comincia a guardarsi intorno qua e là, entra ed esce più volte dalla cella e fissa gli occhi sul sole come se potesse rallentarne l’occaso; e, alla fine, gli cala sulla mente una dissennata confusione...[2]

 

Scrive Adam Scoto (certosino del XII° secolo):

 

Spesso, quando sei solo in cella, si impadronisce di te una certa inerzia, un’insensibilità mentale e una nausea del cuore. Avverti una enorme ripugnanza. Sei un peso per te stesso e quella gioia interna che ti faceva sentire così felice ti ha abbandonato. La dolcezza che provavi ieri o l’altro ieri si è trasformata in una grande amarezza; il flusso di lacrime che ti bagnava tutto si è inaridito. Il vigore spirituale si è spento, la tua calma interiore è morta. La tua anima è in pezzi, confusa e divisa, triste e amareggiata. Non ti piace leggere, la preghiera non ti dà la pace che cerchi, non riesci a ritrovare la dolce pioggia delle meditazioni spirituali. [...] Non esistono gioia spirituale e letizia in te. Sei disposto e pronto agli scherzi, alle storielle e alle conversazioni oziose, ma sei lento nel far silenzio e nell’assumerti un valido impegno o nel darti agli esercizi spirituali.[3]

 

Colpiscono qui le figure della secchezza accidiosa: le lacrime consolatrici si inaridiscono, la dolce pioggia delle meditazioni si arresta. Inoltre, l’acedia è raffreddamento spirituale. Questa qualità fredda dell’accidia avrà una lunga carriera in Occidente. L’accidia prima, e la malinconia poi, verranno descritte come fredde e secche: l’anima algida, priva di fervore, si rinsecchisce.

            L’acedia era, di fatto, un attacco di menefreghismo; come in ogni noia che si rispetti. E di che cosa il singolo non si cura più? Del suo lavoro, che consiste nel trovare Dio e quindi l’esichia, il godimento dell’unione con Lui, la beatitudo come felicità somma, lontano dalle occupazioni del mondo. Invece di gioire del contatto col divino, l’ecclesiastico desidera...  Non gli interessa più nulla perché un desiderio senza oggetto, slegato, sfrenato, paradossalmente da una parte lo inchioda a letto e dall’altra lo spinge febbrilmente a vagare per il mondo, affamato.

            Insomma, il cruccio accidioso, nelle sue varie forme, si rivela come l’altra faccia, preoccupata e sconsolata, di un bisogno di essere spensierati come i più. Questa umana, troppo umana svagatezza tenta lo spirito teso al Gran Progetto – nel caso dei monaci, sperare che Dio si manifesti! È questa la grande grandissima festa a cui mira il monaco: incontrare Dio. E invece subentra la voglia di mangiar bene, bere, scherzare, divertirsi, copulare...

 

2. L’ora panica

            Perché il “demone dell’accidia” cala di solito proprio a mezzogiorno? In effetti mezzogiorno, nel mondo pagano, era l’ora in cui – nei boschi e nelle campagne - irrompeva Pan.

            Pan, dio pastore con gambe e corna di capro, con zoccoli e gambe irsute, nell’Antichità era il Signore dei campi e delle selve nell'ora meridiana. Vagava per i boschi suonando e danzando, eccitato cercava di agguantare pastorelli e ninfe. Quando un ragazzo o una ragazza sfuggiva alla sua presa erotica, si masturbava. Terribile il suo urlo selvaggio, che spaventava persino se stesso – urlo di mezzogiorno, al culmine della luce e della lascivia. Insomma, aveva le qualità giuste per ispirare l’iconografia cristiana di Satana. Allora, l’acedia era in fondo la tentazione di Pan? Mezzogiorno era, appunto, l’ora panica.

            Pan era il dio della libido allo stato brado. Concupiscenza pura. E in effetti l’accidia – così come la più normale noia – illustra una fenomenologia del desiderio che selvaggiamente emerge e distrae dal godimento di ciò che è e che conta. Il demone ci fa allora sentire tutto il peso del reale, restituito alla sua verità arida e gelida.

            Ma perché Pan agguanta proprio i monaci, e quale è la condizione di questo agguantare? È quel che vedremo poi. Perché l’acedia fa trasparire la dinamica della noia in generale, come vedremo.

 

3.Heidegger, “ci si annoia”

            Oggi la noia ci lascia perplessi in quanto essa è certamente un dolore, ma è dolore per l’indifferenza che la caratterizza, indifferenza sia per enti che possono essere piacevoli che per enti che possono essere spiacevoli. La noia è sofferenza di secondo livello: è differenza dolorosa per un’indifferenza. È forse per questo paradosso – la noia come prodotto spiacevole dell’esaustione dei piaceri - che tanti filosofi e scrittori si sono occupati di essa[4] Ma è stato Heidegger ad analizzare la noia nel modo più elaborato.

Heidegger (1999) distingue tre forme di noia: la prima è il venir-annoiati-da-qualcosa; la seconda è l’annoiarsi di qualcosa e lo scacciatempo a essa relativo; la terza – quella di cui ci occuperemo qui – è la noia profonda. Questa non è legata a qualcosa di specificamente noioso, è la noia che ci annoia del mondo intero. L’inglese usa ennui, termine francese, e boredom: l’ennui è uno stato mentale più o meno cronico, mentre il boredom ha per lo più una causa o un oggetto boring. È dell’ennui, della “noia profonda”, che ci occuperemo soprattutto qui.

Heidegger elegge questa noia profonda a “stato d’animo fondamentale del nostro esser-ci odierno”. Perché odierno e non di tutti i tempi? Forse che la nostra epoca è particolarmente noiosa? Heidegger non sviluppa questo spunto. Lascia però intendere che per fare filosofia bisogna annoiarsi profondamente. Per gli Antichi e per i rinascimentali per filosofeggiare bisognava essere malinconici. Aristotele scriveva “…tutti gli uomini che hanno compiuto qualcosa di superiore… sono chiaramente melanconici”[5]. Sembra che per i moderni, almeno a partire da Pascal, per filosofeggiare occorra annoiarsi. Alla nostra epoca la noia tende a prendere il posto della malinconia come stato d’animo nobile, come sentimento di cui vantarsi contro un mondo che fugge trafelato la noia.

Heidegger mette l’accento sull’essenza temporale della noia, favorito in questo dal termine tedesco Langeweile, noia, che letteralmente significa lungo mentre.

            Per Heidegger il Dasein, l’esser-ci, il soggetto umano potremmo dire, si confronta nella noia con l’essere-lasciato-vuoto e con l’essere-tenuto-in-sospeso. Ma non bisogna credere che la noia sia uno stato di coscienza. Al contrario, Es ist einem langweilig, dice Heidegger a proposito della noia profonda (Heidegger 1999, p. 178). Il traduttore rende l’espressione con “Uno si annoia”; in italiano non abbiamo nulla di simile a es, terza persona singolare neutra. Io direi “ci si annoia”: è indeterminato, e non una persona, chi si annoia. Bergson (1888) aveva detto qualcosa di simile: non si ha la noia, la si è. Insomma, la noia, pur essendo un affetto, svuota l’io, la coscienza, e stabilisce il soggetto in una impersonale neutralità. La noia è l’esperienza soggettiva dell’eclissi della propria soggettività, è il senso soggettivo della propria esclusione dal senso. Da qui la frase di Kierkegaard (1956)(Enten-Eller), che nella noia “sto morendo la morte”.

            Ora, l’esser-lasciati-vuoti nella noia corrisponde al fatto che l’esser-ci è consegnato all’ente che si nega nella sua totalità. Nella noia

“l’ente nella sua totalità è divenuto indifferente, non esclusi noi stessi in quanto persone. Noi non stiamo più, come soggetti e simili di fronte a questo ente e distinti da esso, bensì ci troviamo nel mezzo dell’ente nella sua totalità, cioè nella totalità di questa indifferenza. L’ente nella sua totalità tuttavia non scompare, anzi, si mostra in quanto tale proprio nella sua indifferenza. “ (Heidegger 1999, p. 183)[6]

E così negandosi nella sua totalità, che cosa dice l’ente che si nega? Dice il diniego di ciò che l’esser-ci potrebbe fare e lasciar fare. Le possibilità di fare e lasciar fare dell’esser-ci giacciono inutilizzate. Insomma, la noia è scioperatezza, anche se l’annoiato può fare, meccanicamente, delle cose[7].

            Ora, per Heidegger l’esser-ci si caratterizza essenzialmente per la sua apertura all’ente. L’essere umano, a differenza degli animali, si rapporta alle cose in quanto tali; non le usa semplicemente, si apre a esse in quanto cose, diciamo al loro essere. Non si limita a salire la scala, ma ha rapporto con la scala in quanto tale. Eppure paradossalmente la noia viene eletta stato d’animo fondamentale proprio perché questa apertura che caratterizza intimamente l’esser-ci non giunge a compimento; l’esser-ci è consegnato all’ente, ma nella noia l’ente si rifiuta. Nella noia l’ente si nega nella sua totalità, ma ovviamente non si tratta di una decisione dell’ente, bensì di un rapporto specifico che qui l’esser-ci stabilisce con l’ente. Heidegger dice giustamente che nella noia ogni ente – compreso il soggetto stesso – è indifferente per l’esser-ci, ma cosa vuol dire indifferenza? Heidegger non ce lo spiega, perché dovrebbe allora abbandonare la descrizione fenomenologica ed entrare nel campo della soggettività desiderante. Il senso di questo diniego dell’ente – riverbero di una chiusura soggettiva al mondo? - nella noia va approfondito. Notiamo che il termine noia, come il francese ennui, viene dal latino in odio[8]. Non semplice indifferenza quindi ma odio, qualcosa che implica un rigetto, una sorta di odiosa resistenza passiva dell’ente. La noia non è innocua, genera tacitamente qualcosa come una violenza. Che fu colta da Renata Adler: “Le persone annoiate, a meno che non dormano molto, sono crudeli. Non a caso noia e crudeltà sono le grandi preoccupazioni del nostro tempo”[9]. Torneremo su questa dimensione violenta e crudele della noia.

            Ora, fa notare Agamben (2002), se nella noia l’esser-ci sta di fronte a un ente che si rifiuta nella sua totalità, la posizione dell’esser-ci sembra molto simile a quella dell’animale, il quale, secondo Heidegger, non si confronta con l’ente in quanto tale, e perciò è “povero di mondo” (weltarm). Ed è interessante che Heidegger approfondisca l’analisi del rapporto dell’animale col mondo nello stesso seminario in cui si occupa della noia, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza - Solitudine. È la noia povertà di mondo? Ma non è un paradosso il fatto che da una parte la noia sia eletta stato d’animo fondamentale per l’esser-ci, e d’altra parte essa confronti l’esser-ci proprio con una défaillance che lo assimila all’animale, ovvero con il rifiuto dell’ente di darsi in quanto ente? Se l’esser-ci si definisce per la propria apertura all’ente, lo stato fondamentale – la noia - sarebbe proprio quello in cui l’ente è chiuso all’esser-ci? Una chiusura dell’ente che in qualche modo trova proprio nell’esser-ci la propria origine.

            Ma davvero è l’ente a rifiutarsi nella noia? L’ente continua a star là, a persistere svogliatamente, a insistere nel suo essere presente. È l’esser-ci piuttosto a diventare es, come nota lo stesso Heidegger, a escludersi dal commercio col mondo. Insomma, è l’ente a rifiutarsi all’esser-ci o l’ente nella noia manca di qualcosa di fondamentale per l’esser-ci? Quando si intravvede la mancanza, si è già nel campo della psicoanalisi.

 

4. Psicoanalisi, l’eclisse dell’oggetto

            Il contributo psicoanalitico più citato è quello di Otto Fenichel (1934). Egli distingue la noia patologica – ovvero cronica, immotivata – dalla noia normale, e in entrambe vi ritrova la stessa dinamica: ci si annoia perché manca l’oggetto o la meta che potrebbero soddisfare la pulsione. Nella noia patologica la meta della pulsione è rimossa, ovvero il soggetto non sa più quale oggetto potrebbe soddisfarlo; in quella normale l’oggetto manca semplicemente. In ogni caso, abbiamo a che fare con un rapporto tra la pulsione e il suo oggetto. Questa tesi era già stata enunciata in altri termini da Schopenhauer, per il quale la noia è leerer Sehnen, desiderio vuoto, è tensione desiderante che mira a qualcosa che non c’è.

Se l’analisi di Fenichel è esatta, dobbiamo giungere a una conclusione inevitabile: che nella noia facciamo esperienza diretta della pulsione allo stato puro, proprio perché deprivata di oggetto. Anzi, come vedremo, facciamo esperienza di un aspetto particolare della pulsione: di Drang, la spinta, o anelito, impulso, esigenza. Contrariamente a quel che pensano molti, l’oggetto non è qualcosa che si aggiunge alla pulsione, ma è parte costitutiva di essa; una parte costitutiva che però può mancare. Quando una nostra pulsione ha un oggetto, in qualche modo questo ci distrae dal pulsare stesso, lo assorbe nel valore che l’oggetto ha per noi. Come Husserl diceva che la coscienza è sempre coscienza di qualche cosa, analogamente possiamo dire “la pulsione è sempre desiderio di qualcosa”, tranne che nella noia, doloroso desiderio di nulla.  In questa prospettiva, il negarsi dell’ente nella sua totalità secondo Heidegger andrebbe riformulato in questo modo: l’ente nella sua totalità si nega come oggetto (Objekt) pulsionale. Il soggetto non trova nell’ente alcun Objekt, che in psicoanalisi è oggetto del desiderio o del godimento - non l’oggetto oggettivo (Gegenstand, star di contro), ma l’objet objectal come lo chiamano i francesi, l’oggetto oggettuale, l’oggetto-per-un-soggetto. Nella noia l’ente se ne sta per conto proprio, non si offre più al soggetto per soddisfarlo o farlo godere, né per perseguitarlo. L’ente si riduce a Gegenstand.

Sarebbe un errore pensare che, siccome all’annoiato non interessa nulla del mondo, si produrrebbe in lui un calo o sparizione delle pulsioni, della libido. Se la libido sparisse, il soggetto sarebbe senza vita, una “statua” umana. Ma la noia è dolorosa; e non c’è dolore senza libido. Nella noia invece la libido è forte, ma senza oggetto e senza “senso”.

            Che cosa è la pulsione, der Trieb? Innanzitutto la pulsione è qualcosa di attivo, “maschile” dice Freud (il genere di Trieb in effetti è maschile in tedesco), è uno spingersi su, un debordare[10].

Prima di tutto Freud (1915a) distingue le pulsioni dell’Io – che vegliano all’autoconservazione dell’individuo – dalle pulsioni sessuali, quelle di cui si occupa specificamente. Per Freud le pulsioni sono tutte parziali, anche se le raccoglie nella categoria generale di libido. Freud non nega che si possa parlare di pulsione di giuoco, di pulsione di distruzione, di pulsione di socialità, ecc., ma pensa che tutte queste pulsioni “mentali” siano scomponibili in pulsioni parziali più elementari, connesse all’erogenità del corpo[11]. L’assioma freudiano è che lo spirituale e il mentale siano una complicazione della “carne”, del corpo libidico. Le pulsioni sessuali sono parziali perché emanano da parti del corpo, che sono per lo più orifizi (anche l’occhio, ad esempio, nel caso della pulsione scopica è orifizio). Oltre a questi orifizi o buchi che sono fonte (Quelle) della pulsione, abbiamo una spinta o impulso (Drang), uno scopo (Ziel) e un oggetto (Objekt). L’oggetto, parte integrante della pulsione, può cambiare in quanto ente, ma occorre che una posizione-oggetto ci sia sempre perché la pulsione si dispieghi come tale.

            La noia si distingue dal lutto e dalla depressione. Nel lutto si soffre della perdita di un oggetto amato (Freud 1915b). Ma se nel lutto e nella depressione si è perso l’oggetto in quanto ente, la posizione-oggetto è rimasta però invariata; si soffre per qualcosa che dovrebbe essere in un certo posto, e non c’è più. Nella noia invece manca la posizione stessa dell’oggetto: il soggetto non sa nemmeno ciò che gli manca. Se lo sapesse, si ingegnerebbe per ottenerlo o per piangerlo, e non si annoierebbe più.

            Abbiamo detto che l’oggetto non è un elemento esterno alla pulsione, qualcosa che vi si aggreghi, ma una componente fondamentale della pulsione stessa. Che la posizione-oggetto è comunque parte costitutiva di Trieb. Con la noia quindi la pulsione risulta mutilata, una pulsione direi mostruosa.

Freud (1915b) distingue nella pulsione tre dimensioni: il reale, l’economico e il biologico. Il reale separa ciò che interessa da ciò che non interessa; il versante reale è ciò che non interessa. L’economico separa ciò che dà piacere da ciò che non dà piacere. Il biologico separa l’attivo dal passivo. Evidentemente le dimensioni pulsionali implicate nella noia sono il reale e l’economico. La noia riduce il mondo (e il soggetto stesso) a qualcosa che non interessa, insomma a reale puro; e confronta il soggetto con cose che tutte non danno piacere. Il soggetto è sprofondato nel reale spiacevole. Nella noia le opposizioni pulsionali vengono meno, perché solo una delle due opposizioni si manifesta, abbiamo solo disinteresse e dispiacere. In questo modo, la noia rivela un’incombente insensatezza della libido.

            Quel che ha lasciato perplessi molti sulla pulsione freudiana è il fatto che essa sia una tensione permanente. Ora, i processi fisiologici hanno alti e bassi, vanno e vengono, oscillano, mentre la pulsione ha una konstante Kraft, una forza costante. Freud ne parla come di flussi di lava, e l’organismo pulsionale è come un vulcano sempre in eruzione, che erutta a ondate che si succedono. Qualcuno ha detto che la teoria della pulsione è in contraddizione con la biologia, e quindi non bisogna prenderla in considerazione; altri, al contrario, hanno sottolineato questo iato proprio per emanciparla da ogni riferimento di tipo biologico, per fare della pulsione qualcosa di “soggettivo”, insomma di spirituale. Del resto Freud stesso aveva detto che la dottrina delle pulsioni “è la nostra mitologia” (Freud 1932a; Freud 1932b). Ora, questo carattere “mitico” di non-intermittenza della pulsione – che contrasta con la nostra percezione soggettiva dei nostri impulsi – può significare una cosa sola: che la pulsione coincide con una tensione che, benché spezzettata in varie “ondate di lava”, si sovrappone interamente all’esser vivi. Finché siamo vivi, siamo esseri pulsionali; ed essere enti pulsionali è essere vivi. La forza costante è quella della vita che non cessa di disturbarci, che non cessa di metterci alla ricerca di guai grazie ai quali possiamo confessare di aver vissuto.

            È notevole che lo stesso Lacan – che pure si sofferma a lungo sulla struttura articolata della pulsione, e la considera un “montaggio” – poi, quando passa a parlare di libido, dice:

“È la libido, in quanto puro istinto di vita cioè di vita immortale, di vita non reprimibile, di vita che non ha bisogno di alcun organo, di vita semplificata e indistruttibile” (Lacan 1973, p. 180).

Ma questi caratteri direi favolosi della libido sono già nel concetto di pulsione, in quanto tensione costante coestensiva alla vita. Così nella noia si mette a nudo, con gran disappunto del soggetto, questo istinto di vita che non trova nulla per nutrire il soggetto. La libido naufraga di fronte all’ente, che si nega come oggetto oggettuale. Nessun ente seduce la libido.

 

5. Lacan, desiderio senza meta

Per rendere chiara la struttura della pulsione, Lacan (1973, p. 163) propone uno schema:

 

 

Analyse Freudienne La pulsion si elle se répète c'est par l'effet du  signifiant. P. Wolosko, Paris 17/01/2017 - Analyse Freudienne

 

La fonte non è segnata qui, ma corrisponde all’inizio della freccia nella parte destra del bordo in basso, freccia emergente dal buco in cui consiste la zona erogena. (Il termine inglese rim significa bordo.) Egli usa due termini inglesi - aim e goal - per dire quel che Freud esprime con Ziel, meta. Si pensa che la meta della pulsione sia la propria soddisfazione, ma Freud aggiunge “seppure questa meta finale di ogni pulsione rimane invariata, più vie possono condurre alla stessa meta finale; perciò per una pulsione possono darsi molteplici mete prossime o intermedie le quali si combinano o si scambiano tra loro” (Freud 1915a, p. 18). Il fatto che la meta non sia unica, che essa si scaglioni in una serie di mete intermedie, spinge Lacan a interpretare il Ziel come tragitto, percorso, aim. La meta finale, intesa come soddisfazione, goal, è piuttosto indicata da Lacan nello stadio finale del percorso quando la freccia del Drang torna sulla fonte stessa, chiudendo il cerchio. Insomma, la pulsione si soddisfa alla fin fine sempre autoeroticamente: la bocca bacia se stessa, l’occhio guardando soddisfa se stesso… L’oggetto quindi non viene catturato dalla spinta pulsionale, la quale piuttosto gli gira attorno. L’Objekt è quel che permette alla carne di godere di se stessa.

            Ora, nella noia l’oggetto a non si fa trovare all’appuntamento, la freccia pulsionale non può girargli attorno e quindi non può nemmeno raggiungere il proprio goal. E dove va a finire? Non essendo indirizzata all’oggetto, la spinta pulsionale perde anche il suo aim e sembra fuggire verso l’infinito, alla ricerca disperata di un oggetto sperato. Il sentimento della noia è questa percezione di fuga della spinta pulsionale che non torna al corpo e alla mente del soggetto. Quando Heidegger diceva che nella noia c’è l’essere-lasciati-vuoti e l’essere-tenuti-in-sospeso, sembrava indicare proprio questo: il soggetto è lasciato vuoto dalla pulsione che non torna all’ovile direi, ovvero al soggetto stesso, ed è tenuto in sospeso in quanto la pulsione certo non si azzera, ma sembra promettere qualcosa nell’allontanamento dal soggetto. Grazie alla noia, l’essere umano è in grado di percepire la spinta libidica in quanto tale, allo stato puro. Leopardi aveva scritto “La noia è il desiderio di felicità allo stato puro”; lo potremmo sottoscrivere: la noia è desiderio. Più che “di felicità” direi desiderio “di soddisfazione”.

            Lo psicoanalista Adam Phillips (1993) scrisse “l’umore di irrequietezza diffusa [nella noia] contiene la voglia più assurda e paradossale, la voglia di un desiderio”. Ma io direi che la noia irrequieta è desiderio senza voglia, un desiderare a folle direi – come gira a folle la frizione - in cui il soggetto non può implicarsi. Perché il desiderio (libido) può non avere oggetto alcuno, mentre si ha sempre voglia di qualche cosa.

            La noia di solito non fa piangere, fa sbadigliare. In effetti, nel pianto si estingue la noia. Quando raggiungiamo il fondo piangendo, la noia si muta in disperazione, che ci consola facendo del nostro dolore uno spettacolo drammatico che ci distrae.

Al di là dei meccanismi cerebrali che legano tedio e sbadiglio, non possiamo non rilevare la portata simbolica di questo ultimo: la coazione a spalancare la bocca appare una rappresentazione ideografica del desiderio elementare, quello orale, il desiderio di mangiare. E non a caso si sbadiglia anche per fame. Lo sbadiglio è bouche béante, bocca beante, ovvero aperta, come è “beante” ogni desiderio.

            Nella noia la pulsione non raggiunge la propria meta; non potendo tornare sulla sorgente, sul bordo erogeno, perde anche la sorgente, che risulta allora diffusa, “beanza” pura. Nella noia la pulsione si riduce a pura spinta, Drang. Spinta verso nulla. La noia è come il tapis roulant, quella pedana mobile che ci obbliga a camminare o a correre, ma grazie a cui restiamo sempre nello stesso posto.

Freud diceva che dalla pulsione, proveniente dall’interno, non c’è possibilità di fuga. Si possono fuggire stimoli esterni, non interni. La noia mostra appunto che non c’è fuga dalla pulsione, essa è pietrificazione di fronte alle pulsioni.

            Heidegger diceva che nella noia l’ente si nega nella sua totalità, e ci potremmo chiedere perché “nella sua totalità”; dopo tutto, l’annoiato può sempre sperare che qualche ente salti fuori e lo tiri fuori dalla noia. In realtà questo rifiuto è totale perché l’annoiato nel fondo sa che nessun ente potrà mai essere oggetto pulsionale. Per cui Heidegger può dire:

“La noia profonda, che va e viene nelle profondità dell’esserci come una nebbia silenziosa, accomuna tutte le cose, tutti gli uomini, e con loro noi stessi in una strana indifferenza. Questa noia rivela l’ente nella sua totalità.”

(Heidegger 1987, p. 66)

E aggiunge che questa rivelazione della totalità dell’ente accade anche in un’altra situazione affettiva: nella gioia di avere accanto l’esser-ci della persona amata. In una situazione che potremmo considerare l’inverso della noia.

            La noia, la gioia amorosa: in entrambi i casi siamo di fronte all’ente nella sua totalità. Diciamo che nella noia siamo come schiacciati dall’ente in tutto il suo spessore. Invece con Angst, angoscia (che non è paura né ansia) l’esser-ci è messo di fronte al nulla.

In effetti, c’è una noia cosmica, che può anche non essere attuale ma piega della vita, un suo rumore di fondo – vanitas vanitatum, “la vanità di tutte le cose”. È vedere il mondo, la vita, come inane ripetizione o successione a causa di meccanismi. È il tedio di vedere la vita scandita da fasi biologiche: la volubile agitazione dell’infanzia, la febbre erotica della giovinezza adulta, l’accigliata preoccupazione della maturità, la svogliatezza e l’albagia della vecchiaia. Il ripetersi monotono delle stagioni e il succedersi fatale delle generazioni, l’amore come semplice macchina per riprodurre geni, l’insensata complessità del cosmo… Insomma, la noia dello sguardo oggettivo sul mondo e sulla vita. Non che lo scienziato vero si annoi, tutt’altro. Parlo di sguardo oggettivo sulla vita tutta, non del piacere di fare scienza. Si può godere della ricerca dell’oggettività, ma si soffre la noia quando si è oggettivi di fronte a tutto, senza ricerca della verità. In effetti lo sguardo oggettivo considera ogni cosa come Gegenstand e non come Objekt; ma il Gegenstand come tale non ha alcun valore soggettivo, è l’ente in quanto è ente e basta e non ci “dice” nulla. Il mondo oggettivo è un mondo odioso; o per lo meno antipatico. Quando Heidegger dice che la noia è sentimento fondamentale oggi, lo dice forse perché viviamo nell’età della scienza e dell’oggettività: in un’epoca in cui il mondo non ci implica più.

Per Heidegger la noia è il sentimento fondamentale forse perché è nell’essenza dell’ente di rifiutarsi all’esser-ci, al soggetto. L’ente si dà a noi solo come Objekt e Ziel, come oggetto di desiderio e come meta, in quanto diventa insomma oggetto-per-me. L’ente deve vestirsi da oggetto pulsionale per non rifiutarsi, ovvero per farsi aggirare dalla pulsione, che in un certo senso lo abbraccia sempre. Nella noia, l’ente non si lascia abbracciare dalla spinta (Drang) pulsionale.

 

6. Ammazzare il tempo

Molti filosofi hanno detto che l’essere umano è un essere che passa la vita a fuggire la noia. Si mette anche in un mare di guai pur di fuggirla. Spesso non consideriamo la noia un affetto così grave perché – a parte le noie patologiche, cioè croniche – di solito riusciamo a “ingannarla”. Ma se si prolunga, la noia può risultare devastante. È così quando la noia è parte di una crisi depressiva in senso lato; allora essa può anche combinarsi con un affetto che sembrerebbe contraddirla, l’angoscia.

In situazioni estreme, come nella prigionia e nell’eremitaggio, quando si è costretti in situazioni massimamente monotone, il soggetto tenta vie di fuga. La via di fuga che i prigionieri in isolamento o gli anacoreti trovano è l’allucinazione.

Scrive Oliver Sacks:

“Se il buio e la solitudine vengono ricercati da sant’uomini nelle caverne o vengono imposti a prigionieri in segrete senza luce, la deprivazione della ricezione visiva normale può stimolare invece l’occhio interno, producendo sogni, immaginazioni vive, o allucinazioni. C’è anche un termine speciale per le serie di allucinazioni brillantemente variegate che vengono a consolare o a tormentare i soggetti tenuti in isolamento o nel buio: ‘il cinema del prigioniero’”.

Da notare che “il cinema” si produce non solo con persone deprivate di ogni stimolo visivo, ma anche con quelle sottoposte a stimoli monotoni, come piloti che volano per ore e ore in un cielo vuoto. Non si tratta di allucinazioni psicotiche, ma compensative: né la realtà esterna né l’immaginazione interna riescono a produrre oggetti interessanti, ovvero soddisfacenti, e la mente riesce lo stesso a proiettarsi un film. Questo tra l’altro corrobora una tesi di fondo di Freud che è stata spesso criticata: che l’apparato psichico tende comunque alla soddisfazione, e che se la realtà la rifiuta, ebbene, la psiche allucinerà gli oggetti di soddisfazione mancanti (Freud 1895). L’essere umano cerca comunque e sempre di godere, a costo di fabbricarsi un godimento allucinatorio.

 

Si dice che nella noia il tempo non passi mai. In effetti, nell’esperienza non noiosa il tempo non è percepito come tale ma si inzuppa degli atti e delle cose che ci attraggono e ci interessano. Certamente tutti percepiamo il tempo che passa, ma questo passare non è doloroso perché esso fa da materiale grezzo per la nostra dinamica pulsionale. È quando nella noia la dinamica pulsionale è bloccata, che percepiamo il tempo come puro ente, ci accorgiamo finalmente del tempo come materia indigesta della vita. Forse per questa ragione Heidegger faceva della noia il sentimento filosofico iniziale, fondamentale. Il tempo si svuota di oggetti pulsionali, e lo percepiamo quindi come ente fondamentale vuoto. Le kantiane sintesi a priori dello spirito – spazio e tempo – sono essenzialmente noiose. Non c’è niente di più noioso dell’a priori.

Da qui il killing time, ammazzare il tempo. Ovvero distrarsi, passare il tempo divertendosi, svagarsi. L’espressione killing time riverbera una visione persecutoria del tempo. Il tempo percepito va ucciso perché esso ostruisce il godimento, esso è quel che resta della vita una volta eliminato il godere. Il tempo puro, il semplice scorrere del tempo, è lo scheletro intollerabile della vita; è come se, anziché vedere la bella che amo, io vedessi il suo scheletro. Oppure come se un museo esponesse solo le tele dei dipinti; il tempo è la tela di fondo degli eventi. C’è dell’odioso nella noia – come dice l’etimologia del termine – proprio in quanto essa ci spinge a uccidere il tempo.

Quando ci annoiamo a uno spettacolo, una conferenza, una situazione sociale, istintivamente tendiamo a guardare l’orologio. Guardare l’orologio da polso è l’equivalente dello sbadiglio. Spesso lo facciamo non perché vogliamo davvero verificare l’ora, ma inconsapevolmente per comunicare all’altro, ad esempio a chi sta parlando, “quanto tempo vuoi parlare ancora? Taglia!” Guardare l’orologio è a un tempo riflesso incondizionato, atto informativo e messaggio aggressivo. Di fronte a qualcosa di noioso, il tempo – materializzato nell’orologio – si impone a noi. Si impone come ciò che resta nel ritiro generalizzato degli Objekte e Ziele pulsionali, come se il tempo restasse il solo oggetto rilevante, ma in senso negativo, come l’ente che resta una volta tolto il godimento. Da qui il bisogno di ammazzare il tempo. L’in odio dell’etimologia è sostanzialmente odio del tempo, che afferma la sua presenza come “passando non passare mai”, presenza da affogare nella girandola delle soddisfazioni libidiche.

 

7. La noia utile

 

            L’idea che la vita umana sia tutta una fuga dalla noia implica che la noia sia un sentimento molto precoce. E in effetti la mostrano già i bambini piccoli. Costoro, non appena entrano in contatto con il mondo esterno, cercano stimoli interessanti, oggetti che si muovano, ecc. E se nessuno stimolo li capta, piangono. Ci si chiede spesso perché stiano piangendo, ma è chiaro che piangono perché si annoiano, esigono qualcosa che li diverta.

Questa idea della vita come lotta contro la noia si radica nell’utilitarismo di Bentham e Mill, per il quale l’essenza dell’essere umano consiste nel fuggire il dispiacere e nel cercare il piacere. Non basta evitare il dispiacere, perché la semplice mancanza di dispiacere annoia, ovvero crea comunque un dispiacere. La noia è un dispiacere di grado zero: una volta provati tutti i piaceri, la noia è là pronta a impadronirsi di noi. La noia ci segnala che non possiamo smettere di desiderare, che siamo forzati al desiderio, perché solo il desiderio ci vivifica. L’essenza umana non è quindi solo evitare i dispiaceri, ma è ricerca sempre di nuovi piaceri per schivare la noia.

Da qui è derivata una concezione positiva della noia, come il sentimento che ci permette di andare a caccia di nuovi desideri, e che quindi ci smuove da una certa soddisfatta indolenza. Questa idea della noia come frusta della creatività giunge fino a Walter Benjamin: “la noia è l’uccello di sogno che cova l’uovo dell’esperienza. Un fruscio tra le foglie lo scaccia via.” Per Benjamin il problema sarebbe la fragilità della noia, la sua caducità, perché solo la noia è capace di far nascere ‘l’uccellino’, cioè l’idea creativa a partire dall’esperienza. Ma è anche il punto di vista del cognitivismo oggi, che considera la noia un meccanismo mentale benefico in quanto, per superare la noia, siamo portati a inventare nuove attività e a crearci nuovi piaceri. Insomma, la noia servirebbe a rendere più produttiva la vita.

Oggi tra gli psicologi prevale la psicologia evoluzionista. Questa su qualsiasi cosa dà sempre un’unica e identica risposta: che tutto – anche ciò che appare doloroso e disfunzionale – svolge una funzione biologicamente adattativa. Bisogna dimostrare sempre la funzione adattativa in senso darwiniano di qualsiasi cosa. Anche quando la natura sviluppa aspetti ben poco adattativi, come le corna del cervo maschio (servono solo a sedurre le femmine, più sono grandi e intricate più sono seduttive, ma handicappano l’animale), l’evoluzionista si farà in quattro per dimostrare che anche quelle pesanti corna sono adattative. E anche la noia sarebbe adattativa, in quanto sprone a essere attivi e creativi. Per fuggire la noia, ci diamo alle scienze, alle arti e alle grandi imprese. (Eppure i dati a nostra disposizione ci dicono invece che le persone affette da noia sono quelle più esposte alle tossicodipendenze e al suicidio.)

Comunque, al di là del cognitivismo e della psicologia evoluzionista, nella nostra epoca l’intelligentzia tende a guardare con favore alla noia. Anche se sempre con ambivalenza, come mostrano le due citazioni di Leopardi in esergo. La noia sarebbe affetto tipico dell’uomo e della donna non fatui e superficiali, perché non si lasciano accalappiare dagli stimoli debordanti della società moderna, tutti dispositivi per non lasciar filtrare in noi il tedio.

            Da qui la figura del blasé, dell’uomo e della donna che non crede più in nulla, figura aristocratica o intellettuale paradigmatica, campione disincantato del privilegio. Moravia (1960) in La noia ci ha presentato proprio un rampollo sfaccendato del mondo borghese ricco la cui noia è quasi un marchio di classe. In versione comica, invece, nel film I tre ladri Totò, che è un poveraccio, svolge una funzione chiave in un processo ed è quindi mantenuto, servito e riverito. Questa condizione di favore lo trasforma in un raffinato annoiato, in uno snob molle e arrogante, ripete “sono stanco della mia stanchezza!” Un’espressione del genere – come “la mia noia mi annoia” – segnala che l’essere umano privo di preoccupazioni, anche materiali, si arena nell’ennui. Che annoiarsi è un lusso, è il prezzo che il privilegiato deve pagare per esser esente da angosce e cure. Ma, come vedremo, la noia del privilegiato è anche l’altra faccia della sua ambizione, che gli fa considerare alquanto misere le gratificazioni quotidiane che offre il mondo.

 

8. Sé grandioso e grande festa

            Allora, perché la noia? Non distinguo qui la noia “normale” da quella “patologica”, perché la psicoanalisi è nata proprio mettendo in questione la barriera tra normale e patologico. Lacan chiamò “formazioni dell’inconscio” il sogno, il sintomo nevrotico, gli atti mancati, il motto di spirito – cose sia “patologiche” che non. Le formazioni cosiddette normali e quelle patologiche hanno la stessa struttura. Per cui anche per la noia, il limite tra patologia e normalità è sempre incerto.

            La mia impressione è che la noia profonda sia effetto di una profonda delusione. Inconsciamente ci aspettavamo grandi cose, ma queste non sono accadute. Eclissato il sole dell’oggetto, tutte le cose del mondo sprofondano nel buio del disinteresse.

La noia è come un’eterna attesa, non a caso in tedesco si chiama Langeweile: essa è un “tra” che però potrebbe non finire mai. Ma attesa di che? Direi della grande festa. La festa è ciò che dà alla libido una direzione, moltiplicando gli oggetti di godimento. Quando parlo di grande festa, non mi riferisco ovviamente alle feste a cui possiamo partecipare come scacciatempo, per ingannare la noia. Mi riferisco a una fantasia, che di per sé è irraggiungibile.  La “grande festa” è definita dal fatto che non vi abbiamo mai accesso.

Di solito uomini e animali reagiscono alla noia con il sonno. Il sonno è una fuga non motoria ma psichica, è andarsene altrove pur restando fisicamente là. Chi si annoia molto spesso dorme molto. O resta a letto, in una sorta di catatonia. Si dorme perché ci si stanca della noia. È un’eccezione quindi a quel che dice Freud, che dalle pulsioni non si può fuggire.

Il sonno cancella la noia perché eclissa l’ente che rifiuta di darci l’oggetto. Quando il depresso catatonico si sveglia, si ritrova di nuovo di fronte alla barriera respingente dell’ente. Il sonno è la morfina dell’annoiato.

            Ho seguito una persona che soffriva di noia cronica; la quale si accompagnava a inappetenza e disturbi intestinali. Cercava di lavorare, ma in una lugubre svogliatezza. Quando però dormiva, lo scenario cambiava del tutto: i suoi sogni erano eccitanti, pieni di colpi di scena, di avventure amorose, di viaggi esotici. Da qui la sua difficoltà a svegliarsi, per passare dal film onirico allo squallore della vita desta. Squallore perché un grande progetto professionale che nutriva da tempo era fallito; in apparenza non l’aveva presa male, ma di fatto questo fallimento aveva scardinato il suo investimento libidico del mondo. Nel sonno, il soggetto partecipava alla grande festa, al trionfo della propria vita. Quella festa gli era sbarrata nella vita vigile. È come se il suo inconscio gli dicesse: “La bella vita che sogni te la puoi solo sognare!”

            Ma nei sogni appariva quell’Altro che, attraverso la noia, godeva. Per Freud dietro ogni sofferenza psichica si nasconde un godimento, non certo dell’Io, ma di un es - es geniesst, si gode. Nei sogni accedeva alla coscienza quell’Altro che nella noia gode, perché la grande festa è tutta per lui, ed è questa che orienta l’esistenza del soggetto. Possiamo cogliere nella noia anche un versante di invidia.

            Un caso per certi versi affine è stato portato da Greenson (1953). Si trattava di una donna di 29 anni che soffriva di noia cronica. “Questa paziente viveva i sogni notturni in modo più che mai vivido, invece le sue associazioni [in analisi] andavano agli scampoli della giornata e quindi alle minuzie della sua vita quotidiana. Non c’era alcun legame tra i sogni notturni attraverso le associazioni con fantasie, o pensieri, o ricordi.” I suoi sogni erano così vivi da sembrare reali, mentre la giornata reale era tutta dissolta nella nebbia dei particolari.

            All’annoiato non è possibile essere l’Altro, vale a dire colui che gode. A lui resta solo l’esilio della vita reale, con la sua mancanza di oggetto e di senso. Nessuna causa ideale vivifica il soggetto, nella noia ogni causa è causa persa.

            Una visione simile della noia era sostenuta da Leopardi (1969, LXVIII):

« La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani. Non che io creda che dall'esame di tale sentimento nascano quelle conseguenze che molti filosofi hanno stimato di raccorne, ma nondimeno il non potere essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l'ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole maravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell'animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l'universo infinito, e sentire che l'animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d'insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana. Perciò la noia è poco nota agli uomini di nessun momento, e pochissimo o nulla agli altri animali.  »

In modo molto esplicito Leopardi mette in luce il fondo megalomane di ogni noia profonda: il mondo è troppo piccolo per l’immensità del suo spirito[12]. La noia è come per Napoleone regnare sull’isola d’Elba. Quel che chiamo la grande festa, in Leopardi è iperbolicamente “immaginarsi il numero dei mondi infinito”. È capace di noia profonda solo un grandiose Self[13], un io tremendamente ambizioso. E mi chiedo se non siano, in altre parole, le ragioni direi segrete per cui Heidegger fa della noia lo stato d’animo fondamentale: pur essendo essa relativa a un rifiuto, secondo lui, la noia è pur sempre un rifiuto dell’ente nella sua totalità. C’è qualcosa di grandiosamente totalizzante in questo rifiuto. La noia è uno scacco da cui trapela la magnificenza del soggetto fallito, che non trova il mondo attuale degno di sé.

E così, tornando all’acedia dei monaci del Medio Evo, ne cogliamo forse l’implicita dinamica. Per il monaco l’incontro con Dio, fine ultimo della sua vocazione, è la grande festa.  Una festa direi iperbolica. Ma questo incontro, almeno fino a quando lo coglie l’acedia, non si produce. Lo scacco di questa grande festa dà spazio alla libido primaria, carnale. Venendo a mancare l’oggetto sublime, riemergono gli oggetti libidici elementari, “panici”, i soli capaci di “ammazzare il tempo”.

In effetti, ammazziamo il tempo con qualche attività secondaria o futile quando siamo in attesa di un grande evento. La noia in fondo è attesa. Ma attesa di qualcosa che non si conosce, o meglio, di cui si è persa la memoria, da qui le molte attività dell’annoiato per dimenticare di attendere, per ingannare l’attesa. Perciò l’aura noiosa che avvolge tanti nostri divertimenti, che solo fino a un certo punto ci fanno dimenticare la noia, l’attesa della grande festa.

 

 

G. Agamben (2002) L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino.

W. Benjamin (2011) Il narratore, traduzione di R. Solmi, Einaudi, Torino.

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V. Jankélévitch (1963) L’aventure, l’ennui, le sérieux, Aubier Montaigne, Paris.

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G. Leopardi (1969) Pensieri, in Tutte le opere, vol. I, Sansoni Editore, Firenze 1969, con introduzione a cura di Walter Binni e con la collaborazione di Enrico Ghidetti,

M. Mancia (1990) Nello sguardo di Narciso. Saggi su memoria, affetti e creatività, Laterza, Roma.

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G.C. Zapparoli (1979) La paura e la noia, Il Saggiatore, Milano.

 

2017

[1] Nilus di Ancyra, De octo spiritibus malitiae, in: PG 79, col. 1145–1164.

 

[2] Johannes Cassianus, De institutis coenobiorum, libro 10, cap. 2.

 

[3] Adamus Scotus, Sermones, PL.

 

[4] Pascal, Schopenhauer (1972), Kierkegaard, Leopardi, Nietzsche, Russell, Sontag (1966), Bergson, Benjamin, Jankélévitch (1963), ecc.

 

[5] Problemata XXX.1 953a10-14. Malinconia, mélas kolé, bile nera, non coincideva necessariamente con quella che chiamiamo oggi malinconia in psichiatria. Si intendevano i disturbi mentali in generale.

[6] Per Heidegger è l’ente a rifiutarsi all’esser-ci e non l’esser-ci all’ente perché la fenomenologia è anti-psicologica: quando analizza emozioni, non parte dal presupposto assoluto di un’anima emotiva, ma si concentra sugli enti del mondo correlati a un’emozione. Per la fenomenologia, un’emozione è prima di tutto una modificazione del mondo. Nel caso della noia, è rifiuto di darsi da parte del mondo.

[7] La psichiatria distingue la noia calma, senza agitazione, dalla noia irrequieta, smaniosa, ma dall’una si può passare all’altra. Insomma, si può essere iperattivi per noia.

[8] Gli inglese bore e boredom trovano la loro etimologia in atti di perforazione, come quella della trivella.

[9] Pittsburgh Post-Gazette, July 6, 1994.

[10] Per molti quello di pulsione è il concetto fondamentale di Freud. Vedi Nancy (2011).

[11] Più tardi però Freud farà della pulsione di distruzione una pulsione fondamentale, in quanto manifestazione della pulsione di morte. La pulsione di socialità manifesterà invece un’altra pulsione fondamentale, Eros, pulsione di vita.

[12] Già alcuni psicoanalisti italiani avevano visto nella noia un narcisismo distruttivo, grandioso e ostile (Zapparoli 1979, Mancia 1990).

 

[13] Letteralmente “ il sé grandone”. Concetto reso popolare in psicoanalisi da Heinz Kohut.

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