Flussi di Sergio Benvenuto

Parigi, città del surrealismo (2010)14/mag/2017


In Francia, tuttora, quando si vuol dire che qualcosa è strano, trasgressivo, fuori delle regole, provocatorio, si dice surréaliste. Anche all’Assemblea Nazionale francese, si stigmatizzano come “discorsi surrealisti” certe affermazione degli avversari. Un’amica francese che mi decanta le sue imprese erotiche stravaganti, che pratica anche in chiesa, mi dice “sono sempre surréaliste”. Per un secolo, Parigi è stata culla e santuario di molte avanguardie artistiche ed etiche che fecero scalpore, eppure per i francesi il surrealismo resta il paradigma di tutto ciò che sfida il buon senso e l’ordine costituito.

           Questa fortuna del surrealismo come prototipo della sregolatezza persiste a dispetto del fatto che da qualche decennio l’arte contemporanea, in tutto il mondo, sembra aver abbracciato piuttosto lo spirito dadaista. Le installazioni che oggi pullulano in tutte le mostre sembrano situarsi piuttosto sulla scia di Duchamp. Ma per un francese il surrealismo è qualcosa di più di un movimento artistico: è una forma totale di vita. E’ unire Rivoluzione nell’Arte e Rivoluzione nella Vita. Non costruire la propria vita come un’opera d’arte, né trasfigurare artisticamente la banale vita, ma prendere alla lettera il verso di Hölderlin: doch dichterisch wohnet/Der Mensch auf dieser Erde. Quel che per il Romanticismo tedesco era una verità metafisica o un ideale, a Parigi nel XX° secolo doveva finalmente diventare realtà appariscente. Col surrealismo, la “schöne Seele” passa all’azione.

Scrisse André Breton nel Manifesto del surrealismo: "Trasformare il mondo, ha detto Marx, cambiare la vita, ha detto Rimbaud. Queste due parole d'ordine sono per noi una sola". Il surrealismo è stato l’incrocio tumultuoso tra due correnti che ha fatto del Novecento parigino una zona altamente ciclonica: cambiare le forme espressive per vivere in modo radicalmente nuovo, e cambiare il modo di vivere in quanto esso stesso gesto sovranamente espressivo. (Ciclone già scatenato dal futurismo italiano. Solo che quest’ultimo fu sempre nazionalista, maschilista, guerrafondaio e fascista). Non si trattava più solo di vivere in modo eccentrico (come il dandy), o di dipingere in modo irriconoscibile (come i cubisti), o di militare per la Rivoluzione politica (come i comunisti), o di deridere l’arte (come i dadaisti): si trattava di far convergere tutte queste divergenze per trasformare radicalmente la vita in tutti i suoi aspetti.

           Il filosofo, non a caso francese, Alain Badiou ha designato come specifico del “secolo breve”, il XX°, la passione del reale. Non solo progettare, descrivere, sapere, immaginare: occorreva che tutto quello che l’Ottocento aveva pensato passasse nel reale. Ma soprattutto a Parigi il Novecento è stato vissuto come passione del reale. E il surrealismo, diversamente da altre avanguardie più mistiche o estetizzanti, ha portato all’acme questa passione.

Matrice di ogni socialismo è il progetto ossimorico di trasmettere alle masse una forma di vita aristocratica. I surrealisti erano incantati dalla frase di Lautréamont secondo cui la vera poesia sarebbe avvenuta solo quando tutti avessero scritto poesia. Questo richiamo all’eguaglianza creativa, questo rigetto del primato del talento individuale, non era (solo) collettivismo estetico: era fare dell’arte di pochi ribelli la prova generale di un nuovo modo di vivere di tutti. Il paradosso seducente di volersi un’eccezione da universalizzare.

Oggi comunque il surrealismo è l'estetica ufficiale degli adolescenti: i siti giovanili su internet sono tutti un inno alla trasgressione, all'humour noir, all'assurdo e al fantastico... In Occidente la sovversione si è democratizzata, si deve attraversare un'età surrealista, se si vuol essere veramente giovani la trasgressione diventa regola.

 

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           La cultura parigina degli anni 60 e 70 – quella che ho conosciuto di persona –nel fondo era rimasta surrealista. Non a caso, a cavallo tra gli anni 60 e 70, nella Parigi di Tel Quel si era convinti che il più grande poeta del secolo fosse Antonin Artaud. Quando nel maggio del 1968 il teatro Odéon fu occupato, diventando una tribuna pubblica permanente, alcuni posero il problema di una nuova forma di teatro. Al che molti insorsero: “Abbiamo già il nuovo teatro! Lo spettacolo più bello a Parigi, in questo mese, sono state le barricate al Quartiere Latino.” Questa fusione tra atto estetico e atto politico veniva esaltata come compito della nostra generazione, ma mezzo secolo prima i surrealisti lo avevano già prescritto. Si dice che il maggio 68 fu il bellissimo canto del cigno del marxismo occidentale; ma direi che è stato anche, forse, l’ultimo Grande Spettacolo Surrealista.

           Il quartier generale dei surrealisti era Montparnasse. Si dà il caso che questa zona sia rimasta per tutto il secolo, fino a oggi, il centro della vita intellettuale parigina non solo accademica: tra il Quartiere Latino, Saint-Germain des Près, il Boulevard Montparnasse, il Boulevard Raspail. I caffè-ristoranti dove gli amici intellettuali parigini ti danno appuntamento, ancor oggi, sono più o meno quelli dei surrealisti: alla Coupole e alla Closerie des Lilas al Bd de Montparnasse; al Flore, al Deux Magots o alla brasserie Lipp in place St.-Germain-dès-Près; a chez Balzar in rue des Ecoles accanto alla Sorbona. E dopo magari si va a prendere un gelato da Berthillon. In fondo, la Parigi che conta per gli intellos è una cittadina che sfidando i McDonald’s mantiene se stessa come un museo vivente, dove ci si sente nella storia nel ricordo struggente di un passato che per lo più non si è vissuto.

 

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           Non è un caso se il surrealismo si sia impiantato proprio a Parigi. Notiamo che, negli anni 20 e 30, a Parigi convivevano vari universi intellettuali, che non sempre si intersecavano. In A Moveable Feast Hemingway ci parla della sua vita di giovane scrittore squattrinato e felice a Parigi tra 1921 e 1926: si direbbe che egli sia vissuto in una città anglofona. A Parigi incontra James Joyce, Gertrude Stein, Ezra Pound, Francis Scott Fitzgerald, Wyndham Lewis, Ford Madox Ford, ecc., tutti anglofoni. Solo qualche accenno ad artisti francesi, nulla sul surrealismo, che proprio in quegli anni fioriva. Insomma, surrealismo e Parigi anglo-americana si ignorarono a vicenda. In effetti, il surrealismo è stata cosa soprattutto francese e ispanica. Il mondo anglo-americano è rimasto in fondo estraneo al surrealismo.

Eppure erano i ricchi americani a far prosperare la piazza di Parigi, andandoci ad abitare e spendendovi fiumi di dollari per comprare opere europee. Salvador Dalì lo capì, ruppe il giuramento anti-commerciale dei surrealisti e prese a vendere i suoi quadri ai mercanti d’arte d’Oltre-Atlantico. Allora Breton bollò Dalì con un anagramma del suo nome: Avida Dollars. Ma le grandi avanguardie parigine sarebbero state impensabili senza i greenbacks.

Il surrealismo invece si appoggiò non alla Parigi dei dollari, ma alla Parigi spettacolare. Parigi era già da tempo la capitale mondiale dell’arte, del divertimento, dello spettacolo e della moda. Walter Benjamin scrisse di Parigi come capitale del XIX° secolo. In realtà le capitali europee erano almeno due. Londra fu la capitale economica e finanziaria dell’Ottocento: dalla sua City la ricchezza si propagava, secondo varie linee, a tutta Europa. Più si era vicini a Londra – come Amsterdam, Parigi e Amburgo – più si era ricchi; più si era lontani da Londra, più si era poveri. Se Londra era la macchina industriale dell’Occidente, Parigi era la ribalta, la vetrina dell’Europa allora dominatrice del mondo. A Londra si produceva ricchezza, a Parigi la si spendeva. Nella Ville Lumière convergevano da ogni parte pittori, musicisti, avanguardisti – gli addetti ai lavori della Rappresentazione. A Londra la severità vittoriana a cui faceva da contrappunto l’esaltazione anti-cristiana del darwinismo, a Parigi un’amena vita libertina che si prolungava nelle ardite sperimentazioni dei Salons artistici o nella musica. Quando negli anni 20 si affermò il surrealismo, al gioco delle parti tra la Londra formica e la Parigi cicala si erano aggiunti nel frattempo altri poli: Vienna era la culla dei nuovi modi di guardare all’umano (la Sezession, Wittgenstein, Freud, Musil). E Berlino, e poi New York…

Questo mito di Parigi è durato a lungo. Un recente film inglese, An education, di Lone Scherfig, narra di una adolescente della piccola borghesia londinese negli anni 1961-2. Questa ambiziosa studentessa ascolta soprattutto Juliette Gréco, legge Camus, e il suo sogno è di andare a Parigi con un amante. Rispetto a questa Parigi scintillante di glamour, Londra – che da lì a qualche anno sarebbe diventata la swinging London – nel film appare quasi una grigia e austera città di provincia.

Parigi, capitale della Rappresentazione, era il palcoscenico perfetto per il surrealismo: ovvero per un nuovo tipo di spettacolo che rigettava la messinscena bourgeoise. Chi si sarebbe accorto delle performances dei surrealisti se le avessero fatte a Marsiglia, a Lione o a Strasburgo? I surrealisti usarono una strategia che già i futuristi italiani avevano messo a punto prima della Grande Guerra. Anche i surrealisti si fecero notare puntando sulla spettacolarità dell’evento. Con loro arte e letteratura d’avanguardia diventano una serie di happening di cui si parla, proprio per le reazioni scandalizzate che essi scatenano. L’orrore del benpensante, le sue proteste roboanti, diventano alimento della provocazione surrealista, la cassa di risonanza che ne assicura la celebrità. Da qui l’importanza cruciale dei Manifestes: qualcosa che si espone sulla piazza, per gridare qualcosa alle folle. Insomma, lo spettacolo surrealista fa spettacolo alla seconda potenza: il dar spettacolo si dà in spettacolo. La storia del surrealismo è stata quindi, anche, la storia di una spettacolarizzazione della cultura. Il surrealismo, a seguito del futurismo, contribuì insomma all’affermazione mediatica dell’arte, alla “società dello spettacolo” che il mercato artistico-letterario espanderà a dismisura.

Ma il surrealismo nel suo insieme è stato esso stesso un’opera surreale? Non direi. Non c’è nulla di surreale nelle scissioni, scomuniche, anatemi, espulsioni, che caratterizzarono il gruppo surrealista – la loro storia di epurazioni assomiglia molto più a quella delle chiese cristiane (che i surrealisti aborrivano) e dei partiti comunisti (che loro esaltavano) piuttosto che a una sfrenata deriva dell’inconscio. Il surrealismo si organizzò come un partito politico alquanto staliniano. Nell’Illuminismo si parlava del parti des philosophes, il surrealismo si volle parti des poètes, ma era un partito alquanto ferreo. Questa austerità surrealista – l’engagement stalinista o trotzkista, il rigetto intransigente di ogni indulgenza mercantile – non si combinava male con le fatue leggerezze della piazza parigina? Invece si combinava benissimo: che c’è di più spettacolare di un corteo di flagellanti per le vie di un quartiere a luci rosse?

           Certamente la vocazione politica del surrealismo ha potenziato una figura che, di fatto, ha prosperato soprattutto a Parigi: quella dell’intellectuel. Se il mondo anglo-americano non ha avuto surrealisti veri, è perché non ha avuto intellectuels (a parte oggi Chomsky). Da Zola a Foucault fino a Derrida, passando per Breton, Aragon ed Eluard, dall’affaire Dreyfus fino alle lotte a favore degli immigrati clandestini oggi, l’intellectuel afferma una sintesi attiva tra pensiero e azione, arte e politica, sapere e passione. Dopo tutto, questo, aldilà dello stesso surrealismo, fu il segreto del fascino di Parigi: l’ideale di una Repubblica dove alla testa del Popolo si mettono scrittori, filosofi, artisti. Il “passaggio al reale” era anche il passaggio del pensatore-creatore alla testa dei cortei, che se sono di sinistra vanno sempre verso Place de la République. Questo fu il mito che, per un secolo, respirammo a pieni polmoni.

 

                                                                    Sergio Benvenuto

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