Flussi di Sergio Benvenuto

MOVIMENTO E SEDUZIONE NEL FEDRO PLATONICO06/lug/2016


   “Della seduzione”

 

     Per secoli i commentatori hanno considerato spesso il Fedro come "mal composto", squilibrato. Era un dialogo troppo giovanile o troppo senile, a seconda delle ricostruzioni cronologiche.  Hanno detto che esso affronta troppi temi, tra loro debolmente connessi: l'essenza dell'amore, la funzione dell'oratoria e quella della scrittura, la struttura dell'anima, il mondo delle Idee.  Perché mai occuparsi di tanti soggetti così diversi in un solo dialogo?

     Penso invece che il Fedro sia di una coesione rigorosa, se solo, anziché cercare di pigiare il testo entro la griglia in cui abbiamo ormai imprigionato "il platonismo", cerchiamo di cogliere il travaglio concettuale di Platone. In realtà, il Fedro nel suo insieme si occupa di tante cose da un unico punto di vista, che ne costituisce la chiave. Questa chiave è il tema della seduzione.

     Al Fedro di Platone i redattori alessandrini hanno dato per sottotitolo Della bellezza, ma il sottotitolo più adeguato sarebbe Della seduzione, o Della bellezza seducente.  Perché il soggetto centrale del dialogo è l'oratoria o rettorica, ovvero "l'arte di scrivere o fare discorsi". E la questione di fondo sollevata da Socrate, nel dialogo, è "grazie a che cosa i discorsi seducono o dovrebbero sedurre chi li ascolta?" La persuasione (peitho) che l'oratore cerca di mettere in opera dipende dal fatto che egli dice il vero, o dal fatto che rende convincente il verosimile?  "I buoni discorsi devono persuadere dicendo la verità o seducendo?" Questione modernissima, oggi direi bruciante, dato che la nostra epoca ha generalizzato ciò che all'epoca di Platone era ancora un esperimento eccentrico: una democrazia basata sulla demagogia e sulla seduzione esercitata dalla spettacolarità sulle masse. Ma appunto, la questione in cui i due dialoganti si dibattono è se la seduzione connessa ai "bei discorsi" sia estranea ai buoni argomenti, al fatto di convincere dicendo la verità, o se ci sia nei discorsi una buona e una cattiva seduzione.  Il problema centrale del dialogo è: la seduzione retorica è del tutto estranea alla seduzione epistemica, quella che convince perché dice il vero?

 

     Ma Socrate e Fedro non parlano solo dei discorsi in generale, scelgono come esempio paradigmatico di discorsi - guarda caso! - i discorsi erotici.  Il bel Fedro - che, lo si capisce chiaramente, Socrate desidera - ama i discorsi sul desiderio amoroso, e in particolare un discorso di Lisia che affronta una questione molto dibattuta all'epoca nell'universo patrizio della pederastia ateniese: se l'eromenos, il giovane amato, debba compiacere (leggi: avere rapporti sessuali con) il maturo erastes, il suo innamorato.  Sfidato da Fedro, ammiratore di Lisia, Socrate deve improvvisare a sua volta un discorso sul desiderio amoroso, che non offenda la divinità di Eros, ma la elogi. Il discorso di Socrate appartiene quindi a un genere retorico preciso, l'encomios, il discorso che loda una divinità. Un discorso peraltro molto seduttivo: non a caso esso narra un mito che tutt'oggi ancora ci attrae come la figura più esemplare del trascendentalismo filosofico: il mito dell'ascesa delle anime verso l'Oltre-cielo, dove risiedono le Idee.  E Platone era troppo intelligente per non rendersi conto che il suo Socrate letterario era quanto mai seduttivo. Del resto, nel Simposio lo farà dire a chiare lettere da Alcibiade che parla in vino veritas: Socrate è una specie di imbroglione perché si finge erastes (l'uomo sedotto) ma di fatto è un pericoloso eromenos (un seduttore).

     In effetti, la seduzione non è solo il tema della discussione esplicita: le figure della seduzione avvolgono tutto il dialogo, ne impregnano sia la scenografia sia (per usare un termine cinematografico) la sceneggiatura. Non a caso il dialogo si svolge fuori città, dato che Socrate è stato condotto - anzi, sé-dotto - colà ad un tempo dalla bellezza di Fedro e dal discorso scritto sull'eros, che il giovane stringe con la mano sinistra sotto il vestito, tenuto in ambigua adiacenza ai genitali. Fino al punto che ci si chiede: Socrate rincorre Fedro nel regno di Pan, nella natura selvaggia, perché è attratto dal discorso di Lisia oppure dal pene di Fedro?  Verrebbe voglia di rispondere: da ambedue.  Tanto più che tutti e due - il pene del bel Fedro e il "bel" discorso di Lisia - hanno un tratto comune: ambedue mobilitano Eros, che smuove persino il metropolitano Socrate. 

Il tutto si svolge in una calda mattinata estiva, ai bordi del ruscello Ilisso, nella frescura sotto un alto platano, in un paesaggio adornato da figurine e statuette (kórai xaì agàlmata) delle ninfe e del dio fluviale Acheloo, e dalla presenza di Pan, a cui, in chiusura del Dialogo, Socrate rivolge una preghiera.  Là, ricorda Socrate, la ninfa Orizia fu rapita da Borea, desideroso di lei, mentre giocava con un'altra ninfa, Farmacia.  E nel mondo greco le ninfe - non dee, ma donne dalla lunghissima vita - erano figure esemplari della seduzione, sia di uomini che di dèi.  Creature selvatiche, apparivano e sparivano nei boschi, spesso a caccia di belve; rappresentavano l'aspetto fugace, repentino, della seduzione erotica; chi ne vede una può essere nymphóleptos, posseduto da loro, e delirare. E tutto il Fedro sarà difatti come attraversato da una vibrazione angosciosa, dal dubbio cioè che il filosofo stesso deliri, e che la filosofia sia, per certi versi, una forma di delirio, panico ed erotico.

     Tutto il Dialogo è come sonorizzato dal coro delle cicale, anch'esse legate a leggende di seduzione: come racconta Socrate, le cicale erano uomini primitivi i quali, sedotti dal canto delle Muse come fosse il canto delle Sirene, cantarono senza posa dimenticandosi di mangiare e bere, e così morirono.  Oggi le cicale, animali delle Muse, cantano senza mangiare né bere.  Allora, aggiunge Socrate, "bisogna dunque parlare e non dormire nel mezzogiorno" (259d).  Il canto delle cicale, insomma, esercita la seduzione delle Muse – queste erano in origine, come le ninfe, ragazze selvagge che scorazzavano libere sul monte Elicona. Per sottrarsi a questa catastrofica seduzione, per non morire, occorre parlare! Questo è tanto più interessante che, come dice Socrate altrove, i musikoi, i dediti alle Muse, come furono appunto le cicale, condividono con i philosophoi il privilegio di appartenere alla massima aristocrazia delle anime. In fondo, insinua Socrate, il filosofo è come l'uomo-cicala, e il suo problema è se egli debba cedere alla seduzione erotica delle Idee o resistervi, così come è un problema per i musikoi resistere o meno a questa seduzione.

     Per i greci, la cui cultura ci appare così chiara e solare, in realtà i mezzogiorni estivi erano l'acme della seduzione, e quindi del pericolo: a quell'ora "gli uomini hanno fiacche le gambe", Pan - il dio barbuto con corna e piedi di capra - contagia un'angoscia appunto panica.  Per i greci, il meriggio canicolare non aveva nulla dei nostri relax balneari; era una ubris, un eccesso inquietante dei sensi.  E tutto il Fedro tratta dell'ambiguità della seduzione, fasta e nefasta, che fa salire o fa cadere, che fa morire o fa vivere.

      Spesso ignari dell'universo culturale greco antico, i commentatori vedono per lo più la scenografia del Fedro come una mera cornice decorativa per far meglio digerire discettazioni filosofiche. Il platano e l'Ilisso sarebbero come i panorami delle località climatiche dove oggi si tengono i congressi accademici.  Ma non c'è alcuna leggiadria bucolica in quel paesaggio agreste - per i greci la calura meridiana di mezza estate era una situazione drammatica.  In quel periodo Sirio, sfolgorando di un fuoco micidiale, si presenta come un Sole che inaridisce[1]: brucia le piante, isterilisce e dissecca i campi, le bestie muoiono di sete, i vigneti sono carbonizzati, gli uomini sono colti dalle febbri.  Sirio brucia la pelle, e gli uomini sono disseccati e assetati[2].  Il periodo canicolare, in cui il Sole si avvicina eccessivamente alla Terra, crea un preoccupante squilibrio ad un tempo astronomico, botanico e sessuale; allora la donna, per quanto possa essere casta e pudica, rischia di essere invasa dalla lascivia, e di esigere impudicamente eccessi amorosi al suo uomo.  "Quando fiorisce il cardo e la canora cicala (...) diffonde la sua canzone armoniosa"[3], nei giorni spossanti dell'estate, "le donne sono allora molto lascive e gli uomini molto estenuati, perché Sirio brucia la testa e le ginocchia, mentre la calura dissecca la pelle"[4]. Ciò accade perché l'uomo è per natura secco e caldo, quindi la sovrabbondanza del calore estivo lo indebolisce, lo rende "fiacco"[5]; mentre le femmine, essendo umide e fredde, vengono così equilibrate[6]. In questo tempo di pericolo soprattutto per i maschi, meglio mettersi all'ombra di una roccia - consiglia Esiodo - con una focaccia ben cotta e la carne saporita di una giovenca, e stendersi al fresco a bere il vino nero di Biblo[7].

     Qui Socrate e Fedro, in balìa della canicola, seguono a loro modo il consiglio di Esiodo: si siederanno all'ombra di un platano, ma invece di mangiare e bere vino si ciberanno di discorsi filosofici.  Mentre nel Simposio il contesto urbano, pubblico, conviviale, portava a considerare Eros nel suo rapporto specifico con Dioniso - il simposio era un rito dionisiaco - qui invece il contesto è agreste, cioè selvaggio, e quindi panico.

     Eros panico quindi permea i vari livelli del discorso: oggetto dei discorsi di Lisia e di Socrate, impregna anche questi discorsi stessi, e poi interviene al livello di coloro che discorrono dei discorsi, vale a dire la seduzione che Fedro esercita su Socrate (e poi viceversa).  Come nelle bamboline russe, dentro ogni livello del testo troviamo un altro testo, eppure tutti i livelli sono "erotici".  A differenza però delle bamboline russe, questi livelli alla fine si rivelano circolari, il serpente si morde la coda: il metalinguaggio si ritrova ad essere il linguaggio-oggetto dell'ennesimo linguaggio-oggetto, ecc.  Come la rotazione del cosmo platonico, che come una giostra gira mostrando alle anime lo spettacolo delle Idee o Ap-parizioni, il Dialogo stesso fa girare i discorsi e i loro oggetti, rovesciandone alla fin fine la gerarchia. Come in tanti quadri di Escher, il contenuto del dialogo si rivela alla fin fine come il contenente di ciò che appariva il suo contenente.

 

*      *

 

 

     Per dire che cos'è il desiderio amoroso, Platone deve prima di tutto parlare dell'anima che desidera.  Ora, la sua anima (psyché) non ha solo quel carattere mentale, "psicologico" appunto, che noi oggi le diamo.  Per Platone è anima tutto ciò che si muove da sé (autò kinoùn), che non è cioè mosso da altro, e che avendo in sé la fonte e il principio (peghé kaì arkhè) del movimento, non può cessare di muoversi, e si muove quindi (cioè vive) eternamente (aeikíneton); inversamente, tutto ciò che è sémovente, quindi, è anima. Il pensiero greco, non ancora intristito da dualismi cartesiani, concepisce l'animato in termini di kìnesis, di movimento: è psyche tutto ciò che non cessa di muoversi.  Il concetto di "anima", direbbe un logico moderno, ha la stessa estensione semantica del concetto di "automotrice"; i due concetti si rivelano equivalenti.  Ciò significa che ogni anima è sempre arché, principio e comando, di movimento. 

Significa ciò che ogni movimento puramente naturale - ad esempio l'oscillare delle foglie al vento, o un terremoto - trova origine e principio in un'anima? Indubbiamente, l'universo sensibile di Platone è "animato", nel senso che alla fonte di ogni kinesis, di ogni moto e divenire, c'è dell'anima, cioè del sémovente.  Non anime umane, certo - queste non possono suscitare il vento né i terremoti - ma anime divine. Insomma, nel Fedro Platone enuncia la sua Fisica, che è animistica. A differenza di Aristotele, Platone non scriverà una Fisica - anche perché, come vedremo, la sua Fisica si riassume in un'Erotica.

     E allora, che cosa spinge le anime a muoversi? "Cadono" esse, come gli atomi di Democrito? Oppure esse muovono l'altro per arbitrio, un po' come si muoveranno "liberamente" gli atomi di Epicuro? Qual è insomma il clinamen delle anime? Indubbiamente, risponde Platone, le anime spesso cadono. Ma questo clinamen è solo una delle loro direzioni possibili: le anime, oltre che cadere, possono anche salire.  E che cosa fa salire le anime, il cui movimento genera quindi il movimento dell'universo stesso?  La risposta di Platone è: Eros.  Grazie al desiderio amoroso, le anime "mettono le ali", tendono a ciò che non si muove e non muta, alle Ap-parizioni, e in particolare all'Ap-parizione di Bellezza.  Anche il cadere delle anime è dovuto ad Eros, o meglio al suo doppio invertito, all'Eros del "cavallo nero" – che vedremo più avanti - che ci porta verso la materia e la terra, e che ci fa precipitare verso la condizione animata più degradante per Platone: quella del tyrannos, del re assoluto. La problematica identità e differenza fra queste due direzioni di Eros - tra i due Eros - è uno dei fulcri nevralgici di tutta la metafisica platonica; e forse, per molti versi, di tutta la metafisica dell'Occidente.

     L'esistenza stessa della kinesis insomma rivela che l'universo tutto è uno spazio amoroso, che esso tende ad un telos nella misura in cui il telos è ciò che seduce e attrae.  Ora, il concetto di telos è assolutamente centrale nella forma di vita greca: esso è il fine ma anche la fine, è lo scopo ma anche il compimento, la perfezione, la morte.  Un gioco di seduzione cosmica imprime alle cose tutta la loro motilità, per il rimpianto (potho) di ciò che è immobile e non muta.  Tutta la vita è movimento che tende alla morte, cioè all'immobilità senza tempo in cui la vita si compie.

     Così, con Platone si apre una tradizione di pensiero ancora oggi rigogliosa: una visione nostalgica della natura e della storia.  Una forma moderna - quindi non "idealista" in senso platonico - della storia umana come nostalgia è ad esempio il rousseauismo, nelle sue varie declinazioni (anche marxiste): è l'idea che la storia umana sia effetto di una caduta da, o di un tradimento di, uno stato naturale originario. Compito quindi di questa stessa storia è di "risalire" (o "ricadere", secondo i punti di vista) verso questa naturalità originaria che costituisce la verità stessa - e quindi anche la felicità - dell'uomo.  Il concetto di alienazione, che da oltre un secolo impregna anche il discorso comune, è un rampollo di questa visione nostalgica e platonica (dato che Hegel stesso riprende da Platone il concetto di alienazione): è la denuncia di qualcosa di proprio che ha cessato di essere proprio, che è passato ad altro, che è "caduto" in una alterità da cui deve districarsi per ritornare ad essere proprio se stesso.

[    Si dirà che comunque nel nostro secolo il dominio della visione "nostalgica" è in parte scalzato da un'altra visione che possiamo chiamare progressista: dall'idea cioè che la storia non è perdita di verità e proprietà a cui ritornare, ma espansione illimitata dell'umanità, estensione e complicazione, evoluzione verso il più potente e complesso. E si può far notare che, a differenza del "nostalgismo", il "progressismo" è ideologia moderna, che essa risale grosso modo al 700, che gli Antichi non avevano idea di un progresso possibile, nel senso moderno.  Questo in parte è vero.  Ma è anche vero che l'atomismo greco aveva già fornito al progressismo moderno i materiali concettuali con cui articolarsi.  L'assioma di ogni progressismo - sia biologico che storiografico - è che gli enti si espandono e si complicano, ma il loro hard core, direi, rimane immutato.  Le leggi della natura, la dinamica della storia, non mutano; e proprio perché non mutano possiamo calcolare e riconoscere un "progresso".  Come gli atomoi, la cui sostanza indivisibile e immutabile non fa problema, analogamente la natura del progressismo non muta le sue solide basi.  Ma nel progressismo la natura originaria non è qualcosa a cui platonicamente si torni: è qualcosa che si espande, che dilaga nell'universo, che si moltiplica.]

 

 

 

     In effetti, le anime non giungono nel cielo a casaccio, ma sono ordinate dai dodici dei maggiori. "Zeus, spingendo l'alato cocchio, si avanza per primo, ordinando e prendendo cura di tutto. Lo segue un esercito di déi e di demoni, ordinato in undici parti, perché Hestia rimane nella casa degli déi, sola" (246d-2477a).  Hestia, difatti, non si muove mai, quindi non ha esercito di anime, non ha séguito. Ma allora, la domanda ovvia è: siccome poi le schiere delle anime, comprese quelle divine, devono spostarsi per poter accedere alla visione delle Ap-parizioni, significa questo che Hestia, unica tra le anime divine, non gode della visione iperuranea?  In effetti, aggiunge Platone, "degli altri [déi], ordinati déi conduttori nel numero di dodici, ciascuno guida la fila assegnatagli" (247a).  Questo numero di dodici déi comprende Zeus ed esclude Hestia, o Hestia è inclusa e Zeus è escluso, dato che egli guida l'intero esercito?  Questa seconda ipotesi appare poco attendibile, sia perché il testo ha appena detto che Hestia rimane a casa, sola; sia perché più tardi si dirà che la schiera dei filosofi è proprio quella che ha l'onore di seguire il dio principale, Zeus.  Dobbiamo dedurre allora che Hestia, pur essendo una dea maggiore, è priva di ciò che per ogni anima, anche divina, è essenziale, cioè la visione diretta delle Ap-parizioni?

     Difficile pensare che in uno scrittore così rigoroso come Platone certi dettagli siano lasciati all'ispirazione disordinata.      Sia Freud che Derrida ci hanno insegnato che dettagli e cornici nei discorsi e nei testi possono essere, spesso, più fondamentali dei discorsi filati e argomentati.  Il paradosso è che attraverso il mito, e quindi attraverso i dettagli curiosi in cui si dipana, attraverso le metafore itiche, il filosofo riesce a dire qualcosa che l'argomentazione razionale non dice, o non può dire.

     In effetti, non può essere puramente aneddotico il fatto che gli dei non contemplino le Ap-parizioni nel loro focolare, custodito da Hestia, ma debbano spostarsi lungo il cielo (diéxodoi entòs ouranoù) per andare a un banchetto.  La visione dele Ap-parizioni non è perenne, ma accade in una specie di scampagnata, in una festa filosofica, in cui dodici dei guidano una frotta di anime verso il dorso -la sommità- del cielo, solo punto dove è possibile vedere ciò che è fuori dell'universo. 

     Si è sempre messo in rilievo, nella metafisica platonica, il primato della visione: le Ap-parizioni sono oggetti di contemplazione, capire è vedere.  Ma in questo modo si è scotomizzata l'importanza, in Platone, della metafora orale, anzi digestiva: questa visione avviene in un banchetto (thoine).  Questa visione "nutre", anche perché all'epoca i greci non vedevano la visione come un processo fondamentalmente passivo come la vediamo noi, ma attivo.  In questa ottica, è il caso di dirlo, vedere è un po' come mangiare.  E difatti, in questo banchetto-visione "la ragione di un dio [è] nutrita di pensiero e di scienza schietta (epistéme akeràto trephoméne)" [corsivo mio], e ogni anima "contemplando la verità si nutre (tréphetai) e si diletta" (247d).  Del resto, dopo il banchetto gli dei tornano a casa, dove – supponiamo - Hestia è rimasta ad attenderli.  Qui, "l'auriga, messi alla mangiatoia i cavalli, getta loro ambrosia, e, dopo questa, dà anche loro da bere".  I cavalli, ricordiamolo, sono parte dell'anima; e solo i cavalli-anima divini si nutrono di nettare e ambrosia.  Ma le Ap-parizioni sono il cibo che nutre l'ala, vale a dire ciò che permette appunto ai cavalli di salire "nel dorso del cielo".  Infatti, "l'alimento adatto alla parte migliore dell'anima proviene dal prato che è lì, e la natura dell'ala, grazie a cui l'anima è leggera, si nutre (tréphetai) proprio di questo" (248b).  All'inverso, le anime che non riescono a essere iniziate alla contemplazione dell'ente, "si allontanano [dal banchetto in cui si vedono le Ap-parizioni] e, allontanatesi, si cibano (trophé) di opinione" (248b).  C'è quindi del buon cibo e del cattivo cibo per le anime. Il buon cibo rende le anime leggere, le fa volare, e consiste in una visione della verità; il cattivo cibo sono le opinioni degli uomini che non sanno, e queste trascinano vieppiù verso il basso, verso la terra.  Ma la terra, per i greci, era Hestia dell'universo...

 

 

Ri-velazione delle Ap-parizioni: occorre fare un passo indietro, velare di nuovo l'Essere.  Occorre che persino gli dei si stacchino dal disvelamento, che tornino nelle tenebre domestiche.  La rivelazione è festa, il ri-velarsi è vita domestica, è la quotidianità del sensibile.  Perché è solo velando l'Essere che la rivelazione è assicurata; occorre rinunciare a toccare la verità perché essa, toccandoci di tanto in tanto, ci attiri a sé.  Il mondo sensibile, la storia, sono solo il ri-velarsi, il velarsi di nuovo, dell'Essere, che però in questo velarsi di nuovo promette di rivelarsi.  La sensualità, il passare all'atto - nel caso specifico, sodomizzare Fedro anziché discutere con lui del desiderio - è rinunciare a quella rinuncia senza la quale l'Ap-parizione non può essere più ritrovata.  

 

 

La morte era aipys, scoscesa.

 

     Occupandosi dell'oratoria, il Fedro affronta quindi anche la questione se sono preferibili i discorsi scritti o quelli orali. Per secoli, i commentatori si sono tormentati sul paradosso generato dal fatto che uno dei più grandi scrittori dell'Antichità condanni la scrittura a vantaggio della conversazione orale.  Ma questa plateale contraddizione non è che un aspetto di un'opera -e il Fedro più che mai- tutta all'insegna di contraddizioni appariscenti, che si rivelano apparenti (tutto il pensiero platonico si basa sullo scarto tra "appariscente" e "apparente") appena cessiamo di essere sordi alla dialettica platonica, essa stessa [sequela] dell'ironia socratica.  Già meno evidente è il paradosso per cui il dialogo che condanna la seduzione rettorica offre a Socrate l'occasione di un mirabile tour de force rettorico.  Ma basta affondare un po' le mani nel testo per tirar su caterve di "contraddizioni", almeno agli occhi di una moderna lettura razionalistica. 

     Ad esempio, verso la fine del Dialogo Socrate tesse le lodi dell'oratore Isocrate, anche se Platone non poteva ignorare che Isocrate aveva scritto Contro i Sofisti, un libello contro i filosofi tutti, Platone compreso.  Il contro-senso è tale che i commentatori vedono nell'elogio speciale di Isocrate un discorso puramente ironico.  In realtà l'ironia non consiste nel fatto che Socrate, fingendo di elogiare Isocrate, in realtà intenda biasimarlo: consiste piuttosto nel fatto che uno che aveva qualità filosofiche in realtà abbia finito, anche lui, con il "cibarsi di opinione".

 

 

 

     Quando Platone dice che il mondo sensibile è immagine, copia, al pari di un'immagine pittorica o letteraria, non nega puramente e semplicemente l'esistenza al mondo sensibile.  Grande scrittore qual è, Platone stesso ci ha dato rappresentazioni affascinate del mondo sensibile - ad esempio, nel Fedro, quella di una mattinata estiva fuori le mura.  Per noi è difficile cogliere lo statuto ontico del sensibile platonico, perché siamo diventati ontologicamente scorbutici: da una parte vediamo cose che esistono come il danaro o i buchi neri, dall'altra cose che non esistono come centauri e fantasmi; dobbiamo andare in certi campi-limite, dove incontriamo i quarks, le classi sociali, o (in logica) le classi di classi, per ritrovarci nell'incertezza greca, in un limbo ontologico che ci piega a far filosofia.  Ora certo per Platone il punto non è decidere se il mondo sensibile esista o meno, egli si preoccupa piuttosto di assegnargli il tipo di esistenza che gli compete: il sensibile ha lo stesso statuto ontico delle immagini, ovvero delle simulazioni.  Le immagini o simulazioni non sono certo nulla, ma non sono nemmeno qualcosa di pienamente reale.  Come i discorsi di coloro che non sanno, le cose sensibili non sono vere ma verosimili (eikon), cioè "icone" (termine che viene appunto dall'eikon greco).  Insomma, per Platone il mondo sensibile - quello che la gente non filosofica chiama "mondo reale" - in realtà è finzione, segno.  E aggiunge: segno del desiderio.  Per intenderci, il mondo sensibile per Platone non può essere come un quadro astratto di Pollock -e nemmeno come un fregio architettonico, che non rappresenta nulla oltre se stesso- ma, come un quadro figurativo, rappresenta sempre qualcosa di altro da ciò che esso è, dato che "è" solo vernice colorata e tela.  Usando una terminologia moderna, possiamo dire che per Platone il mondo è "intenzionale", come sono intenzionali le macchie di inchiostro che costituiscono il libro che state ora leggendo. O ancora meglio: Platone proclama la natura metaforica dell'universo sensibile, compresi i sentimenti interni, come appunto l'eccitazione erotica o la fame; il sensibile, come un testo letterario o figurativo, è sempre metafora delle Apparizioni o E-videnze (ideai).  Il guaio è che il sensibile, come ogni metafora, nasconde e rivela: nella metafora letteraria nasconde e rivela il significato detto letterale, nel mondo sensibile il reale.  Essendo iconico, il mondo sensibile rinvia continuamente al proprio modello, che per Platone sono le Ap-parizioni (la Gestalt, direbbe uno psicologo moderno): ma vi rinvia nel modo della verosimiglianza, dell'iconicità.  Le sémoventi che restano negli stadi inferiori della gerarchia animica -ultimi tra tutti, i tiranni- considerano queste icone che sono le cose sensibili come oggi gli ammiratori di certa pittura astratta (anzi "materica") considerano la pittura, anche quella figurativa: vedono la materia, non riconoscono la forma.  Per Platone le anime anti-filosofiche sono come quei critici e storici dell'arte modernisti che fanno della pittura una faccenda di pura visibilità, non di rappresentazione.  In un linguaggio sempre moderno, potremmo dire che per l'amatore platonico -l'amante della sapienza (philósophos), della bellezza (philókalos), delle Muse (mousikós) e del desiderio (erotikós)- al vertice della gerarchia spirituale, il mondo è tutto significante in quanto indica un significato (l'Ap-parizione), mentre per i sémoventi inferiori il mondo è in-significante, attraverso di esso non traspaiono significati. 

[E qui, en passant, cogliamo la profonda continuità tra Platone e Freud.  Se oggi è di moda tessere paragoni tra Platone e Freud, ciò non è dovuto solo al fatto che ambedue danno un'importanza determinante all'Eros, ma ad un'affinità più profonda, di cui la centralità data all'Eros è piuttosto una manifestazione: ambedue scommettono sul valore significante di cose che per il pensiero comune sono in-significanti.  Per Platone tutto il sensibile è significante, ha qualcosa di "artistico"; per Freud sintomi nevrotici, sogni, atti mancati, battute di spirito, deliri, ecc., sono significanti, in quanto non sono effetti di cause o di casi, ma hanno un'intenzionalità.]  

     L'ambiguità del mondo sensibile si riverbera nell'ambiguità di gran parte dell'opera platonica, e consiste nel fatto che questo mondo ha due polarità, verso l'alto (la casa delle Ap-parizioni) e verso il basso (sottoterra): il discrimine decisivo è la direzione della polarità in un movimento, il cui modello è la seduzione erotica.  Tutte le anime sémoventi si muovono, il compito -spesso non facile- è vedere se stanno scendendo o salendo, se stanno ricordando o dimenticando.  In effetti, abituati come siamo al rasoio logico post-aristotelico secondo cui c'è il vero o il falso, e ogni terzo valore di verità è escluso, abbiamo oggi difficoltà nel cogliere lo stile, il ritmo direi, dello scaglionamento platonico della verità, la sua inquietante gerarchia dell'autentico e dell'inautentico.  In Platone al posto della dicotomia logica aristotelica vero/ falso c'è una gerarchia del verosimile, una gamma discreta ma continua tra essere e non-essere, tra apparire e trasparire.  Nell'universo del Fedro tutto è gerarchizzato, persino gli dei: in cima c'è Zeus, che guida gli amanti gioviali (philosophoi, philokaloi, mousikoi, erotikoi), e poi via via falangi di sémoventi sperequati dalla loro maggiore prossimità o distanza dalle Ap-parizioni.  Ma nessun essere umano, nemmeno Socrate, accede in quanto umano al trascendente, tutt'al più ascende verso di esso.  La filosofia, il desiderio di sapere e vedere, è una qualità sempre relativa, se ne può cogliere il chiarore persino nei sofisti, addirittura nei tiranni (infatti, se i tiranni non avessero visto uno spicchio, per quanto minimo, di verità, non sarebbero nemmeno esseri umani, ma bestie, o vegetali). 

     La lunga tradizione cristiana, certo anche intrisa di platonismo attraverso la mediazione neo-platonica, ha ereditato piuttosto l'etica dello stoicismo, che era la rinuncia al desiderio, e quindi un'ascesi privativa di eros.  Al contrario dello stoicismo -e quindi dell'ascesi cristiana- il platonismo originario è un'apoteosi cosmica dell'eros, non certo la rinuncia ad esso, o la sua cancellazione. 

     Ma allora, come essere sicuri in quale direzione va il sémovente parlante?  Se tutto il mondo sensibile e parlante manifesta le Ap-parizioni, con luce più o meno vivida o spenta, come discriminare il filosofo che davvero dice la verità dal sofista che dice il verosimile?  Come rispondere ad Aristofane o ad Isocrate, che mettevano in uno stesso sacco Socrate e i sofisti, chi seduceva per il proprio desiderio di verità e chi seduceva per il proprio desiderio di seduzione? 

     Nel caso specifico dell'eros, la domanda sarà allora: se ogni volta che si è attratti da un bel ragazzo in realtà è l'Apparizione della Bellezza che brilla nel bell'aspetto del ragazzo, che cosa distingue il filosofo - capace di vedere la Bellezza aldilà delle cose belle - da chi si accontenta di queste cose belle?  E' evidente che Socrate desidera eroticamente Fedro, ma che cosa lo distingue allora da qualsiasi altro erastes che lo concupisce?  La risposta che i secoli successivi hanno letto è l'"amor platonico" appunto, vale a dire la rinuncia alla consumazione sessuale come modo di accesso all'idea di Bellezza.  Ma vediamo come il testo platonico ci mostra questa rinuncia alla consumazione.

 

     L'anima, come sappiamo, è rappresentata come una biga tripartita: c'è l'auriga, c'è il cavallo bianco buono, e il cavallo nero cattivo.  Questa tripartizione ha impressionato per secoli, e oggi -affascinati dalla tripartizione freudiana, in qualche modo affine- più che mai; ma ben pochi sono stati impressionati dal fatto che l'anima nel suo insieme sia rappresentata come uno strumento di locomozione.  Ciò che secoli di psicologia cristiana ci hanno fatto perdere, è la co-essenzialità platonica (e forse in generale greca) tra psyche e kinesis, tra anima e motilità.  L'anima è una biga perché, come quest'ultima, è sémovente.

 

 

I cori delle anime non smettono di muoversi, anche quando contemplano le Ap-parizioni: siccome la volta celeste gira, essi mirano le Ap-parizioni una alla volta.  La loro comtemplazione ricorda quella che avviene sulle ruote dei luna park, gradite soprattutto alle coppiette, quelle che, girando con moto circolare uniforme, compiono una rivoluzione panoramica.  La theoria di ciò che non muta avviene secondo un girotondo "cinetico".  Persino le sémoventi divine restano ancorate all'universo sensibile, che non cessa di girare. Occorre anzi che le sémoventi divine si allontanino dal focolare, cioè dall'immobilità: solo girando nell'ottavo cielo si guarda (ma non vi si accede!) ciò che non muta.  L'orbitare hermetico dell'universo va filosoficamente esaltato perché l'anima si nutra dell'ousia esorbitante.

 

     Il problema platonico non cessa di essere attuale, anche se oggi la filosofia è lontana dal considerare il mondo sensibile apparenza e segno.  Ma non appena la filosofia investe temi come la letteratura, l'arte e il desiderio -quindi, i temi specifici del Fedro- vale a dire il campo delle produzioni e affezioni umane, i dilemmi platonici tornano in forza, e in forme appena modernizzate.  Non appena il pensiero occidentale tenta la via dialettica quando si tratta di considerare le produzioni artistiche, la volontà di potenza o le pulsioni, ci si ritrova con il problema platonico per eccellenza: nel mondo delle rappresentazioni, quali devono essere considerate vere, autentiche, sane, "progressive", e quali invece vanno considerate false, inautentiche, nevrotiche, "regressive"?  In che misura l'arte rivela, è "filosofica", e in qual misura invece essa cela, mancando la filosofia? Il freudiano, ad esempio, si porrà il problema: "che differenza di natura c'è tra l'interpretazione nevrotica che lega e l'interpretazione analitica che slega?"  Il critico d'arte si porrà il problema: "che differenza c'è tra una pittura che rappresenta in modo impeccabile e seduttivo il suo modello e una pittura che mira a rivelarci una verità del modello?"  Il militante marxista si porrà il problema: "che differenza c'è tra l'ideologia, che razionalizza un rapporto di potere, e la presa di coscienza, che rivela la realtà di questo rapporto di potere?"  Lo psicoanalista, il leader politico che intende cambiare il mondo, il critico d'arte o letterario, sono tutti technikoi platonici nella misura in cui pretendono di rivelare una verità inapparente dietro il mondo oggettivo o seducente delle rappresentazioni.

 

 

Insomma, per Platone l'universo sensibile è come un sogno nel senso di Freud - per questi, difatti, il sogno è tutto metaforico, e rimanda al desiderio.  La differenza del mondo sensibile platonico rispetto al sogno freudiano è nel fatto che esso non metaforizza il desiderio, anzi, la natura profondamente e intrinsecamente desiderante del mondo sensibile è una metafora dell'Ap-parizione, del reale vero. 

 

Ci si è talvolta chiesto perché Platone qui metta in scena questa specie di fuga dal focolare cittadino, perché insomma sia l'unico dialogo che si svolge in un ambiente agreste.  Di solito, si risponde dicendo che, trattando di Eros, è normale che ninfe, ruscelli e platani facciano da fondale.  Ora, né per i greci né per Platone stesso l'Eros è per natura extra-urbano. Nel Simposio, al contrario, l'orgia di elogi a Eros si svolge in un luogo urbano e socializzato quanto altri mai, vale a dire il Simposio.  Nel Fedro quindi si affronta il versante selvaggio, inurbano, insomma panico dell'Eros, in quanto esso ci porta (come Hermes) fuori dalla città, lontani dall'Acropoli e dal Focolare. In effetti, Fedro e Socrate si allontanano dalle mura in questa sorta di picnic filosofico esattamente come - ci racconterà Socrate stesso - le anime divine e il loro seguito dovranno pur spostarsi dalla loro Hestia celeste per poter godere della visione e del nutrimento delle Ap-parizioni.  Questo è un punto essenziale, che sfugge ai commentatori anche se è reiterato nella struttura stessa del Dialogo: che l'accesso al reale, o alla verità se si vuole, non è permanente, continuo, un'estasi ininterrotta, ma una sorta di parentesi, di vacanza breve dal sensibile, di fuga temporanea dalla propria casa.  E difatti, il Fedro può concludersi solo quando, incoraggiati dalla prima frescura pomeridiana, sopravvissuti alla pazzia panica del mezzogiorno di fuoco, Fedro e Socrate decidono di tornarsene a casa. Essi ritornano così come le sémoventi divine tornano a casa dopo il godimento del reale nell'Oltre-cielo.  Contrariamente a quanto le metafisiche estatiche successive - soprattutto cristiane - ci inducono a credere, persino le sémoventi divine hanno bisogno di una dieta di verità: contemplare in permanenza il reale sarebbe una hybris, mentre il principio della sophrosyne (che vale persino per gli dei) esige che ci si conceda la gioia della verità con una certa oculatezza, in una sorta di gioiosa ferie dalle icone domestiche.

     Non diversamente accade nell'altro grande mito dell'accesso alla verità come E-videnza o Ap-parizione: l'uscita dalla caverna delle ombre, raccontato nella Repubblica.  Venir fuori dal buio delle apparenze è uno shock per il soggetto, che rischia di essere accecato dalla chiarezza meridiana della verità; il suo occhio si deve abituare a tanta luce.  Non solo, ma è essenziale che poi chi ha visto la vera luce poi torni nella caverna, a rivelare a chi non ha visto che la verità è altrove.  Di solito si interpreta questo ritorno del filosofo nella caverna in chiave altruistica, di generosità politica: siccome il filosofo è anche buono, rinuncia alla gioia permanente della visione del vero per diventare il divulgatore, il militante della verità tra i suoi poveri concittadini.  Ma sappiamo che l'altruismo platonico è relativo, e certo molto lontano dagli affratellamenti cristiani come dai solidarismi democratici.  In verità, nemmeno il filosofo può reggere a lungo la luce della verità, c'è un tempo del ritiro, un temperamento dello splendore meridiano con la penombra notturna dell'apparenza. 

 

 

Il sofista è veramente il personaggio più inquietante nel platonismo come saranno poi inquietanti i sosia e i gemelli nella Commedia Nuova: il sofista è il sosia del filosofo, e chi non è esperto rischia continuamente di prendere l'uno per l'altro. (E anche oggi, quando vediamo sfilare nelle passerelle televisive certi filosofi del momento, nuovi o vecchi, che blaterano i loro messaggi a uso delle platee, quando sappiamo bene della nullità del loro contributo filosofico, non siamo preoccupati da un equivoco del tutto simile a quello delle democrazie di allora?) Platone, come ancora noi oggi, deve essersi interrogato a fondo sul perché la Città abbia condannato a morte come sofista proprio l'unico che, tra i "filosofi", non lo era.  Perché Aristofane nelle Nuvole descrive come cinico sofista proprio uno come Socrate che più che mai li combatteva?  Perché un oratore intelligente come Isocrate - a cui Platone stesso rende omaggio nel Fedro - accomuna i sofisti e Platone in uno stesso fascio di cialtroneria?  Perché Socrate ha passato la vita a criticare il cinismo nichilista dei sofisti, e viene condannato come cinico nichilista?  Certo, si potrebbe rispondere, la gente profana non ha lo sguardo acuto, non sa distinguere il gemello buono da quello cattivo - il cavallo bianco da quello nero - e quindi la confusione è comprensibile.  Ma ciò che, in fondo, Platone vuol trasmetterci è che la polis democratica che condanna Socrate in quanto sofista nichilista lo fa perché essa stessa è intrinsecamente sofistica e nichilistica.  Attraverso una sentenza politica, promossa dai benpensanti, è la sofistica che uccide Socrate, in quanto la democrazia - che si fonda sulla doxa, cioè sulla verosimiglianza dell'eikon - vede nella filosofia una minaccia mortale.  La filosofia, ci dice insomma Platone, è intrinsecamente aristocratica, "spartiata", perché punta alla verità che mal si distingue dalla sua icona. La democrazia invece è sofistica perché si abbevera delle opinioni e delle icone, prendendole per verità.  Nel trionfo democratico dell'apparenza, di cui i sofisti sono maestri, viene uccisa la devozione filosofica alla realtà come Ap-parizione. E noi, che ormai viviamo in democrazie molto più cosmopolitiche di quella che conobbe Platone, come possiamo dargli del tutto torto?

     Ora, il sofista, gemello inverso del filosofo, è l'uomo dell'eidolon, mentre il filosofo è l'uomo dell'eidos; ma appunto, anche eidos ed eidolon sono due termini molto simili, irreparabilmente connessi.  Anche i termini sophistes e philosophos sono del resto legati strettamente: in entrambi i casi si tratta di sophia.  Ma allora, che cosa ci farà distinguere l'originale - il filosofo che sale verso l'eidos - dal suo doppio caricaturale - il sofista che scende verso gli eidola?

     Anticipiamo la risposta che Platone tenterà piuttosto nel Sofista: la differenza sta nel fatto che il sofista pretende di possedere il sapere, mentre il filosofo non lo possiede, ma proprio per questo lo desidera.  Chiunque crede di possedere il bene è nell'errore o nella truffa; chiunque, come Socrate - il filosofo per eccellenza -, sa di non possedere il bene, e desidera ciò di cui manca, è nella verità.  Essere nella verità significa riconoscere che non abbiamo la verità, che siamo nelle parvenze.  In qualche modo, in ogni uomo di sapere c'è una parte (sinistra) di sofista e una parte (destra) di filosofo, proprio come ogni sémovente umano è composto di due cavalli, l'intemperante (a sinistra) e il temperante (a destra).  Ora, nel desiderio erotico "la sinistra intemperante" tende a possedere il ragazzo amato, mentre "la destra temperante", obbediente all'auriga, rinuncia al possesso.  Analogamente, il filosofo è chi ha rinunciato al sofisma, cioè alla pretesa di sapere (mentre Socrate ci dice continuamente che quello che egli sa gli proviene dagli dei o dalle muse, in uno stato "pazzo" di invasamento).  Così come nella pederastia la rinuncia a possedere sessualmente l'amato apre la via al desiderio della Bellezza nel suo apparire autentico, analogamente nel sapere la rinuncia a possedere sofisticamente il sapere apre la via al dialogo filosofico, cioè alla possibilità di accedere al reale attraverso l'altro.  Il possesso lussurioso del corpo amato così come il possesso sofistico del sapere ci risparmia gli specchi, vale a dire la pupilla dell'altro e la risposta dell'altro nella conversazione dialogica.  Le ali dell'anima si nutrono non di possesso ma di visione, cioè di distanza dalla verità: il vero sapere è rinuncia a possedere, anche e soprattutto la verità e il reale.  Da qui la paradossalità del "pasto" filosofico: solo nella misura in cui si rinuncia a divorare l'essere, ci si nutre di esso. 

 

 

Il filosofo non solo può ma - mi dispiace per i moralisti - deve desiderare i ragazzini, anche se non li incula.

 

Il Fedro si confronta con la dimensione hosiaca della religione, e quindi dell'erotismo, greci.

 

 

 

E' vero che per Platone il mondo è solo segno di qualche altra cosa, ma, diversamente da molti filosofi materialisti e sensualisti, egli è molto attento a questo mondo-segno, che descrive spesso in tutta la sua crudezza.

 

Socrate insegue il discorso di Lisia oppure il pene di Fedro? Qui è la deliziosa ambiguità del platonismo.  Ambiguità che ha il suo riverbero concettuale, quando ad esempio Socrate discute con Protagora dell'insegnabilità della virtù: ....

 

 

In fondo, pulsante di movimento, la filosofia, facoltà maschile, non ignora ma trascura Hestia, vale a dire la femminilità immobile e schiva.  Ma così facendo, la filosofia ha mancato un'occasione unica: vedere in Hestia la mediazione che ci voleva tra sensibile e intelligibile, tra la luce accecante delle Ap-parizioni e la penombra delle parvenze sensibili.  Platone, e attraverso di lui la filosofia, ha mancato il fatto che la terra (Hestia) non è solo sonno e oblio, ma anche rivelazione e memoria.

 

Per noi moderni il cielo è davvero immenso, abissale, inumano.  Per i Greci invece aveva ancora dimensioni concepibili, era come una casa che copre e protegge. 

 

Per gli antichi, il cielo non era solo come il tetto della casa, era anche "di casa".

 

Il filosofo vero è SENZA OPINIONI, mentre oggi conta solo AVERE OPINIONI GIUSTE.

 

 

L'ambiguità della filosofia, docta ignorantia, riflette a sua volta l'ambiguità degli enti, sospesi sempre tra la rivelazione e la maschera.

 

Come l'erastes platonico, anche il Dialogo platonico è CONTROLLATO da Sophrosyne ed Aidos. L'interlocutore è come l'amasio. Vale a dire, Socrate non RAGGIUNGE mai l'interlocutore, non lo possiede, ma gli offre uno specchio desiderante.

 

Come Galileo ha eliminato la fisica aristotelizzante con un Ritorno a Platone, analogamente nelle pratiche umane Marx, Nietzsche e Freud hanno riplatonizzato un universo ormai dominato dalla razionalità cartesiano-kantiana.

 



    [1]Cfr. Iliade, V 4-8; XI 62; Esiodo, Le Opere e i Giorni, 414-17; Scholia vetera in Hesiodi Opera et dies, 417a e 588-90 ed. Pertui; Archiloco, fr. 85 Lasserre-Bonnard da Plutarco, Questioni conviviali III 10.1, p. 658B; Arato, Fenomeni 331-321 e Scolii ai Fenomeni di Arato, 330, p. 408 I sgg., ed. Maass.  Marcel Detienne, I giardini di Adone, p. 13, 41.

 

    [2]Esiodo, Opere, 582-87; Alceo, fr. 347 Lobel e Page.

 

    [3]Esiodo, Opere, 582-84.

 

    [4]Esiodo, Opere cit., 586-7.

 

    [5]Cfr. Alceo, fr. 347 4 Lobel e Page. Detienne, cit., pp. 153 e 162.

 

    [6]Aristotele, Problemi IV 25, p. 879a 26 sgg. Cfr. IV 28, p. 880a 12 sgg.  Cfr. Scholia vetera in Hesiodi Opera, 582-87, ed. Pertusi.

 

    [7]Esiodo, cit., 585-6.

 

Flussi © 2016Privacy Policy