Flussi di Sergio Benvenuto

LO SPECCHIO DELLA POTENZA26/mag/2016


EROS E VOLONTA' DI POTENZA NELL’”ALCIBIADE I” DI PLATONE [2002]

Sergio Benvenuto

    Alcibiade Primo e Alcibiade Secondo sono considerati due dialoghi minori di Platone, spesso espunti senza tanti complimenti dalle edizioni delle Opere Complete platoniche. Questo a dispetto del fatto che la loro autenticità pare oggi appurata. Eppure, entrambi trattano temi che oggi polarizzano più che mai la modernità - il primo concerne la volontà di potere politico, il secondo il rapporto tra ciò che desideriamo e ciò che è bene.
Qui ci occuperemo dell'Alcibiade Primo; anche perché indirettamente chiarisce i rapporti filosoficamente significativi tra Socrate e Alcibiade. Questi non sono due interlocutori qualsiasi: la loro relazione è in qualche modo il paradigma della relazione maestro-amante e pupillo-amato in tutta la paideia platonica. In questo dialogo emerge il legame imprescindibile tra la volontà di potenza dell'uomo e la presenza dell'Altro, come agente od oggetto sia del desiderio erotico che del sapere-potere.


1. Il fascino discreto della Volontà di Potenza

    L'Alcibiade Primo si situa in un momento preciso della vita di Alcibiade: quando, diciannovenne, decide di entrare in politica, e si appresta ad andare nell'agorà per parlare agli Ateniesi. Siamo nel 431 a.C., è un momento in cui fare politica è fare la guerra, dato che Atene è già in conflitto armato con Sparta - questo spiega probabilmente la prevalenza delle metafore militari in questo dialogo.
Fino a poco tempo prima molti erastaí (innamorati) ronzavano attorno ad Alcibiade, perché è bellissimo, ricco e pieno di talenti. Ma ora questi amanti lo hanno abbandonato. Perché, pare, con la sua spocchia Alcibiade li ha scoraggiati tutti; ma soprattutto perché da tempo ormai egli si rade: a diciannove anni è troppo vecchio per essere un eroménos, un amasio. E’ tempo insomma di aver successo non più con gli innamorati maturi, ma con la politica. Insomma, sta passando dalla vita di adolescente, dominata dalla pederastia, alla vita adulta, dedicata alla lotta per il potere politico.
Socrate da anni segue Alcibiade. Ma, a differenza degli altri spasimanti, non gli ha mai rivolto la parola. Si decide solo ora a farlo (se dobbiamo prendere alla lettera il riferimento storico del Dialogo, Socrate all’epoca aveva 38 anni), quando intuisce che il giovane sta per darsi alla politica. Anche se Socrate non si è mai fatto avanti, è stato il solo a restare vicino, silenziosamente, al figlio di Clinia, anche dopo che gli è cresciuta la barbetta. Si tratta quindi – nella finzione platonica - della prima conversazione che Socrate e Alcibiade ebbero mai tra loro.
Prima, confessa Socrate, un "impedimento divino" non gli aveva permesso di parlargli. In effetti, tutto questo dialogo è una parodia della dichiarazione d'amore che ogni erastés era supposto fare, a un certo punto, al suo eroménos. Senonché questa "dichiarazione" avrà un andamento paradossale, non solo perché è tardiva (Alcibiade è troppo vecchio per essere eroménos), ma perché Socrate, lungi dal lusingarlo - come era d'uopo -, mostra chiaramente ad Alcibiade che lui è solo un ignorante, e che potrà combinare qualcosa in politica solo se sceglierà Socrate come amante-maestro.
    Socrate dice subito ad Alcibiade che cosa ama di lui:

Perché io, caro Alcibiade, se ti avessi visto soddisfatto dei beni che ti ho enumerato (…), e convinto a passare la vita nel godimento di questi, già da tempo avrei troncato il mio amore... (...) Difatti io credo che se uno degli dei ti dicesse: "Caro Alcibiade, vuoi forse continuare a vivere con tutto ciò che ora possiedi o morire piuttosto, subito, se non ti sarà possibile conquistare cose maggiori?", io credo che tu preferiresti morire. (...) Tu pensi che non appena verrai davanti all'assemblea popolare di Atene (...) dimostrerai agli Ateniesi che tu sei degno di onore più dello stesso Pericle o di tutti gli altri che sono mai esistiti, e che (...) diventerai l'uomo più potente del nostro stato. (...) E se di nuovo quello stesso dio ti dicesse che tu puoi essere il signore di Europa, ma che non ti sarà consentito di passare in Asia né mettere mano negli affari di quel paese, ancora, credo, non ti accontenteresti di vivere a queste sole condizioni, a meno che non potessi riempire del tuo nome e della tua potenza per così dire tutto il mondo.

Insomma, Socrate ama la Volontà di Potenza di Alcibiade - vedremo fino a che punto ironicamente. Questa sua volontà di potenza è descritta come senza limiti, come volere sempre di più, e fonte quindi di perenne insoddisfazione. Qui il rapporto tra Socrate e Alcibiade presenta quindi un elemento di similarità e di contrasto con il Simposio, dove il loro rapporto sembrava imperniarsi invece sul desiderio sessuale: là Alcibiade si innamorava (senza saperlo) del desiderio erotico di Socrate, qui invece Socrate si innamora del desiderio di potere del giovane. Anzi, mentre nel Simposio Alcibiade desidera il desiderio erotico di Socrate, nell'Alcibiade Socrate vuole potere su Alcibiade, perché vuole la sua volontà di potenza. In entrambi i casi, entrambi paiono avere la stessa volontà e lo stesso desiderio.

Come tu speri di mostrare ai cittadini [di Atene] - dice Socrate - che meriti ogni onore da loro e (...) di poter fare immediatamente qualunque cosa, così anch'io spero di guadagnare presso di te il più grande potere dopo averti mostrato che merito ogni onore da te.

    E' un paradossale intersecarsi di volontà parallele: Alcibiade si decide ad andare a parlare agli Ateniesi, Socrate si decide a parlare ad Alcibiade. Il momento di questo dialogo è quello della decisione di parlare: da una parte la decisione di entrare nell'arena politica, dall'altra la decisione di entrare in un rapporto amoroso. Alcibiade vuole parlare per avere potere sulla città, e poi sul mondo intero; Socrate vuole parlare per avere potere sul suo amato. Insomma, Socrate sembra amare in Alcibiade – in modo speculare - la sua propria volontà di potenza.
Come si può vedere anche solo da questo dialoghetto, Nietzsche, tematizzando apertamente la Wille zur Macht come verità essenziale dell'Essere (per dirla come Heidegger), ha solo esplicitato qualcosa che già nella filosofia antica era riconosciuto: una particolare volontà di potenza guida l'intrapresa filosofica - anche se essa non può appiattirsi, come Socrate stesso mostrerà, sulle ambizioni politiche. Ricordiamo che all'epoca l'impegno massiccio nella vita politica della Città era la caratteristica di ogni cittadino ateniese degno. Invece Platone brucia le tragedie che aveva scritto, non fa politica, e nella Settima Lettera spiega anche perché: si dedica completamente al ragionare dialettico di Socrate. Ma allora, se anche Socrate come Platone non si impegna in politica, in che cosa consiste la loro volontà di potenza? Più avanti la risposta verrà quasi da sé.
    Il testo, ironicamente, tenderà a rovesciare man mano questo punto di partenza. Alla fine, realizzeremo che Socrate amando la volontà di potenza del suo amato vuole qualche cosa che è a un tempo la vera volontà di potenza e il suo aldilà, vuole una hyper-dynamis, una super-potenza, potremmo dire: vuole conoscere la propria anima, per possederla. Il suo desiderio di potere su Alcibiade è l'allegoria del suo desiderio di sapere-potere (su) se stesso.


2. L’arma dei poveri

    Socrate comincia col chiedere ad Alcibiade perché egli pensi di poter consigliare bene gli Ateniesi. Se "fare politica” è sapere che cosa sia giusto, utile, bello e buono per la propria città, occorre prima di tutto sapere che cosa sia il giusto, l’utile, il bello e il buono. Ma Socrate fa ammettere ad Alcibiade che nessuno gli ha insegnato che cosa sia giusto e cosa no, che cosa utile, che cosa buono e bello; quindi egli non lo sa.
    Alcibiade ribatte dicendo che lui ha imparato il giusto dalla gente di Atene, così come ha imparato la sua lingua materna. Oggi diremmo che la replica di Alcibiade è wittgensteiniana: il sapere ci viene dal linguaggio comune, dalla nostra concreta forma di vita storica.
Qui Alcibiade espone la posizione che sarà di Protagora nel dialogo omonimo. Nel Protagora il tema è quello dell'insegnabilità dell'areté, virtù. Notiamo che l'areté greca non si risolve nella nostra "virtù", intrisa di valori cristiani e quindi di connotazioni passive e ascetiche. L'areté greca è più prossima alla virtus latina, vale a dire al coraggio, a un'abilità attiva, e il suo modello è l'andreía, il coraggio bellico, qualità squisitamente maschile.  Non a caso Protagora, proprio in quel dialogo, isola il coraggio da tutte le altre virtù, come saggezza, santità e giustizia, ponendola in una posizione paradigmatica, preminente.
Per Protagora (in questo già hegeliano) la virtù viene insegnata non da maestri specializzati - come quelli che insegnano la scherma o il canto - ma da tutti coloro che ci circondano: genitori, maestri di scuola, concittadini. Insomma, impariamo la virtù come impariamo la lingua che abusivamente oggi chiamiamo materna, entrambe sono trasmesse dalla Gemeinschaft, comunità, a cui apparteniamo. Qui Alcibiade sostiene una tesi analoga. E noi Moderni certo tendiamo a simpatizzare piuttosto con le tesi protagoriana e alcibiadesca che con quella socratica. Ma cadremmo in errore se attribuissimo al Socrate platonico quell'ingenuità razionalista che i secoli successivi gli hanno appioppato. Come vedremo, Socrate insegna la virtù ma non nel senso che egli fornirebbe la definizione corretta della sua essenza, l'approccio "scientifico" e specialistico a essa.
    Ora, Socrate mostra che la società, la gente, non ci insegnano che cosa siano cose come il giusto, l'utile, il bello e il buono. Anzi, le opinioni comuni sono ignoranza, come dimostrano le continue divergenze politiche tra cittadini su ciò che è giusto, utile, bello e buono. Per l'aristocratico Platone – e forse già per il secolare Socrate - la democrazia e i suoi dibattiti sono la palestra dell'ignoranza, e non un processo in cui si produce un sapere collettivo. E tanti intellettuali di oggi, assediati dall’interminabile chiacchiera mediatica che ci assedia e ci assorda, come potrebbero non condividere questo disgusto del filosofo antico?
    In sostanza - dice Socrate - Alcibiade non ha avuto un vero maestro. Né Pericle, che lo ha adottato, ha dimostrato di esserne davvero uno. In effetti, se Pericle fosse stato sapiente, avrebbe reso sapienti anche altri. Ma, insinua Socrate, "puoi nominarmi uno solo che Pericle abbia reso sapiente, a cominciare dai suoi figlioli?" In realtà, i figli di Pericle sono due sciocchi, e anche i figli adottivi, Clinia e Alcibiade, sono tutt'altro che sapienti. Certo, criticando Pericle Socrate reclamizza se stesso come maestro. Ma - qui è il punto - Socrate sarà un buon amante-maestro perché egli invece sa che cosa siano il giusto, l'utile, il buono e il bello? Nulla in questo dialogo (ma anche negli altri Dialoghi "socratici") ci mostra che Socrate, a differenza di Pericle, lo sappia. Il solo vantaggio di Socrate è che egli sa di non sapere che cosa siano il giusto, l'utile, il bello e il buono; queste cose le sa il suo dio, ma non lui stesso. Hegel disse che l'ironia socratica è ingenua, nel senso che è anche sempre un'auto-ironia. E l'errore maggiore di Alcibiade è di mancare di auto-ironia, è di credere che egli sappia, mentre in realtà non sa.
    Messo alle corde, Alcibiade dice "so bene che solo con le mie doti naturali avrò con estrema facilità ragione [dei potenti di Atene]". All'encomio razionalistico dell'educazione oppone le ragioni del talento naturale. Socrate schiva l'obiezione facendo notare che egli non deve aver ragione degli Ateniesi, ma degli Spartani e dei Persiani loro nemici. E costoro hanno maggiori "doti naturali" degli Ateniesi e quindi di Alcibiade stesso. Socrate si dilunga nel cantare le lodi della potenza e della virtù di Spartani e Persiani, che descrive come migliori dei Greci. Gli mostra che lui ha meno doti dei suoi avversari, e quindi solo il sapere può aiutarlo ad avere ragione di questi nemici così naturalmente superiori. La filosofia è l'arma dei poveri, sembra dire Socrate. Questo perché la molla fondamentale della filosofia è Eros, ed Eros è figlio di Povertà, come dirà nel Simposio. Gli Spartani e i Persiani, più ricchi di qualità degli Ateniesi, forse non hanno bisogno di filosofia, ma l'ateniese Alcibiade, poveraccio, ne ha davvero bisogno. E la filosofia, aggiunge Socrate, consiste nel seguire l'oracolo delfico, "conosci te stesso". Mentre Alcibiade si accontenta di "avere grazia", talento naturale, Socrate invece gli dice "conosci te stesso". Ma in che modo il buon maestro permette al pupillo di sapere se stesso?
    Socrate ammette che lui stesso va educato non meno di Alcibiade:

Non c'è nessuna differenza fra me e te tranne in una cosa [...] Il mio tutore è migliore e più saggio del tuo Pericle.

E questo tutore, aggiunge, è

un dio, caro Alcibiade (...) e facendo affidamento su di lui dico che la rivelazione di te stesso dipenderà da nessun altro che da me.

Qui Platone riafferma un punto centrale della sua filosofia: che solo grazie all'Altro (chiamato qui tutore) il soggetto si sa e quindi si migliora. Ma questo Altro - si tratti di un dio o di Socrate stesso - ha caratteri alquanto particolari: l'Altro migliore è o uno che non sa, o uno che non dice direttamente ciò che sa.
In effetti, il dio non parla a Socrate se non indirettamente, spesso per inibizioni - come quando gli impedisce di affrontare Alcibiade parlandogli. Il dio non dice a Socrate cosa deve fare; oggi diremmo che è come un semaforo, verde o rosso, si limita a lasciarlo andare o a dargli l'alt. Questo dio svolge una funzione molto simile a quella dell'interlocutore nel dialogo socratico: questi per lo più svolge proprio questo lavoro semaforico, dando di volta in volta – ma non sempre - il segnale verde al discorso di Socrate. (Il dialogo è la forma propagandistica, ipocrita, della persuasione.) Anche Socrate si propone come tutore ottimale proprio nella misura in cui, come egli ribadisce, sa solo di non sapere. Nel dialogo il soggetto non va convinto del punto di vista di Socrate, ma deve ri-conoscere del proprio pensare qualcosa che prima non ri-conosceva.
    Oggi ci è difficile accettare questo punto di vista in quanto vediamo i Dialoghi platonici come dei falsi dialoghi. Ci rende perplessi il fatto che parli quasi sempre Socrate, e che i suoi interlocutori si limitino a concedere la luce verde a ogni passaggio. Oggi la dialettica erotica socratico-platonica è stata sostituita dalla psicoanalisi. Qui l'analista, come il dio e l'interlocutore di Socrate, di solito tace, e si limita a dare il segnale rosso o verde al monologo dell'analizzante. E' vero, sia il Dialogo platonico che la psicoanalisi sono falsi dialoghi.  Ma esiste di fatto il vero dialogo, altrimenti che come ideale?
Ma anche se oggi siamo inclini a vedere la maieutica socratica più come lavaggio del cervello, è pur vero che, se non avesse l’interlocutore, Socrate non potrebbe pensare. Il pupillo-amato è indispensabile al tutore-amante non meno di quanto sia l'inverso. Socrate straparla, ma la sua parola si offre come uno specchio - come vedremo meglio tra un po'- dove l'interlocutore vedrà "il proprio" stesso pensiero. Ma questo "proprio pensiero" non è affatto privato o intimo: è pensare finalmente Verità universali. E il tutore-amante può farsi specchio del discepolo-amato perché il primo sa qualcosa che il secondo non sa: sa di voler sapere. Certo, se il tutore di Socrate è un dio, non possiamo dire che il dio non sappia: ma il dio non dice ciò che sa, offre solo uno specchio perché Socrate vi scorga il divino che è nel suo pensare.


3. La pupilla di Socrate

    "Prenditi cura di te", dice insomma Socrate ad Alcibiade. Ma che cosa significa questo? Se occorre che Alcibiade, come qualsiasi uomo, conosca se stesso, che cosa è questo se stesso? Chiede Socrate.

"Potremmo forse conoscere qual è l'arte che migliora l'uomo stesso se non sapessimo chi siamo noi stessi?"

E allora, che cosa è l'uomo?
Per rispondere a quest'ultima domanda, Socrate distingue tra lo strumento e chi usa lo strumento. Il corpo dell'uomo è uno strumento, e chi usa il corpo come strumento non può essere il corpo stesso: è l'anima, psyche, a usarlo. Per cui "conosci te stesso per migliorarti" va inteso come "conosci la tua anima per migliorarla". A differenza degli altri amanti, che amavano il corpo di Alcibiade, Socrate ama la sua anima, e per questo non la abbandona: "chi ama la tua psyche non se ne andrà fintanto ch'essa si muova per la via del meglio". E l'ambiguità diventa toccante quando Socrate, dopo aver detto che gli resterà vicino anche dopo lo sfiorire del corpo, aggiunge "Però cerca d'essere il più bello possibile!".
    "...[F]intanto ch'essa si muova per la via del meglio": l'anima per essenza deve muoversi, anche se non è detto che ogni anima si muova verso il meglio. Qui Socrate anticipa la teoria dell'anima che esporrà nel Fedro. L'anima è essenzialmente ciò che si muove da sé, che è in sé fonte e principio del movimento (e viceversa, tutto ciò che è mosso invece da altro in prima istanza è mosso da un'anima). La kínesis, il movimento, è coessenziale all'anima, che potremmo chiamare anche semovente o automotrice. La semovente può muoversi verso l'alto (verso le Idee che non si muovono, e che attraggono l'anima come il bel ragazzo attrae l'erastés) oppure verso il basso, l'oblio, la terra. Ora, qui Socrate ribadisce di amare l'anima-semovente di Alcibiade per il suo desiderio di migliorarsi, cioè di muoversi verso l'alto. Ma in questo caso il desiderio di migliorarsi è potenza - nei termini del Fedro, la potenza di volare. Dietro la volontà di potenza del giovane presuntuoso, Socrate legge una idealità, ciò che oggi chiamiamo Volontà di Volontà.
    Tutto il Dialogo è la dichiarazione d'amore di Socrate, anche se tinta di ironia, perché egli ama l'anima di Alcibiade, ma in quanto questa anima... vuole di più. E' una semovente che si muove verso l'alto proprio perché non si placa in ciò che ottiene, ma vuole sempre oltre.
    Comunque, il parallelismo tra filosofia e innamoramento è condotto con grande maestria, perché Socrate fa anche una specie di scenata di gelosia:

Perché questo è ciò che io temo soprattutto, che tu ti guasti diventandomi innamorato del popolo, giacché altri già, anche nobili, hanno subìto lo stesso effetto, degli Ateniesi. Perché il "popolo di Eretteo dal gran cuore" ha bellissima maschera ma tu dovresti vederlo senza la maschera al volto.
                      

Il tono è quello di una donna gelosa che urla all'amante "tu trovi quella lì tanto attraente, ma dovresti vederla senza trucco!" Socrate ha un rivale in amore: il popolo di Atene. Tutto il dialogo verteva sul fatto che per fare politica non basta affatto il sapere che ci viene trasmesso dalla comunità, ma occorre un tutore divino - e questa divinità Socrate la garantisce indirettamente, perché il suo tutore è un dio. Invece il popolo ateniese è come una donna con una bella maschera: ma il suo volto nudo - avverte Socrate - è tutt'altro che bello. Quindi, occorre che Alcibiade non sia un amante ingenuo, che non demorda dalla propria volontà di potenza, ma che ami ciò che va veramente amato, la sua anima che vuole potere, cioè che si muova sempre oltre. In questo, Alcibiade - certo più di Socrate - anticipa l'uomo moderno così come è stato tematizzato dalla filosofia e dalla letteratura del Novecento; in particolare dal nietzscheismo e da certo esistenzialismo. Ad esempio Caligula, l'eroe del dramma omonimo di Albert Camus, l'uomo più potente del mondo, ne fa di tutti i colori perché "vuole la luna", letteralmente: il suo vero desiderio è impossessarsi dell'astro. La volontà di potenza ci fa desiderare sempre e soprattutto ciò che non possiamo avere.
    E' interessante che l'amante-tutore Socrate si descriva come amante l'anima di Alcibiade, ma che ad Alcibiade non chieda in contraccambio che questi ami la sua [di Socrate] anima. Invece, propone ad Alcibiade un patto, a condizione che Alcibiade ami il miglioramento della propria anima.
    Ma allora, come possiamo conoscere la nostra anima?

Socr. Hai osservato che a guardare qualcuno negli occhi si scorge il volto nell'occhio di chi ci sta di faccia, come in uno specchio, che noi chiamiamo pupilla (kóre), perché è quasi un'immagine di colui che la guarda?    
Alcib. E' vero.
Socr. Dunque, se un occhio guarda un altro occhio e fissa la parte migliore dell'occhio, con la quale anche vede, vedrà se stesso.
Alc. Evidentemente.
[...]
Socr. Se allora un occhio vuol vedere se stesso, bisogna che fissi un occhio, e quella parte di questo in cui si trova la sua virtù visiva; e non è questa la vista?
Alc. Sì.
Socr. Ora, caro Alcibiade, anche l'anima, se vuole conoscere se stessa, dovrà fissare un'anima, e soprattutto quel tratto di questa in cui si trova la virtù dell'anima, la sapienza, e fissare altro a cui questa parte sia simile?
Alc. Credo di sì, Socrate.
[...]
Socr. Questa parte dell'anima è simile al divino, e, se la si fissa, si impara a conoscere tutto ciò che vi è di divino - intelletto e pensiero - si ha la possibilità di conoscere se stessi nel modo migliore.

Socrate dice chiaramente che conoscere se stessi - cioè la propria anima - è guardarsi in uno specchio, e questo specchio è l'Altro. Usando la terminologia di Lacan, possiamo dire che il soggetto-anima "si sa nel luogo dell'Altro"; ovvero il tutore è... la pupilla. Kóre in greco significa "pupilla" e "ragazza". In italiano chiamiamo il discepolo "pupillo", che a sua volta deriva da puella, ragazza; pupillo significa "piccolo pupo". Se la pupilla dell'occhio è quella fornita dal maestro-amante perché il pupillo-amato si riconosca, l'anima - pupilla del soggetto - appare nell'Altro, nel tutore. Quindi, conoscere-amare se stessi è amarsi come Altro, chiamato qui "il divino". Socrate non dice ad Alcibiade "amami!", gli basta dire "ama la tua anima in ciò che ha di migliore", perché sa che dell'anima di Alcibiade lui detiene la chiave.


4. Lo specchio delle nostre brame

    Questa riflessione della (e sulla) pupilla anticipa un tema che diventerà chiave nel Fedro. In questo Dialogo Socrate, nella sua palinodia di Eros, articola una gerarchia delle anime (psychaí). Il primo rango comprende, oltre agli "amici della saggezza" (philosophoí), anche gli "amici della bellezza" (philokaloi), i "dediti alle Muse" (mousikoí) e i "dediti al desiderio" (erotikoi). (Oggi ci è molto difficile trovare degli equivalenti a questi quattro tipi di anime elette.) Invece all'ultimo rango, il nono – al livello più basso dell’umanità - ci sono i tiranni (tyrannikoí).
Ma cosa distingue l'erotikós, membro legittimo dell'aristocrazia animica, da un qualsiasi erastés che copula con il ragazzino che ama, e che di questa copulazione si accontenta?
Si dà il caso che, nella Repubblica, Platone descriverà il tiranno, sorprendentemente, come l'uomo dedito completamente all'Eros. Questo controsenso ha spesso frastornato i commentatori: come è possibile che lo stesso autore che ha tessuto nel Simposio e nel Fedro i più alti elogi di Eros, in un altro libro leghi l'essere umano più abietto proprio a Eros? Allora i filologi ipotizzano che Platone abbia rovesciato di 180 gradi la sua valutazione del desiderio amoroso. Ma questo rovesciamento, come abbiamo intravisto, non rivela tanto un mutamento di opinione di Platone quanto la dinamica stessa del suo pensiero, il suo gioco dialettico di rovesciamenti e distinzioni. Le qualità platoniche, riflettendosi come negli specchi, cambiano continuamente di segno.
    Proprio nel Fedro, Socrate illustrerà il suo metodo dialettico, che consiste da una parte nella synopsis - adunare il molteplice nell'unità; dall'altra nella diahíresis - dividere [ciò che appare come] l'unità in enti distinti. La dialettica è l'alternarsi - o rovesciarsi - di radunare e dividere, del vedere l'unità in ciò che appare dissimile e del cogliere la dissimiglianza in ciò che appare eguale. L'arte discorsiva del dividere si riflette, soprattutto, nella dicotomia simmetrica del vivente, nel vedere "come da un corpo unico hanno origine membra doppie e dello stesso nome, chiamate sinistra e destra". E come in un corpo distinguiamo il braccio destro da quello sinistro, analogamente dobbiamo distinguere nella paránoia (pazzia) una sinistra (cattiva) e una destra (buona). Siccome il desiderio amoroso - Socrate lo ha ammesso prima - è paránoia, pazzia, occorre quindi distinguere dialetticamente una pazzia amorosa buona da una pazzia amorosa cattiva.  Le quali, purtroppo, risultano indistinguibili al profano, a chi cioè non sa pensare dialetticamente, per unificazioni e divisioni. Ma come distinguere allora la pazzia amorosa buona da quella cattiva?
    La psyche umana è raffigurata nel Fedro come una biga che comprende due cavalli alati e un auriga. Ma mentre nelle psychai divine entrambi gli Ippogrifi sono buoni, nell'anima umana invece solo un cavallo - bianco con gli occhi neri, col collo dritto - è buono, cioè è "amante [seguace] (etaîros) di gloria con temperanza e con pudore e amico di opinione verace (alethinés dòxes)". L'altro cavallo - nero con gli occhi grigi, storto - è cattivo, è "amante [seguace] dell'eccesso e dell'impostura (ùbreos kaì alazoneìas etaîros)". Quando l'auriga - ovvero, la parte razionale dell'anima - "vedendo la visione erotica... è riempito dal solletico e dal pungolo del desiderio", allora i due cavalli si comportano diversamente: il pudore trattiene il cavallo bianco con gli occhi neri dal balzare addosso al ragazzo desiderato, mentre il cavallo nero con gli occhi grigi si precipita sul desiderato "e gli produce la memoria delle gioie di Afrodite", la memoria del coito. Questa discordia tra i cavalli porta a una altalena avanti-e-indietro: l'innamorato ora si fa addosso all'amato per godere del suo corpo, ora si tira indietro. L'auriga e il cavallo bianco con gli occhi neri ogni volta che "vedono il viso folgorante", vedono allo stesso tempo rifulgere l'Ap-parizione (eídos) del Bello e della Temperanza, e quindi - come folgorati - ricadono all'indietro, "bagnando di sudore tutta l'anima". E, siccome i due cavalli sono imbrigliati tra loro, anche il cavallo nero con gli occhi grigi precipita per terra.
Da notare che l'auriga e il cavallo bianco sono arrestati dalla visione specifica del volto del ragazzo: è nel volto soprattutto - luogo degli occhi - che emerge l'Ap-parizione della Bellezza. Il risultato di questo tira-e-molla nel migliore dei casi porta al "rispetto per l'amato", ovvero alla rinuncia - come diceva Eschilo - a "la sacra comunione delle cosce". Quando questo accade, il ragazzo amato, "essendo per natura amico di chi si prende cura di lui", finisce con l'accettare la compagnia dell'amante e con l'essergli amico. Gli piace incontrarlo nelle palestre - dove gioca nudo - e in altri luoghi pubblici.  
    Quando l'amore è così corrisposto, allora il "flusso erotico" penetra nell'amante, lo riempie e infine trabocca come da un vaso troppo pieno – una sorta di eiaculazione psichica. Ma, come un vento o un'eco, il flusso rimbalza quando incontra la superficie levigata del ragazzo amato, e ritorna - diremmo oggi: come un boomerang - ...verso l'amante? No, qui il testo ha una torsione sorprendente, come una vertigine speculare: l'imeros, il vento dell'amore, rimbalza contro gli occhi-specchio dell'amante, e attraverso di questi colpisce l'amato, che è investito dall'eco erotica attraverso i suoi stessi occhi. In questo modo Eros dall'amante va all'amato, e "irriga i condotti delle penne" delle ali dei cavalli - le penne permettono alla biga-psyché di salire verso il cielo e le Ap-parizioni. Perciò Eros non eleva solo l'amante, ma - se questi è temperante e ha rispetto per il ragazzo bello (insomma non lo sodomizza) - eleva anche l'amato, in quanto questi a sua volta desidera. Eros provoca insomma quella erezione filosofica delle anime che le muove verso l'alto, verso il reale. Ma Platone precisa che il desiderio dell'amato che corrisponde non è proprio identico a quello dell'amante.
    In effetti, l'amato "desidera, ma non sa dire che cosa". Il ragazzo amato viene iniziato non a un desiderio senza oggetto, ma a un desiderio il cui oggetto è indicibile. L’amato non sa dire che cosa prova, non sa spiegarlo - a differenza dell'amante, che sa bene a cosa tenda il suo eros. "Come chi ha preso da un altro una malattia agli occhi non è in grado di spiegarne la causa, così egli vede se medesimo nell'innamorato come in uno specchio, ma non lo sa (òsper dé én katòptro én tô erônti eautòn orôn lélethen)". Insomma, l'eros del ragazzo amato ê come un raggio di luce riflesso da uno specchio. Il suo desiderio dell'amante è più debole di quanto non sia il desiderio che ha l'amante nei suoi confronti, perché è un desiderio di riflesso, come una luce lunare, insomma "ha in sé un'immagine erotica, che è un riflesso di eros (eîdolon érotos antérota ékon)". In altre parole, l'amato non ha l'Ap-parizione (eídos) dell'eros, ne ha l'apparenza (eîdolon): egli è del tutto simile all'uomo sensibile, che non vede le Ap-parizioni ma le loro immagini, i loro “idoli” o icone.  
    Se l'amante è in una posizione analoga a quella del filosofo, l'amato è nella posizione dell'interlocutore del filosofo; nel caso in questione, l’amato-interlocutore è il giovane Fedro, che Socrate eroticamente desidera. Ambedue  - l'interlocutore e l'eroménos - accedono al desiderio filosofico, ma come in un'eco. Sono da condannare per questo? Il fatto che entrambi godano dell'eídolon del desiderio e della verità, e non del loro eídos, è una ragione sufficiente per dire che sono, come i sofisti, nell'errore o nell'imbroglio? No di certo, perché appunto c'è eídolon e eido(lon), c'è apparenza e (ap)parenza, c'è immagine e Immagine. L'amato diventa amante per eros riflesso: non è cieco, ma "ammalato degli occhi". Egli riceve la medicina erettile del desiderio nella forma iconica della malattia, come in una cura omeopatica. La pazzia amorosa, che l'amante inocula all'amato, è una metafora farmaceutica, che evita del resto all'amato le sofferenze e le essudorazioni del desiderio "paranoico", folle. Guardando la pupilla dell'amante, vede se stesso - cioè il proprio desiderio - ma non si riconosce. Diciamo che il ragazzo desiderato attraverso il desiderio dell'altro conosce Eros, ma non lo ri-conosce. Ora, Platone aveva mostrato nel Menone che ogni conoscere è un riconoscere. Qui invece pare che conoscere Eros senza riconoscerlo sia un primo stadio, ancora oscuro, del conoscerLo.
    Ancora oggi diciamo "gli occhi specchio dell'anima"; e anche "amore platonico" per dire amore senza sesso. Per Platone certo gli occhi - e in particolare le pupille - sono letteralmente specchio dell'anima, nel senso che l'anima si vede, e quindi si sa, attraverso gli occhi - le pupille - dell'altro, di colui che si desidera. Nella pupilla dell'eroménos, l'erastés si riconosce desiderante; invece l'eroménos non si riconosce come desiderante. Freud direbbe che il desiderio dell'amasio è anaclitico, "per appoggio": si appoggia al desiderio dell'altro, nella forma di desiderio di sapere - ma un desiderio che non si sa ancora come sapere sul desiderio. Il misconoscimento dell'amato - che concede le proprie grazie per karis, per gratitudine, e che accorda il proprio desiderio per ringraziare l'altro di desiderarlo - non è negativo (difatti anch'egli avrà la sua erezione spirituale). C'è da aspettarsi che, una volta cresciutagli la barba, il ragazzo amato diventerà a sua volta amante di sbarbatelli: dall'eídolon del desiderio riflesso passerà all'eídos del desiderio vissuto, si farà cioè possedere dal dio, come si fa possedere una femmina. Perché l'amante deve farsi femmina del dio, proprio per poter virilmente desiderare.
    Innamorarsi è difatti enthusiasmós, possessione divina: Eros, come un flusso liquido, irrora l'anima, che prima era rinsecchita e non germogliava. Ma perché questa irrigazione di imeros, di flusso erotico, faccia crescere le ali, occorre che l'amante conservi una certa distanza rispetto all'amato. Perché l'amato diventi specchio in modo che l'amante si nutra di desiderio, occorre che egli resti a una certa distanza. La prossimità eccessiva - l'atto sessuale - è contraria a Pudore e Temperanza. Platone apprezza Eros, snoba Afrodite, dea dell’atto sessuale. Occorre insomma che l'amante conservi, tuteli, prolunghi il desiderio, che non lo "bruci" nell'atto sessuale - dopo il coito c'è detumescenza anche del desiderio. Possiamo dire, scherzosamente, che Platone è taoista: è per l'eternizzazione dell'erezione amorosa, in modo che l'anima si erga senza falli verso le Ap-parizioni. Occorre che la follia desiderante continui, il più a lungo possibile, salendo sempre più in alto, senza sfogarsi mai nella grazia del riposo. Occorre che non guarisca mai attraverso l'atto afrodisiaco. E questo perpetuarsi della malattia amorosa genera la gratitudine dell'amato.  


5. Avere occhi per vedere

    Dopo la lunga digressione nel Fedro, torniamo al nostro Alcibiade. Qui l'ambizioso Alcibiade prende il posto di Fedro "innamorato dei discorsi sul desiderio" nel dialogo omonimo; e la questione qui discussa è il desiderio di potere.
    Anche qui il rapporto tra maestro e discepolo, cioè tra amante e amato, è descritto attraverso la metafora ottico-speculare. Socrate dice che, guardando l'anima-pupilla nella pupilla dell'Altro, occorre che il pupillo guardi "la parte divina dell'anima", vale a dire "la conoscenza e il pensiero".

Quindi, mirando in dio, useremmo del più bello specchio anche delle cose umane che tendono alla eccellenza dell'anima, e così potremo vedere e conoscere meglio noi stessi.

Questo dio da una parte è il dio tutore (e supponiamo anche amante) di Socrate; dall'altra non è altro che conoscenza e pensiero, vale a dire la parte intellettuale dell'anima, la sua ratio. La conoscenza e il pensiero del pupillo quindi sono solo nel maestro - perciò Socrate parla tanto, mentre i suoi pupilli si limitano a punteggiare. Ma è solo in questa alienazione radicale - nella divinità del maestro - che il soggetto può sapersi, cioè vedersi. Quel “se stesso” che Socrate raccomanda di conoscere non è altri che l'altro nella mente dell'Altro, vale a dire del maestro-amante.
    In effetti egli ribadisce: "terrete lo sguardo fisso al divino e al luminoso". Il divino è il luminoso perché è il luogo della theoría, vale a dire dello specchio dove l'anima si vede e si contempla con chiarezza. Ma l’anima che cosa vede?
    L'anima può vedere solo ciò a cui aspira: il proprio bene, la virtù, la sophrosýne, la felicità. Nel platonismo, il "se stessi" che si scopre nell'Altro è ciò a cui si tende, i propri ideali diremmo oggi.
    L'impressione di inconcludenza che oggi ci danno i primi Dialoghi platonici è dovuta al fatto che qui come altrove Socrate non definisce quel giusto, utile, buono e bello che, secondo lui, Alcibiade ignora. A noi non pare che, dopo questo dialogo, Alcibiade li conosca. Questa delusione deriva dal fatto che ci siamo abituati a vedere la filosofia non nella forma platonica del dialogo, ma nella forma aristotelica del trattato apodittico; per molti di noi, il pensiero ha da definire innanzi tutto i propri concetti, le essenze. Come ha notato Gadamer, una lunga tradizione esegetica ha aristotelizzato Platone, ha letto la sua dottrina delle Ap-parizioni come un après coup dell'essenzialismo aristotelico. Nella strategia definitoria del trattato vien meno ciò che nel pensiero platonico è essenziale: ciò che Freud chiamerebbe un transfert, vale a dire la relazione ad un tempo affettiva e cognitiva maestro-amante / pupillo-amato, in quanto grazie a essa può prodursi l'accesso alla visione delle E-videnze o Ap-parizioni. Con Aristotele, la definizione logica dei concetti porterà a una concezione della verità come appunto adaequatio rei et intellectus, quindi metterà in primo piano il linguaggio (intellectus) nel suo rapporto di adeguazione con la cosa. Allora l'esigenza di uso corretto del linguaggio evacuerà del tutto la forza del rapporto erotico-dialogico maestro/pupillo.
    In effetti, il rapporto maestro/pupillo - versante conversativo e conoscitivo del rapporto desideroso innamorato/amato - punta a qualcosa che non è tanto dell'ordine del linguaggio, quanto della visione, di una visione "psichica". Su questa precedenza del visuale in Platone si è scritto molto. Ma proprio perché si tratta di una visione, il mondo delle Ap-parizioni è in qualche modo ineffabile. Il dialogo tra Socrate e i suoi pupilli non porta a un dominio linguistico su ciò che conta - le Idee o E-videnze o Ap-parizioni - ma a un atto di visione contemplativa (e non dominativa) a cui il pupillo può accedere solo in prima persona.  Come l'erastés non deve sodomizzare l'eroménos, così il filosofo non può possedere le Ap-parizioni. Il maestro, che non possiede né la verità né il pupillo, si fa pupilla-specchio attraverso cui il pupillo vede, ma in fondo nessuno potrà mai dire quello che vede. In effetti, ha senso descrivere ciò che vediamo solo quando il nostro interlocutore è cieco; se vede, a che pro descrivergli quello che vede?
Il transcendentalismo platonico da una parte descriverà il mondo delle Ap-parizioni come separato dal mondo delle apparenze sensibili; ma dall'altra la stessa filosofia - che si articola nelle forme sensibili del dialogo e dell'Eros - tende a superare se stessa. Insomma, per Platone il dire filosofico non è un fine in sé, ma un mezzo per vedere e per tornare a vedere. In termini a un tempo antichi e moderni, possiamo dire che il metodo filosofico - che Platone chiama "dialettica" - è di fatto una forma di vita intrisa di una grazia erotica, e apre alla Grazia delle Ap-parizioni, che si concedono a chi, dopo il controverso cammino dialettico, avrà occhi per vederLe.

    Questa idea che la filosofia miri a superare se stessa avrà una lunga storia. Nel nostro secolo, arriverà all'eidolon wittgensteiniano della scala che occorre buttare via una volta che si è saliti grazie a essa. Anche per Platone la filosofia è la scala verso il terrazzo, il mondo delle Ap-parizioni. Certo, col tempo si farà forte la tentazione di fare della scala il terrazzo stesso: i filosofi saranno spesso inclini a dire che l'uomo deve rassegnarsi a vivere sulla scala, nel logos.  La deformazione professionale del filosofo si consumerà nel fare della filosofia un fine a se stessa - anche se senza un po' di questa deformazione, probabilmente, non ci sarebbe alcuna retta filosofia. Per altri invece la filosofia trascende se stessa: verso Dio, o verso l'azione politica, o verso la creazione artistica, o verso la Libertà, oppure - come pensava Wittgenstein - verso una vita felice perché liberata finalmente dalla filosofia.
    Ogni pensiero filosofico, in effetti, tende a oscillare tra due poli, che descrivono un movimento di granchio. Da una parte la filosofia, sin da Socrate, dice "conosci te stesso", dice "non fidarti di ciò che sai (del sapere fornito dal tuo mestiere, dalla tua scienza, dal tuo culto e dalla tua arte), ma guarda al tuo pensiero (oggi si direbbe: al tuo linguaggio) stesso". Questa posizione di ripiego, di introversione, punteggia un momento strategico di ogni grande pensiero filosofico: il suo ciclico tornare al soggetto. Vi tornò prima con Socrate, poi con Descartes, quindi con Kant, e ancora con Hegel, poi con Husserl, ecc. Ma questo ritorno conoscitivo a sé avviene di solito attraverso uno specchio che rilancia il nostro rapporto al mondo, che ci promette una signoria nuova, vuoi sul mondo sensibile, vuoi su qualche mondo più o meno oltre, futuro o trascendente o eidetico. Lo rilancia non nel senso che ci dà un sapere diretto sul mondo o su Dio, ma nel senso che ci dispone - Heidegger direbbe "ci apre" - a essi. In altre parole, sin dall'inizio la filosofia dice "apriti alla Grazia". E' che cosa dice d'altro Socrate ad Alcibiade nel Dialogo in questione? Non è più Alcibiade, l'eroménos, che deve concedere le proprie grazie a Socrate, l'erastés: è Socrate che concede ad Alcibiade la grazia di un tutoraggio divino, affinché si riconosca nella pupilla dell'Altro. La malinconia del "conosci te stesso" non è contemplazione narcisistica della propria anima, ma, come Enea che scese negli Inferi per fondare poi Roma, è andare verso l'Antecedenza per poter finalmente accedere alla Trascendenza. Questa Antecedenza in Platone ha la forma cruda della vita precedente, di un contatto inaugurale con il reale autentico. Dopo di lui, prenderà altre forme, ma sarà sempre fondamento, comando iniziale, e soprattutto fonte originaria. Certo, per noi moderni questa Antecedenza o fonte originaria non è un mondo ultraceleste ma - eredi qual siamo di Nietzsche e di Husserl - è Lebenswelt, mondo della vita. Per noi, occorre ritornare indietro nel mondo a cui dovremmo restare fedeli, che ci richiama come a uno stesso tempo la nostra promessa e la nostra culla: il mondo della vita, dei bisogni e delle pulsioni, della volontà potente e degli indistruttibili desideri. Anche noi, anime moderne, come le automotrici platoniche dobbiamo tornare alla nostra Casa originaria: quella di una vita che non si è ancora dimenticata nelle proprie forme.


6. La filosofia va oltre se stessa

    Socrate - disse Hegel - apparve "all'epoca della decadenza della democrazia ateniese; fuggì dall'esistente e riparò in se stesso per cercarvi il giusto e il buono". Insomma, Socrate, idealista frustrato, sarebbe tutto spirito soggettivo - quindi inviso alla Città -, non ancora Spirito Oggettivo. Protesta individualista – diremmo oggi – non impegno etico-politico costruttivo. Merleau-Ponty obiettò che Hegel era però vittima di una svista completa sulla strategia socratica, e poi platonica: non si può essere giusti da soli, "se [Socrate] davvero difende la sua Città, non può trattarsi di una Città dentro di sé, si tratta di quella Città esistente attorno a lui". Quando il Socrate platonico ripete "conosci te stesso" all'uomo politico, non lo spinge a fare introspezione, a separarsi in maniera altezzosa dal consorzio sociale, come fecero poi i cinici: conoscere la propria anima significa avere accesso non a un'interiorità privata, ma alle Ap-parizioni, alla realtà vera. Questo perché, come dice nel Fedro, vera sede dell'anima non è il cuore umano ma un luogo oltre il cielo, il luogo del reale vero. E una volta avuto accesso alle E-videnze o Ap-parizioni, la riforma della Città si profila come inevitabile: "conosci te stesso" sbocca nel "converti gli altri".
    Così, la raccomandazione socratica del "conosci te stesso" è particolarmente ambigua. Questa conoscenza di sé può avvenire solo attraverso il dialogo filosofico, in cui parla per lo più Socrate. Questi difatti di-spiega l'anima del suo interlocutore, che legge il ‘proprio’ pensiero in Socrate. Ma a un certo punto, quando il pupillo ha ri-conosciuto come proprio il discorso di Socrate, il maestro d'un tratto passa al mito e alla rivelazione: quella data dal dio, dal demone, dalle Muse, da Er o da Diotima. Il discorso socratico, contrariamente a quanto si crede, non rivela le Ap-parizioni: ci dispone alla loro ri-velazione. Ci porta verso di Esse, non Le pone esso stesso. Questa è la paideia: il maestro, per una sorta di grazia forse divina, ha potuto vedere la luce fuori della caverna. Ma quando torna a parlare con i prigionieri, egli non può dire questa luce, può solo disporre il pupillo a pensarla e desiderarla come vera luce. Il pupillo può vedere solo con i propri occhi, per una sorta di Grazia - di cui il Fedro tenta la vicissitudine cosmica. Era quindi comprensibile il sospetto di Nietzsche, che Platone fosse là là sul punto di fondare una religione.
    Ma il linguaggio teologico di Platone è un modo di dire qualcosa che la filosofia ha sempre detto anche in altre chiavi: l'idea che la vera visione non è mai filosofica, ma comincia sempre dopo di essa. Che la filosofia non sa, che essa è solo paideia che ci dispone alla Scienza e/o alla Rivelazione. Per Platone, certo, la rivelazione era divina - e sarà sempre più divina con la filosofia cristiana. In questa ottica, la filosofia è una sorta di propedeutica ad ascoltare e capire ciò che la scienza o il dio veramente ci dicono.
    L'inconcludenza socratica è quindi l'altra faccia della trascendenza filosofica: il linguaggio non domina le Ap-parizioni, esso dà solo accesso a Esse. E in questo accesso Socrate-maestro si sacrifica: egli permette all'altro di vedere, ma lui stesso non vede. Per vedere, egli dovrebbe farsi a sua volta pupillo. O meglio, Socrate ha visto prima, perché anch'egli ha avuto a sua volta un maestro, per sua fortuna divino. Il mondo delle Ap-parizioni è quindi ineffabile: la maieutica porta a qualcosa che la levatrice non possederà mai, perché è dell'ordine della pura visione intellettuale, non del discorso.
    E così alla fine le parti tra maestro e discepolo dovranno invertirsi, come in ogni gioco speculare. Dice Alcibiade:

Noi siamo sul punto di scambiare le nostre parti, Socrate, io prendo il tuo posto e tu prendi il mio. Questo perché da ora in poi non ci sarà un solo momento che io non ti sarò dietro come se tu fossi un bambino, e che tu non mi avrai attorno come se io fossi il tuo tutore.

Socrate accetta di buon grado questo rovesciamento dei ruoli, difatti replica

Il mio amore sarà proprio quello di una cicogna; esso, dopo aver covato in te un amore alato, sarà poi da questo circondato di cure a sua volta.

Il Maestro Socrate diventa bambino, e il bell'allievo Alcibiade diventa il Maestro. E' il culmine dell'ironia - ma senza questa ironia non c'è lo scandalo dell'erotismo, e nemmeno la sovversione disarmata della filosofia.
    Nel Simposio assistiamo a un altro rovesciamento speculare tra Socrate e Alcibiade nell'elogio che il secondo fa del primo, quando l'eroménos Alcibiade diventa di fatto l'erastés di Socrate. Ma che cosa autorizza qui Alcibiade a porsi finalmente come il tutore di Socrate? E' che Alcibiade è l'uomo del godimento, quindi anche del sapere. Al contrario, Socrate è l'uomo del desiderio, che desidera il sapere senza mai veramente possederlo. Grazie al suo dialogo, Alcibiade ha finalmente visto la Giustizia, egli ne ha l'epístheme quindi potrebbe operare correttamente come politico. Ma Socrate no, non detiene alcun sapere. Come abbiamo già detto, Socrate si sacrifica: non solo perché verrà giustiziato dalla Città, ma anche nel senso che sacrifica il proprio sapere. Essendo egli specchio attraverso cui il pupillo deterrà l' epístheme, egli stesso non detiene epístheme, a meno che egli non si faccia a sua volta pupillo. Ad esempio pupillo di Diotima, ma persino dello stesso Alcibiade, sotto la cui protezione qui egli si mette.  


7. Sacrifici di stato

    In effetti, Socrate pare mostrare ad Alcibiade che il giusto, l'utile, il bello e il buono per la città sono la stessa cosa. Significa questo che tutte queste "idee" sono sinonimi, che dicono tutte la stessa cosa? E' difficile rispondere, perché se è vero che per Platone le Ap-parizioni sono tante, esse comunque potrebbero essere dialetticamente "riunite", ad esempio nell'Ap-parizione di tutte le Ap-parizioni (Plotino punterà tutto su questa unificazione). Allora Platone sarebbe giunto vicinissimo al celebre paradosso di Russell, quello che riguarda gli insiemi di tutti gli insiemi che non sono membri di se stessi.
    Ma Socrate pare qui voler dire semplicemente che il perseguimento del giusto, dell'utile, del buono e del bello non sono in contraddizione. L'uomo saggio sa che queste Ap-parizioni si sovrappongono, ma non perché coinciderebbero le loro definizioni. Coincidono nella parte divina dell'anima del pupillo, che questi scopre attraverso l'amore speculativo (da speculum) del maestro. Ma la filosofia e il maestro vanno gettati via come la scala di Wittgenstein. Dico di più: vanno sacrificati. La morte di Socrate per la generazione di Platone ebbe probabilmente un senso sacrificale: Socrate non scappa via da Atene per salvarsi perché sa che il maestro va immolato, affinché chi ama il maestro abbia veramente accesso al divino.

Socr. Vorrei che tu [Alcibiade] arrivassi in fondo; ma ho paura! Non perché io manchi di fiducia nelle tue doti naturali, ma perché vedo la forza dello stato, ho paura che questo ci soverchierà entrambi.


Questa è l'ultima battuta del dialogo. Il lettore sa che si tratta di una profezia, perché sia Alcibiade che Socrate saranno schiacciati dallo stato. Ma emerge qualcosa di più sottile. Socrate dice "non manco di fiducia nelle tue doti naturali"; prima aveva però dimostrato che Alcibiade non doveva fare affidamento sulle proprie doti naturali, in quanto non bastavano per i nemici, Persiani e Spartani. Ma ora il nemico è identificato nello stato di Atene, non negli stranieri. Anche qui, il talento naturale di Alcibiade non basterà. Ma allora l'insegnamento di Socrate non sarà servito a nulla?
    Certo era alquanto temerario, da parte di Platone, scrivere un dialogo su un sodalizio così stretto tra Socrate e il suo pupillo, quando tutti, all'epoca, sapevano com'era andata a finire. Era Platone un “negazionista”? Il tutto poteva essere letto come un'involontaria caricatura dell'insegnamento di Socrate: questi propone un'alleanza filosofico-pratica tra maestro-amante e pupillo-amato che non salverà né l'uno né l'altro. Il sodalizio tra due perdenti, anche se illustri.
    Una spiegazione possibile di questa maldestra ‘propaganda’ a favore di Socrate è che in realtà qui Platone critica lo stato democratico, perché si è disfatto dei suoi uomini migliori. Atene non ha tratto frutto dalla volontà di potenza di Socrate e di Alcibiade - e non a caso è stata sconfitta da Sparta. Ma Platone insinua qualcosa di più radicale: che come l'Eros non deve limitarsi al ragazzo amato, ma deve andare oltre, evitando quindi la consumazione sessuale, analogamente la volontà di potenza deve andare oltre ogni ambizione politica. In effetti, "l'intera opera di Platone - azzarda Gadamer - vuole essere una apologia del suo ritiro dalla vita politica". Piuttosto scriverà La Repubblica, nella quale descriverà, come farà Aristofane in altri modi, una città utopica del tutto ideale, dichiaratamente irrealizzabile.
Ma questa rinuncia alla politica attiva non è rinuncia alla volontà di potenza, così come la rinuncia a copulare con i ragazzi non è rinuncia a Eros: è tendere la volontà di potenza fino allo spasimo del divino - proprio quello che mancherà di fare Alcibiade. Questi condurrà la sua volontà di potenza alla ubris, all'eccesso, non all'eídos. Socrate viene ucciso come sofista dalla sua patria terrena, ma trionfa nella patria del filosofo, nel luogo silenzioso delle Ap-parizioni.

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