Flussi di Sergio Benvenuto

L'etica, lo stupore e il reale in Wittgenstein [1]06/lug/2016


          Wittgenstein parla esplicitamente di etica soprattutto nella prima fase del suo pensiero. Ne scrive nel Tractatus, nei Quaderni del 1914-16, e nella conferenza On Ethics[2]. Cosa pensare di questo silenzio sull’etica nella seconda fase del suo pensiero? E’ segno del fatto che il tema dell’etica cessa di interessarlo, una volta adottato il nuovo stile? O piuttosto è segno del fatto che, nel fondo, egli su questo tema non ha da aggiungere nulla di essenziale a quel che aveva già detto?

Spesso egli precisa che quel che egli dice sull’etica vale anche per l’estetica. “(Etica ed estetica sono uno.)” (Tractatus 6.421).  E nella conferenza sull’etica[3]: "Userò il termine 'etica' in un senso un poco più lato, in un senso, di fatto, che include la parte secondo me più essenziale di ciò che di solito viene chiamato estetica". Quale sarebbe questa parte più essenziale dell'estetica, per la quale varrebbe il discorso che egli fa per l'etica? Wittgenstein non lo dice qui, né altrove. Cercheremo qui poi di intuirlo (par. 11).

 

  1. 1.    L’arché del linguaggio

 

Io sono tra coloro che credono nella fondamentale unità di ispirazione del pensiero di Wittgenstein. Non rigetto – come ad esempio fa Rorty (1989) - il primo Wittgenstein come “metafisico” e “positivista”, per esaltare il secondo come “pragmatista” ed “ermeneutico”. Né, come Badiou (2009), esalto il primo come “autentico anti-filosofo” e liquido il secondo come “mera sofistica”. Secondo me, il Wittgenstein “seconda maniera” sviluppa i nodi concettuali etico-mistici del Tractatus, che diventano allora centrali per delineare la sua concezione del significato come uso, ecc. (De Carolis 1999).

          Wittgenstein si è sempre chiesto “come fanno i nostri enunciati ad avere senso? Come accade che quando parliamo, di solito ci capiamo?” Ovvero, in lui la questione del senso pone in second’ordine quella della verità.

Vediamo la differenza tra le risposte nelle due fasi del suo pensiero attraverso uno dei suoi esempi preferiti, quello degli scacchi. Nella prima fase egli risponde considerando gli oggetti materiali - i pezzi e la scacchiera - immagini o rappresentazioni della struttura del gioco in quanto tale: la notazione scelta da una parte, e la realtà (intelligibile) degli scacchi, con tutte le sue innumerevoli possibilità, dall’altra, hanno la stessa forma logica. Nella fase più tardiva, la risposta è cercata piuttosto nel gioco stesso, ovvero nelle regole pubbliche a cui i due giocatori si sottopongono, e nella forma socialmente competitiva del gioco. Nella prima fase egli si focalizza sul versante ontologico, nella seconda sul versante antropologico, del gioco. Nella prima fase il linguaggio è descritto come una rappresentazione-immagine, nella seconda fase come un sistema di misura, e la misura implica sempre un accordo sociale. E se nella prima fase la rappresentazione linguistica implica qualcosa di non rappresentabile (cose elementari), nella seconda il gioco linguistico implica una terra incognita (Black 1988, p. 251), un’attività originaria che dà senso ai nostri giochi (le forme di vita). Nella sua prima filosofia non è possibile dire qualcosa di sensato che non sia relazione, nella seconda non è possibile dire qualcosa di sensato che non sia pubblico. E come nella prima fase l’etico e l’estetico sono l’irrelato aldilà del dicibile, nella seconda fase la vita dà significato pubblico a quello che diciamo e facciamo.

Ancora: nella prima fase, la delucidazione di Wittgenstein punta soprattutto al fondamento del senso – alla sostanza-forma del mondo che i nomi nominano, e che dà senso alle nostre immagini del mondo. Nella fase più tarda, la delucidazione punta piuttosto all’origine del senso, ovvero ai giochi linguistici e alle forme di vita. Ma sia il fondamento che l’origine sono qualcosa che sta prima degli enunciati e dei giochi. Insomma, Wittgenstein non ha mai rinunciato a indicare l’arché, ciò che è prima e che comanda il linguaggio significante.

 

 

  1. 2.    Esser buoni non è giocare

 

          Nella conferenza sull’etica Wittgenstein parte da una distinzione squisitamente kantiana: nel nostro uso del termine buono, abbiamo un senso corrente o relativo, e un senso veramente etico o assoluto[4]. Come esempio del senso relativo, usa l'espressione "un buon pianista" - ci risiamo con la dimensione estetica. Il pianista è buono nella misura in cui sa suonare bene. Se poi dico di una via che "è la via giusta", essa è giusta relativamente a una certa meta. Kant direbbe che questi giudizi di valore dipendono da “imperativi ipotetici”.

 

Supponiamo che io giochi a tennis e che uno di voi mi veda giocare, e dica "In realtà lei gioca abbastanza male". Supponiamo che io replichi "Lo so, gioco male ma non voglio giocare meglio"; quell'uno di voi potrebbe allora solo dire "Ah, se è così va tutto bene".

 

Trovo che questo esempio del tennis sia una critica anticipata - e definitiva - dei tentativi da parte di filosofi detti analitici di descrivere l'etica in termini di giochi linguistici[5]. A quell’epoca Wittgenstein non aveva ancora elaborato la sua teoria degli Sprachespiele, giochi linguistici. Ma trovo importante il fatto che – alla vigilia di questa svolta concettuale – precisi in modo molto netto che l’etica non è un gioco linguistico. Non si tratta insomma di descrivere l’eticità come un sistema di prescrizioni o comandi. Direi che Wittgenstein considera l’etica non solo, né essenzialmente, un discorso, quindi non qualcosa di riducibile a uno speech act, a un enunciato performativo. Act si, ma non necessariamente speech. (La teoria degli atti linguistici verrà elaborata da John Austin tra il 1951 e il 1955. Se io dico “prometto di venire domani a casa tua”, compio l’atto linguistico della promessa: dicendo che prometto di fatto prometto, e mi costituisco come qualcuno che, necessariamente, manterrà o meno la promessa.)

Si prenda il comandamento “non uccidere!” Tecnicamente si tratta di un atto imperativo, che costituisce l’interlocutore (qualunque essere umano) come qualcuno che obbedirà o meno a questo comando – così l’interlocutore sarà buono o cattivo, e magari, di fronte a un tribunale umano, innocente o colpevole. Ma c’è una differenza tra il comando “Non uccidere” da una parte e il comando, che potrei dare ad un militare mio sottoposto ad Abu Grahib in Iraq, “tortura il prigioniero” dall’altra. Anche in questo caso il comando costituisce il sottoposto come qualcuno che obbedirà o meno al comando, ma i due ordini – osserverebbe Wittgenstein - non esercitano la loro forza sullo stesso piano. Le due prescrizioni hanno solo superficialmente una stessa grammatica, ma esprimono due diverse forme di vita. Anzi, se obbedisco all’ordine ad Abu Grahib, cesso di essere buono in senso etico: infrango il supposto imperativo categorico “Non torturare nessuno, nemmeno i tuoi nemici”. Se obbedisco, commetto quel che nel linguaggio militare si dice un’azione “disonorevole”, eppure faccio “il buon soldato”,. Pensare gli atti etici e i comandamenti da essi presupposti solo come speech acts non ci fa cogliere insomma la specificità del comando etico rispetto a tutti gli altri comandi, è fare di ogni erba prescrittiva un fascio morale. Del resto, resta problematico chi sia agente di questo atto (alcuni rispondono: Dio). Come i Sei Personaggi di Pirandello, così i comandi etici sono sempre alla ricerca di un Autore.

          Perciò la riflessione di Wittgenstein sull’etica si distingue nettamente da altre sviluppatesi in ambiente britannico, e spesso proprio sotto l’influsso di Wittgenstein. In particolare dal «prescrittivismo»[6], che riduce il discorso morale a prescrizioni, cioè a regole per la condotta, a «princìpi di azione» connessi allo specifico atto linguistico di «prescrivere». Questa teoria, come altre, punta a ridurre la complessità dei discorsi e atti etici a una data «grammatica». Ora, Wittgenstein evita questo tipo di riduzioni, ovvero, si rifiuta di determinare una supposta essenza – foss’anche grammaticale - dell’etica. Del resto Wittgenstein si guarda bene dal formulare sia una qualsiasi teoria dell’etica (e dell’estetica), sia una meta-regola essenziale che regolerebbe le regole etiche[7]. Ma allora, che cosa dire sull’etica?

Per Wittgenstein l’importante è delineare il luogo dell’etica – il suo progetto è “topico”, è assegnare all’etica il proprio luogo senza cercare di penetrarvi (Bouveresse 1973). Ma il luogo in quale spazio? Nel Tractatus egli aveva detto che il luogo dell’etica è il mistico. Ovvero, l’etica sta in uno spazio “sovrannaturale”, oltre la natura. Egli può dare solo degli equivalenti affettivi esemplari per indicare questo luogo.

 

3.       Stupore

 

          Nella conferenza sull’etica, evoca quella che lui chiama “la mia esperienza per eccellenza” (LE, p. 12). Dà come esempio il sentirsi assolutamente al sicuro, qualsiasi cosa accada. Un altro esempio è il suo senso di stupore per l’esistenza del mondo[8].

Da notare che questi due esempi sono in fondo opposti. In effetti, la sensazione di sentirsi assolutamente al sicuro potrebbe essere assimilata alla sensazione originaria infantile “la mamma starà sempre con me!”: mi sento come nel mio sicuro focolare domestico. Invece la meraviglia per il mondo in quanto esiste presuppone una mia estraneità al mondo, una distanza soggettiva da esso, così che esso possa risultare sorprendente – se non addirittura unheimlich, uncanny dicono gli anglofoni, estraneo all’Heim, alla casa. Ci si sente al sicuro nel proprio ambiente (Umwelt), mentre nello stupore per il mondo consideriamo il mondo (Welt) intero come contingenza pura, “strana”. L’etica quindi è qui evocata attraverso sia una figura domestica radicale, sia una figura di estraneità radicale alla domesticità.

          Questi esempi affettivi divergenti sembrano descrivere obliquamente una sorta di polarità essenziale di quel che di solito chiamiamo etica (sono due modi di concepire l’etica? o due facce della stessa moneta etica?). Da una parte la dimensione casareccia dell’etica, come già nell’ethos greco: il costume, il “faccio così perché da noi si fa così”, l’essere ligi a norme e valori del gruppo o Gemeinschaft di appartenenza. L’etica è qui vista nella sua dimensione storico-etnica, direi anche ambientale – dimensione che le Ricerche filosofiche metteranno in primo piano. Ma ogni etica, anche la più conformista, ha un polo inverso, quella per cui essa tende al rispetto del mondo in quanto sub specie aeterni e “- begrenztes - Ganzes”, “tutto - limitato” (T, 6.45)[9]. E’ la dimensione direi ontologica dell’etica. Credo del resto che quando Wittgenstein lega etica ed estetica al “tutto limitato” miri, più che a un approccio universalista, a tematizzare l’assoluto in quanto opposto al contingente relativo. Per Wittgenstein il mondo è costituito da stati-di-cose quindi solo da relazioni; invece il mondo come tutto limitato è in relazione con null’altro che se stesso, e l’eternità è la temporalità stessa presa tutta insieme. Con “Ganzes” insomma egli introduce la dimensione impossibile dell’assoluto. L’etica è un valore assoluto perché tematizza il mondo come absolutus, sciolto da ogni relazione.

          Per rendere sensibile questo polo ontologico (assoluto), Wittgenstein evoca lo stupore. Il fatto che, insomma, il mondo possa apparirci come un miracolo. Per Aristotele, taumazein, meravigliarsi, era il sentimento iniziale che spinge a filosofare. Ci si stupiva per le rivoluzioni del sole, per le marionette, e per l’incommensurabilità del lato del quadrato alla diagonale[10]. Da notare però che per Aristotele la meraviglia è solo l’inizio dell’assillo filosofico: poi, la filosofia spiega tutto, lo stupore scompare. Invece per Wittgenstein l’etico mantiene vivo il sentimento di meraviglia e porta l’essere umano ad “avventarsi contro i limiti del proprio linguaggio”, come lui dice. In questa impresa un po’ donchisciottesca consiste anche lo sforzo filosofico. Il dire filosofico stesso è atto etico, nella misura in cui sia la filosofia che l’etica mostrano qualcosa di indicibile. La scienza spiega sempre di più il contingente, ma il filosofo non si accontenta delle spiegazioni scientifiche. (Queste, direi, sono sempre ipotetiche, enunciati irrimediabilmente contro-fattuali, “se... allora...”). “L’impulso al mistico (Der Trieb zum Mystischen) – scriveva Wittgenstein nei Quaderni (25.5.15) - viene dalla mancata soddisfazione dei nostri desideri da parte della scienza”. Possiamo dire, in termini heideggeriani, che la scienza risponde sempre sul piano ontico, mentre i problemi che ci interessano di più come soggetti sono problemi ontologici[11]. Per Wittgenstein, l’interrogazione filosofica, l’etica e lo stupore sono strettamente implicati in un desiderio ontologico.

Stupore non certo per ciò che la scienza non riesce (ancora) a spiegare, ma stupore per il fatto che le cose siano. Un heideggeriano direbbe che non è stupore per un fatto, ma per l’Essere come evento. Comunque per Wittgenstein l’opposizione importante è tra il relativo (i fatti) e l’assoluto (il mondo come tutto limitato).

          Wittgenstein precisa anche che “il miracolo dell’esistenza del mondo” non è una proposizione nella lingua, e che il miracolo, in un certo senso, è l’esistenza del linguaggio stesso. Un enunciato che commenteremo più in là. All’epoca lui pensava ancora il mondo come coestensivo al linguaggio significante, sosteneva l’isomorfismo tra linguaggio e mondo. Possiamo anche dire: il mondo è tutto ciò che, grazie al nostro linguaggio, ha senso. Ma etica ed estetica – come tutto ciò che per Wittgenstein è assoluto – esprimono il desiderio di andare aldilà del mondo e del linguaggio, aldilà del senso. Non ci sarà mai una scienza etica, una meta-etica che fondi la nostra etica. Piuttosto l’etica è “un documento di una tendenza nell’animo umano [verso l’assoluto valore] che io personalmente non posso che rispettare profondamente” (LE, p. 19). L’etica non è un fatto: documenta, segnala un desiderio. In termini diversi: l’essere umano cerca, aldilà delle ipotesi controfattuali scientifiche, l’Essere come assoluto. Ma il punto è che questo Essere si dà sempre, solo, relativamente nel linguaggio. A meno che non lo intuiamo come eterno e come totalità limitata, ovvero come absolutus, sciolto da ogni relazione con altro.

          Quindi, l’esperienza etica (ed estetica) è qualcosa che solo in apparenza – o solo quando in qualche modo fallisce - dipende da norme, regole, comandamenti, ma che in realtà investe una dimensione dell’essere che non coincide con il mondo.

 

  1. 4.    Esserci

 

Come pensare allora questa dimensione o luogo “mistico" dell’Essere?

 

6.522

Es gibt allerdings Unaussprechliches. Dies zeigt sich, es ist das Mystische.

(C’è davvero dell’inesprimibile. Esso mostra sé, è il mistico.)

 

Per Wittgenstein il mistico c’è. Da notare però che in tedesco “c’è” si dice es gibt, “si dà”. Una particolarità sfruttata dalla tradizione fenomenologica: esistere è un darsi a soggetti. In questo senso, dies zeigt sich, esso si mostra, appare una quasi-tautologia di es gibt. Come dire: “ciò che si dà ovvero si mostra, non può esser detto.” (E ciò che si può dire non può essere mostrato, se non come senso.) Questo esserci o darsi o mostrarsi (una nostra intuizione?) non fa parte del mondo: è una parte o registro dell’Essere che non si riduce a mondo. E non è nemmeno un “altro mondo” - non è il mondo intelligibile in quanto indipendente dal mondo sensibile. Ma allora, se non è mondo, a quale regione dell’Essere il mistico appartiene? O anche, che modo di essere esso ha?

          Da notare inoltre che Wittgenstein, facendo dell’etica e dell’estetica qualcosa di “mistico”, non le riduce a modi soggettivi - in senso psicologico - di rapportarsi al mondo[12]. Eppure quando si pensa all’etica, si pensa a qualcosa che riguarda la pratica, l’azione; e quando si pensa all’estetica, si pensa a qualcosa che riguarda nostre reazioni, ad affetti da cui siamo affetti. In ambedue i casi, si pensa a giudizi soggettivi. Invece Wittgenstein sembra considerare etica ed estetica alla stessa stregua di misticismo degli oggetti o cose del Tractatus. “Il mondo è la totalità dei fatti (Tatsachen), non delle cose (Dinge)” (T, 1.1). Etica ed estetica sembrano riguardare invece cose, non fatti – e le cose sono anche se non si possono raffigurare. Sono ciò grazie a cui si raffigura, ma non sono raffigurabili. Le cose sono trascendentali nel senso kantiano.

Ora, la figura che illustra il concetto di oggetto o cosa è una griglia o reticolo: le cose disegnano una sorta di struttura fondamentale e necessaria del mondo[13]. Le proposizioni vere rappresentano il contingente nel senso che esse riempiono alcuni quadrettini della griglia, e non altri. Questa occupazione selettiva non ha un perché necessario – il mondo è quello che è, ma avrebbe potuto essere altrimenti. Le proposizioni vere marcano con l’esistenza dei posti che sono eternamente, necessariamente, assolutamente. Il mistico o ineffabile è quindi un rapporto alla sostanza del mondo. E questa sostanza è una forma fondamentale, ovvero coincide con la forma logica. Analogamente, possiamo allora dire che il modo di essere di etica ed estetica è un modo a un tempo sostanziale e formale?

          Ma allora, possiamo dire che nella misura in cui etica ed estetica appartengono all’ambito formale – non quindi mondano – dell’ontologia, Wittgenstein è in qualche modo un antesignano delle teorie che esaltano il ruolo costitutivo del linguaggio preso come struttura puramente formale?

 

  1. 5.    Il linguaggio è ontologico

 

Sono tentato di dire che l’espressione giusta nella lingua per il miracolo dell’esistenza del mondo, benché non sia alcuna proposizione nella lingua, è l’esistenza del linguaggio stesso. (LE, p. 17)

 

          E’ possibile interpretare questa frase della conferenza come “strutturalista” ante litteram? Essa sembra dire che, quando parliamo di mondo, ne possiamo parlare solo grazie al linguaggio, che ci permette di pensare (descrivere) il mondo. Perché il mondo ci appaia miracoloso, in effetti, occorre il linguaggio, che a sua volta appare miracoloso grazie a se stesso. Solo grazie al linguaggio l’esistenza actual (attuale, reale) del mondo può porsi come qualcosa di solo possibile (pensiamo che se qualcosa è contingente, è perché era a priori possibile). È il linguaggio che ci permette di pensare anche la possibilità della non-esistenza del mondo, e quindi di stupirci della sua esistenza. Un cane, anche molto intelligente, può pensare che invece del mondo ci possa essere nulla? Che cosa potrebbe pensare mai il cane se pensasse questa domanda senza il linguaggio?

          E’ grazie al linguaggio che possiamo pensare a qualcosa come miracoloso. Un miracolo è un evento senza causa naturale, qualcosa di naturalmente impossibile. Vedere il mondo (come totalità limitata) come un miracolo significa cogliere il contingente su uno sfondo di impossibile. Ciò che questo “vedere come” coglie è quel che chiamerei reale: qualcosa di impossibile nel mondo, ma che, cortocircuitando il possibile, si manifesta nella contingenza. Tutto ciò che è contingente è parte del mondo, ma il mondo stesso nel suo insieme è contingente? In che senso il mondo tutto è evento?

Gli era quindi inevitabile pensare che meravigliarsi per l’esistenza del mondo equivalesse ipso facto a meravigliarsi per l’esistenza (at the existence) del linguaggio. Ma perché stupore per (at) e non invece stupore a causa di (by means of)? E perché lo fa notare proprio in una conferenza sull’etica? Quale passo in avanti teorico Wittgenstein pensa di compiere precisando che lo stupore per il mondo è anche – e soprattutto – stupore per il linguaggio?

          E’ che l’esistenza del linguaggio implica, sin dall’inizio, un riferimento non solo al mondo ma anche alla “sostanza”. Le proposizioni elementari - proposizioni sempre sup-poste ma mai poste da Wittgenstein[14] - vere o false che siano, combinano cose (non fatti!) che possiamo considerare la sostanza stessa del mondo. E’quella che potremmo chiamare la vocazione trascendentale del linguaggio. Il linguaggio certo giudica, attribuisce, ordina, connette, relaziona: ma a partire da un irrelato, da qual-cosa che esso presuppone. Il linguaggio, proprio relativizzando l’assoluto – imprigionandolo in una cella contro i cui muri il filosofo sbatte la testa -  ci fa così intuire dell’assoluto.

In effetti, questo presupposto al linguaggio viene scoperto dal linguaggio! Non è che il linguaggio, rimandando a qualcosa che chi non parla (gli animali, o ciò che è animale-non-umano in noi) intuisce perfettamente, cerchi in modo maldestro di evocare questo qualcosa attraverso le sue raffigurazioni. Non è che il linguaggio fornisca una sorta di surrogato proposizionale al nostro rapporto, non linguisticamente mediato, beato, alla cosa stessa. Questo è piuttosto l’adagio di quella che chiamerei una fenomenologia popolare. Non è che il linguaggio designi in modo “logico” qualcosa che si offrirebbe immediatamente nella nostra esperienza pre-logica. Al contrario, il linguaggio ci dà accesso a qualcosa che non si dà nell’Erlebnis, nell’intuizione immediata senza linguaggio. Certamente un cane ha un rapporto ricco col mondo – spesso più ricco e adeguato del nostro, non fu il cane Argo il solo a riconoscere Ulisse di ritorno ad Ithaca? Ma possiamo supporre che, per il solo fatto che il cane non parli, egli non si preoccupi di qualcosa che il suo mondo presuppone: il reale stesso. Per il solo fatto che io parlo, che qualifico - predico, insomma raffiguro - il mondo, implico qualcosa che non viene rappresentato dalle mie proposizioni-rappresentazioni. Ora, secondo Wittgenstein, l’etica e l’estetica riguardano proprio questa parte che il linguaggio non rappresenta. Ma che non emergerebbe mai senza il linguaggio.

 

 

  1. 6.    Unicità e valori

 

          Per tradizione trascendentalista, si intende soprattutto Kant e quel che ne è derivato, e che oggi gli anglo-americani chiamano “pensiero continentale” – passando per Hegel, Nietzsche, la fenomenologia, e via via fino ad autori “continentali” più recenti.

Voler connettere – come faccio qui - la concettualizzazione di Wittgenstein alla tradizione trascendentalista “continentale” può apparire abusivo a tutti quelli che leggono Wittgenstein con gli occhiali della filosofia analitica. Eppure la posizione di Wittgenstein, non solo sull’etica e sull’estetica, è squisitamente trascendentalista.

In particolare, sia la fenomenologia che Wittgenstein separano nettamente l’etica dalla psicologia. Per “psicologia” intendo sia una visione filosofica anti-trascedentalista precisa, sia la ricerca scientifica che prende l’etica (l’estetica, e varie forme di vita) per oggetto di indagini obiettive.

Sia Wittgenstein che la fenomenologia prendono infatti le mosse dalla distinzione fondamentale tra il soggetto psicologico (che è parte del mondo) e il soggetto trascendentale (che trascende il mondo proprio perché questo si costituisce in relazione a quello)[15]. Questo soggetto trascendentale si mostra – nel senso che è tematizzabile da parte del pensiero - quando consideriamo la nostra vita etica o estetica. Ovvero, quando consideriamo non il mondo obiettivo, ma i nostri valori.

 

Se un valore che ha valore si dà [Wenn es einen Wert gibt], allora dev’esser fuori d’ogni avvenire ed essere-così. Infatti ogni avvenire ed essere-così è accidentale (T, 6.41)

 

Questa proposizione, tra altre, illustra il trascendentalismo di Wittgenstein. Il mondo è quello in cui tutto avviene in modo contingente, è la dimensione dell’essere-così non dell’essere-cosa o dell’essere-perché, il mondo è solo tutto ciò che accade. “Nel mondo… tutto avviene come avviene, non v’è in esso alcun valore, né, se vi fosse, avrebbe un valore.” (T, 641) I valori – sia etici che estetici – escludono quindi la contingenza del mondo come puro evento.

Eppure le moderne scienze cognitive, e le filosofie che si sono sviluppate in accordo con esse, si impegnano a fare dei valori stessi oggetto di scienza. In opposizione a Wittgenstein e alla fenomenologia, i cognitivisti ignorano la trascendentalità dei valori e cercano di fare della mente, e quindi dei valori etici ed estetici, un oggetto di indagine scientifica come tutti gli altri oggetti. La mente umana, via scienze, punta a descrivere la mente stessa come proprio oggetto di studio, convinta di non incorrere per questo nei paradossi dell’auto-referenzialità.

Ora, Wittgenstein non ha mai negato il fatto che certe scienze possano occuparsi obiettivamente della mente umana e dei valori per trovarci delle cause. Eppure, potremmo dire, le scienze cognitive si occupano sempre della mente e dei valori dell’altro, magari anche della propria mente e dei propri valori ma come se fossero di altri. E’ un po’ come pensare al proprio esser morto: certo posso immaginarmi morto, e descrivermi preventivamente come tale, come se sopravvivessi a me stesso. Ma così non descriverei la mia morte in quanto mia, la descriverei come quella di un altro. Analogamente, l’etica che interessa Wittgenstein non è quella che possono studiare, con proficui risultati, sociologi, psicologi o neuroscienziati: è invece quella che mi pone di fronte al problema di quel che io devo fare. In questo caso cerco non le cause dell’altrui agire etico, ma le mie ragioni per agire così. Non si tratta qui di un io psicologico, ma di un io metafisico – quello per il quale il mondo è il mio mondo. In una prima fase, Wittgenstein tematizza questa dimensione come solipsismo.

“Solo dalla consapevolezza dell’unicità della mia vita - scrive nei Quaderni (1.8.1916) - sorge religione – scienza – ed arte”. Cerca qui di dire quel che altre filosofie hanno tematizzato come questione della soggettività radicale – del Dasein direbbe Heidegger - intesa come ciò che scivola fuori da ogni oggettivazione psicologica. Per Heidegger il Dasein è progettarsi, per Wittgenstein è consapevolezza della propria unicità. Questa unicità del soggetto “metafisico” è coestensiva all’unicità del mondo. L’unicità è l’assoluto.

 

 

  1. 7.    La tazza e l’acqua

 

          Quindi, il trascendentalismo implica la profonda congruità tra la dimensione ontologca (in quanto differente da quella ontica) da una parte e la dimensione radicalmente soggettiva (in quanto differente da quella psicologica) dall’altra. Nei termini di Wittgenstein: occorre capire come realismo e solipsismo siano la stessa cosa.

Uno dei traduttori italiani fa dire a Wittgenstein che il soggetto psicologico è “un assurdo” (T, 5.5421). Ma egli dice “… die Seele - das Subjekt etc. - … ein Unding ist” e Unding (“assurdo”) è letteralmente non-cosa: il soggetto della psicologia è, potremmo dire, una incosa (come si dice in-conscio o in-adatto). Ma proprio perché incosa, il soggetto può essere solo trascendentale. Mentre il soggetto psicologico, questa pseudo-cosa, è correlato al mondo oggettivo (e diventa esso stesso oggetto di studio come parte del mondo), il soggetto trascendentale è correlato alla dimensione ontologica, ovvero – nei termini del Tractatus – essendo correlato all’unicità del mondo, investe quest’ultimo come cosa (Ding), non come insieme di fatti. Investe il mondo come “che cosa” non come “come”. Quindi Wittgenstein tematizza la soggettività trascendentale, in particolare quando dice che il solipsismo[16] non può essere detto, ma piuttosto si mostra trascendentalmente nel realismo stesso. Così come il solipsismo trascendentale implica il realismo ontico. Wittgenstein non teorizza, insomma, solipsismo e realismo: queste due posizioni tra loro correlate si mostrano nella sua filosofia stessa.

Questa correlazione tra soggettività trascendentale e ontologia – tra Unding e Dinge, per dir così - diventa evidente quando egli identifica i limiti del mondo con i limiti del nostro linguaggio: allo stesso tempo parla di qualcosa di “mistico” oltre questi limiti. Se ciò che è essenziale dell’etica e dell’estetica non è nel mondo, appartiene allora a un sovra-mondo, a un mondo trascendente? Evidentemente no, la trascendentalità non è trascendenza, non è ipotizzare degli enti di sostanza e ordine diversi dal mondo sensibile. In Kant, l’approccio trascendentale si opponeva sia al “trascendente” che all’”empirico”. Eppure come negare che anche il termine trascendentalità derivi, sin da Kant, dal trascendente? Il trascendentalismo non è una versione laica, secolarizzata, del trascendente? E’ l’accusa che i positivisti rivolgono sia alle filosofie fenomenologiche che a Wittgenstein: di pre-sup-porre qualcosa che trascenda il mondo posto.

Per Wittgenstein le esperienze etica ed estetica non manifestano un extra-mondo, un oltre-cielo (hyperouranios) dove risiedono le ideai – come nel mito platonico nel Fedro –, proprio perché non c’è Mondo fuori del nostro mondo: eppure esse manifestano, a loro modo, una dimensione indicibile del mondo, un qualcosa che attraverso il mondo si presuppone e si mostra, ma che non può essere detto e posto. Etica ed estetica ci tangono in quanto evidenziano un esserci (es gibt) che il linguaggio rimuove proprio nella misura in cui raffigura il mondo. Il mistico stabilisce limiti diversi al mondo – lo espande o lo restringe. In effetti, Wittgenstein scrive che grazie alla filosofia “il mondo deve allora in generale diventare un altro. Deve per così dire ridursi o espandersi come totalità” (T, 6.43). Come nel linguaggio: a livello delle proposizioni elementari ci si riferisce a qual-cosa – enti elementari – che non sono raffigurati da alcuna proposizione (altrimenti non sarebbero enti elementari). E quel che chiamiamo “mondo” ha sempre la forma che il linguaggio condivide con l’Essere, ovvero, il mondo è messa in relazione tra parti dell’Essere. In termini heideggeriani: il linguaggio, dando forma ontica all’Essere, vela la dimensione ontologica che pur questa forma presuppone.

          Ma come il linguaggio può evocare qualcosa che lo eccede? Abbiamo visto che restare nella “natura” significa occuparsi solo di valori e beni relativi, mentre l’etica, riferendosi a valori e beni assoluti, trabocca dalla natura, “così come una tazza contiene solo la quantità d’acqua che la riempie fino all’orlo, e io ne facessi versare un ettolitro” (LE, p. 11). L’etica è un modo di essere in eccesso rispetto al linguaggio - paragonato qui ad una tazza -, un surplus che il linguaggio non riesce a contenere, a cui non riesce a dare forma. Eppure noi parliamo spesso di questioni etiche. Cosa vuol dire dunque Wittgenstein denunciando questo eccesso dell’etica sul linguaggio?

 

 

8.       Il mana etico

 

          Questo eccesso dell’etica in Wittgenstein ricorda il modo in cui Claude Lévi-Strauss (1950) impostò la questione di certi concetti di alcune culture lontane dalla nostra, concetti che ci pongono seri problemi di traducibilità. Che cosa i melanesiani intendono per mana? E che cosa gli algonchini intendono per manitu, gli irochesi per orenda, i dakota per wakan? Per l’antropologia precedente a Lévi-Strauss, in tutti questi casi si trattava di concetti religiosi simili a quello latino di sacer, sacro ed esecrando. Il mana, ad esempio, sarebbe qualcosa di infinito e invisibile: sarebbe una forza che preannuncia, quindi, la nostra nozione di divino. Anche noi, grazie ai film western, pensiamo che manitu sia una divinità. Ora, per Lévi-Strauss questi termini designano invece un vuoto di senso, un valore indeterminato di significazione. In effetti, scriveva padre Thavenet, manitu "...designa più particolarmente ogni essere che non ha ancora un nome comune, che non è familiare: una donna diceva di aver paura di una salamandra, era un manitu; ci si burla di lei dicendole il nome. Le perle dei commercianti sono le scaglie di un manitu e il panno, questa cosa meravigliosa, è la pelle di un manitu."[17] Mana e manitu insomma sono espressioni esclamative, o quasi – esclamazioni proiettate sulla cosa che stupisce.

          Per Lévi-Strauss la funzione di questi termini è di “colmare uno scarto tra significante e significato, o, più esattamente, di segnalare che in una certa circostanza, in una certa occasione un rapporto di inadeguazione viene a stabilirsi tra significante e significato” (Lévi-Strauss  2000, p. XLIV). In effetti, significante e significato si sono costituiti simultaneamente, ma la conoscenza – cioè il processo intellettuale che permette di identificare gli uni in rapporto agli altri certi aspetti del significante e certi aspetti del significato - procede con molta lentezza. Così l’uomo “si è trovato sin dall’inizio a disporre di una integralità di significante che non è per lui agevole assegnare a un significato, dato come tale senza essere per questo conosciuto. Vi è sempre tra i due una inadeguazione,…, che risulta dall’esistenza di un eccesso di significante rispetto ai significati ai quali può essere collegato” (p.  LXIX). E’ proprio questa inadeguazione cognitiva a spiegare nozioni come mana o manitu.

          Andando oltre Lévi-Strauss, Agamben (2008, p. 93) segnala come questa inadeguazione riguardi non solo il rapporto tra significante e significato, ma anche direi il rapporto pratico tra il soggetto parlante e le sue azioni. L’homo sapiens è anche homo iustus, ovvero agente etico. In questo senso, concetti come mana o manitu sarebbero il corrispettivo gnoseologico di concetti etici, come maledizione o benedizione. Questi ultimi concetti segnalano uno scarto tra parola e atti.

          Ora, applicando all’etica secondo Wittgenstein quel che Lévi-Strauss e Agamben dicono a proposito di questo scarto tra linguaggio e mondo, tra parole e azioni, possiamo dire che Wittgenstein segnala qui un’inadeguazione inevitabile – che nessuna teoria filosofica potrà mai colmare – tra il nostro poter dire e il nostro agire etico. In effetti, Wittgenstein cerca di esprimere verbalmente quel che vogliamo dire con espressioni del tipo “bene assoluto” o “valore assoluto”; compito impossibile, in quanto per lui il linguaggio può parlare sensatamente solo di cose relative, quindi, bisogna usare termini relativi per evocare qualcosa di assoluto.

          Per farlo, Wittgenstein nella conferenza sull’etica ricorre alle esperienze emotive di cui abbiamo parlato. Perché proprio quelle esperienze? Perché sono sensazioni che segnalano un rapporto assolutista al mondo – considerato sub specie aeternitatis - e alla vita. Wittgenstein si sente al sicuro non perché ha preso delle misure per scansare tutti i pericoli. Si meraviglia del mondo non perché sa che il nostro universo si espande, per esempio, come insegna la moderna cosmologia, ma per il solo fatto che il mondo è. Queste sensazioni rimandano non a come il mondo è, ma al che cosa esso è, ovvero al suo essere. Ovvero, al suo essere evento assoluto, sciolto dalla temporalità (la temporalità è nel mondo, ma il mondo stesso non è nel tempo). E queste sensazioni sono connesse anche al fatto che il mondo è sempre e solo il mio.

          Come usando il termine mana il melanesiano intende parlare di qualcosa che significa pur senza avere nome e quindi senza essere conosciuto, di qualcosa quindi che lo stupisce; così quando diciamo “valore assoluto” parliamo di qualcosa che viene significato come indescrivibile. Come sul piano gnoseologico c’è uno scarto storico tra significante e significato, così analogamente sul piano pratico c’è uno scarto irrimediabile tra mondo dei nostri oggetti (quelli che ci piacciono o ci dispiacciono, che vogliamo avere per noi o allontanare da noi) e cose in sé. La norma etica esplicita interviene quindi per segnalare questo scarto tra il mondo come mio e l’Essere come altro, e cercare quindi, in qualche modo, di suturarlo. Come l’ingresso dell’uomo nella dimensione simbolica del linguaggio rende il mondo significativo, analogamente l’ingresso dell’uomo nei giochi linguistici lo rende eticamente e politicamente valutabile.

 

 

9.L’altro conta?

 

          Molti hanno notato che, quando parla di etica, Wittgenstein non parla degli altri. I suoi esempi etici, come abbiamo visto, sono di carattere soggettivo e affettivo. Si sospetta che la sua visione dell’etica sia solipsistica (così come la sua ontologia è trascendentalmente solipsista). Non segnala questo i limiti anche dell’etica dell’uomo Wittgenstein? Ad esempio, il fatto che egli abbia preferito arruolarsi nel 1914 per combattere; scelta certo coraggiosa, ma chi oggi considererebbe etica un’opzione che consisteva nell’ammazzare o nel farsi ammazzare? Quando Rhees gli pone come esempio di dilemma etico quello di Bruto (WE, p. 39), Wittgenstein risponde che la questione (come ogni dilemma etico) non è nemmeno discutibile filosoficamente: “Non sapresti mai, in nessun caso, cosa sia successo nella sua mente prima di decidere di uccidere Cesare. Che cosa avrebbe dovuto sentire…” Per lui conta quel che accadeva nella mente di Bruto, non il suo atto pubblico.

          Molti pensano, invece, che tutte le prescrizioni che consideriamo etiche – come i nostri Dieci Comandamenti – di fatto implichino un solo punto veramente essenziale: l’altro conta. L’etica regolerebbe i miei rapporti con i miei simili. In alcune culture il simile è il mio compaesano, in altre è ogni essere umano, in altre anche gli animali. Il Decalogo, in particolare, mi dice che, se l’altro è un mio simile, non devo ucciderlo, né derubarlo, né usarlo sessualmente senza il suo consenso, né rendere contro di lui falsa testimonianza, né concupirne la donna o i beni, né insultarlo se è mio padre o mia madre. Se l’altro è Dio, devo riconoscere che è il mio, che non devo averne altri, che non devo usare il Suo nome per futilità né per maledirLo, che devo onorarLo nei giorni festivi. L’etica riguarda sempre l’altro o l’Altro (Dio): mi dice che la sua soggettività - quel che ama e odia, quel che pensa e vuole - mi riguarda. Essere eticamente cattivi significa sempre, in qualsiasi cultura, mancare di rispetto all’altro riconosciuto come degno di rispetto in quella cultura: usarlo come mio strumento, e non tenerlo come altro soggetto nei cui confronti avere rapporti normativamente reciproci.  In effetti, l’etica di solito non ci prescrive di amare tutti gli altri – persino Gesù limitò la sua prescrizione ad amare il prossimo nostro, giusto il prossimo, come noi stessi. Amare tutti è solo un limite ideale, iperbolico, dello spazio etico. Generalmente l’etica si limita a chiederci di rispettare gli altri esseri umani (talvolta anche certi animali) e di aiutarli quando si trovano in gravi difficoltà.

          Ammettiamo che l’essenziale in tutte le forme di vita che noi moderni chiamiamo etiche sia proprio questo tener conto della soggettività dell’altro. Resta però un problema: che rapporto ho io con questo sistema di norme che regolano il mio rapporto con gli altri?

Posso certo pensare – come oggi i cognitivisti - che tutte o quasi le norme etiche siano funzionali a una buona convivenza sociale: che una società è tanto più vivibile quanto meno si uccide, quanto meno si ruba, quanto più ci si accontenta di essere monogami, ecc. Ma ammesso che questa riduzione funzionalista e utilitarista dell’etica sia convincente, resterebbe sempre il problema – che per Wittgenstein è quello essenzialmente etico – del fatto che si chieda a me, a quell’unicità che io sono per me, di non uccidere o di non rubare.

Cioè, cosa significa che io senta o meno di dovermi assolutamente assoggettare a queste norme socialmente funzionali, anche quando esse vanno contro i miei interessi vitali? Le eventuali ricerche psicologiche o sociologiche – volte a capire qual tipo di persone agisce in modo etico e quale no – non scalfiscono la questione essenziale: il mio modo di essere implicato nella norma etica. Ed è solo in questa luce che la questione dell’etica cessa di essere una questione grammaticale per diventare “mistica”.

          Ma in che senso questo carattere mistico ha a che fare col fatto che l’altro conti?

 

 

10.     Amore ontologico

 

Possiamo riferirci a un’esperienza che possiamo situare a metà strada tra etica ed estetica: amare qualcuno. Che cosa amiamo di una persona? Accade spesso che uno chieda all’amante “perché mi ami?” o “ma cosa ami di me?” E tutti sappiamo che la sola risposta soddisfacente sarebbe: “Ti amo perché esisti! Amo la tua esistenza”.

Certo possiamo studiare scientificamente l’amore come qualsiasi altra cosa (oggi le neuroscienze lo fanno). Allora dovremo dare per scontato che quel che amiamo dell’altro sono alcuni tratti isolabili che ci attraggono per determinate ragioni, ovvero attraverso processi deterministici. In questa ottica, amiamo l’altro in quanto è la gestalt di una serie di oggetti per noi attraenti e tra loro intrecciati in modo molto complesso: se alcuni di questi oggetti o tratti venissero meno, il nostro amore potrebbe sparire. Così, cambiando col tempo l’amato – quando diventa vecchio o si inacidisce -, o cambiando col tempo l’amante, l’amore può finire. Amiamo l’altro nella misura in cui è così-e-così, non perché è proprio lui o lei. Potremmo dire “l’importante invece è che il mio amato esista, indipendentemente dalle sue qualità! Prova ne sia che darei la vita per farlo vivere”. Ma il gioco della scienza consisterà sempre nell’analizzare, nel decostruire (la scienza è sempre decostruttiva) questa pretesa dell’amore di mirare all’essere dell’amato. La scienza non si cura dell’Essere, ammette solo relazioni tra enti; mira ad articolare proposizioni vere, non mira a verità che possano solo mostrarsi e mai esser dette. Per chi crede nella scienza, amare l’essere dell’altro è illusione, perché l’essere stesso è illusione.

Eppure l’amore – proprio come l’etica e l’estetica – comporta sempre una tensione all’essere dell’altro, considerato come un tutto eterno. Come dice un comico italiano, Carlo Verdone, “l’amore è eterno finché dura”. L’altro amato non si riduce agli “enti” (fisici e psichici) di cui è costituito, e l’amore sembra non ridursi a una relazione tra un soggetto amante e una serie di oggetti amati. Insomma, nell’amore sono implicato ontologicamente. Nell’amore, l’altro conta per me come qualcosa in sé e per sé, non solo come mio oggetto[18] d’amore. Tutto ciò che rende l’altro amabile è vissuto dall’amante come mostrarsi di un essere che suppongo in assoluto, cioè al di là della relazione con me. Ma è appunto questa supposizione solo un vissuto, Erlebnis, che il gioco scientifico rivelerà come illusione? Certamente la scienza può sostenere che tutte le esperienze umane sono illusioni nella misura in cui queste svolgono la funzione biologica di farci sopravvivere e riprodurre.  Ma, abbiamo visto, per Wittgenstein, come per la fenomenologia, questa Erlebnis non è solo sottoprodotto affettivo di rapporti mondani: piuttosto lo stato affettivo mostra il rapporto essenziale. L’amore situa l’amato fuori del mondo, sub specie aeternitatis, nel senso che l’amore non è “proposizionale”, ma investe l’altro come essere, non solo come Objekt.

 

 

11.     Opere d’arte

 

La trascendentalità dell’amore è analoga alla trascendentalità dell’opera d’arte. Anche questa ci rappresenta un oggetto, o presenta sé stessa come oggetto, sub specie aeternitatis.  E questo oggetto che essa è o rappresenta è assoluto (un tutto limitato), qualcosa che ci deve sopravvivere. L’opera, per Wittgenstein, non è un mezzo tra altri per pervenire a un fine indipendente dall’opera stessa – ad esempio, divertirci -, ma è un fine in sé. Così, quel che conta di un pezzo musicale, ad esempio, non è tanto quello che ci fa provare, quanto il pezzo musicale stesso. E’ come la famosa obiezione che Wittgenstein rivolse a Russell: se voglio una mela per calmare la fame, e mi danno invece un pugno nello stomaco che lo stesso mi calma la fame, dirò che la mela equivale al pugno? Certo questo cozza con il presupposto empirista – col buon senso -, secondo il quale ogni opera è artistica se ci fa provare specifiche emozioni. Il punto è che, per Wittgenstein, proviamo delle emozioni proprio perché accettiamo l’opera in quanto tale, come esistenza di per sé. Noi spettatori o uditori ci aggiustiamo affettivamente all’opera, così riusciamo ad apprezzarla in quanto tale.

Se dico “La Nona Sinfonia di Beethoven è magnifica”, la apprezzo solo perché mi dà piacere ascoltarla?  Piuttosto, mi dà piacere perché è magnifica. Ovvero l’opera – certo seducendomi – si regge per conto suo, si impone nel mio mondo, e sembra richiedere da me affetto e considerazione. Come l’amato, l’opera d’arte si pone come eterna e assoluta. L’arte è un modo, talvolta persino invadente, di imporre nuovi enti nel mondo; enti che non sono soggetti, ma non sono nemmeno solo oggetti.

Come in estetica, anche nell’etica e nell’amore va ribaltata la concezione empirista del rapporto tra la cosa e l’affetto. Non possiamo dire che facciamo il nostro dovere per rendere noi stessi e gli altri felici: siamo felici perché facciamo il nostro dovere, persino se qualche altro potesse risultarne infelice. Analogamente, non è che amiamo l’altro perché averlo attorno ci dà piacere: averlo attorno ci dà piacere perché lo amiamo. In tutti questi casi, la cosa – l’altro nell’atto etico, l’opera d’arte, l’amato – ha valore per me nella misura in cui è proprio quella cosa.

In effetti, posso considerare in due modi il fatto che qualcosa abbia valore – etico, estetico, affettivo – per me. Le scienze sociali o cognitive suppongono sempre che qualcosa ha valore perché mi soddisfa. Il punto di vista trascendentalista assumerà invece che qualcosa mi soddisfa (eticamente, esteticamente, affettivamente) perché ha valore. Così come la persona amata ha valore in sé soprattutto per il fatto di esserci. Ovvero, la causa del mio amore è il fatto che l’amato sia così-e-così, mentre la ragione del mio amore è l’essere dell’amato. Insomma, l’essere dell’altro è qualcosa di scientificamente indimostrabile, ma che si mostra attraverso la mia devozione etica o attraverso il mio apprezzamento estetico o la mia elezione amorosa.

 

 

12.     Non posso conoscere ciò che esprimo

 

Qualcuno potrebbe osservare che le tesi sull’etica espresse allora da Wittgenstein erano “immature” e che una concezione dell’etica più tarda – se ci fosse stata - sarebbe stata più convincente. Avendo abbandonato allora una visione monista del linguaggio, non poteva più dire “la mia tendenza… è stata di avventarsi contro i limiti del linguaggio” (LE, p. 18). In effetti, per lui ora non esiste più il linguaggio, prevale una concezione pluralista (alcuni direbbero “relativista”) che considera i linguaggi al plurale. Ogni proposizione ha senso solo all’interno di un “sistema”, e questi sistemi (e le loro “grammatiche”) sono indefinitamente plurimi[19].

Ho dubbi però sul fatto che la concezione dell’etica illustrata dal Wittgenstein più giovane sia stata superata successivamente. E’ vero che Wittgenstein, nella misura in cui scopre la pluralità dei giochi linguistici e quindi delle forme di vita che vi si esprimono, assume anche la pluralità dei sistemi etici, la loro specifica storicità. Certo ora egli mette in rilievo la dimensione che ho chiamato storico-etnica, ambientale. Ma non credo che la dimensione ontologica dell’etica venga per questo annullata. Mi chiedo cioè se i vari sistemi deontici non siano varianti di una localizzazione ontologica dei valori che Wittgenstein aveva tracciato ben prima. Come ha fatto rilevare Barrett (1991, cap. 6), i giochi linguistici in cui sono coinvolte espressioni etiche rimangono insensati anche nel nuovo quadro filosofico: il contenuto della percezione etica o estetica o religiosa è necessariamente privo della forma proposizionale adeguata per esprimerlo.

Grazie all’etica, si manifesta una disposizione ek-statica dell’essere umano: il fatto cioè che certi linguaggi tendano ad andare oltre i linguaggi e le loro grammatiche. Verso che cosa?

Si dice che, in tutte le fasi del suo pensiero, quel che sempre ha pungolato la riflessione di Wittgenstein sia stata la differenza tra dicibile e mostrabile – ovvero, tra “il mondo” e quel che lo presuppone. Nella prima fase, l’indicibile rilevante erano le cose (Dinge) in quanto tali (la sostanza del mondo) da una parte, e la forma logica dall’altra: il linguaggio può dire solo il come del mondo, mai il che cosa. Nemmeno il “che cosa” del linguaggio stesso: che il linguaggio descriva il mondo, questo non può essere descritto. Lo specchio non può rispecchiare la propria specularità. Nella seconda fase, quando Wittgenstein si focalizza sull’impossibile linguaggio privato, è pur sempre quindi di un’impossibilità di descrivere e conoscere che si tratta: ora, ogni soggetto può certo esprimersi, ma non conoscersi. In effetti, l’impossibilità di un linguaggio privato non significa affatto l’inesistenza o anche solo l’irrilevanza della vita interiore, direi anzi il contrario[20]. Di un oggetto privato dice “non è qualcosa ma non è neppure nulla” (PU, par. 304) - dopo tutto, è quel che si potrebbe anche dire delle cose (Dinge) del Tractatus. Di fatto, la vita interiore si esprime pubblicamente in modo più o meno felice proprio attraverso i giochi linguistici.

          Sostenendo l’impossibilità di un linguaggio privato, Wittgenstein per altri versi afferma proprio il carattere assoluto, non descrivibile, dell’esperienza soggettiva. Per Wittgenstein due enunciati come “il mio molare è cariato” e “ho molto male al molare” sembrano avere la stessa grammatica, ma di fatto appartengono a giochi linguistici completamente diversi. Il secondo enunciato può essere analizzato come un’esclamazione, ovvero, come un modo linguistico di esprimere il grido - come un modo di esprimere il mio dolore, non di descriverlo e quindi conoscerlo. Dopo tutto, è quel che Wittgenstein dice anche di espressioni tipicamente etiche o estetiche, come “quella persona è buona” oppure “questa sinfonia è bella”: aggettivi come buono o bello sembrano descrivere delle qualità dell’oggetto, ma di fatto si tratta piuttosto di esclamazioni. Valutando una persona o un’opera come buona o cattiva, bella o brutta, esprimo la mia forma di vita, ovvero un mio modo di abitare il mondo tra persone e opere. Non è qualcosa che dico di, è piuttosto qualcosa che vivo con.

 

 

13.  Wittgenstein relativista?

 

Il paradosso del pensiero di Wittgenstein è che da una parte è radicalmente relativista, dall’altro fondamentalmente assolutista (così come è da una parte del tutto solipsista scettico, e dall’altra del tutto realista). Da una parte, il valore – etico, estetico, affettivo – che diamo alle cose del mondo dipende dai giochi linguistici ai quali partecipiamo: non ha quindi senso stabilire norme o criteri etici, estetici o affettivi in qualsiasi situazione e cultura, per chiunque. D’altra parte ciò che si esprime nei giochi linguistici non è a sua volta descrivibile come una relazione storica tra me e le cose, ma qualcosa di assoluto nella mia vita e nei miei linguaggi.

Così, egli scrive “se dici che vi sono diversi sistemi dell’etica non stai dicendo che sono tutti ugualmente giusti. Ciò non significa niente”. Quest’affermazione suona in apparenza come anti-relativista. Se invece dicessi che solo il mio sistema etico è giusto, e gli altri meno etici o non-etici, actually sto dicendo che seguo solo il mio sistema etico e non un altro. Questo significa che sia i discorsi relativisti che quelli assolutisti sono insensati. Ma aldilà dei discorsi, sia chi dice “tutti i sistemi etici sono giusti” (un relativista caricaturale) sia chi dice “solo il mio sistema è giusto” (un arrogante etnocentrico) mostrano qualcosa di essenziale (anche se il Wittgenstein più tardo non si sofferma su questa mostrazione). Il primo, il relativista, sta solo dicendo che in fondo è indifferente ai problemi morali: se ogni etica vale l’altra, nessuna etica ha valore per lui; insomma, sta affermando la sua estraneità ad adottare un solo criterio etico per ogni circostanza. Il secondo, etnocentrico, sta dicendo che invece lui resterà sempre ligio ai propri valori etici, ovunque vada e in qualsiasi situazione si troverà. In sostanza, le teorie relativiste e assolutiste (entrambe insensate per Wittgenstein) trovano senso in certi impegni squisitamente singolari nel vivere in un certo modo piuttosto che in un altro.

Ma questo impegno a vivere in un certo modo, questo è il punto, non è arbitrario: ci sono sempre ragioni importanti per vivere eticamente, anche se queste ragioni sono esprimibili solo all’interno della propria dimensione etica. Potremmo dire solo che le buone ragioni per essere etici consistono nel dirsi “l’altro conta”, “il mondo esiste”, “devo cessare di sentirmi colpevole”, “devo sentirmi al sicuro”, “devo essere felice”, e simili. Le buone ragioni per essere etici sono strane ragioni per il discorso razionale, perché sono ad un tempo ragioni assolute e singolari.

Da una parte un sistema etico riflette una specifica forma di vita, eppure d’altro canto ogni forma di vita si confronta con un’assolutezza di cui ogni impegno etico si fa carico.

 

          Ricordiamo la proposizione del Tractatus, «Il mondo del felice è altro da quello dell'infelice» (6.43). E’ essa relativista?

Il mondo del felice è diverso dal mondo dell’infelice perché il mondo è strettamente correlato alla soggettività trascendentale. Abbiamo visto che etica ed estetica, proprio perché sono oltre il mondo, mettono in gioco una soggettività trascendentale. Ma perché Wittgenstein sceglie come esempio paradigmatico di pluralità di mondi proprio la correlazione dei mondi al pathos, agli affetti, all’esser felici o infelici? Perché il soggetto può mostrarsi solo attraverso un sentimento silenzioso, perché il suo solipsismo è patetico?

In effetti, felice per l'autore equivale a un modo di esprimere l'essenza di buono - dato che l'unica massima che descriva (miticamente) l'etica è «Vivi felice!». Allora possiamo leggere la frase «Il mondo del felice è altro da quello dell'infelice» come: «Tante sono le etiche, tanti sono i mondi». Essere etici è essere in un mondo felice, che per Wittgenstein è un mondo dilatato, più esistente direi (come nel proverbio “essere felici è essere”). Cioè, l'etica, non essendo nel mondo, determina in qualche modo una «pluralità» irriducibile di «mondi» e di linguaggi.

Eppure la diversità incommensurabile delle etiche non è riducibile a relativismo morale. Nel «secondo» Wittgenstein pare attenuarsi il carattere di trascendentalità dell'etica - e delle felicità -, ma non scompare, anche se al posto dei «mondi» abbiamo più «grammatiche» e più giochi; è una pluralità che rinvia a un'irriducibile problematicità delle etiche, al fatto cioè che ogni etica non è una semplice variante da un fondo etico universale, dicibile. E la filosofia giusta che egli persegue è infine quella che ci inizia al modo giusto di essere nel mondo. Di essere anständig, decente – come disse spesso – nel mondo.

 

          Wittgenstein diceva del Tractatus nella lettera a von Ficker:

 

Il mio lavoro consiste di due parti: di quello che ho scritto, e inoltre di tutto quello che non ho scritto. E proprio questa seconda parte è quella importante.

 

Questa parte non scritta è precisamente l'etico, che il Tractatus delimita «per così dire dall'interno; e sono convinto che l'etico è da limitare rigorosamente solo in questo modo» (BrVF, p. 72).

Quindi, attraverso tutto ciò che esso dice, il Tractatus mostra qualcosa, ed è l'etico, o «il mistico». Ovvero, ciò che un testo filosofico mostra conta di più di ciò che dice. E ciò che viene mostrato, non detto, è dell'ordine più di una forma che di un contenuto (di un fatto, di uno stato di cose). La proposizione, quando dice un fatto, può solo mostrare la sua forma logica (T, 2.172). Analogamente l'etico a cui si riferisce Wittgenstein è dell'ordine di una forma; l’etico, probabilmente, sarebbe la forma mostrata dal Tractatus, dal testo che, malgrado tutto, dice.

          Anche nella seconda fase del suo pensiero, il termine Form ritorna in una dimensione di indicibile, ora connesso alla «forma di vita», Lebensform: anche questa propriamente non può essere detta. Nelle Ricerche “forma di vita” appare solo cinque volte, e non viene mai definita. La «forma di vita» prende il posto del mistico - di ciò che tutto il Tractatus, con le sue proposizioni numerate, mostra - in quanto essa fornisce la «chiave» per comprendere le regole e la grammatica dei giochi linguistici. Le forme di vita si mostrano nei nostri giochi, ma a loro volta non sono giochi.

 

14. Klarheit

 

          Per concludere, la riflessione – necessariamente a sprazzi – di Wittgenstein su etica ed estetica mette in evidenza due dimensioni che possono apparire opposte, ma in realtà intimamente correlate.

 

-        Prima dimensione. Il mondo dei valori (etici, estetici, o altri) ci fa accedere a una dimensione dell’Essere che non coincide con il mondo dicibile, ma con qualcosa che chiamerei reale[21]. Le azioni etiche e le passioni estetiche ci convocano allo spazio delle Dinge, delle cose necessarie e assolute. Propongo il termine Reale per distinguerne il concetto sia dall’universo rappresentabile e raffigurabile (Umwelt o Welt, ambiente o mondo) sia dall’universo dei segni (forma logica) o dei giochi linguistici (grammatica degli usi).

-        Seconda dimensione. Wittgenstein, prima attraverso la tematizzazione del solipsismo, poi attraverso quella del privato ineffabile e della vita, ci confronta con una dimensione trascendentale della soggettività (trascendentale in quanto a monte dello psichico). Ci confronta con una soggettività pensata probabilmente in termini schopenhaueriani, come fonte indescrivibile di ogni nostro essere-nel-mondo, il quale essere-nel-mondo è sempre un essere socializzato e storico.

 

L’ideale sempre protestato da Wittgenstein era quello di una radicale chiarezza, ideale espresso spesso attraverso figure come l’etere limpido: l’ideale di una filosofia “astrale”e neutra come uno specchio. Ma nel perseguire questo ideale, Wittgenstein si rende conto che ogni specchio, per quanto possa riflettere limpidamente, presuppone qualcosa che resterà sempre fuori dello specchio: da un lato l’occhio che guarda nello specchio e può considerare lo specchio in quanto tale, dall’altra le cose che si specchiano e che solo nello specchio del linguaggio possono mostrarsi. E’ la filosofia di Wittgenstein il documento drammatico, patetico, del limite deludente dello specchio? E’ documento di tutto ciò che, attraverso un ideale di rappresentazione perspicua, non può essere rappresentato? Ovvero, documenta le due facce “impossibili” dell’Essere - le cose reali e me stesso?

 

 

 

Mi riferisco alle opere di Wittgenstein con le seguenti sigle:

 

BrVF                         Lettere a Ludwig von Ficker, Roma 1974.

LE                                                    A Lecture on Ethics; tr.it. Lezioni e conversazioni, Milano 1967, pp. 5-19.

PU                                                    Philosophische Untersuchungen; London 1951; tr.it. Torino 1967.

T                                                       Logisch-philosophische Abhandlung; tr.ing. London 1961; tr.it. Torino

                                  1964.

TB                             Notebooks 1914-1916, Oxford 1961; tr.it. Torino 1964.

WE                                                   “The Development of Wittgenstein's Views on Ethics", by Rush Rhees, Moral Questions, ed. D.Z. Phillips, Basingstoke: 1999; tr.it. Lezioni e conversazioni, Milano 1967, pp. 29-46.

 

Le pagine qui indicate sono quelle delle edizioni italiane; mentre il Tractatus è citato attraverso i numeri indicati dall’autore, e i Quaderni attraverso la data.

 

G. Agamben (2008) Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento, Laterza, Roma.

 

A. Badiou (2009) L’antiphilosophie de Wittgenstein, Nous, Paris.

 

Barrett, C. (1991) Wittgenstein on Ethics and Religious belief, Blackwell, Oxford.

 

M. Black (1988) “Lebensform e Sprachspiel nelle ultime opere di Wittgenstein”, in M. Andronico, D. Marconi & C. Penco, Capire Wittgenstein, Marietti, Genova.

 

J. Bouveresse (1982) Wittgenstein. Scienza etica estetica, Laterza, Roma.

 

M. De Carolis (1999) Una lettura del “Tractatus” di Wittgenstein, Cronopio, Napoli.

 

Donatelli, P. (1998) Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma.

 

R.M. Hare (1970) Il linguaggio della morale, Roma.

 

C. Lévi-Strauss (1950) "Introduzione all'opera di Marcel Mauss", in M. Mauss, Teoria generale della magia, Einaudi, Torino.

 

Phillips, D.Z. (1992) Interventions on Ethics, SUNY, Albany, NY.

 

Rhees, R. (1970) “Some Developments in Wittgenstein’s View of Ethics” in Discussions of Wittgenstein, Routledge, London.

 

R. Rorty (1989) “Wittgenstein e Heidegger: due percorsi incrociati”, Lettera Internazionale, 22, pp. 21-26.

 

Toulmin, S. (1950) An Examination of the Place of reason in Ethics, Cambridge University Press, London (tr.it. Ragione e etica, Ubaldini, Roma 1970.

 

G. P. Warnock (1950) Ethics since 1900, London.

 

G.J. Warnock (1974) Filosofia morale contemporanea, Roma.

 

Sommario

 

L’autore parte dal presupposto che la teoria wittgensteiniana dell’etica (e dell’estetica) non cambi radicalmente nel passaggio dalla “prima” alla “seconda” fase del pensiero di W. Del resto, la continuità tra le due filosofie sta nell’esigenza, mai venuta meno in W., di distinguere ciò che si può dire da ciò che si può solo mostrare – e l’etica è qualcosa che si mostra, ma non si dice. L’autore analizza i modi in cui si può intendere il carattere “mistico” (non dicibile) dell’etica, e lo mette in stretta relazione con la preoccupazione ontologica del primo W., e con quella antropologica del secondo. In ambedue le fasi W. mette in luce la vocazione trascendentalista dell’essere umano, e l’etica è una dimensione attiva della trascendentalità. Nella prima fase, l’etica non è parte del mondo, cioè dei fatti, ma è “che cosa”. Nella seconda fase, l’etica non è un gioco linguistico, ma ci apre a una forma di vita in quanto tale non “giocabile”.

Una particolare attenzione è dedicata alla questione dell’alterità (che sembra mancare nella riflessione di W.) e di riflesso al solipsismo trascendentale di W. (che nella seconda fase del suo pensiero assume la forma dell’impossibilità di un linguaggio privato). Andando oltre le formulazioni esplicite di W., l’autore fa notare che l’alterità nell’etica è investita nella sua dimensione ontologica, ovvero nel fatto che l’altro è considerato in quanto “reale” e non in quanto oggetto-per-me. L’autore tenta poi un confronto inedito tra la visione dell’etica di W. come “in eccesso rispetto al linguaggio” con la teoria di C. Lévi-Strauss (ripresa in chiave etica da G. Agamben) su nozioni tipo “mana”, dove si tratta di un eccesso di significante sul significato. Il carattere debordante dell’etica rispetto al linguaggio andrebbe quindi riferito alla vocazione trascendentale del linguaggio stesso, al suo voler dire l’indicibile.

 

 



[1]  Relazione al Workshop “Wittgensteinian Approaches to Ethics and the Philosophy of Culture”, 26-28 marzo 2009, all’Università di Turku (Finlandia). Ringrazio Fulvia De Luise, Miguel Vatter e Antonello Sciacchitano per i loro acuti commenti alla prima stesura di questo testo.

 

[2] Del 17 novembre 1929. Anche se nel 1938 abbiamo le Lezioni sull’Estetica, e le Lezioni sulla credenza religiosa (difficili da datare).

 

[3] LE, p. 7.

 

[4] Sin da giovane Wittgenstein si era appassionato a Schopenhauer, attraverso il quale subì una decisiva influenza kantiana.

 

[5] La mia lettura diverge quindi sostanzialmente da quella proposta da Rhees (1970) e da Phillips (1970).

[6] I suoi rappresentanti più noti sono S. Toulmin (1950) e R.M. Hare (1970). Per una critica a questa tradizione analitica, dal suo interno, cfr. P. Warnock (1950; 1974) .

 

[7] Come scrive Rhees (1970, p. 101), secondo Wittgenstein “usiamo il termine ‘etica’ per una quantità di sistemi, e tale varietà è importante per la filosofia”. Non c’è un’essenza dell’etica, ma quindi non c’è nessun gioco linguistico specificamente etico.

 

[8] Accenna anche al sentimento di sentirsi colpevoli (LE, p. 17), in questo caso però non è chiaro se egli si riferisca a un senso di colpa senza alcuna ragione, oppure alla forma allegorica che la colpa assume nella religione, quando ci diciamo che Dio disapprova quel che abbiamo fatto.

[9] “Limitato” non “finito” (endlich). Questo non esclude quindi che il mondo possa essere infinito: ma un infinito, preso come un tutto, è in fondo limitato.

 

[10] Metafisica, 983a.

 

[11] Come è noto, per Heidegger l’ontico è ciò che riguarda gli enti (Seiende), l’ontologico è ciò che riguarda l’Essere (das Sein).

[12] Questo non contrasta col fatto che egli porti come esemplari dell’esperienza etica le sensazioni squisitamente soggettive di cui abbiamo parlato. E’ che la dimensione ontologica dell’etica si mostra elettivamente proprio in esperienze soggettive “senza senso”. Vedremo più avanti come non si tratti qui semplicemente di una contraddizione.

 

[13] Qui preferisco usare il termine cose (Dinge) anziché oggetti (Gegenstände) in quanto voglio mettere in rilievo l’indipendenza delle cose rispetto a noi, il loro non essere oggetti-per-noi.

 

[14] Non solo Wittgenstein non dette mai un esempio di proposizione elementare, ma si capisce che questa non sarebbe mai formulabile sulla base di qualsiasi indagine empirica.

[15] In termini fenomenologici: da una parte c’è il soggetto mondano prima dell’epoché fenomenologica, poi c’è il soggetto dell’intenzionalità come essere-nel-mondo.

[16] “Ciò che il solipsismo intende [meint] è in tutto corretto; solo, non si può dire, ma mostra sé. Che il mondo è il mio mondo si mostra in ciò, che i limiti del linguaggio (del solo linguaggio che io comprendo) significano i limiti del mio mondo” (T, 5.62).

 

[18] Il tedesco ha due termini per oggetto, Objekt e Gegenstand. Il primo termine è usato da Freud, per esempio, per designare l’oggetto investito dalla pulsione e dal desiderio. Qui ci riferiamo all’Objekt, come ciò che ha valore per me.

 

[19] Così Bouveresse (1982, p. 93) può osservare: “Il non-senso delle proposizioni etiche, che corrisponde nella prospettiva del Tractatus e della Conferenza sull’etica a un’aggressione necessariamente votata allo scacco contro i limiti del linguaggio, può anche spiegarsi, da un altro punto di vista, con l’assenza di un sistema di riferimento universale che renda possibile assegnazioni univoche di valore (assoluto) alle cose e agli avvenimenti del mondo.”

 

[20] Il behaviorismo, per molto tempo il paradigma dominante nella psicologia scientifica, si è in parte richiamato, come suo referente nobile, alle Philosophische Untersuchungen (oltre che a pensatori come G. Ryle): la psicologia può occuparsi rigorosamente solo di comportamenti, deve ignorare gli stati mentali che sarebbero alla fonte di questi comportamenti. L’ascesa del cognitivismo in psicologia ha significato, così, non solo il superamento del behaviorismo, ma anche un distacco delle scienze dal pensiero di Wittgenstein. Così, negli ultimi decenni molti filosofi sono slittati da Wittgenstein al cognitivismo. Ad esempio, è il caso, in Italia, di Diego Marconi.

[21] Riprendo la nozione di Reale – come concetto distinto dalla realtà, dal “mondo” di Wittgenstein – dal pensiero di Jacques Lacan, che ha una matrice certamente hegeliana e heideggeriana, quindi del tutto diversa da quella di Wittgenstein. Per dirla in breve, per Reale intendo qualcosa che non si può dire o descrivere in modo proposizionale, ma che emerge (in esperienze specialmente affettive) come presupposto non-detto del dicibile. Ad un tempo, ciò che è oltre il dicibile e che però in qualche modo lo sostiene. Nei termini del primo Wittgenstein, potremmo dire che è quel “che cosa” presupposto – e in quanto tale indicibile – a ogni “come”, mentre il linguaggio significante della scienza può descrivere solo un “come” mai il “che cosa”. Possiamo dire che mentre la scienza parla della realtà, l’etica evoca la dimensione del Reale.

 

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