Flussi di Sergio Benvenuto

La tragedia dell’idiota. Sul cinema di Lars von Trier26/nov/2020


Sergio Benvenuto

 

  1. 1.    Idiozia

 

Forse il film che dice meglio quel che von Trier ha cercato di fare è The Idiots (Idioterne, 1998)[1]. Questo film offre una chiave esplicita per capire gli altri film del regista danese.

Questo film è l’unico girato da von Trier che segua con scrupolo le norme del DOGMA 95, il manifesto da lui scritto assieme a Thomas Vinterberg e pubblicato nel 1995. Narra di un gruppo di giovani, uomini e donne, che vanno in giro per la Danimarca fingendosi ritardati mentali. Talvolta le ragioni di questa messinscena non sono le più pure. Ad esempio, atteggiarsi a rumorosi scimuniti serve talvolta a essere cacciati via da un ristorante, dopo aver cenato, senza pagare il conto...  Il leader del gruppo, Stoffer, enuncia il progetto etico di un gioco che può apparire meramente goliardico: portar fuori “l’idiota interiore” che ognuno di noi serba dentro di sé. La missione di Stoffer mostra però i suoi limiti quando questi chiede a ciascuno di “fare l’idiota” non in luoghi pubblici e anonimi, ma nel proprio ambiente specifico, in famiglia o al lavoro. In questo ambiente però nessuno osa ululare come un idiota. Tranne una.

Idioterne è il secondo film di quella che von Trier ha chiamato “Trilogia del Cuore d’Oro”. Il primo è Breaking the Waves (1996)[2], il terzo è Dancer in the Dark (2000). I “cuori d’oro” sono femminili e di solito appartengono al ceto operaio. Va detto che Von Trier si considera erede di Karl Dreyer, e non a caso di quest’ultimo preferisce La passione di Giovanna d’Arco e Gertrud: due film che hanno al centro due donne vittime, anche se in modo diverso (Giovanna d’Arco è vittima di un conflitto politico; Gertrud soffre la sua vocazione di donna dedita all’amore).

Due protagoniste della Trilogia muoiono in modo orribile. Bess, la giovane sposa di Breaking the Waves, dopo aver fatto sesso a destra e a manca per compiacere Jan, il marito impotente e lascivo, si fa ammazzare di botte da dei bruti sperando così – magicamente – di salvare Jan dalla paralisi. Selma, la protagonista di Dancer in the Dark, preferirà andare al patibolo piuttosto che privare il figlio del danaro che potrà salvargli la vista. Bess si sacrifica per lo sposo, Selma per il figlio – entrambe per figure maschili. Alcuni lamentano che le storie di molti film di von Trier siano strappalacrime. In effetti, sulla scia di tanti melodrammi, von Trier ama mostrarci la triste sorte di donne buone. Egli prosegue la gloriosa tradizione settecentesca delle storie lacrimose di donne dolenti.

Di Bess e Selma colpisce l’aria ingenua, infantile, un po’ stupida. Sembrano vivere nel mondo attraverso un filtro immaginario – religioso nel caso di Bess, danzante e cinematografico nel caso di Selma. I loro valori non sono quelli adattativi del mondo “vincente”, ma quelli sognanti dei perdenti. Bess, con in testa un rozzo baschetto, “dialoga” calvinisticamente col Padre Eterno: lei stessa dà voce a Dio che le risponde severo e burbero. Dopo la sua morte, il medico suo amico dirà “Bess era buona” – si, buona e martire, ma anche un po’ stupida.

Von Trier non annovera Fellini tra i suoi ispiratori, eppure alcune sue eroine ricordano certi personaggi interpretati da Giulietta Masina: Gelsomina (la clown de La strada) e Cabiria (la puttana borgatara de Le notti di Cabiria). Von Trier ha detto di amare Il portiere di notte (1974) della Cavani: la storia di una internata in un Lager nazista che finisce con lo stabilire una sorta di complicità sadomasochista con il suo aguzzino, un ufficiale delle SS. Anche lei, in fondo, Cuore d’Oro.

A costo di essere tacciato di misoginia, von Trier lega strettamente la femminilità con una certa idiozia, oltre che con l’essere vittime designate di persecuzioni.  È questo il fantasma che lo domina? si chiederebbe uno psicoanalista. Talvolta al sospetto di handicap mentale si aggiunge anche un handicap fisico: Selma, la “danzatrice nel buio”, è quasi cieca. Certo, potremmo legare questa preferenza di von Trier per la figura della Donna Stupida e Martire alla sua conversione al cattolicesimo nel 1995 (guarda caso, proprio quando firma il Dekalog alla base del DOGMA 95). Oppure alla rigorosa educazione comunista datagli dalla sua famiglia originaria. Forse solo il cinema di un altro grande maestro – Kenji Mizoguchi – è dominato altrettanto dalle figure dolorose di donna umiliata e offesa[3].

 

  1. 2.    Il dolore di Karen

 

Comunque, questa stupidità dei deboli e dei perseguitati non ha sempre connotazioni femminili. In The Boss of It All[4], Ravn è segretamente il proprietario di un’azienda di informatica danese; ma lui si fa passare per un dipendente come gli altri, attribuendo tutte le decisioni – soprattutto quelle sgradevoli – a un immaginario boss che vivrebbe in America. Quando Ravn vuole vendere l’azienda a un brutale imprenditore - cosa che comporta il licenziamento di tutti i dipendenti - assolda un attore di mezza tacca, Kristoffer, perché faccia la parte del big boss su cui scaricare le responsabilità della vendita. Gli impiegati senza potere – uomini e donne - ci fanno tanta tenerezza, ma anch’essi profumano di ingenuità. Credono a tutte le fandonie che raccontano loro sia Ravn che Kristoffer; si fanno manipolare. Questi subalterni – anch’essi in fondo “cuori d’oro” – sono stupidamente buoni come Bess e Selma.

Anche The Idiots sembra sfuggire a questo paradigma della Donna Stupida Perseguitata e Martire. Ma solo in apparenza. Il gruppo di Stoffer coopta una donna incontrata nelle loro scorribande, Karen: dall’aria ingenua e dolce, sembra molto lontana dal modo “scapigliato” del gruppo dei finti mentecatti. Sembra restare timidamente ai margini del gruppo. Quando Stoffer chiede a ciascuno di “fare l’idiota” nel proprio ambiente di appartenenza, anche Karen torna a casa. Là apprendiamo che da poco aveva perso suo figlio, e che era fuggita di casa per dar sfogo al suo dolore – si era unita al gruppo degli “idioti” nel corso di questa sua fuga. Poche sequenze ci bastano per capire il tenore del suo focolare: parenti gelidi che la disprezzano, un clima torvo e disperato. Nel bel mezzo della cena familiare, avvolta in un silenzio astioso, Karen lancia il grido caratteristico dell’idiota.

È noto lo straordinario talento di von Trier nel dirigere attrici donne. Bodil Jørgensen, l’attrice che incarna Karen in Idioterne, ha vinto vari premi come migliore attrice. Il film Antichrist è stato malmenato dalla critica ma tutti hanno dovuto riconoscere l’eccezionale interpretazione di Charlotte Gainsbourg, che ha vinto il maggior premio per l’interpretazione femminile al festival di Cannes. Sempre a Cannes, nel 2011, Kirsten Dunst, co-protagonista di Melancholia, ha vinto anch’essa la Palma d’oro per la migliore interpretazione femminile. Anche i molti che detestano von Trier devono ammettere il suo tocco unico nel far emergere dall’attrice protagonista una sorta di hybris demonica, impensabile, della femminilità. Una sorta di furia innocente che riesce a debordare oltre i limiti di una altruistica passività.

Il coraggio di Karen ci fornisce retrospettivamente una chiave per intendere The Idiots. Karen, così imbranata e “borghese”, è il Cuore d’Oro: lei non ha bisogno di far uscire fuori l’idiota interno, perché il dolore l’ha già resa “idiota”. L’urlo di Karen nella sua tetra famiglia ci dice che i lamenti inarticolati del mentecatto esprimono in modo unico dolore e disperazione. E “facendo gli idioti” possiamo liberare un grido che non chiede aiuto né sollievo, ma che manifesta allo stato brado la nostra insufficienza alla vita.

Ma perché avremmo un idiota interno da far emergere e non piuttosto un pazzo interno, o un perverso interno, o un aguzzino interno? Von Trier ha un debole per i ritardati mentali - anche se poi nell’L’Anticristo darà alla Donna Umiliata e Offesa i tratti terrificanti della psicotica sanguinaria[5]. Nella sua miniserie per la TV The Kingdom[6], ci aveva offerto una sorta di versione televisiva del Coro greco: due attori affetti da sindrome di Down commentano lo sceneggiato e sottolineano per il pubblico il tenore tragico dello spettacolo. A von Trier l’idiozia appare più tragica della follia.

 

  1. Mulier sacra

 

Dogville sembra deviare da questa tematica. La bella Grace, protagonista del film, è solo in parte una donna perseguitata: alla fine lei si vendica, e i suoi persecutori – gli abitanti di Dogville – vengono sterminati dal padre di Grace, un gangster. Questo “lieto fine” comunque ci turba: come possiamo gioire per il fatto che tanti inermi, anche se farabutti, vengano uccisi da feroci gangster? Ci vergogniamo dei nostri “virtuosi” sentimenti di vendetta.

Con Dogville il paradigma della Donna Perseguitata sembra venir meno anche perché la star che impersona Grace, Nicole Kidman, non ha certo il physique du rôle della povera donna angariata[7]. Era stato diverso con la rockstar Björk, la Selma di Dancer in the Dark; anzi, ci si chiede se il conflitto, sul set, di Björk col regista non sia legato al fatto che questi ne ha di fatto “distrutto” ogni grazia.

Eppure, una certa stupidità aleggia anche attorno a Grace, benché alla fine scopriamo che era una stupidità ai fini di una dimostrazione di tenore filosofico. La bella vittima ha qualcosa di ingenuamente infantile. Per esempio, colleziona statuine; e quando una donna di Dogville per punirla e tormentarla gliele infrange una a una, sentiamo che il dolore di Grace non è diverso da quello di una bimba a cui rompano tutti i giocattoli. Proprio l’infantilità del suo dolore ci commuove in quella scena.

La vicenda di Grace sembra fare eco a certe tesi del filosofo Giorgio Agamben[8]. Agamben ha ripreso una figura giuridica dell’antica Roma: l’homo sacer. Questi era un essere umano che perdeva qualsiasi diritto e tutela giuridiche, che chiunque poteva uccidere, se avesse voluto, senza incorrere in alcuna sanzione. Per Agamben l’homo sacer rivive oggi in tutte le figure senza alcuna iscrizione legale – come gli internati nei campi di concentramento nazisti, gli immigrati clandestini, i prigionieri di Guantanamo, le vittime di certe leggi speciali e dello stato d’eccezione, ecc. – e quindi ridotti a “nuda vita”, a non-persone giuridiche di cui resta solo la zoé, la vita biologica. Grace - sempre più trattata da mero corpo di cui ognuno nella piccola e malvagia città può fare quel che vuole - diventa una mulier sacra.

Per Agamben prototipi dell’esclusione dal mondo politico e civile sono l’homo sacer antico e l’internato nei Lager nazisti. Per von Trier il paradigma è la Donna Perseguitata e Prigioniera, la mulier sacra come nudo corpo, mera vita alla mercé altrui. O corpo per il semplice uso sessuale (Bess), o corpo come solitudine e idiozia del dolore (Karen), o corpo come maternità cieca che si sogna danzante (Selma), o corpo come schiava umiliata (Grace).

 

  1. 4.    Cinema handicappato?

 

Ma il cinema di von Trier non è solo su handicappati e idioti, fisici e mentali, su esseri – soprattutto femminili – ridotti a nuda vita. In qualche modo, vuole essere un cinema esso stesso handicappato e persino un po’ idiota. Un cinema nudo. Cinema in contrapposizione all’impeccabile perfezione del cinema hollywoodiano, così ben vestito, così “professionale”, che si avvale di effetti speciali, di sceneggiature brillanti, di attori selezionati per bellezza e bravura, di un montaggio mozzafiato.

Contro questo cinema “perfetto” che si impone nel mondo, il Dekalog intendeva provocatoriamente sfruttare al massimo l’imperfezione – proponeva un cinema invalido. Voleva essere un manifesto di cinema europeo; e non a caso uno dei suoi primi film, Europa, descrive le brutte esperienze di un americano che va a vivere nella Germania distrutta e umiliata dopo la Seconda Guerra. Con DOGMA, il regista si auto-limita attraverso norme del tutto arbitrarie. Von Trier persegue un buon cinema non sfruttando qualsiasi possibilità che il mezzo offra – come si suol dire - ma al contrario attraverso una restrizione, volutamente idiota, di possibilità. DOGMA parla di “voto di castità” del regista; e che cosa c’è oggi di più stupido di un voto di castità? I registi di Dogma di fatto handicappano il loro lavoro per tentare un cinema ingenuo e ruvido - che però, proprio per questo, viene accolto come un cinema altamente sofisticato. Come crimine e santità, sapienza e ingenuità, si sovrappongono nel personaggio von Trier, analogamente il suo cinema si vuole criminale e santo, un colmo di raffinatezza attraverso una ricercata goffaggine.

In The Five Obstructions (2003), von Trier e Jørgen Leth riprendono un vecchio film del secondo che mostra il sedicente perfect human, un “umano perfetto” felice di esserlo. Ovviamente questo perfect human così soddisfatto di sé ha per noi un’aria assolutamente idiota. Le cinque ostruzioni sono cinque coazioni – sulla falsariga del Dekalog - che von Trier infligge all’altro regista, che fu suo maestro. The Five Obstructions può essere così letto come un manifesto di poetica cinematografica: contro l’ideale di perfezione del cinema americano, un cinema zeppo di pecche e “idiozie”. Perché solo un cinema imperfetto può essere un cinema tragico. In questo modo, un’incertezza di fondo si fa su quell’idiozia che von Trier sembra aver tanto a cuore: all’imbecillità soddisfatta dell’”uomo perfetto in un cinema perfetto”, contrapporre un cinema insoddisfatto, nudo, che metta sul proscenio degli umani del tutto insufficienti.

Questo desiderio di handicappare i film si esprime nell’uso dell’automavision in The Boss of It All: il regista sistema varie cineprese in scena, e lascia decidere al computer da quale angolazione riprendere ogni scena. Il regista si affida all’alea e al caso, un po’ come fecero Pollock in pittura e Cage in musica. Da qui, nella versione finale del film, salti nella continuità del piano-sequenza, discrasie, ecc. Si tratta di un modo per trovare una forma filmica propria al suo contenuto. La fattura imperfetta, traballante, della pellicola riverbera quel piccolo mondo aziendale imperfetto e traballante che il film rappresenta. Lo stridore della forma ci sensibilizza allo stridore dell’oggetto. Quel che irrita di certi film che intendono rappresentarci da vicino la miseria o il doloroso degrado, è il fatto che rappresentino questo mondo misero e degradato in modo ricco e divertente, con una splendida e costosa fotografia, in uno stile borghesemente prospero. Essi così vogliono tacitamente convincerci del fatto che miseria e dolore, sublimati grazie all’arte, sono riscattati. Ma rappresentare in modo bello o sublime la bruttezza e la degradazione non le riscatta affatto nel reale.

Insomma, grazie a un cinema spesso artificioso e stilizzato, von Trier vuol riportarci al reale. Alla nudità di un dolore che si esprime solo come idiozia e soggezione, e alla crudele crudità dei rapporti sociali.

 

  1. 5.    “Realismo” e Real-ismo

 

In quanto auto-limitazione delle possibilità espressive, il Dekalog è un gioco. Un gioco tra più persone o squadre è possibile perché si accettano certe regole, e queste implicano sempre delle esclusioni, non si possono fare certe cose. Una regola del calcio è che nessun giocatore – a parte il portiere – possa prendere il pallone con le mani, per esempio. Oggi invece si è affermata l’idea che l’artista non debba essere più limitato da alcuna regola o convenzione, tutto va utilizzato per creare effetti. Gli artisti contemporanei producono installazioni nelle quali viene sfruttato qualsiasi strumento espressivo, dai video fino agli odori.  Il Dekalog va nella direzione opposta: ripristina “una castità”, regole ingiustificate a cui obbedire.

Ma, si dirà, un film non è un gioco a squadre, è un prodotto che dovrebbe soddisfare soprattutto il pubblico. DOGMA 95, invece, è un’auto-imposizione di regole che riguardano il cineasta, non il pubblico. È uno sforzo dell’artista di privarsi di possibilità espressive, di “ostruire” sé stesso.

Eppure, i comandamenti del Dekalog non sono del tutto arbitrari. Essi mirano a ridurre la distanza tra il cinema di fiction e il documentario. Ma questa riduzione della libertà manipolativa non va nel senso del verismo, della massima verosimiglianza, dell’indiscernibilità illusionista tra finzione e realtà. Va piuttosto nel senso del Real-ismo: verso il Reale. Non ripercorreremo qui le teorie che distinguono tra realtà e Reale – prima di tutte la teoria proposta da Jacques Lacan. Ci basterà dire che il cinema detto “realista” tende a darci la sensazione che non stiamo assistendo a un film - quindi, a qualcosa di artificioso, di costruito - ma a eventi concreti, reali. Il Real-ismo di von Trier – niente affatto contraddittorio con le tecniche brechtiane di estraneazione – consiste piuttosto nel farci sentire il Reale non come qualcosa che viene sostituito dall’opera, ma ciò a cui l’opera tende. Le auto-limitazioni del Dekalog mirano non ad aggirare la realtà in cui il cineasta opera, ma a costringerlo in qualche modo a manifestare l’esistenza di questa realtà al di là della rappresentazione. Nei film di von Trier sentiamo che il regista è vincolato, anche se non vediamo questo vincolo.

Si prenda il quarto comandamento: “Il film deve essere a colori”. È evidentemente il contrario di una idea anti-realista del cinema secondo la quale il vero cinema sarebbe in bianco-e-nero, come diceva Rudolph Arnheim, proprio perché contrasterebbe con i colori della realtà. Eppure l’esigenza di von Trier non è simulare la realtà, ma diminuire la distanza dal reale, e il reale è colorato.

Si prenda il comandamento “Il suono non deve mai essere prodotto a parte dalle immagini e viceversa”. Esso pare corrispondere a un’esigenza realista nel senso illusionistico: quando delle sequenze vengono commentate musicalmente, tutti capiamo che quella musica è fuori della situazione e della storia rappresentate. Von Trier avrebbe accettato l’uso della musica di Wagner fatto da Francis Ford Coppola in una sequenza di Apocalypse Now (1979): un capitano di uno stormo di elicotteri manda i suoi all’attacco dei Vietcong diffondendo in tutti gli elicotteri il brano famoso della cavalcata delle Walkirie. È che i personaggi stessi, producendo questa colonna musicale, cercano di vivere la guerra come fosse un’opera wagneriana. Ovvero, tentano di trasfigurare l’orrore e lo squallore della guerra in una sublime rappresentazione cinematografica. Ma proprio denunciando questa virtualizzazione della realtà, il Reale – ovvero, ciò a cui l’arte rimanda senza rappresentarLo – fa capolino nel film. Reale non come ciò che il cinema rende affascinante e coinvolgente, ma come ciò che il cinema manca, ciò che lo trascende e che non rappresenta mai.

Certo von Trier non è stato affatto ligio alle sue auto-costrizioni. Ma tutto il suo cinema – in opposizione al surrealismo – persegue un progetto, a un tempo etico ed estetico, di Real-ismo nel senso che abbiamo detto.

Si prenda il fatto che spesso i personaggi in Dancer in the Dark ballino. Il ballo tende a trasfigurare esteticamente il nostro vivere, “vivere come ballando” potrebbe essere una metafora per una vita felice[9]. Qui, al contrario, gli episodi danzanti sono in discordanza con la miseria di Selma, la quale non potrà mai ballare - è quasi cieca, poi sarà imprigionata e giustiziata. Il ricorso alla forma anti-realista del ballo non si risolve in una sublimazione estetica di una vita tragica, ma al contrario, nell’indicarci la vita reale nella sua tragicità. Perché il Reale che interessa von Trier è quello che i suoi finti idioti evocano anche se solo ellitticamente: il dolore e la sofferenza, inesprimibili e non edulcorabili, dell’esistenza umana.

 

  1. 6.    Morir ballando

 

Molti vedono nel cinema di von Trier soprattutto una ripresa dei principi epici di Brecht. Il Nostro proseguirebbe l’effetto di estraniamento (Verfremdungseffekt) brechtiano del cinema di Godard. Breaking the Waves, Antichrist (2009), Melancholia (2011) e Nymphomania (2014) sono scanditi in veri e propri capitoli scritti, a inizio capitolo leggiamo una sorta di riassunto, come nei romanzi d’altri tempi. Era stato Godard a raccomandare la reintroduzione di una scansione a capitoli nei film. Probabilmente, girando Breaking the Waves von Trier pensava a Vivre sa vie (1962) di Godard: un film in Dodici Quadri. Era anch’esso una pellicola su una donna che si degrada, su una povera prostituta che si identifica alla Giovanna d’Arco di Dreyer [guarda caso!] e finisce uccisa.

Anche Quentin Tarantino fa spesso ricorso a capitoli per scandire un film, ad esempio in Inglorious Basterds (2009). Ed è chiaro che questo e altri strumenti di distanziamento anche in Tarantino non diminuiscono affatto l'effetto di suspense e di coinvolgimento del pubblico: essi accentuano una sorta di cinica freddezza che non è solo quella dei "cattivi" del film (in questo caso, dei nazisti) ma del film stesso, che si snocciola come un duello tra la pietà del pubblico e l'ironica indifferenza del persecutore.

Da una parte von Trier divide un film in capitoli, dall’altra inserisce un film in Trilogie. Ha allineato i suoi film nella trilogia “Europa”, poi in quella del “Cuore d’oro”, quindi in “USA – Land of Opportunities”, e poi la trilogia della Depressione. Anche la miniserie televisiva The Kingdom doveva essere una trilogia. Una sua superstiziosa preferenza per il tre? Von Trier tenterebbe così di spezzare l’unità drammatica inscindibile del film come continuum unico e completo, così come si è affermata oggi: ogni suo film si divide in unità più piccole, e ogni film appare un frammento di una serie più lunga, come una telenovela. Sono convinto che von Trier approverebbe le proiezioni, abituali in Italia fino a non molto tempo fa, dove veniva imposto un intervallo tra primo e secondo tempo durante il quale andare a fare pipì, comprare gelati o bibite, ecc. Dividere e incollare – mostrando la divisione e l’incollatura - è una pratica distanziante.

Dogville e Manderlay, in particolare, sono inscenati come palcoscenici teatrali: al posto delle case e delle strade ci sono solo linee e segni sul pavimento. La mancanza di case e muri in Dogville fa sì che tutti i suoi abitanti siano visibili a ogni momento: l’intera comunità diviene quindi anche visivamente la protagonista pervasiva del film. Le differenze individuali risultano minimizzate rispetto alla polis, unita in una viltà e prepotenza condivise. E quando Grace diventa schiava di quella comunità, sentiamo ancora più forte la sua carcerazione in uno spazio dove tutto può essere guardato da tutti.

Eppure, von Trier non ripete il teatro epico di Brecht; in realtà, ci apre a una dimensione radicalmente tragica.  Ovvero, esalta al massimo i nostri affetti di pietà e angoscia – di eleos e phobos, diceva Aristotele nella Poetica[10].

Dancer in the Dark, abbiamo detto, si presenta come un film-balletto: in apparenza nulla di più estraniante. Come ci si può “identificare” a personaggi che di tanto in tanto si mettono a ballare? (Chi disse che non amava i melodrammi perché quando un protagonista sta morendo, continua a cantare a squarciagola?) Eppure, man mano che il film procede verso la catastrofe, aumenta la nostra perplessità e raccapriccio per questi balletti che risultano sempre più incongrui. Il culmine è raggiunto nelle atroci sequenze finali, in cui Selma – che sappiamo nel fondo innocente – viene portata al patibolo: il fatto che nella plumbea prigione dove si svolge l’esecuzione tutti ballino ci ferisce. La danza, espressione di gioia, viene scandalosamente giustapposta a una delle situazioni più tetre che si possano concepire. Lungi dall’estraniarci affettivamente alla triste sorte di Selma, il tenore non-realistico, da balletto, del film esalta il nostro sgomento.

Così, von Trier mette a nudo in ognuno una faccia “idiota”, un lato invalido, un’ingenuità quasi stupida, come l’altra faccia della nostra identità sociale. Egli tenta uno sguardo sugli infelici e sulla realtà dei rapporti sociali a un tempo distaccata e pietosa.

Paradossalmente, il massimo “realismo” è toccato proprio con Antichrist. In apparenza, si tratta di un film su una psicosi femminile. Ma a differenza di altri film di successo che hanno per protagonisti degli psicotici, Antichrist è esso stesso un film psicotico. Non è un film su deliri e atti di ferocia di una donna, ma è esso stesso un delirio e ha qualcosa di feroce. Qualcuno ha ipotizzato che von Trier stesso sia diventato o stia diventando pazzo. Certamente il film è una sorta di vendetta contro la psicoterapia cognitivista (a cui lui stesso, peraltro, si era sottoposto per un paio d’anni): il protagonista è in effetti uno psicologo cognitivo che cerca di curare – seguendo i moduli razionali del cognitivismo – la sua donna fortemente provata dalla morte del figlio piccolo. Con risultati catastrofici: alla fine, per salvarsi dalla furia sadica della sua compagna, la strangola. Il ritorno dell’inconscio in un contesto di scommessa illuminista sul primato della ragione. Più la protagonista scivola verso la follia, più il film diventa folle esso stesso – e, per molti critici, insopportabile. Ma la donna furiosa è lo sbocco della serie delle tante donne “demoniche” dei suoi film precedenti, dei cuori d’oro, delle vittime perseguitate, delle martiri idiote; ne è come il risultato psicotico. È lei l’Anticristo.

 

 

 

  1. 7.    Identificarsi all’aguzzino

 

Von Trier ha capito che la retorica brechtiana dell’estraniazione, come distacco ironico dal dramma, può essere utilizzata proprio per esasperare i nostri affetti e per pervertire le nostre identificazioni.

Nel film di Michael Haneke Funny Games (doppia versione, 1998 e 2008) due giovani biancovestiti tengono prigioniera una inerme famigliola – padre, madre, bambino – nella casa di campagna della famiglia. Impongono ai tre malcapitati, per divertirsi, raffinate sevizie, e li fanno fuori uno a uno con molta flemma. Questa storia così crudele è punteggiata da sequenze distanzianti. Una volta l’aguzzino bellissimo si rivolge al pubblico e, facendogli l’occhiolino, fa commenti sugli spettatori e sul film. Ora, questi espedienti distanzianti, lungi dall’attenuare il nostro coinvolgimento, di fatto acuiscono la nostra angoscia e il nostro disgusto per gli inutili supplizi. Intercalando meta-comunicazioni sul film stesso, la regia ci mette in fondo nella posizione distaccata dei due ilari assassini: non solo il pubblico piange le vittime a cui si identifica, ma viene come forzato a identificarsi, grazie all’ironia metalinguistica, agli stessi mostri. Haneke così ci svela il presupposto tutt’altro che fraterno, in fondo sadico, del distanziamento brechtiano: uno sguardo non coinvolto sulla sofferenza e l’ingiustizia ci identifica agli oppressori di Brecht come ai torturatori di Haneke, che sembrano contemplare con distacco la miseria e il dolore di cui sono artefici. E questa nostra identificazione ci disgusta. Il distanziamento può essere un moltiplicatore di emozioni, e non solo negative.

Cosa già suggerita da Pasolini nel finale di Salò-Sade (Salò o le 120 giornate di Sodoma, 1975). In un cortile i gerarchi fascisti sottopongono i loro giovani prigionieri ad atroci sevizie e li uccidono. Ma queste scene sono viste dallo spettatore da lontano, ovvero dal punto di vista di uno dei sadici. A turno, difatti, uno degli aguzzini guarda le scene crudeli da una finestra, attraverso un binocolo da teatro. A un certo punto uno di loro rovescia il binocolo e guarda le azioni da una distanza enorme. Morale: il vero sadismo consiste, ancor più che nell’infliggere dolore, nel considerare il dolore col massimo distanziamento. E questo nostro identificarci all’estraneazione indifferente esalta il nostro orrore.

In von Trier gli effetti emotivi non sono affidati unicamente al distanziamento, ma anche a marchingegni “espressionisti”. Ad esempio, nei primi venti minuti e oltre di Dancer in the Dark, ho provato un intenso malessere quasi fisico. Qui la macchina da presa inquadra i personaggi sempre troppo in basso, non lascia alcun spazio sopra le loro teste: appaiono come schiacciati da un soffitto immaginario, come creature che vivono nella chiusura della malattia e della miseria. Ma appunto: questa compressione sociologica non è meramente rappresentata, viene espressa da un modo di inquadrare schiacciante.

In Nymphomaniac il distanziamento dalla hybris di Joe, la ninfomane, avviene attraverso un contrappunto dotto e matematico. Nel caos della vita super-promiscua di Joe i due narranti – il vergine Seligman e Joe stessa – trovano un ordine segreto, musicale, polifonico. Qui il distanziamento dalla sessualità cruda, senza amore, si compie attraverso divagazioni colte, nel tentativo di sinfonizzare la vita informe di Joe.

Il progetto di Brecht era ambiguo. Forse proprio per questa ragione l’epoca della maggior fortuna di Brecht – gli anni ‘60 e ‘70 - fu anche l’epoca di splendore del suo inverso, del Teatro della Crudeltà ispirato ad Artaud. Il teatro e il cinema d’avanguardia dell’epoca si volevano molto spesso sia brechitiani che artaudiani. Da una parte il razionale teatro epico, che mirava a farci pensare più che a commuoverci, dall’altra l’irrazionalissimo teatro della crudeltà che mirava a sconvolgerci. Com’era possibile combinare l’umano distacco riflessivo di Brecht con l’inumano dionisismo di Artaud?

È che in fondo la vera crudeltà – come quella che metteva in scena il marchese de Sade – implica sempre la rappresentazione di un distanziamento, e un certo distanziamento dalla rappresentazione. La Verfremdung brechtiana era in fondo un illusionismo, in quanto ci illudeva sulle nostre capacità critiche, voleva farci credere che a teatro possiamo essere “scientifici” facendo a meno di identificarci agli eroi. Von Trier ha capito che mettere in scena la crudeltà della condizione subalterna esige un’artificiosità che sola è capace di spezzarci il cuore.

Così, von Trier persegue un cinema tragico radicale. In effetti, ci mostra esseri che non possono fare a meno di suscitarci pietà e angoscia. Proprio perché ci distanziamo dai destini penosi di Bess, Karen, Selma, Grace (la furiosa protagonista di Antichrist), Claire (l’auto-distruttiva protagonista di Melancholia), Joe (la ninfomane), le loro storie ci straziano. Gran parte dei film di von Trier hanno un impatto emotivo talvolta oltre i limiti del tollerabile. Varie persone mi hanno detto che non vanno a vedere von Trier perché qualche suo film li aveva fatti soffrire troppo. “Non sono così masochista!” Von Trier non risparmia lo spettatore – al contrario del cinema dominante, dove in qualche modo si impone sempre un lieto fine, anche se talvolta sotto le mentite spoglie del finale triste. Anche Aristotele diceva che la tragedia non doveva essere troppo amara, che la rappresentazione di un uomo completamente giusto che patisca un destino assolutamente penoso è insopportabile, perché ferisce la philanthropia dello spettatore[11]. Per questa ragione, ad esempio, per secoli i registi si rifiutavano di far morire Cordelia alla fine di Re Lear. Il pubblico non lo avrebbe sopportato. Ecco, von Trier tenta un tragico non filantropico, non-aristotelico, che non si apre sulla Speranza, ma si arresta alla rappresentazione del dolore della nuda vita. In Melancholia questa fine di ogni speranza viene radicalizzata: il pianeta terra e la vita tutta sono annullati.

 

 

  1. 8.    Demoni nel paradiso

 

          Von Trier vive in un paese che – secondo le classifiche redatte dagli esperti della Felicità nel mondo – gode di massimo benessere sociale. La Danimarca, assieme a qualche altro paese scandinavo, occupa i primi posti nel mondo per qualità della vita, reddito pro capite, libertà democratiche e servizi sociali, sensibilità ecologica, speranza di vita, eguaglianza di genere, ecc. Insomma, la Danimarca ci appare un angolo felice del pianeta. È un paradosso o un sintomo il fatto che proprio da questo paese così invidiabile ci venga un cinema così tragico, ai limiti del tollerabile?

Spesso von Trier situa i suoi Calvari in un’America di maniera, cinica egoista e schiavista, come vuole un certo cliché, per dare una credibilità sociologica al malessere dei suoi personaggi (peraltro von Trier non è mai stato negli Stati Uniti: la sua fobia dei viaggi aerei non glielo permette). Il titolo dato alla sua (incompiuta) trilogia - “USA, Land of Opportunities” – ha un sapore evidentemente ironico[12].

Il modo in cui von Trier rappresenta questa America, più simbolo che realtà, ricorda il modo in cui Brecht (1938) evocò la Germania nazista in Terrore e Miseria nel Terzo Reich. Tutt’oggi si rappresenta spesso quel mosaico drammatico di Brecht, perché quel che ci turba nel fondo non è tanto la messa in scena della degradazione del vivere in quel regime totalitario: dietro il paravento del terrore hitleriano, Brecht di fatto ci mostra quanto sia misera e terribile la convivenza sociale in quanto tale. Come se il Terzo Reich mettesse in vivida luce una malvagità e crudeltà intrinseche ai rapporti umani. “Beati i paesi che non hanno bisogno di eroi” – disse Brecht - ma di fatto in Terrore e Miseria ci mostra che ogni paese – foss’anche politicamente beato - ha bisogno di eroi. Non a caso, qualche anno dopo, Sartre (1944) in A porte chiuse farà dire finalmente a un suo personaggio, gnomicamente, “l’inferno sono gli altri”. Che potrebbe declinarsi come “il nazismo sono gli altri”. In von Trier, dietro l’ironia sulla ”terra delle opportunità” si fa largo una denuncia del vivere sociale tout court.

In effetti, l’opera di von Trier, a differenza di tanto cinema o teatro “di sinistra”, non indulge in alcun encomio della fondamentale bontà e saggezza del Popolo. Al contrario, Dogville mostra che le persone semplici possono diventare cinici persecutori. Metti una qualsiasi brava persona nella posizione giusta, e diventerà un aguzzino (come mostrò Stanley Milgram con un esperimento famoso [13]). Questa denuncia dell’orrore della banalità quotidiana è proprio nella tradizione americana. Ma Dogville, cittadina-canaglia, può essere ubicata in qualsiasi parte del mondo – non a caso egli ce la presenta come una città da palcoscenico, fatta di puri segni[14].

Eppure alla fine di Dogville vediamo una serie di fotografie di una vera e povera cittadina americana negli anni ‘30. Non dovremmo però prendere queste foto come un ripensamento per lo stile teatrale del film, come a dire “guardate che gente come quella di Dogville avrebbe potuto esistere nell’America reale!” In realtà quelle foto finali creano uno spaesamento stilistico. Il film alla fine appariva una sorta di apologo settecentesco di carattere quasi filosofico, come certi drammi di Marivaux che illustravano una controversia scientifica sulla natura umana; sembra una parabola sceneggiata. Con quelle foto invece siamo tuffati nella realtà dell’epoca della Depressione economica. L’inverso avveniva in Breaking the Waves, dove delle forme grafiche irrealistiche rompevano il continuum realistico del film: anche qui, pur se in senso inverso, il regista ci infliggeva uno stridore stilistico. In Breaking the Waves l’artificio spezzava una storia verosimile e situata in uno spazio e in un tempo precisi, in Dogville il realismo delle foto finali rompe l’artificiosità didascalica del film.

Insomma, von Trier ci disloca. Quando ci coinvolge in una vicenda che ci sembra vera, ci ricorda che si tratta solo di una finzione artistica; quando siamo convinti di assistere a una parabola dimostrativa quasi astratta, ci ricorda che tutto potrebbe essere vero e concreto. Questa dislocazione quindi mira a dirci che la funzione del cinema non dovrebbe essere quella di imitare la realtà – di fatto, spingendo così sempre più la realtà a imitare il cinema – ma a portarci verso il Reale, verso un nudo dolore della vita che il cinema può solo indicare.

 

  1. 9.    Il sadico sofisticato

 

Questo saggio è stato scritto prima dell’uscita del film The house that Jack built (La casa di Jack) nel 2018. Qualcosa va aggiunto a proposito di questo film, che ci descrive i vari omicidi di un serial killer, fino alla sua morte. La trilogia precedente, quella sulla Depressione, metteva in scena una sorta di hybris, di eccesso, di rottura di ogni limite. In tutti e tre i casi questa hybris era messa in atto da donne. Grace (Antichrist) porta la psicosi fino alle estreme conseguenze. Claire (Melancholia) in un solo giorno distrugge il suo matrimonio, la sua carriera, se stessa, anticipando così la distruzione cosmica della Terra. Joe (Nymphomaniac) porta all’estremo limite la promiscuità sessuale, fino all’assassinio. Qualcuno ha detto che in queste eroine von Trier abbia voluto rappresentare i propri eccessi, l’uso di alcool e droghe, i suoi breakdown psichici, le sue fobie… In un certo senso, la donna resta la vittima designata, ultimativa, di un disordine che ora non viene più dagli altri, dal mondo esterno, ma dal soggetto stesso: una profonda carica di auto-distruzione dalle origini oscure che una donna emana da se stessa.

Con l’ultimo film abbiamo invece, finalmente, un protagonista uomo, che uccide soprattutto donne per il puro gusto di uccidere. In una stanza-ghiacciaia conserva i corpi delle sue vittime, sui quali opera macabre operazioni. È quando tenta di uccidere vari uomini che si lascia trovare dalla polizia e muore. Il carnefice delle donne non è generico, ma un uomo.

Il regista insiste sul contrappunto di una casa che Jack vorrebbe costruire per sé, in riva a un lago, e che per una serie di ragioni egli non riuscirà mai a costruire. Questa casa mancata dà titolo al film. Solo alla fine, un demone che lo segue si palesa e gli fa costruire una sorta di casa derisoria con i corpi delle sue vittime nella ghiacciaia in cui li nasconde. Come interpretare questo fallimento del serial killer sadico nel costruirsi una casa?

Grazie alla psicoanalisi, sappiamo che – soprattutto nei sogni – la casa rappresenta il soggetto stesso in quanto si vuole dentro-di-sé, in un sé che lo protegge. Sembrerebbe che i suoi delitti più o meno efferati fossero il suo modo di “costruirsi”, anche se lui non se ne rendeva conto. Uccidendo, costruire se stesso. Ma evidentemente c’è uno scacco: l’uccisione seriale soprattutto di donne non gli permette di dare una consistenza a se stesso. Solo alla fine, derisoriamente, sotto il suggerimento del demone, Jack “costruirà” la sua casa sovrapponendo i cadaveri. Ma la costruzione finale della casa-sé coincide con la sua morte, e con il suo viaggio infernale finale, cioè col suo fondersi con la lava infuocata dell’Averno.

Ma la casa delimita un vuoto, quello che il soggetto – l’abitante – vuole occupare. Costruirsi una casa è costruirsi qualcosa di vuoto, che Lacan chiamerebbe das Ding, la cosa. Jack sembra cercare la sua Cosa in maniera doppia: uccidendo e conservando in ghiacciaia tutti i cadaveri, e costruendo una cosa che non prenderà mai forma. Alla fine le due operazioni convergono, ma la Cosa coincide con la propria distruzione, che avviene in due tempi (il che ricorda la “doppia morte” di Lacan). Prima muore fisicamente nella sua casa fatta di cadaveri, poi muore precipitando nella bolgia infernale. Di Jack non può restare nemmeno l’anima.

 

 

 

Bibliografia

 

 

 

Agamben, G. (1995) Homo sacer. Torino: Einaudi.

 

Brecht, B. (1938) Terrore e Miseria del Terzo Reich. Torino: Einaudi, 1963.

 

Fortuna, S. & Scuriatti, L., eds., “On Dogville [Lars von Trier]”, Dekalog 5. London-New York: Columbia University Press, Wallflower, 2012.

 

Marivaux, P.C. de Chamblain de (1744) La dispute, in Oeuvres Complètes. Paris : Crémille, 1973.

 

Milgram, S. (1983) Obedience to Authority: An Experimental View. New York: Harper/Collins.

 

Sartre, J.-P. (1944) A porte chiuse. Milano: Bompiani, 1991.

 

 

 

 

 

 



[1] Chiamato anche Dogma # 2.

 

[2] Distribuito in Italia col titolo Le onde del destino.

[3] Il film che mi ricorda più da vicino la trilogia del “Cuore d’Oro” è La vita di O’Haru, donna galante (1952) di Mizoguchi: narra la vita dolorosissima di una donna che subisce ogni genere di angherie, e che finisce prostituta povera.

 

 

[4] Direktøren for det hele, 2006; Il grande capo.

 

[5] Antichrist sarebbe il primo film di una trilogia che lui chiama “della depressione”, a cui seguiranno Melancholia e Nymphomaniac. Non è irrilevante però il fatto che le protagoniste “depresse”, o comunque preda di passioni eccessive, siano appunto donne.

 

[6] Riget, 1994, 1997.

 

[7] Persino Emily Watson - la Bess di Breaking the Waves – è per certi versi ancora troppo bella e “sveglia” rispetto al personaggio.

[8] In particolare: Agamben 1995.

[9] L’idea di rappresentare la realtà come balletto è stata ripresa, ad esempio, da Paolo Virzì in Tutta la vita davanti (2008) in stile da commedia all’italiana: all’inizio del film, la protagonista disoccupata percepisce le folle mattutine che vanno al lavoro come se danzassero. Anche qui, la forma coreografica sortisce un effetto ironico, dato che il viaggio mattiniero verso il posto di lavoro è di solito un momento grigio della giornata.

 

[10] Poetica, 49b, 25.

[11] Poetica, XIII, 2, 12 (Bekker 1452b, 40).

 

[12] Dogville e Manderlay (2005) sono i primi due film di questa trilogia “americana”.

 

[13] Con questo Milgram (1983) mostrò come la maggioranza delle persone, scelte a caso, in una situazione in cui un’autorità ordina loro di seviziare una persona (per supposte ragioni scientifiche), finiscono col farlo davvero senza opporre alcuna resistenza.

 

[14] Fortuna & Scuriatti 2012.

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