Flussi di Sergio Benvenuto

Il setaccio di Wittgenstein. Wittgenstein e l’etica[1]19/mag/2024


 

1.

            Quando si pensa a Wittgenstein, si pensa a quel che fu poi chiamato (da Richard Rorty) linguistic turn, svolta linguistica, in filosofia. Di solito si identifica questa svolta alla filosofia detta analitica, sviluppatasi soprattutto in area anglo-americana. Personalmente non assimilo affatto Wittgenstein alla successiva filosofia analitica. 

Prima di tutto occorre chiedersi: in che cosa consiste questa svolta linguistica?

 

            Essa consiste nel ricordarci che la filosofia, prima di ogni altra cosa, è fatta con parole. E non con delle parole qualsiasi, bensì con una forma di parola che chiamiamo proposizioni

            La filosofia non dovrebbe mai dimenticare che essa lavora sempre, comunque, con proposizioni. È la sua forza, e il suo limite.

            In questo senso la svolta linguistica del secolo scorso può essere considerata l’equivalente filosofico di qualcosa che si produsse alla stessa epoca in molti altri ambiti, in particolare nell’arte e nella letteratura. Nel XX° secolo sempre più i pittori vollero ricordarci che la pittura, prima di rappresentare una santa o un albero, è stendere colori su un supporto. Che la scultura, prima di rappresentare Davide o Paolina Borghese, è marmo o altro materiale lavorato. Che la musica prima di tutto è combinare suoni. Che l’architettura è prima di tutto issare muri e tetti per ripararci… Questa svolta, in senso lato linguistica, nelle arti fu chiamata modernismo o avanguardie artistiche. La filosofia linguistica, ricordandoci che la filosofia è prima di tutto proposizioni, è il modernismo della filosofia.

            Certamente in letteratura si usano proposizioni, ma non come in filosofia. Una poesia di solito ha una forma proposizionale, ma ha un senso non proposizionale. Ha solo la forma della proposizione, ma fa qualcosa di diverso da affermazioni. Se leggiamo “April is the cruellest month, mixing memory and desire…”, non capiremmo nulla di quello che ci sta dicendo il poeta se pensassimo che si tratta di una descrizione del mese di aprile, proponendo la teoria che in questo mese, in Inghilterra, si mescolano memoria e desiderio… Nella poesia le proposizioni non descrivono il mondo ma, direi, suggeriscono un mondo altro.

            Di solito si dice che una proposizione è fatta di un soggetto e di un predicato. Ma Wittgenstein si limitò a dire che una proposizione mette sempre in relazione almeno due elementi. Se dico ad esempio “Socrate corre”, metto in relazione due significanti (direbbe un linguista), “Socrate” e “correre”. Ma se voglio poi dire che cosa sono Socrate e il correre, devo far ricorso ad altre proposizioni, che a loro volta metteranno in relazione almeno due significanti. Dirò ad esempio che “Socrate è il filosofo che morì ad Atene”, mettendo in relazione Socrate, la filosofia, la morte e Atene. E dirò che “correre è camminare a una velocità sostenuta”, mettendo in relazione il camminare e la velocità. E così via…. all’infinito? Secondo il Wittgenstein del Tractatus, non all’infinito. 

In ogni caso la proposizione, essendo una relazione tra almeno due oggetti, è “relativista”. Oppongo qui relativismo ad assolutismo. Questo perché la proposizione – e quindi per Wittgenstein la filosofia stessa – non può mai dire la cosa stessa. Certo posso cantare una canzone o esclamare con parole, ma questa canzone e questa esclamazione non sono proposizioni, quindi non dicono filosoficamente nulla. (Anche se potremmo leggere certe filosofie come esclamative, altre come puramente interrogative, altre come “cantate”. Ad esempio, c’è un senso esclamativo in molto Nietzsche. Molto del tardo Heidegger mi appare come una cantata filosofica.)

Nella seconda fase del suo pensiero, quello delle Ricerche filosofiche (PU), Wittgenstein dirà che non è possibile dire qualcosa di sensato che non sia pubblico. Ma il linguaggio pubblico è una specificazione del linguaggio relativista: per avere senso, al linguaggio non basta essere proposizionale, importa che le proposizioni vertano su cose pubbliche. Wittgenstein dimostrerà che una frase come “Ho mal di denti” è solo apparentemente una proposizione. Non possiamo conoscere ciò che gli altri non vedono.

            Il dramma della filosofia, comunque, è che pur essendo per costituzione “relativista” – ovvero fatta con proposizioni – ha cercato quasi sempre di dire qualcosa di absolutus, di sciolto da qualsiasi relazione. È quel che porta ogni filosofia in un vicolo cieco, per così dire, ragion per cui la filosofia non giunge mai a proposizioni conclusive, anche se fa parte del gioco il fatto che ogni (grande) filosofo tenti di concludere la filosofia. (Lo stesso Wittgenstein, dopo aver pubblicato il Tractatus, pensò di aver risolto l’essenziale dei problemi filosofici, e se ne andò a insegnare in una scuola elementare di montagna.) La vera filosofia scommette sempre sulla morte della filosofia, anche se peraltro si sa che sarà comunque una morte simulata. Come si può dire l’assoluto, qualcosa di non proposizionale, attraverso le proposizioni che sono sempre relazioni?

            Ora, Wittgenstein considera l’etica e l’estetica qualcosa di assoluto, qualcosa cioè che la filosofia non può dire. Ma essa è in grado di mostrarle. Ecco la distinzione fondamentale in Wittgenstein: quella tra mostrare e dire.

            Per Wittgenstein il linguaggio sensato è un’immagine (Bild) del mondo, ovvero delle relazioni che ci sono tra cose nel mondo. Un asserto-chiave è la seconda proposizione del Tractatus: “Il mondo è costituito dai dati di fatto (Tatsachen), non da cose” (1.1). Una cosa è ciò che è, in assoluto, ma nel mondo incontriamo solo relazioni tra cose, “dati di fatto”, come appunto “Socrate corre”. E il linguaggio, che riflette il mondo, consiste in proposizioni che dicono questi dati di fatto. Il linguaggio ci rappresenta sempre un mondo relativo.

            Il Wittgenstein del Tractatus – “il primo Wittgenstein” – afferma però che perché le nostre proposizioni abbiano senso (la condizione per cui possono essere vere o false) occorre che l’analisi si fermi a un certo punto, che si arrivi a un enunciato che lui chiama elementare. Un enunciato in cui si mettano in relazione delle cose stesse, e non a loro volta un aggregato di altre cose dette ‘fatti’. Perciò si parla di “atomismo logico” in Wittgenstein - io lo chiamerei cubismo logico. Ma Wittgenstein non ha nemmeno tentato di dare un esempio di enunciato elementare: a lui basta che a un certo punto se ne debba incontrare qualcuno perché il castello del significare regga su qualcosa, ma non sa quale sia questo qualcosa. Altrimenti il linguaggio sarebbe come il castello nello Château des Pyrénées di Magritte.

            È su questo sfondo che bisogna capire quel che Wittgenstein ha detto dell’etica, e anche dell’estetica. 

 

2.

            In effetti, nel Tractatus Wittgenstein dice – in una frase tra parentesi – “(Etica ed estetica sono uno)” (T, 6.421). Lo dice ma non lo spiega. Cosa voleva dire? 

Forse voleva dire che etica ed estetica hanno in comune qualcosa di fondamentale: che esse sono questioni divalori, non di dati di fatto. Si tratta di giudizi di valore, come è noto, “buono o cattivo”, “bello o brutto”, “Kitsch o profondo”, ecc. Ora, per Wittgenstein il mondo in quanto tale non ha valori. Quando la scienza dice “ci sono buchi neri” oppure “nelle società industrializzate diminuiscono gli aborti”, non dice certo se queste cose siano buone o cattive, brutte o belle. È un fatto del mondo che una donna preferisca abortire, ma non è parte del mondo giudicare questa azione come deplorevole. Per questa ragione Wittgenstein dice che i valori sono sempre fuori del mondo

 

Nel mondo ogni cosa è come è, tutto avviene come avviene, non v’è in esso alcun valore, né, se vi fosse, avrebbe un valore. 

Se un valore che ha valore si dà, allora dev’esser fuori dell’intero accadere ed essere-così. Infatti ogni accadere ed essere-così è accidentale (T, 6.41)

 

Dirà allora che l’etica e l’estetica – ma anche la filosofia – stanno in uno spazio sovrannaturale. Le proposizioni sono difatti sempre specchio dei dati di fatto, mai di valori (“Né, quindi, vi possono essere proposizioni dell’etica. Le proposizioni non possono esprimere nulla ch’è più alto”, T, 6.42).

Questa teoria dell’extra-mondanità dei valori è stata duramente criticata dai filosofi, anche da quelli analitici. Ora, certamente Wittgenstein sapeva bene che possiamo considerare i valori come cose del mondo. Possiamo studiare e confrontare i valori degli antichi greci, dei monaci, dei libertini, di Al Capone, dei socialisti… E possiamo confrontare ciò che era bello, sublime o toccante per gli antichi, per i moderni, per gli spettatori di Walt Disney… Ma così facendo parliamo sempre e solo dei valori degli altri, non dei miei valori. Ora, Wittgenstein dice che i miei valori – non quelli oggetto di studio – sono valori sovrannaturali. Che è un modo di dire: i miei valori sono sempre infondati. Ma anche: che solo io valorizzo il mondo (è in questa luce che bisognerebbe leggere la serie di argomenti detti poi del Linguaggio Privato, nelle Ricerche filosofiche). Per questa ragione alcuni accusano Wittgenstein di essere un filosofo solipsista.

Ma allora, se i valori etici ed estetici sono fuori del mondo – ovvero, fuori del linguaggio proposizionale - se non sono dati di fatto, che cosa sono? È possibile parlare in modo sensato di qualcosa che non è nel mondo? Di qualcosa che, paradossalmente, è senza essere nel mondo?

 

3.

 

            Molto spesso i filosofi, e non solo loro, cercano invece di dire qualcosa di essenziale sull’etica. 

            Di solito dicono che l’etica è un modo di regolare i rapporti tra me (ognuno di noi) e gli altri. Anche se questi altri con cui devo comportarmi bene possono variare: in certe culture il prossimo con cui essere buono sono solo i membri della mia tribù. In altre culture – almeno a parole, nella nostra attuale – è mio simile qualsiasi essere umano; in altre culture anche certi animali. L’etica regola sempre i miei rapporti con l’altro o con l’Altro (Dio). Nei Dieci Comandamenti, ad esempio, si dice che non devo derubare l’altro, non devo ucciderlo, non devo dare falsa testimonianza contro di lui, non devo concupirgli la casa la donna o il bue… L’etica sembra insomma presumere che io debba curarmi della soggettività degli altri e dell’Altro, di quel che lui o lei desidera o teme, ecc.  Ma qui si tratta della dimensione direi esterna dell’etica, del suo consistere in leggi, di solito disattese, che regolano i miei rapporti con gli altri. Ora il problema per Wittgenstein è piuttosto il mio rapporto personale con la norma etica. Potremmo anche dire che l’etica è qualcosa di viscerale, come l’emozione estetica.

            Nella conferenza sull’etica (A Lecture on Ethics[2]che Wittgenstein tenne nel 1929) egli non descrive affatto l’etica come modo di essere con gli altri. Il problema essenzialmente etico per Wittgenstein è il fatto che si chieda a me, a quell’unicità che io sono per me, di non rubare, non uccidere, non dare falsa testimonianza… La questione essenziale è insomma questo mio essere obbligato dalla norma etica, qualunque essa sia. L’etica che interessa Wittgenstein non è quella che possono studiare sociologi, psicologi o neuroscienziati: è invece quella che mi pone di fronte al problema di quel che io devo fare. In questo caso cerco non le cause dell’agire etico di qualcuno o di chiunque, ma le mie ragioniper agire così. Etica è il tentativo di rispondere a domande come “che fare?” o “come vivere?”

Quando Rhees pose a Wittgenstein come esempio di dilemma etico quello di Bruto (WE, p. 39), Wittgenstein gli rispose che quella questione - come ogni dilemma etico - non è nemmeno discutibile filosoficamente: “Non sapresti mai, in nessun caso, cosa sia successo nella mente [di Bruto] prima di decidere di uccidere Cesare. Che cosa avrebbe dovuto sentire…” Per lui l’etica era quel che accadeva nella mente di Bruto, non la valutazione dell’atto pubblico. 

            Per questa ragione aveva scritto, nel 1916, “Io sono o felice o infelice, questo è tutto. Si può dire: non v’è né bene né male”[3]. Riferendoci alla nostra soggettività, possiamo dire che quel che conta in ultima istanza è essere felici. Potremmo anzi dire che l’etica è il modo che un soggetto cerca di essere felice.

 

            Ma ci sono milioni di modi di essere felici. L’etica nazista, per esempio, rendeva (e rende) molti felici, anche se è un’etica malvagia. Molti santi invece erano rosi dal senso di colpa e si sentivano infelici.

            Wittgenstein si limita a dire:

 

6.421 È chiaro che l’etica non può formularsi. L’etica è trascendentale.

 

            L’etica, riferendosi a valori assoluti, trabocca dal mondo, “così come una tazza contiene solo la quantità d’acqua che la riempie fino all’orlo, e io ne facessi versare un ettolitro” (LE, p. 11). L’etica è in eccesso rispetto al linguaggio - paragonato qui a una tazza -, è un surplus che il linguaggio non riesce a contenere, a cui non riesce a dare forma. Ora, quando dice ‘linguaggio’ Wittgenstein intende linguaggio proposizionale, relativista. Etica ed estetica non hanno la forma logica del linguaggio-mondo.

 

            Perciò Wittgenstein dell’etica non dice nulla. Egli però ci dà degli esempi che possiamo considerare delle metonimie dell’etica, sensazioni che descrive come “la mia esperienza per eccellenza” (LE, p. 12). 

            Certe volte, dice, egli si sente assolutamente al sicuro, qualsiasi cosa accada. Inoltre, spesso, ha un senso di stupore per l’esistenza del mondo. Altre volte ha il sentimento di sentirsi colpevole, anche se non ha commesso alcuna azione malvagia. Come si vede, non porta esempi del nostro rapporto con gli altri – che sarebbe il nocciolo della dimensione etica, secondo i più – ma sentimenti soggettivi ingiustificati. Non si tratta di sensazioni etiche, ma di sensazioni che tendono a mostrarci dove situare l’etica, direi, in quale spazio soggettivo.

            Allora perché Wittgenstein nella conferenza ricorre proprio a queste esperienze emotive? Perché sono sensazioni che segnalano un rapporto assolutista al mondo – considerato sub specie aeternitatis - e alla vita.

            In effetti, per lui l’etica indica una cosa del tutto particolare: il “tutto limitato”. Ma il tutto è ciò che il linguaggio proposizionale appunto non può dire. Del tutto non si può predicare assolutamente nulla, altrimenti non sarebbe appunto il tutto. Per cui voler dire l’etica è avventarsi contro i limiti del nostro linguaggio proposizionale. 

            Ammettiamo che un filosofo dica “Tutto dorme”. Per Wittgenstein un’affermazione del genere non ha senso (nel senso che lui dà a “senso”) perché mette il Tutto in relazione con qualcosa che dovrebbe essere parte del Tutto, il dormire. Ma così facendo la proposizione esclude l’esser svegli dal Tutto, e quindi implica che il Tutto non sia tutto… siamo in piena auto-contraddizione.

Quindi, quando Wittgenstein lega etica ed estetica al “tutto limitato”, mira a tematizzare il loro carattere assoluto in quanto opposto al contingente relativo

Se dico “non ucciderò nessuno, nemmeno il mio nemico”, e poi aggiungo “perché così si fa nel mio paese” oppure “perché l’atto mi disgusta” oppure “perché ho compassione della persona uccisa” ecc., relativizzo la mia etica, non la riconosco come vera etica (Kant avrebbe detto che è “patologica”). Ma se enuncio “non ucciderò nessuno” come norma assoluta, essa ha il carattere del tutto limitato. Di essa posso dire solo “non si deve uccidere nessuno perché non si deve uccidere nessuno”, punto. Se il tutto fosse illimitato, potrei sempre predicarne qualcosa, ma se il tutto è limitato, non posso predicarne nulla. Resto attonito di fronte all’etica come di fronte al mondo preso come un tutto.

Wittgenstein parla qui anche di miracolo, che non esiste per la scienza, ovvero per il linguaggio proposizionale. Non esiste non perché la scienza avrebbe dimostrato che i miracoli non esistono, ma perché i miracoli non fanno parte del suo gioco. Sarebbe come in un gioco di carte evocare la possibilità dello scaccio matto… Se abbiamo la sensazione (strana) che il mondo sia un miracolo, è perché – aggiunge Wittgenstein – il vero miracolo è il linguaggio. Perché il linguaggio esclude l’assoluto (il mondo come intero) chiudendoci nella cella proposizionale, così che il filosofo sbatte la testa contro i muri del mondo-linguaggio proposizionale. Ma nella misura in cui il linguaggio ci separa dall’assoluto, ce lo fa intuire nella forma dello stupore, della sicurezza e dell’angoscia. Il linguaggio, precludendoci l’assoluto (e quindi il poter dire l’etica), lo fa emergere in qualcosa che Freud chiamerebbe unheimlich (perturbante), ovvero in una sensazione di estrema estraneità di fronte a qualcosa di radicalmente intimo in noi. Il mondo, la casa in cui ci sentiamo protetti, appare nello stupore filosofico qualcosa di inquietante ed estraneo. Possiamo dire che la figura wittgensteiniana del filosofo che sbatte la testa contro le pareti del linguaggio è la forma moderna del mito platonico della caverna. 

 

 

3.

 

            Un punto essenziale è la distinzione di Wittgenstein tra dire e mostrare. Se si dicono cose sensate, si parla in proposizioni, come abbiamo visto. Ma certe cose che non si possono dire si mostrano. Ora il Tractatus non dice praticamente nulla dell’etica ma ha un senso generale etico, ovvero qualcosa di etico si mostra. Wittgenstein, scrivendo del Tractatus a Ludwig von Ficker, diceva:

 

Il mio lavoro consiste di due parti: di quello che ho scritto, e inoltre di tutto quello che non ho scritto. E proprio questa seconda parte è quella importante.

 

Questa parte non scritta è l'etico, che il Tractatus delimita «per così dire dall'interno; e sono convinto che l'etico è da limitare rigorosamente solo in questo modo» (Br, 72).

            Ma mi chiedo se quello che Wittgenstein dice del suo Tractatus non valga, in un certo senso, per qualsiasi grande filosofia. Ovvero, se ciò che conta in ogni filosofia non siano tanto i suoi enunciati, quanto ciò che essa mostra…

            Mi chiedo sempre perché un filosofo preferisca certe idee piuttosto che altre. Dopo tutto, siamo liberi di pensare qualsiasi cosa. Sarebbe davvero ingenuo credere che un filosofo adotti certe idee perché sono quelle meglio argomentate, le più “logiche”. È il contrario: cerca di argomentare al meglio, usando anche strumenti logici rigorosi, le idee che gli preme far accettare ai suoi lettori. In verità, a cosa ciascun filosofo cerca risposta

            A scuola ci insegnano quello che un filosofo ha detto, ma è davvero quello l’essenziale? O c’è una domanda essenziale che non può entrare nel tessuto proposizionale e che si mostra proprio attraverso la filosofia detta? Non parlo tanto dei desideri o bisogni del filosofo in quanto uomo o donna, che così si esprime attraverso la sua filosofia. Non si tratta quindi tanto di fare delle psico-biografie filosofiche, anche se, ben fatte, anche queste possono essere interessanti. Parlo di un qualcosa che non viene detto perché solo un’altra filosofia, che si occupi della prima, può dirlo, nella misura in cui è un’altra filosofia. Un qualcosa che non rientra nel detto filosofico, e che pure attraverso questo dire si mostra. (Lacan poi dirà: “Che si dica resta dimenticato dietro quel che si dice in ciò che si intende”[4]).

            In un certo senso, ogni filosofia cerca di “darci” qualcosa che i testi esprimono. Ogni filosofia ha un senso segretamente operativo.

            Kierkegaard pensava che invece la filosofia fosse inoperosa, perciò portò l’esempio del rigattiere[5]. È se come in un negozio di robivecchi si vedesse una placca con su scritto “Qui si stira”. In realtà, non vi si stira affatto: la placca è in vendita come oggetto. Questa era per Kierkegaard la filosofia: una deludente feticizzazione dei concetti.

Per capire veramente la filosofia credo che occorra invece un esempio inverso. Leggere i filosofi è come vedere esposta una lunga serie di tessuti, più o meno belli e colorati: si crede che siano esibiti per il piacere dell’occhio, e invece sono in vendita. La filosofia, anche quando non se ne accorge, ci vende sempre qualche cosa, anche se non lo sa. (In America si sente spesso qualcosa come “I don’t buy this philosophy” per dire “Non faccio mia questa filosofia”) Si può vendere qualcosa senza sapere di venderlo. Le belle e raffinate argomentazioni di tanti filosofi ci convincono col rigore logico, come in matematica? No, perché la logica trasporta una seduzione che ci spinge a “comprare” qualcosa, la logica riveste questa cosa per renderla appetibile (potremmo dire che la logica è la retorica della filosofia, è un ammirevole artefatto per persuaderci.) Nel caso del Tractatus, Wittgenstein dice che “vende” una disposizione etica che non può essere detta in quanto tale, ma solo mostrata. Perché, se la si provasse a dire (come alcuni hanno fatto), non sarebbe più filosofia wittgensteiniana… Ma se pretendo di dire quel che un’altra filosofia mostra, a mia volta mostrerò qualcosa che non posso dire… E così di seguito. 

Nella differenza tra dire e mostrare Wittgenstein sembra proporre alla filosofia qualcosa che assomiglia ai teoremi o alle teorie di limitazione, come il principio di indeterminazione di Heisenberg in fisica o la dimostrazione che certe proposizioni sono indimostrabili in Gödel. Ovvero, devi scegliere: se dici delle cose, non puoi dire ciò che mostri, ma se cerchi di dire quel che mostri, mostri dell’altro che non potrai dire. Da qui l’apertura infinita della filosofia, la sua essenziale inconclusività. Chiamerei quello di Wittgenstein principio di indicibilità.

In effetti, sento che quando un filosofo oggi cerca di dire tutto, anche ciò che vuole “vendere”, si comporta come un fisico che oggi volesse determinare sia la velocità che la posizione di una particella, o come un logico antiquato il quale cercasse ancora di dimostrare enunciati come “l’aritmetica è coerente”. Wittgenstein ha dimostrato che non tutto ciò che si esprime è dicibile.

            È questo che chiamerei il setaccio di Wittgenstein

            Lo confesso, quando leggo o ascolto un filosofo, mi rendo conto abbastanza presto se è passato per questo setaccio oppure no – e questo del tutto indipendentemente dal suo talento filosofico. I filosofi che mi interessano di più sono quelli che, in qualche modo, sono passati per quel setaccio. Chi non vi è passato può anche essere bravissimo, ma trovo che abbia perso un fondamentale treno filosofico. Sarebbe come dipingere oggi dei bellissimi quadri impressionisti, per esempio. Ma dopo l’impressionismo, si sono operate in arte delle svolte che non si possono ignorare.

            Direi che questo setaccio consiste nell’accettare i limiti della filosofia, perché se non li si rispetta si fa della cattiva filosofia. Il limite della filosofia è che non può dire tutto, e certamente non può dire il Tutto. Ma dire che non può dire tutto, è forse il tutto che ha da dire.

 

4.

            Cosa mostra o addirittura vende – perché dopo tutto si vendono anche i libri di filosofia - un filosofo quando articola la propria filosofia? Mi verrebbe da rispondere: certe proprie ossessioni personali. Queste non vanno viste solo in termini psicologici o psichiatrici: si tratta prima di tutto di ossessioni filosofiche, che con la sua scrittura il filosofo contagia agli altri. Da qui l’idea di Wittgenstein della propria filosofia come psicoterapia (pensava a Freud): la sua filosofia doveva liberarci da ossessioni filosofiche. Una filosofia squisitamente decostruttiva, diremmo oggi. Ma anche liberarci dalle ossessioni filosofiche – dalle metafisiche, direbbe qualcuno – può essere un’ossessione. Quella di Wittgenstein, appunto.

            Possiamo vedere quindi alla fonte di ogni filosofia importante una sorta di ossessione, a cui siamo chiamati a partecipare. Per esempio, in Platone la convinzione che la verità non è percepibile, che il filosofo vede con la mente qualcosa che nessun altro vede (perciò il filosofo dovrebbe governare la Città di ciechi). In Aristotele, l’idea che il filosofo debba mettersi nelle condizioni di dire il vero su tutto, dalla scienza della natura all’arte, dal divenire cosmico all’arte oratoria, dal divino alle piante… In Descartes, l’idea che ogni sapere debba fondarsi sul dover essere certi di quel che si afferma. In Kant, districare ciò-che-è dal senso di ciò che conosciamo. In Hegel il bisogno assoluto di unificare reale e razionale in un sapere assoluto. In Nietzsche la sua volontà di superare l’umanità, volontà che diventa l’essenza stessa dell’umanità… E così di seguito. 

            Quanto a Wittgenstein, credo che tutta la sua filosofia cerchi di rispondere alla domanda ossessiva “che cosa significa significare?” È una Critica della Ragione Significante. A mio avviso, egli prosegue il progetto kantiano (che lui aveva assimilato soprattutto attraverso Schopenhauer). Non si occupa della verità, delle condizioni della conoscenza, dei fondamenti della morale o del ragionamento matematico, ecc., ma solo di che cosa significhi significare. Sapendo però che le cose più importanti – vivere eticamente, produrre arte – non sono significabili.

 

            Quindi, quella di Wittgenstein è un’immagine niente affatto idealizzata della filosofia. Lui manca di quel narcisismo professionale, diciamo anche di quell’arroganza, che caratterizza molti filosofi non meno di altri specialisti, convinti che quel che fanno loro abbia un valore eccelso. Alcuni pensano di praticare la professione essenziale… Invece Wittgenstein sconsigliava i giovani che lo seguivano dal fare filosofia, e convinse anche qualcuno di loro – in modo quasi crudele – a fare un lavoro impiegatizio. La sua idea di filosofo è inversa a quella, famosa, di Husserl, secondo il quale il filosofo è “funzionario dell’umanità”. Per Wittgenstein, l’umanità non sa che farsene di questo funzionario. E difatti descrive la “soluzione” di un problema filosofico non come un servizio pubblico ma come una sorta di serenità raggiunta dopo un inquieto cercare e domandare, in termini insomma squisitamente soggettivi, quasi umorali. La filosofia per lui è la risposta terapeutica a una addiction, a una dipendenza, quella dal nostro linguaggio. La filosofia si illude se cerca di fondare le pratiche umane – scientifiche, etiche, artistiche, politiche… La filosofia non fonda nulla. Per usare un’immagine da lui stesso proposta, credere che una filosofia fondi qualche cosa è come credere che, nel dipinto di una pentola che bolle, ci sia nella pentola dipinta dell’acqua che bolle (PU, #297)[6]. La sua filosofia puntava solo a dissolvere problemi filosofici, così come massaggiandoci speriamo di farci passare il dolore di un crampo. 

            Possiamo dire, allora, che il fondamento dell’etica, come dell’estetica e di altre cose, è uno solo: la vita. Nell’etica, si esprime qualcosa che non si può dire, il nostro modo di vivere. Il che è dire tutto e non dire niente.

 



[1] Testo a partire dal seminario del 23 maggio 2018, Roma, “Per un’etica della caducità”, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici.

 

 

[2] LC, pp. 5-19. Da ora LE.

 

[3] TB, 8.7.1916.

 

[4] J. Lacan, «L’étourdit», Autres écrits, Seuil, 2001.

 

[5] S. Kierkegaard, Enten-Eller, tomo I, Diapsalmata.

 

[6] “Ovviamente, se dell’acqua bolle in una pentola, il vapore esce dalla pentola e anche il vapore in un dipinto esce dalla pentola dipinta. Ma che dire se uno insistesse nel dire che deve esserci anche qualcosa che bolle nel dipinto della pentola?”  

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