Flussi di Sergio Benvenuto

Natura versus Cultura. Una critica05/ago/2023


 

25/08/2020

 

 

Una prima versione è stata pubblicata come: « Natura/Cultura : una dicotomia da superare », Lettera internazionale, 82, 4° trimestre 2004, pp. 22-26.

 

 

Il costume è una seconda natura che distrugge la prima. Ma cos’è natura, perché il costume non è naturale? Ho gran paura che questa natura non sia ella stessa altro che un primo costume, come il costume non sia altro che una seconda natura.

Blaise Pascal, Pensées[1]

 

In Russia, spesso chiedo a certe persone, abbastanza anziane per ricordarsi di come si viveva nell’URSS, come vedono oggi quell’epoca. Mi ha risposto un taxista di Novosibirsk: “Il socialismo era una bella idea, ma purtroppo contrasta con la natura umana: questa non accetta l’eguaglianza, ognuno vuole essere più degli altri”.

Questo adagio del taxista è condiviso anche da sofisticati filosofi. Esso si basa su alcuni presupposti filosofici forti, e cioè:

 

(a) esiste una natura umana,

(b) è un tratto della natura umana l’aspirazione di ciascun individuo a essere diverso da ogni altro, e spesso a essere superiore (in qualsiasi senso) all’altro,

(c) alcuni progetti politici e sociali risultano incompatibili con questo tratto della natura umana e quindi prima o poi falliscono.

 

Questi assunti si fondano su una distinzione che da secoli ci perseguita attraverso tutte le biblioteche: bisogna separare, nella vita umana, ciò che viene dalla nostra natura da ciò che viene dalla cultura o dalla storia. Bisogna insomma distinguere accuratamente, si dice oggi, nature da nurture (allevamento, educazione, acquisizione), la vita umana (zoé) dalla storia.

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1.    La Grande Dicotomia

 

Chiamerò qui Grande Dicotomia questa distinzione – categoriale, ancor prima che empirica – tra una supposta natura umana e la cultura, o meglio le culture. Essa ha assunto molti nomi e molte maschere nel corso del tempo. Già i greci separavano nomos e physis, la legge e la natura. Si è quindi parlato di atomi e nous, materia e forma, anima e corpo, res cogitans e res extensa (Descartes), mind vs. body. Per questa ragione crediamo di sapere bene che cosa sia natura: ciò che è necessario e uniforme negli esseri umani. E crediamo di sapere bene che cosa sia cultura: ciò che è contingente e storicamente mutevole negli esseri umani.

La Dicotomia viene interpretata oggi anche in termini biologici, come differenza tra innato e acquisito: si suppone che ogni essere umano sappia certe cose sin dalla nascita (ad esempio, appena nati sappiamo come ciucciare dal seno materno), mentre altre le apprende. Questa opposizione è ricondotta a quella tra eredità genetica e influsso ambientale. Nella visione oggi predominante, le tre opposizioni – Nature vs Nurture, Innato vs Acquisito, Eredità genetica vs Influsso ambientale – si sovrappongono.

Per un certo tempo tra gli studiosi ha prevalso il behaviorismo, una teoria che privilegiava la dimensione ambientale: l’essere umano è essenzialmente apprendimento. Oggi invece, nella cultura di massa, prevale l’innatismo: l’essere umano è essenzialmente eredità genetica. Ma i due approcci coesistono oggi: tutto viene dalla Mamma, tutto viene dal Gene.

A chi interessa soprattutto il salto di qualità per così dire, tra animalità (pura natura) e umanità (natura + cultura), insiste molto sulla neotenia, ovvero, sulla prematurazione del cervello del piccolo umano alla nascita. In effetti, il piccolo d’uomo ha questa specificità rispetto a tutti gli altri mammiferi: nascendo con un cervello ancora embrionale, completa la propria maturazione nel corso dell’infanzia, che risulta quindi molto più lunga (circa undici anni, sui 70-80 della speranza di vita) rispetto alle infanzie di altre specie (certi primati sono anche neotenici, ma meno di Homo sapiens). Questo significa che l’essere umano deve apprendere nel corso della vita infantile tutta una serie di cose che gli altri mammiferi già sanno grazie a un sapere innato. Ma proprio perché devono apprendere, questo sapere può essere variabile. Ovvero, in Homo sapiens la parte presa dall’influenza ambientale – cioè, dall’apprendimento – è di gran lunga più ampia rispetto alla parte presa dal “sapere innato” a confronto con le altre specie. Da qui l’enorme importanza che ha, in Homo sapiens, l’esperienza infantile, così lunga e così formativa. La cultura, e il linguaggio che ne sarebbe la condizione, sarebbe effetto della neotenia umana. Torneremo su questo punto.

 

Fino a non molto tempo fa, l’opinione pubblica era catechizzata nel credere a questa teoria: tutti siamo la manifestazione diretta del nostro genoma. Continuamente nelle pagine dei giornali si leggeva che questo o quel ricercatore in America avrebbe finalmente scoperto il gene che determina una qualsiasi cosa noi siamo e facciamo. Il nostro destino è già scritto nel nostro DNA. Un famoso giornale scrisse che si era finalmente scoperto il gene dell’infedeltà coniugale…

In verità emerge anche una tendenza – per me la più interessante – che reagisce decisamente a questo genetismo d’obbligo: essa critica il modello di “Il DNA-è-Dio-e-l’RNA-è-il-suo-profeta”. E non a caso, uno dei libri di teoria biologica più apprezzato negli ultimi anni in Francia si intitola Né Dio, né gene[2]. Cresce tra i biologi più nervosi l’insofferenza per questo “imperialismo genetico” come per una nuova forma di dogmatismo quasi religioso.

Una soluzione che sembra saggia, “centrista”, è il cosiddetto interazionismo: in ogni individuo una parte sarebbe determinata dal suo DNA e un’altra da fattori acquisiti. Nei paesi anglofoni fino a poco tempo fa veniva insegnato questo articolo di fede: “le capacità dell’uomo sono per l’80% ereditate, e per il 20% ambientali”. Questo adagio sancisce il primato del determinismo biologico, che pur concede graziosamente all’ambientalista un 20% di consolazione. Come vedremo, attribuire una certa percentuale all’eredità genetica e all’influsso ambientale è operazione assurda.

Inutile dire quanto in questo dibattito si intreccino continuamente passioni sia epistemologiche che etico-politiche – soprattutto quando è in gioco la sessualità. Basti pensare alla valanga di studi e discussioni su sex e gender: il sex è il sesso biologico (geneticamente determinato), il gender è la costruzione socio-culturale delle differenze tra maschile e femminile.

Ad esempio, chi invoca un’origine puramente genetica dell’omosessualità[3] afferma che solo questa ipotesi la renderebbe politicamente accettabile. Dice: “se si nasce omosessuali, come si nasce con i capelli biondi o con la sindrome di Down, allora le riserve contro i gay non hanno più ragione di sussistere”. Dubito però che attribuire atti o impulsi “di minoranza” al determinismo genetico vada sempre a vantaggio di chi si trova in questa minoranza. Se ci si convincesse, ad esempio, che lo stupro o l’omicidio siano causati da istruzioni genetiche, i fautori della pena capitale potrebbero avere argomenti formidabili: sarebbe inutile sperare nel cambiamento, ravvedimento e riabilitazione di questi criminali nati, tanto vale farli fuori al più presto.

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2.    Foucault versus Chomsky

 

Il dibattito oggi sembra focalizzato – e direi impantanato – tra due approcci alternativi: chiamerò uno universalismo naturalista e l’altro relativismo culturalista. Le due concezioni hanno trovato anche le loro star paradigmatiche di riferimento: Michel Foucault e Noam Chomsky. Anche perché i due campioni – affini politicamente – si incontrarono personalmente nel 1971 in un dibattito televisivo ormai famoso[4].

Chomsky, ispiratore delle teorie cognitiviste, sostiene che il linguaggio umano è unico e innato, come sono innati e comuni a tutti i nostri simili il cuore o il naso. Le differenze tra le varie lingue umane sono secondarie e dovute a contingenze, ciascuno di noi è in grado di parlare qualsiasi lingua perché il linguaggio umano è sintatticamente unico, le sue regole sono inscritte nel genoma di ogni essere umano. Jerry Fodor, sulla scia di Chomsky, ha detto che di fatto tutti parliamo una stessa Lingua: il mentalese[5]. Estesa a tutta la cultura, questa tesi implica che le differenze – anche se spettacolari e drammatiche – tra le varie lingue (e società) umane sono di fatto epifenomeni. Ogni lingua (e società) declina un paradigma unico, innato. Insomma, al di là delle differenze storiche, ogni cultura, compresa la lingua, esprime una fondamentale e unica natura umana. La biologia genetica sarà in grado di descriverci i caratteri universali delle culture come espressione di questa natura, necessaria e immutabile.

Questa teoria risulta del tutto congrua a certi fondamentali presupposti etico-politici dell’Occidente, prima cristiano, poi capitalista o socialista, ma comunque universalista: guardare a Homo sapiens nella sua universalità, trascurando le differenze tra società come epifenomeni. Direi che è la filosofia più rappresentativa, e più presentabile, della globalizzazione.

Le differenze tra culture sarebbero allora spiegabili in termini funzionalisti: perché la stessa natura umana si confronta con ambienti diversi e quindi ha da risolvere problemi diversi. Perciò una cultura equatoriale sarà necessariamente diversa da una cultura del circolo polare artico, ad esempio. Si tratta qui di una pedissequa applicazione dell’adattativismo biologico alla cultura: come l’ambiente seleziona i tratti biologici più adatti, analogamente l’ambiente seleziona i tratti culturali più adatti a un gruppo per aiutarlo a sopravvivere.

Per esempio, il funzionalista tenderà a vedere le arzigogolate e minuziose regole alimentari che costituiscono la tradizione kasher ebraica come la strategia di un popolo per darsi una dieta consona al clima caldo della Palestina. Ma cosa dire quando queste regole alimentari sono seguite in modo pignolo, per secoli, da ebrei ashkenaziti negli inverni di Varsavia o di New York? Per il funzionalista si tratta solo di derive irrazionali, ovvero non più adattative, che non cancellano le origini adattative di quel tipo di alimentazione. Eppure, gran parte degli studi antropologici sembrano star lì proprio per smentire questo pregiudizio funzionalista. Il funzionalismo adattativista è troppo povero sia per spiegare la varietà della vita biologica, sia per spiegare la varietà della vita culturale.

Foucault al contrario è stato eletto campione del relativismo culturalista (tara rinfacciata al cosiddetto pensiero post-moderno). Si pensa che per lui “la natura umana” esista solo come concezione storicamente datata, quel che contano insomma sono le differenze – tra esseri umani, culture, “dispositivi di potere” come li chiama lui. La pretesa di voler ricostruire degli universali umani – sulla base dei quali fondare l’azione politica, la scelta etica, la verità scientifica, ecc. – è un’illusione: questi universali sono di fatto espressione di una particolare configurazione storica. Questa tende a “naturalizzare” e “universalizzare” lo stato dell’arte filosofico, per così dire, di ogni epoca.

In verità, questo mio riassunto dei modi di vedere la Dicotomia non rende giustizia ai pensieri, molto più complessi, di Chomsky e Foucault. Ma qui ci riferiamo soprattutto a modi di pensare oggi dominanti nella massa degli intellettuali (perché anche gli intellettuali hanno una loro cultura di massa, che spesso trovo non meno rozza delle cosiddette “culture di massa” popolari).

 

3.    Da Aristotele ai Gender Studies

 

Anche il pensiero di Foucault appare congruo a una parte cospicua della cultura contemporanea: sistematizza una venerabile tradizione di “critica delle naturalizzazioni”. Una delle ragioni del suo grande successo nell’ambiente accademico umanistico.

Queste critiche si basano su un prototipo filosofico: la critica della giustificazione data da Aristotele alla schiavitù e al dominio del marito sulla moglie. Secondo Aristotele[6], in effetti, alcuni popoli – come gli sciti o i traci – o individui erano predestinati alla schiavitù per natura (katà physin). E per natura la femmina è sottoposta al maschio così come l’animale è sottoposto all’uomo, come il corpo è sottoposto all’anima, e come l’appetito è sottoposto all’intelletto.

La critica di queste naturalizzazioni oggi è divenuta l’argomento essenziale del femminismo, oltre che dell’anti-razzismo. Ora, attraverso questa critica delle naturalizzazioni, il pensiero post-moderno è sfociato in una concezione storicista radicale secondo cui ogni richiamo alla “natura” dell’essere umano è mistificatorio: credere che certi tratti degli umani (a parte certi ovvi tratti fisiologici) siano naturali è sempre un’illusione che esprime un determinato assetto culturale. Tutto è Storia. Insomma, gran parte del pensiero accademico post-moderno prolunga la sfida idealista secondo cui tutto, in fin dei conti, è costruzione culturale, ovvero creazione spirituale. Tutto è Geist, è spirito. Perché anche la natura, anche le stelle e le montagne, sono entità che lo spirito descrive, “la natura” quindi è un concetto elaborato dallo spirito.

Così, oggi, vengono messi alla berlina tutti gli studi che tendono a stabilire delle gerarchie, ad esempio di intelligenza, tra le razze umane (secondo cui gli asiatici, cinesi e giapponesi, sarebbero al vertice, e gli africani neri alla base) o tra i genders. Siamo convinti che se gli stessi stimoli culturali fossero dati a tutti, tutti i gruppi umani, senza distinzione di razza o genere, raggiungerebbe uno stesso livello di capacità intellettuali. Questo principio è dato come assiomatico, ma la realtà biologica e sociale non è assiomatica, non è una geometria.

Questa critica delle naturalizzazioni, dal marxismo al femminismo, ha costituito un’avanzata importante. Purtroppo però essa di solito non porta a una critica della Grande Dicotomia, anzi, tende a riaffermarLa attraverso presupposti o rousseauiani o spiritualistici. Chi mostra che la schiavitù o la sottomissione delle donne sono assetti storico-culturali e non conseguenze di nature inferiori, spesso presuppone che questi assetti storico-culturali – schiavismo, dominio dei maschi sulle femmine – neghino la vera Natura. La riforma sociale consisterebbe allora nel dare forma a una società finalmente “secondo natura” in senso ancora aristotelico. Siccome le differenze di gender si baserebbero su teorie false, allora uomini e donne devono essere socialmente eguali perché sono eguali per natura. Il solo attribuire a un genere maggiori capacità che all’altro in certi campi – ad esempio, dire che l’uomo ha più senso d’orientamento spaziale che le donne, e le donne maggiori abilità linguistiche – è accolto con grande sospetto. La non provata credenza di sfondo è quella secondo cui “tutti nasciamo liberi ed eguali, e poi la società ci fa servi e ci rende disuguali”. Da qui il sogno di una società che sia veramente naturale, che esprima la vera natura umana (ovviamente egualitaria).

La critica agli attuali assetti sociali e culturali non poggia però tutta su impliciti rousseauiani e naturalistici di questo tipo. Un altro filone critico – che chiamerei esistenzialista – rifiuta invece, richiamandosi a Hegel o alla fenomenologia o a Foucault, ogni appello a una supposta natura umana. Il femminismo esistenzialista, ad esempio, si riassume nella celebre frase di Simone de Beauvoir: “donna non si nasce, lo si diventa”[7]. Non esiste una natura femminile: si diventa donna per una serie di “scelte” delle culture storiche, ma anche degli individui.

Insomma, la critica naturalista dice: “la schiavitù nega l’eguaglianza naturale”, “la sottomissione della donna all’uomo è contro natura”. La critica esistenzialista dice: “è schiavo chi accetta la schiavizzazione che l’altro gli ha imposto”, “è donna chi si sceglie tale in risposta a quel che gli uomini dicono e fanno di lei”. Eppure entrambe le critiche superano solo in apparenza la Dicotomia. I naturalisti rousseauiani denunciano le società storiche – a cominciare dalla nostra – come “contro natura”; ma così presumono ipso facto che esistano culture davvero naturali (di solito quelle dei selvaggi, a cui le società moderne dovrebbero ispirarsi in qualche modo). Proprio perché una cultura non esprimerebbe la vera natura, sarebbe radicalmente cultura – ovvero cattiva. La Dicotomia si riafferma come confronto tra il Male (la cultura contro-natura) e il Bene (la natura vera).

Quanto all’esistenzialismo, solo in apparenza il riferimento alla natura è cancellato: di fatto, una “natura” viene implicata dal presupposto della libertà umana. Siccome ogni soggetto od ogni cultura o entrambi sono liberi, questa libertà è la “natura” da ristabilire – anche se si tratta di una natura trascendentale, ovvero di una meta-natura non naturale…. È vero che questa libertà è in sostanza libertà dalla natura, quest’ultima intesa come determinismo: ma funziona come una seconda natura – che chiamerei pratica o etica – che fa da modello a ogni assetto culturale. Così anche la critica esistenzialista condanna la cultura di oggi in nome di una Natura umana violata e tradita, benché questa Natura non è il DNA ma lo spirito umano – inteso nella tradizione cartesiana, o come coscienza intenzionale (Husserl), Dasein (Heidegger), “per sé” (Sartre), riflessione e libertà.

Quindi, il relativismo culturalista mette romanticamente al centro la libertà umana: ovvero, lo sterminato arbitrio di cui godrebbero le culture nel dare forma al mondo e ordine e senso alle vite umane. Contro questa credenza nell’autonomia di ciò che Hegel aveva chiamato Spirito Oggettivo, gli universalisti naturalisti riaffermano gli universali umani, vale a dire, certe capacità mentali innate e determinate di tutti i membri della specie Homo sapiens. Perciò il confronto tra “naturalisti” e “storico-culturalisti” si articola, almeno in parte, come dicotomia tra “universalismo” da una parte (la natura umana sarebbe quel che è comune agli uomini) e “differenzialismo” dall’altra.

Dove schierarsi? Ora, credo che possiamo sfuggire a questo dilemma: che forse la risposta migliore è cambiare la domanda. Liberandoci, finalmente, della Dicotomia.

 

4.    Gehlen e l’animal instructum

 

Un possibile superamento della Dicotomia che oggi risulta molto popolare tra filosofi si appella alle teorie di Arnold Gehlen[8]. Egli insiste sulla neotenia umana. Secondo Gehlen, l’essere umano, nascendo immaturo, per sopravvivere deve inventarsi, per dir così, la cultura, dato che non può disporre degli automatismi adattativi degli altri animali, delle risposte agli stimoli prestabilite dal proprio genoma. Da qui k’enunciato-chiave di Gehlen: “la cultura è la seconda natura dell’uomo”[9]. L’essere umano è un essere “carente” e “non definito”, da qui la necessità di sviluppare una cultura – di fatto quel che ci insegnano e ci impongono gli altri. Ovvero, l’essere umano ha una doppia natura, una animale e l’altra culturale. Un’affermazione alquanto pericolosa, difatti Gehlen era un intellettuale organico al regime nazista.

Gehlen faceva parte dell’élite intellettuale nazista. Ed è facile capire perché. Se dobbiamo considerare una specifica cultura alla stregua di una natura, anche se “seconda”, allora un ebreo, ad esempio, sarà marcato dalla propria cultura come se fosse la propria razza biologica. Se si è naturalmente ebrei o ariani o slavi – dato che nell’uomo la cultura è seconda natura – la differenza tra ebrei ariani e slavi diventerà fondamentale. Possiamo insomma considerare una data cultura umana come una razza biologica, dato che la cultura “è seconda natura”.

Va detto che oggi il pensiero di Gehlen attrae molto filosofi che si situano invece nell’ambito della sinistra radicale, il che può sorprendere[10]. Quel che recepiscono, però, della tesi di Gehlen non è il risvolto nazista (“la nostra cultura è di fatto una nostra natura”) ma la possibilità di variare storicamente la propria cultura, la supposta libertà che avrebbe non il singolo umano, ma la cultura umana, nel formare uomini e donne.

In effetti, per una parte della cultura di estrema sinistra è molto importante insistere sulla differenza tra l’umano e l’animale: il linguaggio, e quindi la cultura, segnerebbe una rottura fondamentale, diciamo catastrofica, tra l’animalità e l’umanità. Questo pensiero riprende di fatto la preoccupazione tradizionale delle psicologie metafisiche cristiane (o cartesiane): solo che mentre nelle psicologie tradizionali la differenza era nell’anima immortale, di cui gli animali sono privi (oppure, come nella revisione cartesiana, la differenza era nella res cogitans, riservata unicamente all’uomo), ora la differenza è nella cultura, che sarebbe appannaggio esclusivo degli umani. La superiorità umana sugli animali non viene attribuita a un in più come nelle concezioni tradizionali – l’uomo rispetto agli animali ha in più la ratio, o l’anima immortale, o la res cogitans… – ma a un iniziale in menorispetto agli animali. La carenza umana di “risposte naturali” all’ambiente costringe Homo sapiens, direi, a diventare superiore, sviluppando una cultura.

Questa tesi dipende da ciò che decidiamo di considerare cultura. Possiamo benissimo attribuire agli animali delle “culture”, se consideriamo tali le variazioni di comportamento che essi mostrano quando sono portati in ambienti diversi da quelli di nascita. Possiamo considerare i comportamenti che tanti animali esibiscono in cattività come “culture da zoo”. Del resto, anche nel canto di certi uccelli, come grilli o cicale, gli zoologi notano varietà dialettali, locali. Inoltre, avvengono rivolgimenti “storici” in ogni branco, specialmente in quelli dei primati. Uno scimpanzé maschio alfa può ad esempio essere detronizzato da un maschio beta, il che cambia del tutto gli equilibri “politici” all’interno del branco… Ma se decidiamo di considerare la cultura qualcosa di inscindibile dal linguaggio, evidentemente la Kultur sarà qualcosa di unicamente umano.

Il punto è: perché è così importante per questa filosofia, di solito di sinistra, militare per la radicale differenza umana rispetto all’animalità? Derrida reagì a questo bisogno (filosofico? etico? politico?) dedicando gli ultimi anni a una rivalutazione filosofica dell’animalità, cercando in tutti i modi di attenuare la differenza catastrofica tra umano (in quanto essere culturale) e animale[11]. La ragione essenziale della militanza filo-antropica è che l’animalità viene considerata la sfera dei determinismi fisio-psichici: dato uno stimolo, è già pronta una risposta. Mentre la cultura di sinistra ci tiene a rivendicare una sostanziale libertà, un potere di dare risposte diverse, a uno stesso stimolo. L’importante è che si possa cambiare cultura – perché questo cambiamento è il grande sogno della sinistra.
Eppure la ripresa di Gehlen – “la cultura come seconda natura umana” – è a nostro avviso molto insoddisfacente, perché di fatto non scardina veramente l’opposizione tra Natura e Cultura, anzi, la ribadisce in modo quasi iperbolico. Perché, anche se la cultura viene considerata una seconda natura, proprio così essa viene tanto più opposta alla prima natura, che sarebbe la natura-natura, la natura vera, quella degli animali. È vero che Gehlen non giunge fino al punto di dire “la cultura è la vera natura umana”, si limita a dire che è “una seconda natura”, ma l’essenziale – per Gehlen come per i suoi seguaci neo- o post-marxisti – è radicalizzare la differenza animalità versus umanità. In questo modo l’animalità è solo “prima natura”, l’umanità è “avere le due nature”, che è un modo per riformulare, in modo più updated, la vecchia opposizione della psicologia metafisica. Non più l’uomo come animal rationale, ma come animal instructum, animale educato. L’importante è che homo sia animale con qualcosa di essenziale in più.

L’essenziale di questa visione è stata espressa da Bertolt Brecht nello spettacolo epico Mann ist Mann (1924), “Un uomo è un uomo”. Qui tre soldati britannici in India, dovendo rimpiazzare alla svelta un loro compagno d’armi per evitare guai, riescono a trasformare, in men che non si dica, uno scaricatore di porto in un perfetto soldato inglese che possa sostituire il loro compagno. La pièce è interpretata di solito in chiave marx-leninista: ogni essere umano è rimpiazzabile da un altro. Ma al fondo, il dramma mette in luce (per denunciare o per esaltare? Questo dipende dai punti di vista) la supposta onnipotenza della cultura, ovvero della progettualità umana: possiamo trasformare radicalmente ogni essere umano. Nessuna “natura individuale”, per dir così, può impedire di mutare un essere umano secondo un progetto culturale in senso lato. Ora, tutta la filosofia alla base del socialismo e del comunismo implica questa onnipotenza della cultura, ovvero il primato del progetto sulle resistenze “naturali” degli individui. È stata la grande ambizione del XX° secolo: creare l’Uomo Nuovo, fosse esso comunista, fascista, nazista, o magari anche fondamentalmente islamico, o fondamentalmente cristiano… In effetti, siamo tentati di chiamare “naturali” tutte le resistenze a un progetto culturale di trasformazione radicale della vita. “Natura” nel fondo è un concetto relativo: indica ciò che resiste a un cambiamento culturale. Alla persecuzione nazista degli ebrei, degli omosessuali e di altri sotto-gruppi si reagiva con un richiamo a qualcosa di “naturale”: all’empatia istintiva degli esseri umani nei confronti di altri esseri umani.

Qui cogliamo quindi l’implicito, non-detto dispotismo della teoria gehleniana: viene rivendicata una essenziale libertà di ogni cultura, ergo di ogni progetto politico, nel dare forma alla vita umana. Ovviamente non è così. Nel secolo scorso abbiamo assistito a tentativi estremi, direi teratologici, di trasformare gli esseri umani secondo un progetto etico-politico preciso. Penso al tentativo immane di Pol Pot e dei Khmer rouges cambogiani, tra 1975 e 1980, di trasformare integralmente la vita della gente: convertire l’intera popolazione in contadini e in lavoratori manuali, distruggere fisicamente gli intellettuali, eliminare musica teatri e cinema, ecc. Un tentativo simile è stato quello dei taliban in Afghanistan. Entrambi i tentativi sono falliti, e non solo per l’intervento di forze straniere. Falliti perché trasformare ogni essere umano secondo un modello di umanità non è un’impresa impossibile, ma altamente improbabile. Sulla carta possiamo inventarci qualsiasi cultura per noi ottimale, nella realtà abbiamo a che fare con culture plurali, con miriadi di esigenze centrifughe rispetto al progetto. Una cultura non può essere imposta come una seconda natura.

 

 

5.    Cinque Sovversioni

 

Al di là della Dicotomia mi pare che vada emergendo una concezione che definirei relativista naturalista. O meglio, dato che il termine “relativismo” gode di pessima fama come cinismo morale, lo definirei piuttosto un differenzialismo naturalista. Quest’ultimo filone è sorto soprattutto all’interno delle scienze cognitive e biologiche – non può essere insomma tacciato di essere una teoria romantica. In breve: non bisogna pensare che sia naturalista solo chi invochi la natura umana – intesa come invarianza – mentre chi insiste sulle differenze sarebbe senza scampo un culturalista. Fiorisce un approccio naturalista che non assume la “natura umana” come eidos (essenza, forma-aspetto, specie, identità). Cercherò qui, in breve, di illustrare questo approccio.

 

In effetti, il genetismo dominante – rampollo della cosiddetta “sintesi neo-darwiniana” – si basa su alcuni presupposti forti, e cioè:

 

1)                    La differenza netta tra organismo e ambiente: un organismo naturale è in gran parte determinato dal proprio DNA, in più piccola parte determinato dalla storia delle sue interazioni con l’ambiente.

2)                    Un organismo è totalmente il risultato di processi filogenetici adattativi: nel corso del tempo, l’ambiente ha selezionato, tra le mutazioni genetiche prodottesi casualmente, quelle con più fitness, ovvero quelle che permettevano la maggior riproduzione possibile del genotipo dell’organismo stesso. Tutto nell’organismo esprime un adattamento ottimale.

3)                    I rapporti tra genotipo e fenotipo sono a senso unico: questo è il Dogma Centrale della biologia genetica, formulato da Francis Crick nel 1957. Nulla dell’influsso culturale modifica in qualche modo i geni (la natura) di un organismo: in termini tecnici, il genotipo determina il fenotipo ma, all’inverso, nulla di quel che accade al fenotipo passa al genotipo. L’ambiente seleziona i tratti di un organismo, non li genera mai (se si pensa il contrario, si cade nel lamarckismo).

4)                    Certi comportamenti sono più naturali di altri perché sono più adattativi. Se si cambia l’ambiente standard di un organismo, questo può sviluppare comportamenti “innaturali”, cioè poco adattativi.

5)                    Tutti gli individui esprimono i tratti comuni della propria specie: le variazioni individuali e culturali sono secondarie, ogni individuo e cultura esprime alcuni universali della propria specie. La natura umana è quindi necessaria (determinata dal genoma umano) e uniforme.

 

Molti di questi presupposti fondamentali del naturalismo dominante sono stati, in tutto o in parte, scardinati dalla biologia differenzialista. Comincerò dall’ultimo.

 

6. Siamo tutti mutanti

 

Punto (5). L’insistenza sui caratteri universali della specie umana rimuove la specificità rivoluzionaria della teoria darwiniana: il fatto che essa sia invece una teoria variazionista. Credere che ogni individuo porti lo stampino universale della propria specie rivela un pregiudizio preformista, vale a dire proprio l’idea che Darwin ha liquidato. Darwin, contro il preformismo di Linneo e Buffon, ha detto che le specie evolvono grazie alle differenze dei tassi di riproduzione di diversi tipi di individui all’interno di una popolazione – queste differenze riproduttive dipendono dalla pressione ambientale. Per il darwinismo autentico contano insomma le varianti, i cui portatori sono detti mutanti: c’è storia della vita perché ci sono mutanti. Nel darwinismo lo stesso concetto di specie – come eidos, essenza preformata di cui ogni fenotipo sarebbe portatore – in fondo svanisce: la vita, dall’ameba a Homo sapiens, è globalmente un gigantesco insieme di variazioni. Parliamo di specie umana, al limite, perché una donna si riproduce solo se si accoppia con un uomo, non con un gorilla ad esempio (anche se il 98% del genoma di un gorilla è uguale a quello di Homo sapiens). Diciamo che il cavallo (Equus ferus caballus) e l’asino (Equus africanus asinus) sono due specie diverse perché dal loro accoppiamento nascerà un mulo, che è sterile. Per il darwinismo, due individui di sesso diverso che si accoppiano si riproducono non perché appartengono alla stessa specie, ma diciamo che appartengono alla stessa specie solo perché riproducono individui che si riproducono.

Insomma, quel che contano sono le variazioni di cui gli individui sono portatori. Ma al limite, siccome ogni individuo ha un genoma diverso dall’altro – tranne nel caso dei gemelli omozigoti – possiamo dire che ogni individuo, in qualche modo, è portatore di variazione: ognuno di noi è un mutante. Insomma, non possiamo più identificare – come vuole una vecchia tradizione – il naturalecon l’universale: al contrario, dobbiamo pensare il naturale come una dinamica sempre tra variazioni e differenze. Ogni specie è instabile, è un’approssimazione.

Il significato filosofico del darwinismo consiste in questa idea: che la natura è non meno storica della cultura. Perché sia la cosiddetta natura che la cosiddetta cultura producono continuamente variazioni, che avranno più o meno successo nel tempo. L’eterogeneità tra evoluzione (cosa della natura biologica) e sviluppo (di ogni organismo in un ambiente) viene quindi a cadere.

Dovremmo rovesciare il cliché, e dire che molto spesso è la cultura a fornire omogeneità e invarianza a individui naturalmente molto variabili. È quel che accade ad esempio con il criterio culturale di razza: esso identifica come appartenenti a una stessa razza individui che, di fatto, sono portatori di ampie variazioni genetiche. Se andassimo a guardare, ad esempio, il DNA di tutti quelli che negli USA sono classificati come afro-americani, ci accorgeremmo che ci sono più variazioni tra “neri” che tra molti neri e molti bianchi: eppure politicamente sono considerati un’unità. Ancor più questo vale per i cosiddetti ebrei: essi certamente non sono una religione (molti ebrei sono atei o convertiti ad altre religioni) e nemmeno un’unità genetica, dato che col tempo si sono mescolati ad altri gruppi, eppure la questione ebraica domina tuttora l’agenda politica.  Ciò che siamo portati a considerare differenze biologiche oggettive, sono in realtà effetto di significanti unificanti. La cultura di fatto unisce categorialmente quel che la natura, senza posa, differenzia. Al limite, il concetto stesso di specie umana non è un prodotto culturale? E in effetti per molto tempo certe etnie o razze sono state considerate sub-umane, o non-umane. Parlare di “specie umana” è già, in fondo, una scelta politica.

Abbiamo visto il cliché che identifica la natura con ciò che nell’uomo sarebbe immutabile, e la cultura con ciò che, nel tempo o nello spazio, è mutevole. In realtà, esistono alcuni fatti chiaramente determinati geneticamente che è molto facile mutare: ad esempio, ci sono alcuni disturbi oculari che hanno origine genetica al 100% e che sono rimediabili attraverso un semplice paio di occhiali. All’inverso, certe acquisizioni culturali, una volta radicatesi, sono quasi immodifcabili. Il rifiuto del cannibalismo, ad esempio, è evidentemente un fatto culturale perché alcune culture (poche in verità) hanno praticato il cannibalismo: eppure provate a convincere un occidentale a mangiare carne umana! Sia l’eredità biologica (darwiniana) che l’eredità culturale (lamarckiana) hanno un polo di immodificabilità e uno di modificabilità. Quindi, le due eredità si intrecciano in modo tale che la loro separazione categoriale fallisce.

Insomma, la Dicotomia nature vs. nurture non si sovrappone all’opposizione universalità vs. diversità. Alcuni tratti fisici evidentemente non sono universali: ad esempio il colore della pelle, la presenza o meno di barba nell’uomo maschio, il tipo di sangue, ecc. Altri tratti evidentemente culturali sono invece universali. Un tratto culturale che per Lévi-Strauss[12] è sia fondamentale che universale è la proibizione dell’incesto: qualsiasi società umana proibisce l’incesto e costringe ciascun maschio a cercarsi la donna fuori della famiglia consanguinea (anche se le società differiscono quanto ai parenti che considerano incestuosi o no). Il tabù dell’incesto è un tratto evidentemente culturale non perché gli animali non evitino rapporti incestuosi (alcune specie li evitano) ma perché si tratta di una norma o regola sociale, che quindi implica l’uso del linguaggio. Come ogni norma, essa viene spesso e volentieri trasgredita: sappiamo bene che di incesti se ne consumano molti, anche nelle nostre società industrializzate. Eppure si tratta di una norma culturale universale, che pur se trasgredita resta costitutiva dei sistemi di parentela di ogni società.

 

7. Africani nell’Artico

 

Punto (1): non è vero che la differenza tra organismo e ambiente è così netta come l’ortodossia naturalista-genetista ci fa credere.

Il biologo Richard Lewontin[13], che non nasconde la sua ispirazione hegeliana, ricorda che quel che si chiama ambiente di un organismo è, in gran parte, costituito da altri organismi: le interazioni organismo-ambiente sono in larga parte interazioni tra organismi. In queste interazioni ogni organismo si adatta agli altri, e ogni organismo in parte adatta gli altri a sé stesso. È questo che ha permesso a molti organismi – uomo incluso – di colonizzare ambienti spesso molto diversi da quelli originari: ogni organismo tenta, con minore o maggior successo, di plasmare vecchi e nuovi ambienti ai propri bisogni. Si sa che Homo sapiens è originario dell’Africa, il che spiega la sua carenza di peluria. Ma Homo sapiens è giunto alle più alte latitudini coprendosi con pellicce di animali ambientali: ha usato quindi l’ambiente freddo per soddisfare propri bisogni. Insomma, non si riproduce di più solo l’individuo che si adatta meglio al proprio ambiente, ma anche quello che riesce a riformarlo a proprio vantaggio.

Ora queste osservazioni minano al fondo la distinzione categorica tra natura e cultura: quel che chiamiamo ambiente naturale, in effetti, risulta essere, rispetto a ciascun organismo, anche una costruzione culturale. Se per culturale intendiamo quel che un organismo crea nel corso della propria vita e che, quindi, non è direttamente determinato dal proprio DNA. E oggi questo è vero più che mai: ciò che chiamiamo ambiente naturale è ormai, in modo sempre più stretto, effetto dell’attività umana – basti pensare all’inquinamento, all’effetto-serra, agli effetti delle deforestazioni… Quel che chiamiamo ambiente naturale, di fatto, è effetto dell’interazione “culturale” tra organismi. Homo sapiens non ha fatto altro che allargare in modo smisurato il mutamento che ogni organismo induce al proprio ambiente.

 

8. Clitoride e filosofia

 

Punto (2): il dogma “adattativista”, secondo cui tutto quel che costituisce un organismo ha un senso di adattamento al proprio ambiente, è confutato.

I tratti di un organismo possono essere, oltre che adattativi, anche esattativi, o puramente contingenti. Questo strano neologismo – esattativo – esprime quel che François Jacob ha chiamato bricolage[14]. Il bricoleur è il non-specialista che riadatta pezzi presi da altre costruzioni per riparare o costruire altre cose. La vita fa la stessa cosa: funzioni e arti che originariamente si erano sviluppati favorendo certe capacità vengono riadattati dagli organismi per scopi diversi. Non possiamo quindi dire che la funzione crea l’organo; piuttosto, è l’organo a suggerire la funzione.

La relazione tra organismo e ambiente risulta a questo punto di gran lunga più complessa di quella che presume l’ortodossia genetista. E anche la considerazione del non-adattativo scardina la differenza categoriale tra natura e cultura. Porterò un solo esempio: l’orgasmo clitorideo[15].

Il glande clitorideo è a tutti gli effetti un pene femminile nei mammiferi, un pene poco sviluppato. I maschi umani conservano alcuni tratti femminili (ad esempio i capezzoli), mentre le femmine portano traccia di tratti maschili che lo sviluppo embrionale ha accantonato. Ora, la presenza della clitoride non è adattativa perché i mammiferi femmine, umane escluse, di fatto non la usano: siccome le femmine sono montate a tergo, la loro clitoride non viene stimolata. Homo sapiens, invece, ha inventato il coito faccia-a-faccia, e ha così scoperto l’orgasmo femminile[16]. Insomma, Homo sapiens ha sfruttato una possibilità che era inscritta nell’organismo femminile, ma che sarebbe rimasta latente se esso Homo, attraverso una mutazione culturale, non l’avesse scoperta.

Morale: nel nostro organismo – e quindi nel nostro cervello – ci sono molte più cose di quante non siano state selezionate dall’ambiente per favorire la riproduzione. La “sintassi” dell’organismo ha una sua autonomia, e non può essere ridotta alla sua “semantica”, cioè alla funzione adattativa. Un organismo è sempre molto più ricco dei “significati” funzionali che esso ha. Non tutto in un organismo è utile: “gli organismi sono strutture integrate e costrette, che ‘spingono’ contro la forza della selezione per incanalare mutamenti lungo vie permesse”[17]. Un organismo manifesta anche dei vincoli di sviluppo: molte cose del nostro corpo esistono in quanto prodotte dal nostro sviluppo embrionale – è il caso della clitoride – non perché servano a qualche cosa. Si vede quanto questo contribuisca a scardinare ulteriormente la Dicotomia. In effetti, ha senso chiedersi se il piacere clitorideo è un prodotto culturale o no?

Si prenda il piacere che traiamo dall’ascoltare la musica. Esso non ha funzione adattativa, dato che sono sensibili alla musica anche altri mammiferi, che certamente non suonano né cantano. Homo sapiens ha scoperto nel proprio cervello la possibilità di godere della musica – come di godere dell’alcool, del tabacco o di altre droghe, di godere della poesia e dell’arte, ecc. – non perché questa possibilità svolge una funzione adattativa, ma semplicemente perché era una possibilità del nostro cervello. Non diversamente dall’usare del legno per far fuoco e riscaldarsi: gli alberi non si sono sviluppati per dare calore all’uomo, ma l’uomo li ha esattati per questo.

Il presupposto secondo cui tutto nella vita va riportato alla funzione adattativa si basa spesso su quella che i biologi Sober e Wilson[18] hanno chiamato Average Fallacy, la Fallacia della Media. Questa consiste in una trappola in cui cadono spesso intellettuali e biologi: credere che i dati statistici ci forniscano in modo diretto una spiegazione causale. Costoro ragionano come chi dicesse: “Rossi è uno dei cognomi più diffusi in Italia, Foscolo quasi non esiste: quindi chiamarsi Rossi è un tratto adattativo, favorisce la riproduzione”. Ovviamente è una sciocchezza. Rossi è più diffuso forse perché quando è diventato obbligatorio avere un cognome, molte più persone hanno preso questo nome; ma anche perché, per caso, alcuni Rossi si sono riprodotti di più di chi si chiamava Foscolo. Ma questo non ci autorizza a concludere che chiamarsi Rossi dia un vantaggio riproduttivo differenziale rispetto ai Foscolo! Eppure spesso importiamo questo tipo di “ragionamento” anche nei nostri dibattiti biologici e persino politici.

(Ad esempio, molti criticano la celeberrima tesi di Max Weber[19] – quella secondo cui il protestantesimo favorisce lo spirito capitalista – come basata anch’essa sull’Average Fallacy: il fatto che in media oggi i paesi a prevalenza protestante siano più ricchi di quelli cattolici o di altre religioni non va interpretato ipso facto come un rapporto causale, che cioè il protestantesimo favorisca la ricchezza. Essere protestante è un po’ come chiamarsi Rossi.)

In generale: la differenza tra naturale e culturale va reinterpretata come una differenza relativa, non assoluta – qualcosa è naturale da un certo punto di vista e culturale da un altro punto di vista.

 

9. La natura è storica

 

Punto (3): la Barriera Crick pare invalicabile. Senza di essa, la biologia non tornerebbe agli anni bui?

Comunque oggi è contestata l’idea per cui i geni si esprimono direttamente attraverso tratti fenotipici. È questa la sfida di Oyama[20], ad esempio: lei critica a fondo l’idea che identifica la natura al genetico; per lei la natura di fatto è fenotipica. In termini aristotelici: la natura non è solo nell’essere-in-potenza del genotipo, è anche nell’essere-in-atto del fenotipo. Ovvero, i geni certo sono portatori di differenze, ma queste non si esprimono mai in tratti precisi: tra il dire (l’istruzione genetica) e il fare (l’organismo così come lo conosciamo) c’è di mezzo… il mare di quelli che Oyama chiama sistemi di sviluppo. Un sistema di sviluppo non è l’organismo distinto dall’ambiente: è un’interazione continua tra influenze genetiche, embrionali, ambientali e culturali. Non c’è mai un rapporto univoco tra un gene e un tratto, ad esempio tra un gene e i miei occhi azzurri. Un gene, presente sia nei miei genitori che in me, può spingere a manifestare occhi azzurri, ma perché questo accada occorrono situazioni embrionali e ambientali stabili: quello che attribuiamo spesso al determinismo genetico è di solito dovuto al fatto che ogni individuo si trova a rivivere situazioni ambientali simili a quelle dei genitori. Come si vede dai casi ben noti di imprinting.

Un’oca, dopo che è nata, segue sempre la madre. Da qui si può arguire: un gene dice a ogni oca chi è la propria madre e che deve seguirla. Ma Konrad Lorenz[21] verificò che di fatto le oche seguono sempre la prima cosa che, alla nascita, vedono muoversi: se è lo sperimentatore, ad esempio, seguiranno sempre lui. Possiamo prevedere guai nel futuro di queste oche che hanno preso Lorenz per la loro mamma, ma di fatto un’esperienza precoce – non prevista dalle istruzioni genetiche – struttura il resto dell’esperienza. Siccome di solito la prima cosa che un’oca vede muoversi è la mamma, l’imprinting di solito funziona. Quindi, il gene delle oche le spinge a seguire la prima cosa che vedono muoversi (e anche su questo potremmo trovare a ridire) – il resto è storia.

 

10. Lo zoo universale

 

Punto (4): è quello che esercita i maggiori influssi etici e politici – anche sul taxista di Novosibirsk.

Se si pensa difatti che un organismo sia una macchina adattativa, si dà per implicito che esso sia adattato a un ambiente: se per un caso l’ambiente viene cambiato, la “natura” di questo organismo, per dir così, si ribella. Ad esempio: alcuni credono che il DNA umano sia stato selezionato per rispondere a rapporti competitivi tra gli umani, insomma, che Homo sapiens è sopravvissuto perché egoista e invidioso. Corollario politico: il socialismo è fallimentare perché il DNA umano non ci spinge a rapporti di solidarietà fraterna. Bisogna pensare, come Adam Smith, che la società funziona bene perché ciascuno persegue sempre e solo i propri interessi.

 

È noto che alcuni animali selvatici, una volta rinchiusi in uno zoo, manifestano comportamenti “aberranti” che non esibiscono mai nello stato libero. Allora la cultura umana suscita anche negli animali comportamenti “contro natura”? Ma di fatto quei comportamenti manifestati nello zoo non sono meno naturali di quelli manifestati allo stato libero: possiamo solo dire che il cambiamento d’ambiente prodotto dall’uomo – la cattività – attiva atteggiamenti e comportamenti che nello stato libero non emergevano, che restavano latenti. Quei comportamenti “innaturali” sono possibilità che l’ambiente abituale di quegli animali non aveva attualizzato. I geni di un animale gli rendono potenzialmente possibile una serie, quasi illimitata, di comportamenti che in gran parte non vengono messi in atto perché, nelle situazioni abituali, queste possibilità non entrano in scena. Se, come sottolinea Oyama, un gene in quanto tale non determina alcun tratto da solo, allora ogni tratto è effetto di un “sistema di sviluppo”. Natura, ambiente e storia coincidono.

Infatti, se l’ambiente per ciascun organismo è in gran parte costituito da altri organismi, allora la situazione di un animale chiuso in uno zoo non è così essenzialmente diversa dalla condizione che chiamiamo naturale. In uno zoo l’animale reagisce a un ambiente programmato dall’uomo, ma comunque reagisce. (Non mi si fraintenda: non sto dicendo qui che sia bene mettere gli animali in gabbia, dico solo che il rifiuto di farlo non può basarsi su criteri “naturalistici”). In un certo senso, ogni animale vive sempre in uno zoo, anche se non architettato dall’uomo: interagisce con altri organismi che lo condizionano. La differenza categoriale tra natura e cultura, anche qui, non regge.

Ciò che chiamiamo pomposamente natura umana spesso non è altro che una delle possibilità genetiche di Homo sapiens messa in atto. Basta cambiare qualche dato ambientale, e certi tratti latenti in una specie possono emergere. Come abbiamo visto per la scoperta del piacere clitorideo e di quello dato dalla musica. Ciò che avevamo preso per natura universale era solo una fissazione provvisoria dovuta alla stabilità dell’ambiente in cui certe popolazioni vivono. Ciò che consideriamo la nostra natura di solito non è altro che l’esserci ben sistemati in una data nicchia.

Il determinismo genetico, invece, riprende di fatto la concezione che un tempo veniva imposta dalla chiesa cattolica: l’idea cioè che esistano attività e comportamenti umani “secondo natura” e altri “contro natura”. Questa distinzione proviene dalla filosofia aristotelica, che la chiesa cattolica ha fatto propria: alcuni processi vanno nel senso dell’ordine naturale, altri vanno contro quest’ordine. Per la chiesa usare contraccettivi, abortire o usare cellule staminali sono atti “contro natura”, quindi da condannare. Come per Aristotele, la natura è considerata non semplicemente ciò che accade: è qualcosa da ripristinare o da raggiungere. La natura è normativa. Oggi però per la scienza parlare di un fatto come “contro natura” è un controsenso, perché qualsiasi fatto è naturale. Eppure quante volte leggiamo che certi assetti sociali sarebbero “contro la natura umana”?

Ad esempio, il sociobiologo E.O. Wilson ci assicura che la schiavitù è contro la natura umana[22]. Eppure la tendenza a rendere schiavo l’altro, ahimè, è presente in qualsiasi epoca – compresa la nostra, malgrado tutti i divieti internazionali. Ma d’altro canto sarebbe egualmente sbagliato affermare che la natura umana tende allo schiavismo. Siamo contro la schiavitù non perché sarebbe contro la natura umana, ma perché contraddice la nostra etica universalista, sviluppatasi storicamente. Se oggi molti di noi – non tutti! – pensano al benessere in termini universali, è perché siamo eredi storici prima del razionalismo greco, poi dell’universalismo cristiano e islamico, e quindi di quello illuminista. Nessuno, nemmeno il papa, può stabilire che cosa è naturalmenteumano e che cosa non lo è. Appellarsi a pretesi prodotti dell’evoluzione per sostenere certe opzioni politiche o etiche è quindi una truffa epistemologica. Bisogna diffidare della maggior parte delle “politicobiologie”: dietro una facciata scientifica nascondono vecchie metafisiche. (Diversa è la biopolitica che molti hanno sviluppato a partire dal pensiero di Foucault.)

 

11. Politica senza fondamenti

 

Quindi aveva ragione Foucault contro Chomsky: certi criteri universalistici – come ad esempio il fatto che le donne debbano godere degli stessi diritti e opportunità degli uomini – sono costruzioni storiche. Da nessuna parte la natura ha scritto che le donne debbano essere eguali agli uomini, né diseguali. Ma quel che Foucault non dice è che la storia non è estranea alla biologia, nella misura in cui il biologico è esso stesso storico: il fatto che gli esseri umani sperimentino le culture più varie, e oggi tentino una cultura universalista, non va visto romanticamente come un progetto anti-naturale, come trionfo della libertà soggettiva contro i determinismi naturali, ma anzi come possibilità consentite dal nostro DNA. Scrive Gould[23]:

 

La vecchia equazione della biologia con una restrizione che ci è imposta corrisponde a un lato della falsa dicotomia fra eredità e ambiente (dove l’altro lato, quello dell’ambiente o dell’educazione è quello malleabile); comunque essa si fonda su errori di pensiero vecchi quanto la cultura occidentale stessa. Ma chi critica il determinismo biologico non può sostenere la concezione egualmente erronea (e altrettanto crudele e restrittiva) che la cultura umana cancelli la biologia.

 

Non basta insomma dire, come si ripete spesso, che creare culture diverse e storia sarebbe una specificità della natura umana: in qualche modo la pluralità delle culture e il mutamento storico dispiegano la natura umana, la mettono in atto e allo stesso tempo la arricchiscono. Non diversamente da quel che è stato fatto con l’orgasmo clitorideo: esso non è culturale (dato che ne sono capaci anche molte scimmie[24]) ma la sua messa in atto illustra la natura umana, la quale non è fissata una volta per tutte.

Quindi, chiamiamo cultura il modo in cui gli esseri umani – come dispersione di differenze – interpretano storicamente la loro supposta natura. Per questa ragione è possibile distinguere natura e cultura solo provvisoriamente: una norma culturale è sempre una scommessa sulla natura umana – una opzione tra varianti possibili. Ogni cultura, anche quella più sofisticata e chic, si vuole sempre ricerca della Natura, cioè, in fondo, della verità umana. Proprio perché l’essere umano non cessa di cercare la propria natura, moltiplica i propri esperimenti etici e politici, correndo l’eterno rischio di confondere l’esperimento con la verità.

Ad esempio, la nostra epoca è la prima, nella storia, a pensare possibile una vera eguaglianza socio-politica tra i generi (ogni è invalso questo termine al posto di “sessi”). Di solito le culture a noi note riservano la maggior parte del potere politico e militare agli uomini. Ma la conclusione secondo cui, siccome nelle società note le donne non dominano politicamente (ma spesso dominano in altri settori, per esempio in famiglia), allora la subalternità femminile sarebbe un fatto naturale, è del tutto illegittima. Lo stesso ragionamento veniva sviluppato per escludere la democrazia: siccome fino a poco tempo fa nessuna società complessa era stata democratica – a parte l’Atene antica – allora questo significava che non potesse funzionare. Invece era naturaleavere un re. In realtà, da circa un secolo abbiamo visto che le società democratiche sono invece tra le più prospere, prestigiose e potenti. La frequenza statistica viene interpretata metafisicamente come prova di causalità. Insomma, quel che statisticamente ha prevalso nel passato non ci dà ipso facto indicazioni su quel che dobbiamo escludere o includere come possibile nel futuro. Quindi la politica resta un’attività altamente rischiosa, non fondata su alcuna natura garantita dalla storia passata: perché la natura umana viene scoperta solo dalla storia, che sempre prosegue. La cultura è una ricerca illimitata della nostra natura.

 

 

12.  La cultura del pollaio

 

Superare la Grande Dicotomia natura-cultura, e tutte le dicotomie isomorfe che abbiamo elencato, non significa quindi naturalizzare i fenomeni culturali o al contrario culturalizzare i fenomeni naturali. Questo modo confermerebbe la Dicotomia, in quanto si continuerebbe a pensare la riduzione del culturale al naturale, o viceversa, sempre a partire da categorie che discendono dalla Dicotomia. Quel che occorre fare è invece decostruire la Dicotomia, cercare di pensare in modo diverso. Come ha scritto Telmo Pievani: “[…] saremo sempre più naturali attraverso la cultura. Viceversa, […] potremo finalmente affermare anche il reciproco, ovvero che siamo culturali attraverso la natura.”[25]

Questa mutazione di pensiero è in effetti solo agli inizi, ma essa dovrebbe portare a una rivoluzione anche del modo di pensare le questioni etiche e politiche. Questo non significa che, in certi ambiti specifici, non dobbiamo usare più termini come “cultura” o “natura”, ma il loro senso cambierà: in effetti, dovremo attribuire alla cultura qualità che prima riservavamo alla sola natura, e dovremo attribuire alla natura aspetti che prima consideravamo squisitamente culturali. Non per confondere le acque, ma perché penseremo di fatto secondo altre categorie.

Superare la Dicotomia quindi non significa un ritorno puro e semplice al relativismo culturalista. Le culture vanno pensate non secondo connotazioni spiritualiste, ma come strategie umane che riducono la complessità e libertà “naturali”: la cultura funziona non solo perché crea all’uomo opportunità di vita nuove, ma anche perché struttura e limita le possibilità.

Sappiamo che in molte specie vigono gerarchie, più o meno ferree. In ogni pollaio, galli e galline sono strettamente stratificati: si va dal gallo e gallina alfa giù giù fino al gallo e gallina omega. Questo omega, fanalino di coda del pollaio, conta come il due di briscola: con lui nessuna gallina accetta di accoppiarsi, lui becchetta solo per ultimo quando nuovo cibo viene fornito, ecc. Ora, diciamo che queste gerarchie sono naturali solo perché escludiamo che un pollaio sia una cultura.

Il punto è che anche le società umane sono più o meno gerarchizzate come un pollaio, lo sappiamo bene. Anche se puntiamo a una certa eguaglianza economica, abbiamo e avremo sempre differenze di rango tra esseri umani. Queste gerarchie esprimono differenze naturali o sono costruzioni culturali? Una domanda del genere, nella nostra ottica, non ha senso. Diciamo piuttosto che la cultura umana, nella misura in cui introduce gerarchie, “naturalizza” gli esseri umani. La differenza tra polli da una parte e uomini dall’altra è che i primi non hanno bisogno di andare a scuola o in chiesa per stabilire tra loro gerarchie, mentre gli esseri umani sì – ma i risultati finali, ahimè, sono alquanto simili tra le due specie. Del resto, si formano presto gerarchie, differenze di rango, anche nelle gang criminali e in orde di desperados. Le culture umane tentano solo di stabilire gerarchie sulla base di criteri un po’ diversi da quelli su cui si stabiliscono diseguaglianze tra polli o tra gangsters. Ma non è l’esigenza in sé di avere una gerarchia la differenza tra “cultura” e “natura”.

Paradossalmente, possiamo dire che Homo sapiens, a differenza dei polli, ha bisogno delle complesse costruzioni culturali per comportarsi, alla fin fine, come qualsiasi altro animale. Gli animali non hanno cultura nel senso che stabilirebbero funzioni e gerarchie tra loro in modo di solito non contestato (ma non è vero per i primati superiori: il beta può cercare di detronizzare l’alfa), mentre noi esseri umani attraverso il linguaggio saremmo in grado di mettere in questione – ahimè, di rado – le gerarchie stabilite. I gruppi umani sono più variabili, più instabili, dei gruppi animali. Da qui la doppia funzione, paradossale, di quel che chiamiamo cultura: da una parte essa ci “animalizza” (nel senso che dà ordine al gruppo) dall’altra ci “umanizza” (nel senso che introduce cambiamento e disordine nel gruppo). La cultura riduce per certi versi la libertà umana, per altri versi la esalta – ma non nel senso della Dicotomia.

 

Ma allora, il taxista di Novosibirsk aveva ragione o torto? Diciamo che quel che voleva dire era giusto, anche se lo diceva secondo una metafisica fallace. Il comunismo non è contro natura – come in fondo non lo erano nemmeno il regime di Pol Pot o quello taliban in Afghanistan – non più di quanto non lo sia la democrazia pluralista. Ma è pur vero che la storia, per ora, ha selezionato la seconda a scapito del comunismo. Nella misura in cui la storia seleziona forme di vita proposte, essa ci dà l’impressione di rivelarci una verità naturale: ma di fatto la storia è sempre congiunturale. La fine di ogni speranza hegeliana.

 

 


 [1]Lemerre, Paris 1877, I, p. 96.

 

[2] J.-J. Kupiec & P. Sonigo, Nè Dio né genoma. Per una nuova teoria dell’ereditarietà, Eleuthera, Milano 2008.

 

[3] Ad esempio: S.A. LeVay, „Difference in hypothalamic structure between heterosexual and homosexual men“, Science 253, 1034–1037 (1991). D.F. Swaab, “Sexual differentiation of the human brain: relevance for gender identity, transsexualism and sexual orientation”, Gynecological Endocrinology, 19 (6): 301–12 (2004)

 

[4] N. Chomsky & M. Foucault, Giustizia e natura umana. Conversazione di Eindhoven, La Palma, Palermo 1994. Su questo dibattito, cfr. S. Catucci, “La ‘natura’ della natura umana”, Forme di vita, 1, 2004, pp. 74-85.

 

[5]  Jerry A. Fodor: The Language of Thought, Thomas Y. Crowell, New York, 1975. A Theory of Content and Other Essays, MIT Press, Cambridge, MA, 1990. “Replies”, in Meaning in Mind: Fodor and His Critics, Barry M. Loewer and Georges Rey (eds.), MIT Press, Cambridge, MA, 1991. The Elm and the Expert, MIT Press, Cambridge, MA, 1994. Concepts: Where Cognitive Science Went Wrong, Oxford University Press, Oxford, 1998. “Doing without What’s within: Fiona Cowie’s Critique of Nativism”, Mind, 110(437): 99–148.

 

[6] Aristotele, Politica I, 4-5.

 

[7] S. de Beauvoir (1949) Il secondo sesso, Il Saggiatore, Milano.

 

[8] A. Gehlen, Antropologia filosofica e teoria dell’azione, Guida, Napoli 1990; Prospettive antropologiche. L’uomo alla scoperta di sé, Il Mulino, Bologna 2005; L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Mimesis, Milano 2010.

 

[9] “La natura umana, dall’uomo elaborata autonomamente, entro la quale egli solo può vivere; e la cultura ‘innaturale’ è il prodotto di un essere unico al mondo, lui stesso ‘innaturale’, costruito cioè in contrapposizione all’animale. Proprio nel luogo in cui per l’animale c’è l’‘ambiente’, sorge quindi, nel caso dell’uomo, il mondo culturale, cioè quella parte della natura da lui dominata e trasformata in un complesso di ausili per la vita. […] Nell’uomo, alla non specializzazione della sua costituzione corrisponde la sua apertura al mondo e, alla deficienza strumentale della sua physis, la ‘seconda natura’ da lui stesso creata” (L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit. pp. 64-65).

 

[10] Vedi P. Virno, Scienze sociali e «natura umana». Facoltà di linguaggio, invariante biologico, rapporti di produzione, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003.

 

[11] J. Derrida, L’animale che dunque sono, Jaca Book, Milano 2006. J. Derrida, La Bestia e il Sovrano. Vol. 1, Jaca Book, Milano 2009. J. Derrida, La Bestia e il Sovrano. Vol.2, Jaca Book, Milano 2010.

 

 

[12] C. Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela, Feltrinelli, Milano 1984.

 

[13] R. Lewontin, The genetic basis of evolutionary change. Columbia University Press, New York 1974. R. Lewontin, Biologia, ideologia e natura umana: il gene e la sua mente, a cura di G. Bignami e L. Terrenato, Mondadori, Milano 1983.

 

[14] F. Jacob, Evoluzione e bricolage, Einaudi, Torino 1978.

[15] Cfr. S.J. Gould, “Capezzoli maschili e glande clitorideo”, Bravo Brontosauro, Feltrinelli, Milano 1992.

 

[16] L’ortodossia genetista esige che questo piacere sia adattativo: esso infatti consoliderebbe l’unità della coppia, quindi la cura della prole, quindi la perpetuazione dei propri geni. Ma l’orgasmo femminile non è affatto un adattamento, è esattativo. Cfr. D. Symons, The Evolution of Human Sexuality, Oxford Univ. Press, New York 1979.

 

[17] S.J. Gould, “Capezzoli maschili e glande clitorideo”, cit., p. 128.

 

[18] E. Sober and D. S. Wilson, Unto Others: The Evolution and Psychology of Unselfish Behavior, Harvard Univ. Press, Cambridge 1998.

 

[19] M. Weber (1904-5), L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Sansoni, Firenze 1970.

 

[20] S. Oyama, L’occhio dell’evoluzione, Giovanni Fioriti, Roma 2004.

 

[21] K. Lorenz, „Der Kumpan in der Umwelt des Vogels. Der Artgenosse als auslösendes Moment sozialer Verhaltensweisen“, Journal für Ornithologie, 83, 1935, pp. 137–215, pp. 289–413.

[22] E.O. Wilson, On human nature, Harvard Univ. Press, Cambridge (MT) 1978.

 

[23] S. J. Gould, Un riccio nella tempesta, Feltrinelli, Milano 1991, p. 146.

 

[24] Le femmine di alcune specie di primati raggiungono l’orgasmo clitorideo, ma non con il maschio: giocando con altre femmine, per esempio, o masturbandosi. La congiunzione di coito e orgasmo clitorideo sarebbe un’invenzione umana.

[25] T. Pievani, “Quella volta che siamo diventati umani”, Lettera Int., 80, 2004, p. 47.

 

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