Piacere e Felicità . L'illusorio fondamento dell'etica [1] 30/giu/2016
1.
Si sa che Homo sapiens sapiens è diverso dalle specie inferiori perché queste agiscono grazie a programmi di comportamenti rigidamente determinati dai geni. Negli uccelli, quando arriva la stagione degli amori, la sola vista di un individuo del sesso opposto basta per far scattare l’esecuzione del programma: corteggiamenti rituali, esibizioni che conducono automaticamente alla copula, nidificazione, cure dei piccoli, ecc. Basta lo stimolo esterno giusto, e la sequenza va avanti fino al termine pre-scritto, già-scritto, nel DNA. L’etica, se la possiamo chiamare così, di questi animali è un automatismo con scarsa soggettività.
Il cammino dell’evoluzione edifica programmi sempre più aperti, nei quali il determinismo genetico diviene sempre più debole. I mammiferi superiori non dispongono di un programma inesorabile che assicuri la loro riproduzione: con loro funziona la strategia del piacere. Questa non predetermina, ad esempio, la serie dei comportamenti sessuali: si limita a motivare l’animale. L’individuo deve inventarsi i modi per raggiungere il coito, ovvero il principio di piacere è un espediente che sprona ciascun primate ad arrangiarsi per riprodursi. Il vertiginoso aumento della popolazione umana mondiale mostra quanto sia efficace questo espediente. Ma il comportamento – anche sessuale – dell’homo sapiens è alla fine riducibile alle strategie del piacere?
E’ un fatto: l’essere umano non cerca sempre e solo il piacere. Anche l’asceta che vive nel deserto, o il kamikaze che volontariamente si immola per la causa islamica, anelano al piacere? E’ arduo sostenerlo. Allora l’evoluzione avrebbe compiuto con l’anthropos un passo ulteriore verso la flessibilità, quel che una volta si chiamava libertà? Oltre il piacere, in più del piacere, facendo a meno del piacere, l’essere umano cercherebbe in fin dei conti la felicità. Questa sarebbe uno stato di benessere mentale meno legato ai piaceri sensibili: qualcosa di più etereo del piacere. Lo stato di felicità sarebbe più “elevato” della sensazione piacevole perché presuppone una libertà di cui gli animali, si dice, godrebbero meno: sarebbe il segno del fatto che l’uomo è in parte svincolato dal dominio o dominanza del piacere. Il piacere sarebbe più legato all’ordine del sensibile, la felicità sarebbe più legata all’ordine dell’intelligibile. Sensibile contro intelligibile: ritroviamo qui il contrasto secolare tra queste due dimensioni che, inaugurato dal pensiero greco, si prolunga nelle concezioni moderne.
Già i greci avevano discusso i nessi tra edoné ed eudaimonia, piacere e felicità[2]. Per gli epicurei la felicità era un equilibrio di piaceri; per gli stoici invece occorreva rinunciare ai piaceri se si voleva evitare di essere infelici. Ma già la discussione secolare sulle loro relazioni mostra che piacere e felicità non coincidono del tutto, anche se possiamo descrivere la felicità come un piacere più vasto e meno contrastato, e se in tanti casi il piacere ci dà anche un po’ di felicità.
L’eudaimonismo è una forma più “liberale” di edonismo? In effetti, dice l’eudaimonista, Don Giovanni e il monaco dell’Antichità che viveva nell’orrendo deserto della Tebaide hanno qualcosa in comune: ambedue aspirano alla felicità. Ognuno può cercare la felicità nelle forme più diverse e opposte rispetto ad altre: ma nessuno non può non anelare alla felicità. Quindi, se l’uomo non è sempre (può anche non essere) un forzato del piacere, è comunque e sempre un forzato della felicità. Insomma, la ricerca della felicità sarebbe qualcosa di essenziale all’umanità.
Ma allora cade l’assunto per cui la ricerca della felicità – a differenza della ricerca del piacere – manifesterebbe la libertà umana. Libertà significa che un soggetto può anche non fare qualcosa: ma se ogni essere umano, comunque si comporti, non può far altro che cercare la felicità, allora dobbiamo concludere che l’uomo non è libero di cercare la felicità. Siamo liberi di non ricercare il piacere, ma non siamo liberi di cercare di non essere felici e di non cercare di essere felici. La tesi secondo cui la felicità testimonia della libertà umana è paradossale: è una libertà che si risolve, in fondo, in assoluta servitù.
Il progetto di liberare l’essere umano da ogni servaggio raggiunge l’acme con l’etica di Kant. Sia chi dice che l’uomo cerca il piacere sia chi dice che l’uomo cerca la felicità afferma di fatto che la ricerca del piacere e/o della felicità è l’ethos dell’uomo. Ethos significava usanza, costume, abitudine: è come e che cosa l’uomo fa. Ma da esso viene etica: vale a dire, quel che l’uomo dovrebbe fare. Nella concezione kantiana, l’etica come dover essere rompe tutti i ponti con l’ethos come essere e fare di solito. In Kant l’etica è puro dovere: egli rompe con ogni idea utilitarista dell’eticità. Quest’ultima non ha nulla a che vedere con la ricerca del piacere e/o della felicità: questa ricerca viene tacciata da Kant di patologica. Qui Kant intende per patologia tutto ciò che fa entrare in gioco il pathos, l’affetto: l’etica non ha nulla a che vedere con una strategia affettiva. La ragione etica non è motivata – come si dice in psicologia – ma è assolutamente libera (ovvero: è soggetta alla massima incondizionata): solo l’uomo etico pratica la libertà perché si sottomette all’imperativo categorico indipendentemente dai condizionamenti affettivi. “Devo fare così”, anche se questo mi costa dispiacere e infelicità.
Anche Nietzsche – in una prospettiva anti-kantiana – pensa un essere umano come un essere biologico non più regolato dalla ricerca della felicità: il Super-Uomo è espressione piuttosto della pura Volontà di Potenza. Il Super-Uomo è chi accetta come profondamente voluto quel che gli accade, fino a desiderare di ripeterlo infinitamente.
Avremmo quindi nel mondo vivente quattro stadi “etici” scanditi dai progressi della libertà:
(1) gli automatismi con scarsa soggettività nelle specie inferiori,
(2) il principio di piacere come motivante,
(3) l’ideale di felicità come motivante,
(4) l’imperativo etico kantiano, non condizionato da alcuna “patologia”, e l’etica superiore del Super-Uomo.
2.
L’idea secondo cui l’essere umano – come ogni altro vivente – è regolato completamente dalla ricerca del piacere o della felicità è chiamata utilitarismo. Esso è stato esplicitato da Bentham in un famoso motto:
Nature has placed mankind under the governance of two sovereign masters, pain and pleasure. It is for them to point out what we ought to do, as well to determine what we shall do[3].
Come si vede, questo principio che afferma un principio è costitutivamente ambiguo: esso stabilisce ad un tempo ciò che facciamo (l’essere: il fatto che gli umani cerchino sempre di massimizzare il piacere e minimizzare il dispiacere) e ciò che dovremmo fare (il dover essere). Ma ciò che dovrebbe essere, proprio per questo, in qualche modo non è. E’ problematico integrare il dover essere e l’essere. Se cercare piacere e/o felicità è il fine comune a qualsiasi essere umano, questa finalità risulta essere parte del suo essere – è anzi la sua essenza. Ovvero, l’essere dell’uomo, in quanto essere vivente, consiste nel dover godere e/o nel dover essere felice. Quindi, le etiche possono essere diversissime a seconda delle epoche e delle latitudini, ma tutte in qualche modo prescrivono al soggetto “Sii felice!” In sostanza, per l’utilitarismo il solo dovere essenziale, universalmente presente in qualsiasi essere umano, è quello di godere. I singoli – gli individui di specifiche culture ed epoche - sono “liberi” di determinare modi e condizioni per godere o per essere felici, ma non certo di decidere il dovere essenziale di ogni essere umano: il godimento e/o la felicità.
In questa prospettiva, si noterà la paradossalità del diritto fondamentale che la Costituzione americana garantisce ai suoi cittadini: la ricerca dell’happiness da parte di ciascuno. Ma appunto, secondo la visione illuminista – utilitarista – gli esseri umani hanno sempre e comunque cercato l’happiness, anche se talvolta nelle condizioni più sfavorevoli. Questo “diritto” non fa altro che constatare quel che i singoli esseri umani hanno sempre cercato, in ogni caso. Che senso ha allora eleggere un essere - il dover godere o il dover essere felici - a diritto giuridico? Un diritto garantisce l’esercizio di un potere: “puoi cercare di essere felice”. Ma esso presume che questo potere possa non essere esercitato: che possa essere reso impossibile agli individui cercare di essere felici. Ora, è proprio quel che l’utilitarismo (ambiguamente) esclude. Primo Levi ci ha mostrato[4] che anche ad Auschwitz si cercava… di essere felici. Se non altro si cercava di sopravvivere, per poter essere felici una volta usciti dal campo.
Da qui la lapalissianità di ogni etica utilitarista. In effetti l’Illuminismo utilitarista nutre un’infondata fiducia nel fatto che riconoscere l’essere delle cose, e in particolare l’essere dell’uomo, sveli ipso facto il dover essere accettabile: prosegue il sogno antico di basare l’etica autentica sulla scoperta della verità, di fare del sapere il garante del dovere.
Se godere – o essere felici – è il solo vero dovere dell’essere umano (se il dover essere felice o dover godere è l’essenza del suo essere), allora la ricerca della felicità esprime l’essenza dell’etica universale, a cui è impossibile sottrarsi.
Eppure potremmo vedere il rapporto tra etica e pathos in termini alquanto diversi. E’ l’etica solo un calcolo economico? L’argomento psicologico dell’utilitarista è: “chi compie il proprio dovere, anche a prezzo della propria vita o di grande dispiacere, lo fa perché non farlo gli darebbe una sofferenza peggiore: quindi, il principio di piacere e/o di felicità lo guida comunque, anche nel sacrificio supremo”. Per questa ragione la ricerca inevitabile della felicità si risolve in tanti casi nell’evitare di essere troppo infelici.
Ma questa ottica perde una parte esenziale del contenuto etico: quel che conta per l’utilitarista è che il soggetto etico fugga una sofferenza peggiore, e non il fatto che il soggetto sia disposto a pagare un prezzo per quel godimento piuttosto che per un altro. L’approccio “patologico” – in senso kantiano - mette tutto sullo stesso piano, appiattisce le differenze. Dà per scontato che la felicità di cui gode il libertino dopo un’orgia sia in fondo la stessa di quella che raggiunge chi si sacrifica per un’azione altruistica: ma il fatto che diamo un nome comune a queste due sensazioni implica ipso facto che siano le stesse? Non stiamo identificando due cose solo perché abbiamo deciso di dar loro lo stesso nome?[5] Non confondiamo l’omonimia con un’identità? Tanto più che siamo stati noi filosofi, non i parlanti concreti, a istituire questa omonimia: la gente comune distingue di solito la contentezza data dal piacere sensuale dal senso di soddisfazione che dà l’aver fatto una buona azione.
Insomma l’utilitarismo prende come fine assoluto qualcosa che è solo una consolazione: felicità e/o piacere ci consolano per il fatto che abbiamo fatto quel che dovevamo fare. A Napoli per dire “ho goduto di qualcosa” si dice “me song’ cunsulato”: il godimento consola di quella condizione penosa nella quale, di solito, viviamo. Ma il fatto che fare il nostro dovere – se il dovere per noi conta – ci dia piacere o felicità basta per dire che facciamo il nostro dovere solo come modo per procurarci piacere e felicità? Non sono felicità e piacere piuttosto un premio per aver fatto quel che dovevamo fare? Insomma, non facciamo il nostro dovere per essere felici, ma fare il nostro dovere ci rende (spesso) felici. Diciamo, come i behavioristi, che piacere e felicità rinforzano il nostro funzionamento etico.
La felicità per l’atto etico non è il fine di questo atto ma un sovrappiù, una ricompensa. Si pensi alla nobiltà medievale: il re o l’imperatore vittorioso compensava con un feudo il guerriero che si era distinto in battaglia. Ora, il vero guerriero rischiava la vita solo per poi avere il feudo e il titolo nobiliare? Può darsi. Ma possiamo immaginare che al momento venuto il fine del guerriero fosse di vincere la battaglia, non di avere il feudo. Feudo e titolo erano la ricompensa auspicata, non il fine della sua virtus guerriera. Come il guerriero, l’uomo e la donna etici aspirano a fare quel che va fatto: occorre che qualcosa vada compiuto, anche a costo della propria vita. Il senso di intima soddisfazione che ne deriva è come il feudo che dopo - se si sopravvive - si meriterà.
Quando abbiamo adempiuto al nostro dovere, ci sentiamo soddisfatti in quanto adeguati al nostro nomos. I nomoi, le norme etiche e morali, possono essere diversi da persona a persona, da cultura a cultura, da epoca ad epoca. Ma la domanda che si è posta è: a sua volta ogni nomos è riconducibile o meno al principio di piacere e/o di felicità? Questa è la vera grande questione – il resto sono dettagli. E’ la questione che Freud si è posta.
3.
Freud ha ripreso l’onto-antropologia utilitarista con una variante significativa: là dove i britannici parlavano di pleasure, happiness, o less pain, Freud parla di die Lust. Questo termine è stato tradotto “piacere”, in inglese “pleasure”, ma in tedesco ha una connotazione erotica che per Freud era essenziale. Lust difatti deriva in Vollust, lussuria. Inoltre Lust significa anche brama, voglia, desiderio – non quindi solo piacere, ma ciò che ci incita al piacere, il piacere di tendere al piacere, lo spiacevole pungolo del desiderio che ci appare piacevole nella misura in cui ci dedica, ci promette, al piacere. Tradurre Lustprinzip con principio di piacere, come di solito si fa, appiattisce l’ambiguità polivoca del concetto freudiano – ambiguità che spiega peraltro lo sfociare del pensiero di Freud nell’ammissione dell’aldilà al Lustprinzip. Tradurrei Lustprinzip (LP) piuttosto con Principio di Lascivia.
Comunque, il principe dell’essere umano è Lust non Glück (felicità), Freud non parla mai di Glückprinzip. Perché mai? Probabilmente felicità doveva apparirgli qualcosa di troppo disincarnato, vago, ineffabile: Lust invece evoca la libido, la lussuria. Freud opta per la faccia sensibile dell’affetto, mentre la felicità è malfamata come faccia spirituale del Gefühlsvermögen. In questo modo Freud ripete la scelta degli epicurei antichi: anche costoro, contro le filosofie dell’eudaimonia, opposero l’idea che l’essere umano è soggetto [grazie] ad edoné. Il filosofo epicureo, come chiunque altro, tende al piacere non alla felicità – anche se oggi ci pare sempre più difficile cogliere davvero la differenza. Oggi ci sfugge sempre più la differenza tra le sensazioni corporee e quelle puramente mentali perché per noi ormai tutto è mentale. Che si tratti, per un uomo, del piacere di passare la notte con una bella ragazza o cercando la soluzione di un teorema matematico, il piacere – pensiamo oggi - è sempre della mente. In un certo senso, siamo tutti “cognitivisti”.
Forzando un po’ Freud, potremmo dire che il Principio di Felicità domina piuttosto das Ich, l’Io della seconda topica (Io-Es-SuperIo): quella parte del soggetto che include la coscienza razionale, e che, in termini dinamici, è la parte del soggetto che lega l’energia. L’Io tende alla felicità – e soprattutto alla condizione sine qua non di ogni felicità: vivere – cercando di controllare, coordinare, irretire, binden le svariate pulsioni (Es). Le singole pulsioni sono soggette a Lust, cercano semplicemente di soddisfarsi, ovvero tendono al godimento. Invece l’Io, come un governo psichico, tende a controllarle (ed eventualmente a rimuoverle, reprimerle, deviarle) per non vanificare la sua aspirazione alla felicità. In fondo, per Freud ogni nevrosi è un conflitto tra felicità e piacere: le pulsioni dell’Io (che mirano alla sopravvivenza e alla felicità) sono continuamente in conflitto con le pulsioni sessuali, regolate dal Lusprinzip. Ma quel che complica maledettamente il quadro è che questo dualismo agonistico è per Freud solo una contraddizione secondaria, specializzata: anche l’Io – ovvero l’aspirazione alla felicità – è un sottoprodotto di Lust. La felicità appare allora una differenziazione del piacere che porta il soggetto a rinunciare al piacere. Da qui la dialettica discreta che sospingerà Freud.... aldilà di Lust.
4.
Ma possiamo dire con certezza che ogni essere umano, senza alcuna eccezione, cerchi sempre comunque il piacere e/o la felicità? Non potrebbe esistere almeno un uomo kantiano – o un angolo kantiano in ogni essere umano – che obbedisca all’imperativo categorico e non a quello condizionato del piacere e/o della felicità?
Freud, partito dall’idea che il LP domina totalmente l’esistenza umana, non a caso è stato impressionato dal masochismo. Questo non smentisce l’assunto secondo cui l’essere umano è un forzato del piacere e/o della felicità?
Freud distingue tre masochismi: l’erotico (la perversione masochista propriamente detta), il femminile (ma anche, e direi soprattutto, un uomo può essere un masochista femminile) e il morale. I primi due non pongono soverchi problemi alla teoria, in quanto si tratta di modi, anche se alquanto contorti, di procacciarsi il piacere. Il masochista erotico giunge comunque al piacere – anche all’orgasmo – attraverso il dispiacere.
Kant aveva già affrontato una questione analoga nella Critica della capacità di giudicare, benché in un registro estetico: nella sua analisi del sublime, in quanto distinto dal bello[6]. Per sublimi Kant intendeva certe opere già romantiche che rompevano con i criteri della “bella arte”, come la rappresentazione di mari in tempesta, in genere di qualcosa di immenso, informe. Il sublime copre l’area del piacere spiacevole, o del dispiacere piacevole. Kant distingue il ”sublime matematico”, che provoca un piacere che dispiace, dal “sublime dinamico”, che provoca un dispiacere che piace. Possiamo dire che perversioni e nevrosi stanno alla normalità così come il sublime sta al bello: trionfi del piacere che però devono dare spazio ad una volontà irriducibile di dispiacere. Il sublime matematico, un piacere intempestivo e impertinente, è il sublime specifico delle nevrosi: il piacere provato nella fantasia colpevolizza, quindi dispiace. Il sublime dinamico è invece reperibile nel masochismo, e in genere nelle perversioni: la ripetizione dell’atto spiacevole diventa la sola condizione di un vero piacere.
Ma ben più inquietante – e difficile da spiegare in chiave di principio di piacere – è il masochismo morale (MM). Qui non si tratta di ottenere il solito piacere finale pur attraverso la via arzigogolata del dolore – esso rivela una vocazione radicale, irriducibile, all’infelicità ancor più che al dispiacere. Il MM andrebbe insomma oltre il sublime – appare affine piuttosto al dadaismo, che si voleva non arte sublime ma anti-arte, non-arte tout court. Il MM tende fino alla rottura il LP: è un dadaismo del piacere.
5.
Vediamo come Freud se la cava in un saggio di una dozzina di pagine, Il problema economico del masochismo (1924)[7]. Qui dice chiaramente che l’enigma del masochismo consiste nel fatto che il dispiacere masochistico non è più un mezzo per raggiungere il piacere, ma è esso stesso un fine: “il Lustprinzip ne risulta paralizzato, e in un certo senso è narcotizzato il custode della nostra vita psichica.”[8] Da notare come il LP qui venga descritto non come padrone della vita psichica (più in là dice: della vita in generale), ma semplicemente come suo guardiano (Wächter): ciò che la salvaguarda, che la protegge. Ora, questo custode viene narcotizzato e paralizzato: ma da chi? e a qual fine?
Freud porta come esempio princeps di MM la reazione terapeutica negativa, insomma, il rifiuto di guarire dalla nevrosi. Per questi pazienti “la sofferenza che la nevrosi comporta è proprio ciò che rende preziosa [wertvoll] la malattia per la tendenza masochistica”[9]. Il masochista non rinuncia semplicemente ai piaceri della carne, né indossa il cilicio per raggiungere, come San Francesco, la perfetta letizia: anela segretamente all’infelicità. Fin quando nella via del dispiacere si mantiene come meta ultima – forzata – la felicità, il LP si riafferma: ma in questo caso è proprio la meta della “letizia” a venir meno.
Comunque Freud sembra tentare di riportare – arrampicandosi sui vetri della dialettica psichica – l’enigmatico masochismo ad un’economia di Lust. Cerca di riportare il MM ai masochismi erotico e femminile: cerca insomma, ancora una volta, di riportarlo al LP. Ma proprio lui, pochi anni prima, aveva ammesso che non tutto nella psiche si assoggetta al principio o prìncipe del piacere. Allora qui Freud non fa un passo indietro rispetto alla svolta che aveva già compiuto? Non proprio. Perché Freud fino alla fine ha sempre cercato di fare appello alla signoria di Lust fin quanto e fino a dove questa può valere: l’aldilà del LP resta sempre un limite, un margine, qualcosa che eccede. Insomma, Freud non rinuncia mai al proprio paradigma basato su LP: ciò che lo supera emerge come limite o paradosso del piacere, non come qualcosa che lo attraversi completamente, lo spezzi, lo vanifichi. Freud tiene sempre il LP come propria regola interpretativa fondamentale: l’aldilà – Eros e Thanatos – appare sempre acquattato tra le righe.
In effetti, il masochista morale (mm) non è chi cerca il piacere attraverso il dispiacere, piuttosto è qualcuno che si sistema per essere sempre insoddisfatto e infelice. Il mm è colui a cui tutto va male, “lo sficato” – a cui va male anche l’analisi. “Ciò che conta è la sofferenza in sé”, dice Freud:
Ho indicato l’elemento che ci consente di riconoscere questi soggetti [masochisti] (è “la reazione terapeutica negativa”)... La soddisfazione [Befriedigung] di questo inconscio senso di colpa [Schuldgefühl] è forse il più potente tra i fattori che costituiscono il tornaconto (...) che il soggetto trae dalla propria malattia; quell’insieme di forze che lottano contro la guarigione inducendolo a non rinunciare al suo star male; la sofferenza [Leiden] che la nevrosi comporta è proprio ciò che rende preziosa la malattia per la tendenza masochistica. E’ anche istruttivo constatare che, contro ogni teorizzazione e aspettativa, una nevrosi che ha sfidato ogni sorta di sforzi terapeutici, può magari scomparire quando il soggetto incappa nella penosa situazione di un matrimonio infelice, o quando perde le proprie sostanze, o contrae una pericolosa malattia organica. In questi casi una forma di sofferenza è stata sostituita da un’altra, e vediamo che al soggetto importava unicamente poter conservare un certo grado di sofferenza[10].
Come riportare al principio o signoria di Lust queste forme di vita che aspirano alla sofferenza e non alla felicità?
La prima risposta di Freud è che questa sofferenza in qualche modo soddisfa qualcosa o qualcuno nel soggetto. Insomma, questa sofferenza da qualche altra parte produce un godimento. Ovvero, soddisfa un inconscio senso di colpa. Ma Freud si pente di questo termine subito dopo averlo proposto: il senso di colpa è appunto un sentimento, un affetto, quindi qualcosa di conscio. Ora, la specificità del mm consiste proprio nel non avere coscienza di questo senso di colpa: come si può avere un sentimento di cui non si è consci? Per questo Freud preferisce il termine bisogno di punizione (Strafbedürfnis): il bisogno è qualcosa di meno soggettivo, di più oggettivo. Il MM soddisfa comunque un bisogno; ma questo bisogno è pulsionale, dato che non appare regolato dal LP? E da dove verrebbe questo bisogno di punizione? Ovvero, chi è il soggetto di questo bisogno?
Freud risponde che questo bisogno di punizione va scomposto in due bisogni (e perché si tratta appunto di bisogni e non di desideri o pulsioni?). Uno è il bisogno sadico del Super-Io di punire e umiliare il soggetto; l’altro è il bisogno masochistico dell’Io di essere punito ed umiliato. In questo modo viene a crearsi un idillio sado-masochistico tra due parti o istanze del soggetto: quel famoso incontro tra sadico e masochista – che per Deleuze era impossibile[11] – si realizza finalmente all’interno della soggettività stessa. Il MM sarebbe allora una sorta di amore perverso perfetto! In questo modo, ancora una volta, questa scandalosa ricerca di sofferenza viene ricondotta al LP: il prodotto finale – la sofferenza – è la risultante della composizione di due godimenti, uno sadico e un altro masochistico. Questo fa dire a Freud che il MM non è affatto morale: è piuttosto una sessualizzazione della moralità. Non tanto, come nelle perversioni, un modo di usare le norme morali per trarne piacere sessuale, ma piuttosto un godere della punizione morale come di una soddisfazione sessuale. In questo modo Freud tenta pur sempre di riportare il MM alle perversioni, anche se qui non si tratta di comportamenti sessuali ma di modi di vivere: proprio perché il mm schiva la soddisfazione sessuale, sessualizza la propria vita. Egli è insomma un perverso morale più che sessuale.
Ma il Super-Io – come rappresentante entro il soggetto dell’istanza severa dei genitori – deve punire l’Io per quale colpa? E l’Io stesso, che gode masochisticamente nell’essere punito, che cosa deve scontare? Freud resta reticente su questa colpa - supposta, immaginata o impari alla punizione. Si dirà: può essere qualsiasi cosa. Freud riprende una concezione diffusa nella cultura positivista del suo tempo: come Jean Rostand, sembra pensare che “la morale è ciò che resta della paura quando la si è dimenticata”[12]; ovvero, la morale sono le proibizioni degli adulti interiorizzate. Se un genitore ti ha sgridato quando avevi due anni perché facevi troppo fracasso, anche questa è una colpa da espiare. In effetti, ognuno di noi da bambino è stato rimproverato per qualcosa, le colpe che appaiono futili agli adulti possono essere percepite come capitali dal bambino. Perché no? Ma perché non tutti diventiamo mm? Quale qualità soggettiva occorre ad un essere umano perché questi continui per tutta la vita a scontare colpe nemmeno immaginarie – Freud non ci dice che questo bisogno di punizione è connesso necessariamente a fantasie specifiche – ma futili o addirittura inesistenti?
Ora, proprio facendo silenzio su tutto questo, Freud lascia pensare che in fondo la vera colpa che il masochista deve scontare è... essere sotto i colpi della morale. Come accade al protagonista del Processo di Kafka, il mm verrebbe punito per una colpa misteriosa, forse inesistente[13].
Ma è vero che il mm non ha alcuna colpa? Basta una coazione a ripetere la punizione originaria – quella che i genitori gli inflissero da bambino – a spiegare questo invischiarsi, magari per tutta la vita, e malgrado tutte le cure analitiche, in questa strategia auto-punitiva? Non è il ricorso alla coazione a ripetere – e quindi alla pulsione di morte – un modo ellittico di dire che questa ripetizione non si può spiegare? Fare della ripetizione una pulsione non è una maschera esplicativa del fatto di non potere - né forse volere - spiegare il masochismo?[14] Perché la pulsione di ripetizione ci spinge anche a ripetere il piacere, talvolta anche coattivamente, come nel caso delle tossicomanie o nel sesso obbligato; ma perché nel MM la pulsione di ripetizione preferisce ripetere la sofferenza? Non è già abbastanza di mortifero il rinnovare lo stesso piacere, perché in alcuni questa ripetizione micidiale si aggravi reiterando il dispiacere?
Forse possiamo tentare di uscire dall’impasse in cui si trova Freud ipotizzando che forse il mm davvero sconta una colpa. In questo caso non ci sarebbe bisogno di ricorrere all’arbitrario godimento sadico del Super-Io per spiegare questa vocazione alla sofferenza: diciamo che ciò che appare a Freud in termini di punizione può essere visto piuttosto in termini di prezzo da pagare. In effetti, vediamo il Super-Io freudiano parlare in prima persona piuttosto nella malinconia: il malinconico che si rimprovera terribili colpe o incapacità parla da una posizione di giudice severo, spietato. Nella malinconia il Super-Io non è inconscio, ma parla col megafono: e ne cogliamo anche il godimento, perché certo qualcosa nel malinconico gode nel diffamarsi (è l’ultimo godimento che gli resta).
Ma allora, il MM sarebbe una malinconia inconscia? E’ esso la forma nevrotica della malinconia? In questo caso il Super-Io non parla ad alta voce: Freud ne trova le tracce solo sulla base del comportamento. Presuppone la forza di questo Super-Io sadico, ma questa forza non si esprime mai in prima persona. Però c’è una dissimmetria tra malinconia e MM. Nella malinconia Freud cerca di spiegare perché il Super-Io infierisce sull’Io: è che questi ha preso il posto dell’oggetto deludente, per cui di fatto il Super-Io se la prende con l’oggetto, con il chi ha deluso l’Io. Da qualche parte, insomma, colpa c’è stata: la malinconia sarebbe semplicemente un errore nell’identificare il soggetto della colpa. Nel MM invece non si vede traccia di colpa: si vedono solo i godimenti sadici e masochistici. Il MM è kafkiano: si vede la punizione, non la colpa. Dove allora potrebbe essere cercata?
Forse può metterci su una retta via questa osservazione: il masochista morale non vive alcun rimorso. Il rimorso, e la vergogna per aver mancato, è la traccia affettiva del pentimento e quindi della colpa di cui ci si pente. Ora, è come se il mm non si pentisse mai, dato che non sa di cosa pentirsi: non cessa di essere punito (da se stesso o dalla vita) ma non si pente - e quindi, potremmo dire, non si riabilita mai. Del resto, di che cosa si dovrebbe pentire? Ma se la linea interpretativa di Freud è nonostante tutto giusta, di che cosa il mm non si pente? Evidentemente di una colpa. Ma siccome non possiamo dire quale questa sia in tutti i casi, occorre analizzare caso per caso?
6.
Possiamo allora chiederci: che cosa è essenzialmente una colpa? A seconda dei codici morali, qualcosa può essere più o meno colpevole. Ma che cosa è colpa, aldilà delle differenze tra i codici morali? Una domanda del genere è complementare ad un’altra domanda inevitabilmente filosofica: che cosa è, in generale, norma morale per un soggetto? La colpa è difatti il non essere adeguati alla norma, a quella propria o del proprio gruppo sociale.
Ora, in genere tutti i comandamenti che consideriamo etici – come i Dieci Comandamenti – di fatto vertono su un solo punto essenziale: l’altro conta. Gli automatismi animali delle specie inferiori – proprio perché non sono soggetti al LP – sono in fondo relazioni schematizzate con l’altro. Ma nell’uomo al posto di questi automatismi non c’è solo il LP: ci sono anche delle regole etiche. Perché l’etica riguarda essenzialmente il mio rapporto con gli altri. La Legge mi dice che, se l’altro è un mio simile – in alcune culture il simile è il mio compaesano, in altre è ogni essere umano, in altre anche gli animali - non devo ucciderlo, derubarlo, usarlo sessualmente senza il suo consenso, non farlo condannare per mia falsa testimonianza, non insidiare la sua donna, non insultarlo se è mio padre o mia madre. Se l’altro è Dio, devo riconoscere che è il mio, che non devo usare il suo nome invano, che devo onorarlo nei giorni festivi. L’etica riguarda sempre l’altro e l’Altro: mi dice che la sua soggettività (quel che ama e odia, quel che pensa e vuole) mi riguarda[15]. Essere colpevoli, peccare, significa sempre, quindi, in qualsiasi cultura, mancare di rispetto all’altro: usarlo come oggetto, strumento, e non come altro-da-me nei cui confronti avere rapporti normativamente reciproci.
Ora, dice Freud in questo saggio, “il Super-Io è il rappresentante [Vertreter][16] tanto dell’Es quanto del mondo esterno”[17]. Questo mondo esterno (Aussenwelt) è prima di tutto il mondo degli altri, l’oikos sociale nel quale siamo inseriti. Gli altri, il mondo esterno, la vita sociale – di cui i genitori si fanno interpreti – è ciò che sin dall’inizio ci limita, ci obbliga, ci coarta. Ma che cosa è l’etica se non il fatto che viviamo insieme agli altri, che ci possiamo inserire come soggetti solo nella misura in cui entriamo in comunità etica con loro, cioè, in fin dei conti, quando facciamo delle regole morali ambientali il nostro stesso principio? In altre parole, quel che Freud chiama Super-Io è la figura eroticizzata della trascendenza dell’altro.
Ora proprio Freud aveva chiamato Eros, o pulsione di vita, questa vocazione trascendente del soggetto: questo suo andare verso l’altro non in quanto strumento per soddisfarsi ma per fare uno con esso. Eros è fare dell’altro il fine della mia soggettività. Eros – il primato dell’altro – è il vero aldilà del LP perché a questo punto il godimento soggettivo cessa di essere la regola: diventa regola il mio esser-con-l’altro. Ora, evidentemente, è proprio ciò che manca al mm: egli non riesce a godere perché manca di trascendenza. Egli vive solo nel LP. Da qui la sua stupefacente sofferenza.
Ciò che Freud vede come macchina morale – il Super-Io che punisce l’Io – è probabilmente il costo che il soggetto deve pagare non per essere morale, ma per fare quello che deve fare. Quando un soggetto ha come propria norma solo il piacere, senza confidare sul fatto che fare quello che si deve fare dà piacere, allora si affretta verso la morte (da qui la tesi di Freud: che il masochismo è rivelatore della pulsione di morte). Il mm “sconta” il fatto che non fa quello che deve fare: cioè vivere in modo non solipsistico in un mondo in cui l’altro conti. Chiamiamo questa importanza data agli altri avere una causa. Termine significativo: la causa che ci fa vivere – sia essa il redimere il mondo dalla miseria o desiderare con ardore che la propria squadra di calcio vinca lo scudetto – è causa ad un tempo efficiente e finale del nostro piacere di vivere.
Ma quindi, la sofferenza che il soggetto infligge a se stesso è davvero un’inconsapevole punizione? Forse il linguaggio della punizione è un linguaggio mitico: in effetti, la punizione viene riconosciuta tale solo da chi si è pentito. Chi non si pente – e quindi non riconosce il proprio agire come colpevole - vive la punizione piuttosto come un abuso, una disgrazia, un mero costo. Il mm, difatti, non si sente punito: si vive solo come un disgraziato. Ovvero, la punizione per lui non è vissuta: è come un automatismo. Ma in che cosa consiste questo automatismo?
Chiediamoci prima: che cosa all’inverso ci rende felici? Di solito ci sentiamo tali quando ci sentiamo in sintonia, in rapporto di adeguazione, col nomos a cui aderiamo: quando sentiamo che stiamo facendo o abbiamo fatto quello che dobbiamo fare. Anche nelle cose minime: se ho accettato come mio dovere, ogni mattina, di radermi, il solo fatto di portare questa bisogna a termine mi dà una certa soddisfazione. Se sono mussulmano e credo nella jihad, l’andare in guerra a rischio di farmi ammazzare mi dà soddisfazione: ho fatto quel che dovevo fare. Anche se mi concedo alcuni piaceri posso essere felice, ad esempio se faccio l’amore con la mia amata: ho fatto anche qui quel che dovevo fare. Ma, in tutti i casi, questo nomos implica l’altro: devo fare quel che devo fare per gli altri. La tranquilla felicità viene esclusa dal MM in quanto essa implica l’adeguazione ad un nomos, vale a dire vivere per rendere felice l’altro.
Il masochismo erotico mette in scena la propria esclusione dal coito, ovvero dal godimento degli altri. La scena di questa penosa esclusione diventa per il masochista la scena eccitante per eccellenza. Il mm piuttosto mette in scena la propria esclusione dal rapporto etico con gli altri: ma la ripetizione di questa esclusione gli dà solo godimenti marginali, gli dà solo, in qualche modo, un paradossale trionfo morale.
Allora capiamo perché il mm non possa sfuggire alla sofferenza: sostanzialmente egli non riconosce questo nomos. La felicità etica gli è interdetta, e si rivela quindi sofferenza. Quando difatti egli non è vessato da guai reali, è la nevrosi a prenderne il posto. Ma la nevrosi consiste proprio nel fatto che per lui o lei l’altro non ha senso: lui o lei non hanno peso etico. Il mm sconta la sua eccessiva fedeltà al LP.
7.
Un caso narratoci da Serge André[18] può farci capire meglio questa necessità della sofferenza nel masochismo.
Il suo paziente, Blaise, da cinque anni – da quando si era sposato – soffriva di una nevralgia facciale estremamente dolorosa sul lato sinistro del viso, senza cause organiche rilevabili. Questi dolori lancinanti lo avevano spinto a covare pensieri di suicidio. Si dirà: un caso di isteria di conversione. In parti sì, in parte altro.
Era l’ultimo frutto tardivo di un matrimonio, nato quando i suoi fratelli e sorelle avevano già raggiunto l’adolescenza. Il padre era morto quando lui aveva cinque anni, e non ne conservava quasi alcun ricordo – scoprì poi, da grande, che si era suicidato. Non era mai riuscito a farsi dire le ragioni di questo atto. Blaise quindi era vissuto, praticamente da sempre, con sua madre; fratelli e sorelle se ne erano andati via presto di casa, e lui era rimasto per molti anni, da solo, accanto alla mamma, vivendo in pratica come il suo consolatore. Questo in una situazione economica disastrosa: da che la famiglia si trovava in una situazione più che agiata precedente, la morte del padre la aveva all’improvviso gettata nella miseria.
La guarigione – improvvisa e spettacolare – delle nevralgie isteriche è connessa ad una scena vissuta quando Blaise aveva sette anni. Allora aveva avuto occasione di osservare una bambina di dieci anni, non ancora pubere, mentre urinava. Guardando da sotto la porta del gabinetto, aveva visto in modo molto distinto il sesso della bambina, non ancora coperto dal pelo pubico. Era rimasto molto colpito dalla linea disegnata dalle due labbra giunte del sesso, e dal getto brillante di urina. Da allora era hanté da questa visione della linea del sesso femminile glabro. Era divenuto un feticista di questo segno: bastava che una donna lo guardasse con delle labbra strette (pincées) e con un’aria sostenuta o risentita (pincée), perché avesse un’erezione. Guardare il sesso glabro e non eccitato delle donne – ritrovando quindi la linea chiusa – era il suo oggetto essenziale di eccitazione erotica. Egli scriveva molto, ma aveva dovuto rinunciare completamente a scrivere con la penna, in quanto la sola vista di certi tratti provenienti dal suo porta-penna gli scatenavano fantasie masturbatorie.
Aveva l’abitudine di andare a trovare molte prostitute, finché non trovava una con il sesso per lui giusto: allora si limitava a guardare a lungo la vagina chiusa, si masturbava, e quindi, dopo essere venuto, si distendeva tra le braccia di lei. Quanto alla moglie, costei aveva accettato di radersi il pube e di farsi contemplare la linea delle labbra giunte; ma non appena essa si eccitava a sua volta, occorreva spegnere la luce per evitare che egli vedesse l’orribile fessura del sesso socchiuso. Anche una minima apertura delle labbra della moglie gli ispirava un disgusto insopportabile. Si trattava insomma di un feticismo del tratto dello spacco, estesosi peraltro, dalla fessura vaginale iniziale, ad una serie di oggetti che manifestavano la stessa forma.
Un giorno, descrivendo ancora una volta la famosa scena della bambina che orinava, si rende conto che la aveva vista stando riverso sul lato sinistro, e appoggiando quindi la guancia sinistra al suolo. Ricorda anche che, rialzandosi, aveva sentito il pizzichio dei sassolini su cui aveva poggiato la guancia. Dopo questa reminiscenza, quasi all’improvviso i suoi dolori nevralgici spariscono. E’ come le cure fatte col metodo catartico, praticato da Freud nell’Ottocento: il rivivere la scena-madre leva il sintomo. Ma, una volta sgravatosi del sintomo, Blaise dà libero corso al suo feticismo – “poteva ormai abbandonarsi alle sue fantasie masturbatorie senza dover più pagarle con sofferenze” scrive André. Da qui il suo progetto di farsi tatuare la schiena. Egli finisce col pensare che questo tatuaggio segnerà la fine della sua analisi.
Il tatuaggio progettato rappresentava una donna-drago rovesciata supina con le gambe aperte. “Avrebbe portato questa maschera di carne sulla schiena, in modo tale che lo spacco del sesso di questa donna si confondesse con la linea di separazione delle sue natiche” (ibid. p. 51). Come l’essere umano duplice, maschio e femmina, raccontato da Aristofane nel famoso mito del Simposio platonico, anche Blaise sarebbe stato duplice: uomo dal lato testa, ragazza dal lato croce. Egli avrebbe portato su di sé il proprio feticcio, che solo l’altro però avrebbe visto. A questo progetto l’analista obietta che si tratta solo di una mascherata; ma Blaise gli ribatte, che “disprezzando la soluzione offertagli da quella maschera-tatuaggio, egli non tenev[a] conto del dolore che avrebbe dovuto sopportare per mesi, forse per anni, a causa dell’ago del tatuaggio. Su questo punto Blaise non aveva del tutto torto, in quanto faceva presente la necessità per lui del sintomo: il tatuaggio prendeva il posto della nevralgia di cui si era liberato.” Blaise smette di andare dall’analista, e si affida all’incisore sulla carne.
Questo ultimo punto – il bisogno che ha il soggetto di soffrire, prima per un sintomo isterico, poi per un tatuaggio scelto – mi sembra cruciale. Il masochismo si delinea sullo sfondo della fantasmagoria feticista. L’inevitabilità del dolore appare quindi essere il prezzo da pagare per una mancata apertura all’altro, mancata apertura che si ripete nella stessa analisi.
Del resto, possiamo dire che ogni perversione ha del masochistico. Questa passione masochista si rivela attraverso gli scritti, numerosi, di cui Blaise rifornisce l’analista: parla di sé come di “una personificazione del ridicolo”, “un ammasso di carne da salsiccia scoppiata”, “una varietà particolare di inculato”, “un prodotto puro della polluzione”, “una buccia“, ecc.
Ma perché questo bisogno di dolore e di umiliazione? E che nesso c’è tra il suo tratto feticistico – il segno dello spacco – e questo bisogno di soffrire, quasi come riscatto per il suo godimento? André purtroppo è morto e non potrà rispondere alle domande che sorgono alla lettura di questo caso. Ma non è difficile vedervi altre cose di cui André non ci parla, in quanto ci ha detto solo quello che serviva alla sua argomentazione sul transfert del perverso.
In fondo, lo spacco vaginale come feticcio non rinvia solo ad un qualcosa della donna che pare essere un surrogato del pene che manca, secondo la tesi classica di Freud sul feticismo. Evidentemente questo tratto significa il chiuso. L’importante è che la donna non si apra a lui, o che comunque sembri non aprirsi. Ma da dove può venire tutta questa passione per la chiusura della donna? Non si tratta solo di desiderio del segno della chiusura: come abbiamo visto, Blaise non “apre” le prostitute con cui va. La risposta forse va cercata nella storia infantile di Blaise.
Non dimentichiamo che lui ha vissuto sempre accanto ad una madre chiusa dopo il suicidio del marito: nel senso di chiusa nel suo dolore, ma anche nel senso di casta. La madre non pare avere amanti, e certo suo figlio non è il suo amante. Il suo comportamento con le prostitute è in questo senso significativo: dopo aver goduto della vista della loro “chiusura” vaginale, giace castamente abbracciato a loro.
Le modalità di transfert di Blaise mostrano peraltro che questa chiusura – di cui lo spacco è la metafora, o meglio la metonimia – è quel che caratterizza i suoi rapporti con l’altro. Per lungo tempo, egli mostra un sentimento di vero orrore nei confronti dell’analista. Non a caso, per sfuggire al risucchio vampiresco che sentiva nel suo transfert con l’analista, aveva pensato di rivestirsi completamente di una specie di casco protettore che lo avrebbe dissimulato allo sguardo dell’analista. “All’esterno del casco, aveva scritto, come uno specchietto per le allodole, saranno dipinte le circonvoluzioni intestinali sanguinolente compresse di un cervello fluorescente. Sarà il mio accessorio indispensabile, la mia protezione illusoria.”[19] Evidentemente Blaise sente che la penetrazione psicologica attribuita all’analista lo risucchia, lo spossessa, da qui un casco che lo chiudesse, appunto, all’intrusione. Invece di farsi penetrare il cervello, Blaise replica con la pura immagine di un cervello compresso, che però è anche le sue budella. Intestino e cervello sono organi interni: quelli che egli vuole evidentemente proteggere dalla manomissione analitica. Del resto, gli americani non chiamano gli analisti in genere shrinks, cioè restringitori di cervelli? E’ come se egli dovesse assicurare la chiusura della propria mente così come era essenziale garantire la chiusura sessuale della madre: da qui il vero e proprio orrore di essere aperti, anche allo sguardo maschile. Il tatuaggio con cui Blaise sospende l’analisi ha quindi il valore di marchiare se stesso di una chiusura indelebile: l’Altro godrà di lui stesso guardandolo da dietro, ma castamente. Difatti Blaise non mira affatto a farsi sodomizzare da eventuali uomini: resterà chiuso. Egli aveva scritto giustamente di essere “una varietà particolare di inculato”: appunto, un inculato solo virtuale.
Il feticcio quindi in questo caso non rappresenta solo il surrogato di un immaginario fallo femminile: sancisce la chiusura della femmina all’intrusione fallica. Più in generale, connota la sua chiusura all’altro: la sua estraneità al nomos che, come abbiamo detto, è sempre apertura all’altro. Non a caso la nevralgia devastante sorge a seguito del suo matrimonio: in questo caso non bastava contemplare il sesso chiuso della donna, occorreva penetrarlo, forzarlo. Blaise fa quello che deve fare come marito, però solo a prezzo del proprio dolore. E a prezzo del dolore dell’ago del tatuaggio può trovare il proprio equilibrio. Ma tutto funziona come se questo dolore che gli è indispensabile non fosse altro che il dolore della madre e il suo nella vita miserabile e casta che per tanti anni hanno dovuto condurre, soli. Il dolore non è solo il fio da pagare per aprire una donna che dovrebbe restare chiusa – come esige la regola familiare – ma pare essere anche la condizione del godimento: quel dolore che avrà portato suo padre al suicidio, proprio quel padre che aveva goduto di sua madre e che le aveva dato vari figli. Godimento, sofferenza, suicidio appaiono quindi intrecciati: se il godimento non fa di necessità (cioè della chiusura) virtù, se si concede di godere dell’apertura, allora un dolore (e, in prospettiva, un suicidio) fatale lo accompagnerà come un’ombra.
Insomma, la sofferenza riporta il masochista alla realtà, che per noi esseri umani è prima di tutto la realtà del nostro rapporto con gli altri. Mancando di vera etica – cioè di una causa che è sempre la felicità dell’altro – il masochista deve accontentarsi del reale della sofferenza: vivendo la punizione per non avere una causa, vive come simulacro vivente di una legge che per lui non conta.
8.
In fondo, l’etica umana sostituisce gli automatismi animali determinati geneticamente: non è solo il piacere, ma anche l’etica, a far fare all’uomo e alla donna quel che devono fare per essere come gli animali. L’etica, nell’homo sapiens, compensa l’eccessivo liberalismo del suo DNA. Se la ricerca del piacere ci fa cercare il cibo e ci aizza a copulare o a batterci contro l’invasore del nostro territorio, il nomos etico regola i nostri rapporti con gli altri; invece nelle specie inferiori questi rapporti con i congeneri sono geneticamente regolati. Insomma l’etica si rivela, alla fin fine, quasi altrettanto efficiente dei programmi genetici nell’assoggettare l’individuo. L’essere umano non è quindi solo un forzato del piacere e della felicità, ma anche dell’etica. La teoria freudiana del Super-Io è del resto un abile marchingegno per connettere Lust ed etica, per mostrare le origini lustig dell’etica e per mostrare come Lust si eticizzi.
In questa prospettiva il Super-Io allora non va visto semplicemente come l’istanza che enuncia norme morali più o meno onerose, ma anche come il principio fondamentale che enuncia “esistono gli altri!”. Dopo tutto, non è quello che ci dicono, esplicitamente o meno, i nostri stessi genitori quando ci rimproverano certe nostre manchevolezze? “Stai attento al signore! non disturbare la signora! non far piangere la sorellina!” ecc. Il Super-Io certo impersona la violenza repressiva del mondo esterno, nel senso della famosa frase di Sartre “l’enfer c’est les autres!” E’ nel nostro vivere con gli altri, in relazione agli altri, che la nostra vita si riconosce infernale – e che però si aggiudica anche dei godimenti. Ora, il mm è chi vuole sfuggire a questo inferno: rifiuta di farsi determinare dagli altri.
Questo spiega probabilmente lo scacco dell’analisi nel caso del MM. Quelli che Freud chiama mm sono probabilmente quelli che successivamente sono stati classificati come personalità narcisistiche: soggetti per i quali l’altro non ci norma. L’analisi fallisce con costoro perché occorre che l’analista venga investito eticamente come Altro: occorre insomma che il rapporto analitico diventi un nomos condiviso. Ma proprio questo non accade con il mm: l’altro non conta, quindi l’analisi non conta.
[Pubblicato nel volume: Giuliana Bertelloni, Simone Berti & Pier Giorgio Curti, a cura, Felicità e illusione, Edizioni ETS, Pisa 2003, pp. 27-52.]
[1] Relazione al convegno “Felicità e illusione” a cura del Laboratorio di Ricerca Freudiana, Livorno, 5 aprile 2003.
[2] Per una rassegna delle concezioni occidentali della fleicità, cfr. Fulvia de Luise, Giuseppe Farinetti, Storia della felicità. Gli antichi e i moderni, Einaudi, Torino 2001.
[3] J. Bentham, An Introduction to the Principles of Morals and Legislation, ed. J.H. Burns and H.L.A. Hart, London 1970, p. 1.
[4] In Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1958.
[5] Oggi si spera che la neuroscienza riesca a svelare se si tratta di omonimie o meno attraverso la registrazione dei processi cerebrali. Se si vede che i processi elettrici raffigurati dall’MRI o il PET di due persone che dicono di essere felici appaiono del tutto analoghi, allora possiamo dire che hanno le stesse sensazioni di fleicità. Non è qui il luogo per discutere la plausibilità di queste speranze. Resta comunque che qualsiasi Imaging o Tomography di processi cerebrali rivela tra loro delle analogie ma anche, sempre, delle differenze, che vanno comunque concettualmente valutate.
[6] I. Kant, Kritik der Urteilskraft, 1790, parte I, sez. 1, libri primo e secondo.
[7] Freud, Opere, Boringhieri, 10, pp. 5-16. GW, 13, pp. 371-383. SE, 19, pp. 159-170.
[8] Freud, Opere, cit., p. 5; GW, cit., p. 371.
[9] Opere, cit., p. 12; GW, cit., p. 379.
[10] Opere, cit., p. 12; GW, cit., p. 378-9.
[11] E’ nota la barzelletta del masochista e del sadico che si incontrano: il primo dice al secondo “picchiami, te ne prego!” e l’altro, godendo, risponde “No, mai!”. Gilles Deleuze (in Presentazione di Sacher-Masoch, Bompiani, Milano 1977) sostiene che di fatto l’incontro tra sadico e masochista non avviene mai: le loro perversioni non sono complementari.
[13] Un approccio psicoanalitico convenzionale al romanzo di Kafka interpreta in questo senso: K. avrebbe rimosso la colpa che motiva l’incubo processuale e la condanna finale. Ma si tratta davvero di una colpa dimenticata, di cui la coscienza non ha voluto sapere? O la colpa non consiste proprio nel finire sotto i colpi della macchina giudiziaria? In effetti, Kafka non si concentra tanto sulla punizione finale quanto piuttosto sul processo del Processo, per così dire: sulla macchina giudiziaria che appare incomprensibile, remota, estranea alla vita. Anche nel masochismo morale quel che conta è la macchina colpevolizzante, non la colpa specifica.
[14] C’è il fondato sospetto che, riportando alla pulsione di morte ciò che non si può spiegare in termini di impulso a vivere bene, Freud ripeta l’exploit dei medici di Molière: per i quali il potere dell’oppio di far dormire era spiegato con la virtus dormitiva presente nell’oppio.
[15] Ma come metterla con i comandamenti “puritani”, come quelli che proibiscono la fornicazione o la masturbazione? Anche in queste norme sessuali – di cui la morale moderna cerca di disfarsi – traspare comunque l’interesse per l’altro e dell’altro: per la cultura ebraico-cristiana dei Dieci Comandamenti, infatti, il sesso non appartiene all’individuo ma alla moglie e al marito. Nelle morali austere certe attività erotiche sono proibite non giusto per rendere al singolo la vita più gravosa, non per un arbitrio repressivo, ma perché il corpo appartiene essenzialmente a Dio, e viene dato in prestito, per così dire, al coniuge. Usare egoisticamente il nostro sesso è defraudare insomma l’altro, legittimo possessore del nostro sesso (del resto, la fedeltà sessuale non è richiesta anche dalla nostra moderna cultura amorosa laica?). Quindi: in ogni cultura variano i limiti e i territori dell’altro, ma la qualità etica di un comando o di una norma implica sempre il rapporto con l’altro.
[16] Vertreter (letteralm.: “colui che cammina per”) è rappresentante come si dice “rappresentante di commercio”, ovvero, “agente”, “supplente”, “facente funzione di”, “sostenitore”, “delegato”, “patrocinatore”, “esponente”.
[17] Opere, cit. p. 13; GW, cit., p. 380.
[18] L’imposture perverse, Seuil, Paris 1993, pp. 43-57.
[19] S. André, op.cit., p. 51.
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