Flussi di Sergio Benvenuto

MUNNEZZA [1]26/mag/2016


Da bambino a Napoli negli anni 50 [2011]

 

          Tutti i media nel mondo hanno parlato, per anni, dell’immondizia a Napoli. Ovvero della misteriosa incapacità dei napoletani e dei campani in genere a smaltire tonnellate di rifiuti dei privati. Nel giugno del 2011 nel mondo si parlava di scontri tra napoletani esasperati e polizia, di sacchi di immondizia dati alle fiamme, di popolazione che rovescia centinaia di sacchi della spazzatura nelle arterie di grande traffico... Oggi la situazione sembra un po’ migliorata. Ma trovo illuminante il fatto che in tutta Italia il termine munnezza venga usato solo per indicare l’immondizia specifica di Napoli e della Campania, luoghi dove si compie l’Eterno Ritorno della Spazzatura.

 

La Città più sporca del mondo

          Già negli anni 50, quando vivevo da bambino a Napoli, questo Eterno Ritorno faceva parte di una identificazione essenziale di Napoli. Lo capii quando, a otto anni, passavo un’estate a Urbino nelle Marche, ospite di una zia. Cercavo di giocare con dei bambini circa della mia età, ma loro a un certo punto mi respinsero dicendo “tu vieni da Napoli, è piena di immondizia e di cacca”. Mi offesi. Da bambini si è sempre molto patrioti (per questa ragione, quando incontro un sincero patriota, lo percepisco ipso facto come infantile). Mi sentii umiliato dal modo in cui al Nord persino i pargoli vedevano il mio comune di residenza. Riparai affranto da mia zia. Fu uno dei rari casi della mia vita in cui ho subito una discriminazione etnica.

Da allora feci caso che le strade di Napoli erano spesso decorate da ammassi di spazzatura, a differenza delle altre bellissime città del Centro e del Nord dove d’estate mi portavano i genitori. Mi convinsi allora – una convinzione che mi durò fino a quando, dai 19 anni in poi, non andai a vivere all’estero – che abitavo non solo in una città sporca, ma nella Più Brutta Città del Mondo.

Da piccolo, avevo orrore delle vecchie case partenopee con i muri rosi dalla lebbra, delle mutande e canottiere lasciate sgocciolare sopra le teste dei passanti, sospese su fili che univano le case fruste ai due lati di un vicolo; non mi piacevano gli abiti-stracci spesso inzuppati di sudore dei poveri, le anziane donne magari ex-puttane con i loro sottanoni rigonfi, i vasci bui e angusti che si affacciavano sulle stradine della vecchia Napoli come bocche rigurgitanti carne umana. Solo in seguito, dopo aver consumato fino in fondo l’amaro calice del risentimento per il luogo natale, acquisendo lo sguardo con cui un milanese o un parigino potevano guardare Napoli, cominciai a essere scosso dal fascino struggente di una città eccessiva, dove la vita si auto-esalta in quanto sempre, con ostinazione, rispunta e pullula alla superficie di un mondo devastato. Napoli cominciò, tardi, a sedurmi quando capii che la vita freneticamente si dissemina, e caparbiamente insiste, nella Città Più Brutta del Mondo.

          Una volta, alla fine degli anni 50, la città già sporca in se e per se fu deturpata da un lungo sciopero dei netturbini, o spazzini come si diceva allora. Quanto durò? A me sembrarono mesi. All’epoca l’immondizia non era castigata in sacchetti di plastica, i materiali non riciclabili erano rari. L’immondizia era accumulata in monticelli per le strade nella sua forma oscenamente “naturale”, era come se l’intera città avesse vomitato per le sue strade e piazze sviscerando le sue budella, si saltellava tra verdure, maccheroni, cartacce, stracci pisciosi. Mio padre era molto preoccupato: “Siamo alla vigilia dell’estate, può scoppiare un’epidemia”. La sua angoscia mi contagiò. Un’epidemia di colera ci fu veramente a Napoli, ma solo nel 1973. Si disse che l’origine di quel morbo d’altri tempi e d’altre latitudini fosse un tipo speciale di lerciume: le cozze allevate nel golfo di Napoli, formidabili attrattori di inquinamento marino.

          Eppure all’epoca quella immondizia così invadente era ben poca cosa rispetto a oggi. Nelle nostre società prospere e iper-industrializzate si consuma tanto, ma si generano anche tanti rifiuti. All’epoca, lo spazzino passava ogni giorno bussando alla porta - lusso inaudito oggi! - e ogni volta bastava consegnargli il bidone di stagno che raccoglieva i resti dei nostri consumi familiari. Era un ragazzone vestito sporco, come si addice a uno spazzino, che andava per i vari palazzi portandosi a spalla un saccone marrone ruvido. Ogni famiglia gli consegnava il suo bidoncino e lui ne rovesciava il contenuto amorfo nel saccone. Se lo rimetteva sulla spalla e andava a bussare alle altre porte. Un solo sacco bastava per raccogliere i rifiuti di 45 famiglie. Allora c’erano meno rifiuti perché si consumava meno, suppongo, e non si buttava via nulla.

          Non si buttavano nemmeno le tante carte marroni e rugose con cui erano state avvolte frutta e altri alimenti: era la carta che poi, rieducato alla linguistica strutturale, chiamai “carta di grado zero”. Era carta grigioverde ruvida e scontrosa, che i mercanti avvolgevano con rapida grazia a forma di cono – o cuoppo - ed entro cui infilavano i cibi. La carta non veniva mai buttata, non foss’altro che per l’uso anale. Ricordo quando vidi per la prima volta un rotolo di rosea carta igienica in una casa più ricca della nostra: all’epoca una chiccheria. La carta che si usava nel gabinetto era quella dei giornali, e oggi mi stupisco che per una vita intera le mucose anali di varie generazioni siano state spalmate di tanto inchiostro tipografico. Ma la nostra famiglia era colta, cosa accadeva in famiglie semi-analfabete che non compravano giornali? Nel bagno si usavano anche le schedine del totocalcio; una faccia di quei fogliettini aveva stampata la griglia delle partite di calcio della domenica di cui bisognava prevedere l’esito con segnetti a penna; l’altra, più utile per usi anali, era vuota.

          A me come agli altri miei amici e coetanei era quasi sconosciuta la doccia, a parte quella fatta in spiaggia, dopo il bagno a mare. Ricordo la prima doccia della mia vita: fu nel 1964, in un ostello della gioventù parigino. Da noi ci si faceva il bagno nella vasca, ma non più di due o tre volte al mese, di solito si approfittava della vacanza domenicale.

Tutti, tranne i più poveri, avevano il bidet, status symbol della Civiltà, ma da bambino non l’ho mai usato, mi chiedevo anzi a che cosa servisse. Anche qui, ne ho apprezzato l’uso solo andando a vivere all’estero, quando cioè ho dovuto convivere con la sua mancanza,, e ora la sua presenza mi è così indispensabile che mi chiedo come i non-italiani riescano scandalosamente a farne a meno. Da bambino ho sempre avuto il bidet ma non lo usavo; da grande, abitando all’estero, non l’avevo ma avvertivo un bisogno strenuo di usarlo.

C’era poi la “carta bella”, quella usata da pasticcieri per avvolgere dolciumi, carta lucida e colorata: mia madre con pazienza stirava lentamente con le mani ogni “carta bella” e la conservava in preziose pile, perché “la carta è sempre utile”, magari per avvolgere regali, quelli che venivano dati ai familiari la notte di Natale o alla Befana. 

 

A Napoli non ci si bagna

          Nel Dopoguerra, fino alla fine degli anni ‘60, all’Eterno Ritorno della Spazzatura si volle aggiungere una forma più modernista di sporcizia: quella industriale. Gli illuminati politici dell’epoca dissero “basta con la Napoli delle canzonette, delle barchette di pescatori e delle pizzerie! Napoli deve divenire un grande polo industriale, come Milano e Torino!” Così, in men che non si dica, le coste di uno dei più bei golfi del mondo vennero stravolte dalle ciminiere dell’Italsider, perché Napoli doveva essere una capitale siderurgica come Essen e Brema. Ed enormi fabbriche chimiche puzzolenti. Per molti anni quando in auto, passata la stazione ferroviaria centrale, si imboccava l’autostrada Napoli-Pompei, in tutta fretta si dovevano chiudere i finestrini e tapparsi il naso, perché un puzzo penetrante, non so se di zolfo o di quale altra mefitica sostanza, per alcuni chilometri accompagnava il viaggio che doveva portarci agli scavi di Pompei o sulle splendide costiere sorrentina e amalfitana. Ma non ricordo mai che qualche adulto avesse protestato “che orrore queste fabbriche maleodoranti!”, allora ci sembrava che puzze, smog, bruttezza fossero un costo tutto sommato sostenibile per usufruire dei benefici mirabolanti del Progresso. Così lo scempio delle coste napoletane con acciaierie e raffinerie ci sembrava quasi bello, è come se ci fossimo convertiti tutti all’estetica futurista di Marinetti, il quale 50 anni prima voleva radere al suolo Venezia per sostituirla con una enorme fabbrica automobilistica.

Di sera si andava nei bar chalet sopra la costa di Posillipo, delizioso promontorio che separa il Golfo di Napoli da quello di Pozzuoli, e non ci dispiaceva affatto assistere, da lontano, alle notturne colate incandescenti delle fabbriche di Bagnoli che illuminavano la notte marittima. Evidentemente quelle colate di fuoco sostituivano quelle del Vesuvio, la cui ultima eruzione risale al 1944, vulcano che da allora minacciosamente dorme. E’ come se l’industria più inquinante e sgraziata avesse sostituito all’incontrollabile spettacolo lavico della natura uno spettacolo simile ma controllabile, e Napoli non potesse fare a meno di strofinarsi a una fiumana di luce ardente.

          Il risultato fu che a Napoli non fu più possibile farsi i bagni, d’estate. Quando ero molto piccolo, si andava alla bella spiaggia di Coroglio, alla periferia di Napoli. Talvolta vivevo l’emozionante esperienza di andare a Coroglio su una camionetta dell’esercito, si vede che all’inizio degli anni 50 il Ministero della Difesa pensava che permettere alle famigliole napoletane di farsi il bagno fosse un’emergenza militare. Ma dopo pochi anni Coroglio, e così tutte o quasi le spiagge del golfo di Napoli e di Pozzuoli, furono proibite ai bagnanti, il mare di fronte a cui Cicerone costruì la sua villa era diventato una fogna in cui scaricare i liquami delle fabbriche. Così il titolo dato da Annamaria Ortese a un romanzo del 1953 che all’epoca ebbe grande fortuna – “Il mare non bagna Napoli” – si rivelò profetico.

Ci vollero più di vent’anni perché ci si rendesse conto che deturpando quelle coste si dilapidava la vera ricchezza di Napoli e dintorni:  la bellezza accecante di una natura lussureggiante, inno lascivo al dolce far niente.

 

 

L’Altro Provvidenziale

Da dove nasce questa osmosi storica tra Napoli e l’immondizia? Secondo me dal fatto che i napoletani contano sull’Altro Provvidenziale. Ad esempio, all’epoca si potevano buttare dalla finestra, per strada, oggetti di cui non si aveva più bisogno; questo rito era anzi prescritto la notte di Capodanno, bisognava buttar giù oggetti vecchi. Più volte le donne dei vicoli uscivano spavalde dalle loro case o tuguri rovesciando la loro immondizia per strada. Chi avrebbe raccolto tutto questo? L’Altro Provvidenziale appunto. Spazzini, comune, stato nazionale, S. Gennaro, non aveva nessuna importanza: l’Altro se ne occuperà.  Insomma, Napoli è troppo nobile per occuparsi essa stessa dei propri rifiuti. Ha bisogno di un servitore che se ne prenda la briga, ma oggi, in democrazia, non ci sono più servitori.

Questo era vero anche a casa mia, eppure non eravamo una famiglia tanto eccentrica: quando fumavamo, si poteva gettare la cenere e talvolta anche le cicche sul pavimento. Dopo aver tirato la catenella del cesso non era nemmeno importante pulire poi la tazza con lo scopettino. L’Altro poi avrebbe provveduto. Se si era maschi, si era serviti dalle donne di casa come il prete all’altare: non mi si è mai chiesto di preparare o sparecchiare la tavola, di cucinare qualche cosa, di lavare i piatti, di fare la spesa… Quando ho collaborato a fare tutto questo, era per mio divertimento. Ma questo privilegio dei maschi in casa diventa su scala urbana il privilegio di tutti i napoletani: non sono tenuti a preoccuparsi dei loro rifiuti. Napoli è sporca perché è una città fondamentalmente povera che ha vissuto sempre con aristocratica spensieratezza. Non a caso una delle commedie napoletane più famose è Miseria e nobiltà di Scarpetta, dove nobili e ricchi se la fanno con i miserabili, e questi possono recitare il ruolo di nobili e ricchi.

          Questo sorprenderà chiunque pensi, giustamente, che a Napoli nessuna vera barriera divida il pubblico dal privato: la casa trasuda fuori verso il balcone, il terrazzo, il cortile, la strada. E all’inverso l’esterno può introdursi senza colpo ferire nell’interno. Napoli non ha sviluppato il rispetto ritroso per la privacy. Ma l’esterno è costituito dagli altri, non dallo spazio urbano: questo è una sorta di vuoto informe nel quale scaricare tutto ciò che non va.

Napoli da sempre ha nutrito una signorile strafottenza per le conseguenze e le responsabilità. All’epoca, i Capodanni a Napoli erano spettacolari: quasi ogni famiglia comprava una vasta batteria di fuochi artificiali, di cui alcuni pericolosi se non proibiti; prima della notte di S. Silvestro, un vasto mercato nero dei ‘botti’ permeava le arterie della città. Il risultato era, a mezzanotte, la trasformazione esplosiva della città in una massa di fuochi colorati e fumo spesso. Ovviamente alla fine si contavano incendi, feriti, amputati, morti… Ma cosa importava? Un nostro amico di famiglia era un ufficiale di polizia incaricato di trovare e sequestrare tutti i fuochi artificiali illegali, cosa che lui faceva con grande scrupolo poi, la notte di Capodanno, li portava da noi o da qualche altro amico e li sparava tutti lui.

A Napoli si dà per scontato che la gioia costa, che alla risata debba sempre seguire il pianto o l’urlo, e viceversa. Se si ha la vocazione di godere, soffrire è da mettere nel conto. E quando si è nel baratro, si spera sempre che la luce torni, “adda passà a nuttata!” si dice a Napoli, come in Napoli milionaria di Eduardo. La notte passerà sempre. Ma ogni giornata finirà sempre in qualche nottata.

 

 

Bozzetto

Allora c’erano poche auto, la motorizzazione di massa irruppe solo alla fine degli anni 50. Autobus e filobus erano irregolari e strapieni. Molto spesso andavano con le porte aperte, perché grappoli umani restavano aggrappati al predellino come l’edera si avvinghia ai muri screpolati; i miei si rifiutavano di prendere quei carri-bestiame. I mitici scugnizzi, ce n’erano ancora tanti all’epoca, si aggrappavano invece alla grande ruota di scorta dietro ogni filobus o autobus, un po’ per divertirsi un po’ per usufruire del passaggio gratis.

          Napoli me la ricordo fatiscente, scabra e allegra. Quando c’erano grandi feste come Piedigrotta a settembre, o Carnevale, le strade della città erano invase dalla gente anche perché le auto erano rade. Strade e piazze mi apparivano immense, certo eccessive rispetto al traffico di carri e cavalli per cui erano state concepite. Non erano colli di bottiglia del traffico qual sono oggi. Per me Piedigrotta, festa cittadina, era più divertente di Carnevale, perché noi bambini ci travestivamo con abiti di carta colorata confezionati dalle nostre madri, zie e nonne. Un anno fui molto fiero di vestirmi da Legionario straniero.

Nella Napoli di allora si vedevano tante feste, e anche tanti funerali. Oggi la morte non è più pubblica, i funerali si fanno in chiesa, insomma la morte non si deve esibire più. Invece all’epoca si facevano sempre lunghi cortei funebri per le strade, anche perché le auto non esigevano, come oggi, tutto lo spazio per sé. Il corteo seguiva un pomposo carro funebre, anche i poveri concedevano ai loro cari da morti l’unico lusso, forse, che si fossero mai potuti permettere: un monumentale carro nero a vetri, dentro vi si vedeva la bara. A Napoli, i funerali compensavano quella gloria che di solito non si era avuta in vita. Strazianti i cortei composti da cinque o sei persone, che così esaltavano la solitudine in cui l’estinto era vissuto. Non meno mesti i cortei funebri dietro un carro bianco: il bianco significava che il morto era un bambino. I napoletani gettavano via i loro rifiuti, ma non i loro morti: i sopravvissuti si facevano essi stessi, una volta tanto, Altro Provvidenziale. Così, quando si perdeva una persona cara, le donne portavano abiti neri per mesi e per anni, gli uomini si limitavano a portare, per mesi o per anni, una vistosa fascia nera attorno a una manica di ogni loro vestito.

          Ogni tanto per strada sostava il pianino. Su un carretto trainato da un asino c’era un organetto automatico, che suonava canzoni popolari svolgendo un programma a schede perforate azionato a mano con una rude manovella. Sentivo quei suoni vibranti come lontani e strazianti, una versione plebea dell’Aldilà. Ogni tanto passava l’arrotino, con il suo carrettino, e gridava “arrutinoooo….”, le donne con le loro gonnone scendevano giù dalle loro case per farsi arrotare i coltelli. Ogni tanto da qualche finestra una donna faceva scendere fino in strada con una corda un tondo panierino di vimini, entro cui il fornitore metteva cibo o altra roba, e la donna lo tirava su. All’epoca gli ascensori erano rari.

          In alcuni angoli ogni tanto c’erano e’ guarrattelle, il teatro di burattini. Oggi si può vedere questo spettacolo a Roma nel parco del Gianicolo: qui le voci degli spettacolini sono registrate, mentre il burattinaio è vivo, insomma, queste esibizioni sono riproposte come pezzi da museo. Ma all’epoca non avevamo alcuna coscienza filologica, noi bambini ci divertivamo un mondo a seguire in piedi sul selciato spesso sterrato quelle farse straccione. L’eterno protagonista era Pulcinella con la voce chioccia, da pulcino invecchiato, spesso affamato, che se le dava di santa ragione a colpi di mazze con lo sbirro o il cattivone di turno. Pulcinella parlava in napoletano, “i cattivi”, “gli sbirri” e “i signori” invece in buon italiano. L’italiano corretto, tronfio, era la lingua del Padrone. Nostro padre, poi, in casa imitava il teatrino stringendosi le narici con il pollice e l’indice e facendo la voce in falsetto di Pulcinella. Oggi non si danno più spettacoli di guarrattelle per le strade di Napoli, i bambini guardano solo televisione e internet.

A quell’epoca i divertimenti correnti erano la radio e il cinema, la città era disseminata di cinema. Si poteva entrare nel cinema quando si voleva, anche verso la fine del film, quindi si vedeva subito come andava a finire. All’epoca questo non sembrava bizzarro – da qui un Verfremdungseffekt, uno effetto di straniamento, che sarebbe piaciuto molto a Bertolt Brecht. Perché andare a cinema era ancora una festa: per parafrasare de Coubertin, l’importante del cinema allora era parteciparci, più che capire. Era una fruizione appunto brechtiana, ovvero “epica”, nel senso che c’era attenzione per ogni fase del film presa in sé, e non una tensione “drammatica” verso il finale ignoto, anche perché non era ignoto, dato che si era entrati verso la fine. Tra una proiezione e l’altra c’era sempre un noioso cinegiornale in bianco e nero di sfacciata propaganda democristiana; mostrava sempre ministri e notabili che tagliavano nastri per inaugurare qualche mostra o fiera voluta dal nostro saggio governo. Ovviamente si fumava, senza che questo suscitasse la minima protesta da parte della maggioranza dei non-fumatori; non essendoci portacenere al cinema, tutti buttavano cenere e cicche per terra. Da bambino ho respirato fumo di sigarette a pieni polmoni. E ancora di più ne respiravo in casa, mio padre e mia madre fumavano entrambi come le ciminiere di Bagnoli. Ma non sono morti di cancro al polmone.

          Qualche volta, come regalo speciale, mi si comprava una banana. All’epoca la banana era ancora frutto esotico e di lusso, quindi pericoloso. Correvano leggende metropolitane, come quella che non bisognasse mai prendere tra le mani la buccia della banana, ma toglierla solo con il coltello. E poi, non si rischiava sempre di scivolare sulla buccia di banana? La banana veniva dall’Africa, quindi portava con sé morbi e tentazioni tropicali. “Pensa che tanti bambini poveri non se la possono comprare!” mi diceva mio padre. Me la mangiavo quindi assaporando anche un privilegio sociale. Quanto ai famosi “bambini poveri” – di cui, è vero, la città era zeppa – essi hanno aleggiato sempre attorno alla mia infanzia come un cuscinetto moralizzatore: “fai storie che non ti piacciono gli spinaci! ma non pensi che invece i bambini poveri non se li possono permettere?” Oppure mia madre ci diceva: “ci vorrebbe un’altra guerra! imparereste così a mangiare tutto.” Il memento degli infanti poveri e della guerra finita provvidenzialmente prima che io nascessi funzionava a perfezione per temperare gli impertinenti desideri infantili.

          Eppure i bambini del Lumpenproletariat godevano ogni tanto di privilegi immaginari. Quando ero bambino, Napoli fu infestata prima da una epidemia di vaiolo, poi da una di poliomelite, prima che il vaccino anti-polio venisse scoperto. Si disse allora che la poliomelite colpiva soprattutto i bambini delle classi più agiate, insomma bambini come me, perché “la sporcizia protegge dal virus i bambini poveri”. Era una leggenda, ma faceva aleggiare sulla città una sorta di Angelo vendicatore della giustizia sociale.

C’erano i cibi per poveri, che una buona famiglia borghese come la mia non avrebbe comprato mai e poi mai: il pane nero (che oggi invece è alimento chic) e i fagioli neri. Tutto ciò che tendeva al nerastro aveva un marchio pauperistico, quindi disgustoso. Il bianco – dello zucchero, dei confetti di matrimonio, della panna, del neon, dell’abito da sposa o della prima comunione, delle navi transatlantiche, delle lenzuola di lino, ecc. – evocava invece un mondo prospero, perbene, “americano”.

          Napoli è stata sempre la Oxford del ladrocinio. L’abilità degli svaligiatori napoletani è leggendaria, come l’abilità dei pizzaioli, degli attori e filosofi partenopei. Corruzione, traffici loschi, malaffare, furti, sono le attività grazie a cui una parte della ricchezza napoletana è ridistribuita ai ceti più poveri o più furbi. Non c’era ancora il traffico della droga, che era “cosa americana”, riservata insomma a popoli iperbolici per ricchezza e depravazione. All’epoca prosperava il bonario contrabbando delle sigarette. Una percentuale cospicua della popolazione viveva di contrabbando. Al largo del Golfo, barche-pirata andavano a prelevare quintali di sigarette dalle navi straniere. In molti angoli di strada c’era una seggiola o un baracchino con pile di “stecche” o pacchetti di contrabbando – “americane! svizzere!” gridavano i venditori – offerti a prezzi più vantaggiosi delle sigarette nazionali vendute nei Sali e Tabacchi. Trovo strano, ancora oggi, che la vendita del vizioso tabacco e del virtuosissimo sale sia monopolizzata dallo Stato italiano. Mia madre e mio padre, quando rimanevano a corto di sigarette, scendevano per strada e c’era sempre, anche di sera tardi, un contrabbandiere con i suoi pacchetti americani sulla seggiola.

 

Cibi di barbari

          Ovviamente la pizza faceva parte della nostra dieta. Ma essendo noi famiglia numerosa, non avevamo i soldi per andare tutti in pizzeria. Andare a mangiare una pizza in una pizzeria, seduti, allora era un lusso; la pizza era “il pronto soccorso dello stomaco”, la si comprava al volo per strada, il pizzaiolo la infilava tutta calda in una carta e la si mangiava camminando. Qualcuno della nostra famiglia andava a comprare le pizze a via Luca Giordano, e le si portava a mano a casa. A quell’epoca un genio non aveva ancora inventato gli scatoloni di cartone piatti e quadrati che consentono oggi il trasporto manuale delle pizze: allora il pizzaiolo ripiegava ogni margherita in due e la metteva in un cartoccio di carta di grado zero, e noi ce la portavamo a casa. Questa stava a tre-quattrocento metri, c’era quindi abbastanza spazio e tempo perché tutto l’olio colasse giù. L’olio mi ungeva le mani scottate dalla pizza e spesso sgocciolava sui calzoncini corti tenuti da bretelle. Quando si dispiegavano le margherite sui nostri piatti, erano secche e informi perché l’olio si era trasferito nella cartaccia.

          Il dolce preferito, che si mangiava a Carnevale, era il sanguinaccio. A Carnevale nelle campagne si ammazzava il porco. Il suo sangue veniva mescolato a cioccolata e a qualche altra leccornia, e noi bambini ne andavamo pazzi. Quando nel 1966 ne parlai a Barcellona a una famiglia catalana di cui ero ospite, i miei ospitanti rimasero allibiti: “ma questa è barbarie!” Oggi il puritanesimo alimentare ha proibito il consumo del sanguinaccio. Occorre andare nelle campagne per gustare ancora la sanguinaria trasgressione.

          Alcuni viaggiatori nord-europei raccontano che, un secolo fa o poco più, si vendevano per strada piatti di spaghetti. Le donne che li cuocevano preparavano anche la salsa al pomodoro, quando questa era pronta la bevevano senza ingurgitarla e la risputavano sugli spaghetti cotti. Non era un atto di spregio nei confronti dei loro clienti, ma una raffinatezza gastronomica.

          Si usavano ampiamente in cucina la sugna, le cotiche, vari grassi, fritture di ogni tipo. Mi chiedo oggi come allora i napoletani non morissero tutti di infarto o di arteriosclerosi dato l’ammasso di colesterolo nel loro sangue.

          Ogni donna napoletana veniva riconosciuta come “un buon partito” se, per Pasqua, sapeva fare una buona pastiera, dolce napoletano complesso, squisito e straricco. E’ fatta con ricotta, zucchero, uova, grano, pasta frolla, fiori di arancio, cannella…  Ogni uomo, all’epoca, giudicava il modo in cui una donna sapeva fare la pastiera non molto diversamente da come si giudicavano le sue attrattive muliebri. La buona pastiera è umida ma non troppo, sembra quasi trasudare. Mio padre, da filosofo hegeliano, aveva concettualizzato la pastiera in termini dialettici: “Le pastiere che fanno i migliori pasticcieri di Napoli, come Scaturchio, sono buone ma sono dei dolci, come la cassata siciliana; le pastiere che fanno certe donne all’antica, ad esempio zia Ieietta, sono dei rustici, delle pizze dolci. Occorre una Aufhebung di questa tesi e di questa antitesi: la pastiera non troppo dolciume, non troppo rustico. La pastiera che faceva mia madre…”  

          Nel dopoguerra, i miei avevano conosciuto, come tutti in città, la fame. Benché il loro status all’inizio degli anni ‘50 non fosse certo prospero, non abbiamo sofferto mai la fame. Da bambino ho sofferto piuttosto il freddo. Pare strano a Napoli. Ma allora gli inverni erano più rigidi e Napoli non era attrezzata per i mesi freddi. Si dava per scontato che a Napoli ci fosse sempre o sole mio.

Quando ero piccolo, si usava ancora il braciere. Lo si metteva sotto il tavolo da pranzo in cucina, in modo che il calore delle braci salisse dai piedi verso le nostre gambe, e lo si spostava in modo da investire di calore a turno le gambe dei commensali. Immagino il piacere delle donne, allora tutte con la gonna: sentire il calore salire poco a poco verso le loro cosce nude e i loro genitali.

Poi, mio padre mise insieme la somma per comprare la prima stufa rispettabile, hightech per l’epoca: stufa con bombola a gas. Siccome era unica mentre le stanze erano quattro più la cucina, la stufa accesa, fornita di rotelline, veniva fatta circolare tra le stanze. Ricordo il freddo di certe serate invernali: mi acquattavo a pochi centimetri dalla stufa guardando affascinato con gli occhi fissi la fiamma rosso-blu che mi dava calore e colore.

Ma mi chiedo: prima che io nascessi come si scaldavano i miei? Bastava il braciere sotto le cosce?

 

Infamie

Quando avevo sette anni, gli adulti finalmente capirono che ogni tanto facevo gli occhi strabici perché ero ipermetrope e per giunta avevo l’”occhio pigro”, ovvero il mio occhio destro vede solo per 3/10. Oggi si recupera l’ambliopia (questo è il suo nome scientifico) tappando con una benda l’occhio che si usa di più, obbligando quindi a usare l’altro; ma all’epoca il livello dell’oculistica a Napoli doveva essere bassissimo, perciò nessuno propose ai miei genitori questa bendatura; il risultato è che sono rimasto sempre guercio.

A sette anni, mi inflissero un grosso paio di occhiali. Ma io avevo vergogna di metterli quando ero a scuola, perché sapevo che, vedendomi con “un paio di lenti”, qualche compagno mi avrebbe deriso come quattrocchi. All’epoca rari erano i bambini con quattro occhi. Così per un anno intero evitai di mettermi gli occhiali in classe, cosa che deve aver peggiorato la mia deficienza visiva. Ma i giudizi dei coetanei sono Terrore per i bambini.

Lo stato più infamante, per un bambino, era essere rapato a zero. Quel che oggi è una soluzione elegante di molti per rivendicare con orgoglio la propria calvizie, era obbrobrio all’epoca. Si dava per scontato che la rasatura totale fosse la bonifica radicale di una capigliatura piena di pulci; ed erano i bambini più poveri ad avere più parassiti. Il cranio pelato diventava quindi uno stigma sociale. Il bambino a cui era stata inflitta la rapatura veniva sbeffeggiato con una filastrocca:

Caruso, melluso / Mietti a capa rint’o pertuso / Che mo’ vene o scarrafone / E te mozzeca o mellone[2].

La testa rapata veniva metaforizzata come melone. Ma oggi, con freudiana malizia, penso che la testa-melone venisse infilata nel buco proprio come il glande maschile penetra la vagina. Solo che la testa-glande non trova l’ovulo ma uno scarafaggio mordente, insomma, vive un’esperienza di castrazione. Del resto, l’insulto più comune alla mia epoca, a Napoli, era “testa di cazzo”. Il bambino rapato si riduceva a testa di cazzo proprio perché aveva subito una castrazione metaforica: aveva perduto la sua fallica chioma.

Io stesso albergavo parassiti. In molte società primitive il matrimonio dà al marito un diritto fondamentale, quello di essere spulciato dalla moglie (ma non viceversa). Anch’io, di tanto in tanto, venivo spulciato da una delle donne di casa. Era un rituale non privo di un suo sinistro piacere. Per spulciare si usava un pettine stretto, con denti molto vicini, e con un corpo del pettine molto lungo. Quando la pulce veniva captata dal pettine, essa finiva nella parte compatta del pettine, e quindi veniva schiacciata dall’unghia del pollice della pettinatrice, con uno schiocco vibrante che sanciva il successo dell’operazione. Quel rumore di “una in meno, finalmente!” mi ricordava i film di guerra che da bambino mi piacevano tanto, e dove godevo di un losco piacere nel vedere i nemici eliminati uno per uno, come le pulci della mia capigliatura. E’ vero che in guerra gli esseri umani vengono ammazzati come pulci, ma d’altro canto uccidere le pulci una a una anticipa la tentazione di uccidere gli uomini come pulci.

Oggi mi chiedo: non sarebbe bastato un buon shampoo? In effetti, lo shampoo alla nostra epoca non era ignoto, ma raro. Lo si faceva per lo più dal parrucchiere, si trattava quindi di una impresa costosa. Solo dalla mia adolescenza in poi sono riuscito a introdurre lo shampoo nella mia famiglia napoletana come uno strumento quotidiano. Perché si evitava lo shampoo? Forse perché si trattava di un prodotto ancora recente, non entrato ancora nelle abitudini? O forse si pensava che i capelli non andassero lavati spesso, per timore che cadessero? Questa ultima ipotesi mi sembra la più probabile. Il napoletano è sessualmente fragile, l’uomo partenopeo teme ansiosamente la castrazione, la donna partenopea teme di perdere il sex appeal. Il maschio napoletano è particolarmente preoccupato dal proprio pene, per questa ragione tanti uomini a Napoli, ancora, si toccano continuamente il sesso, come a voler verificare che stia ancora al posto suo. I capelli, per uomini e per donne, erano la bella appendice che la tenebrosa chimica moderna minacciava.

 

Americani a Napoli

Gli americani vivevano accanto a noi, per lo più addetti alla base NATO di Bagnoli. Ma chi li vedeva mai? Erano auto-segregati nel loro quartiere di lusso a Posillipo, con le loro scuole e i loro pub, avevano a S. Martino anche un loro cinema in lingua inglese chiamato “America”, nel quale nessun napoletano metteva piede, nemmeno per far pratica della lingua. Gli americani erano alteri extra-terrestri notati soprattutto per le loro auto gigantesse rispetto alle nane - 500, 600 o Topoline FIAT - che cominciavamo a guidare. Le loro donne apparivano troppo belle e troppo eleganti rispetto alle signore e signorine di noi umili terroni. Solo nella adolescenza cominciai a frequentare americani che vivevano a Napoli, ma erano l’opposto dell’immagine che Napoli si era fatta dell’americanità: erano comunisti, beat generation, freakkettoni, musicisti, scrittori… Fumai il primo spinello della mia vita – e forse fui il primo napoletano a fumarlo – quando mi venne offerto da due giovani beatnik americani giramondo in una sezione del Partito Comunista di Napoli dove erano stato ospitati col sacco a pelo. Ma negli anni ‘50 “gli americani” per i napoletani erano per lo più marinai che andavano in giro per “i quartieri spagnoli” – il quartiere malfamato tutto vicoli stretti e lascivi - chiedendo delle “señoritas”, ovvero delle puttane (molti americani credono che spagnolo e italiano siano la stessa lingua). Oppure la sera venivano adescati da intrallazzatori che li portavano in locali attorno al porto. Qui venivano affidati ad entraineuses che si facevano passare un po’ per puttane, un po’ per bariste, un po’ per avventrici, la cui funzione essenziale era di convincere l’americano a bere a più non posso, e a offrirle le bibite più costose, in modo che alla fine lui, ubriaco fradicio, si vedeva arrivare un conto stratosferico. Gli americani erano le vittime tipiche di questi locali, sia perché avevano tanti dollari, sia perché considerati particolarmente ingenui e imbranati con le donne.

Eppure a Napoli, come ovunque in Italia, fioriva quell’ambivalenza nei confronti dell’America che poi avrebbe assunto forme parossistiche. Per gli italiani l’America era un luogo antipodiano, per gli Antichi agli Antipodi tutto era capovolto rispetto alla propria scontata normalità. Si diceva che, per evitare la seccatura delle cure odontoiatriche tutti gli americani a sedici anni si facessero cavar via tutti i denti naturali per sostituirli con asettiche dentiere. Si diceva che in America dopo i pasti erano gli uomini, con pantaloni frenati da poco virili bretelle, a lavare i piatti, mentre le mogli, tutte con pantaloni e cintura, se ne stavano sedute a fumare guardando i loro sottomessi mariti. Si pensava che le donne americane avessero preso il sopravvento sull’altro sesso – e questo molto prima che fiorisse il femminismo. Anche se ogni tanto qualcuno vantava qualche “zio d’America”, quasi nessuno era andato in America, conosciuta quindi attraverso le sue carte da visita cinematografiche e televisive.

 Negli anni ‘50 uno dei cantanti più popolari in Italia era Renato Carosone. Le sue canzoni allegre, comiche, sempre in dialetto, tracciano un grande affresco satirico della Napoli dell’epoca, e vanno oggi studiate come documenti antropologici accurati di quella fase storica. Una delle sue canzoni più popolari era “Tu vuò fa l’americano”:

Tu vuò fa l' americano!
mmericano! mmericano
siente a me, chi t' ho fa fa?
tu vuoi vivere alla moda
ma se bevi whisky and soda
po' te sente 'e disturbà.

Tu abballe 'o roccorol
tu giochi al basebal '
ma 'e solde pe' Camel
chi te li dà? ...
La borsetta di mammà!

Comme te po' capì chi te vò bene
si tu le parle 'mmiezzo americano?
Quando se fa l 'ammore sotto 'a luna
come te vene 'capa e di:"i love you!?"[3]

In questa canzone, la sola licenza poetica è il riferimento al baseball: in realtà non è mai penetrato in Italia, e nessuno lo pratica nemmeno oggi.

Alla stessa epoca, il re del cinema comico-satirico italiano, Alberto Sordi, in un film orrendo quanto il suo protagonista, Un americano a Roma, immortalava la variante romanesca del wanna-be napoletano.  Dai bozzetti di Sordi e Carosone – e dalla mia esperienza personale - risulta che chi all’epoca “faceva l’americano” era un giovane alquanto imbecille appartenente per lo più al ceto basso, di solito disoccupato e mantenuto quindi in casa dai genitori, ‘cocco di mamma’ dato che la madre si faceva rubare i soldi dalla borsetta. Si atteggiava ad americano, ma di fatto non frequentava alcun americano reale, dato che la sua ragazza era di Napoli e non capiva l’inglese. Il suo americanismo era squisitamente ludico e dopolavorista, dato che faceva sport americani, ballava danze americane, beveva all’americana, ma nulla che avesse a che vedere con la tecnologia, la scienza, l’arte e la letteratura americane, non seguiva nemmeno corsi di inglese. All’epoca questi pseudo-americani erano ancora un fenomeno di frangia – perciò li si prendeva in giro – ma oggi gran parte dei giovani italiani “vonno fa’ gli americani”, anche grazie alla lunga rieducazione delle masse prodotta dalle televisioni di Berlusconi. Allora ci faceva ridere Sordi che preferiva la carne in scatola al sano piatto di pastasciutta, oggi sono gli italiani, quasi tutti, a far ridere. Anche Berlusconi “vo fa’ l’americano”, e il mondo ha riso di lui.

Totò

 

          “…l’assurdo Totò, l’umano Totò, il matto Totò, il dolce Totò…”.

                                  P.P. Pasolini, Uccellacci e uccellini

 

          Spesso ho condotto questo esperimento: chiedevo a un napoletano ‘del popolo’, ad esempio al tassista che mi stava conducendo, “quale è, secondo lei, il napoletano non vivente più importante?”

          Non dirà certo che è un grande autore di teatro o di cinema come Raffaele Viviani, Eduardo De Filippo o Massimo Troisi; né che è un filosofo come Giordano Bruno, Giovan Battista Vico o Benedetto Croce; né un grande compositore o autore di canzoni celeberrime come Domenico Cimarosa, Giovanni Paisiello, Domenico Scarlatti o E.A. Mario; né un cantante famoso come Sergio Bruni o Roberto Murolo; non uno storico come Francesco de Sanctis, né un pittore come Jusepe de Ribera o Luca Giordano o Francesco Mancini; e nemmeno uno dei tre presidenti napoletani della Repubblica italiana, Enrico De Nicola, Giovanni Leone o Giorgio Napolitano… Il napoletano verace dirà che il napoletano più importante è Totò.

Quando ero bambino, Totò era già riconosciuto in tutta Italia come il “principe della risata” (principe, non re; per le ragioni che conosciamo), era circonfuso dall’aureola di comico nazionale, come Fernandel per i francesi o Groucho Marx per gli americani o i Monthy Pythons per i britannici. Da oltre 70 anni, per gli italiani Totò è l’epitome del comico, pur avendo interpretato anche film drammatici. Ha girato circa 100 film visti da oltre 270 milioni di spettatori. Tra questi alcuni fanno parte del Canone culturale di base italiano, che include la Commedia di Dante e I promessi sposi di Manzoni, la pasta asciutta e il David di Michelangelo, le quattro coppe del mondo di calcio guadagnate dall’Italia e padre Pio. Alcune sue battute sono entrate nel linguaggio di ogni giorno, “io sono un uomo di mondo! Ho fatto il servizio militare a Cuneo”. Se non si è visto Totò, non si è italiani. Uno scrittore napoletano, Luciano De Crescenzo, nel suo primo viaggio in America si rese conto che gli americani non conoscono Totò. Suo commento: “Ringrazio Dio di non essere nato in America! Altrimenti non avrei mai visto Totò. Ma che vita sarebbe stata senza Totò?”

Eppure Totò, malgrado l’identificazione nazionale che provoca, è una figura quanto mai napoletana. Già i nomi che aveva scelto per sé sono da farsa napoletana: Antonio Focas Flavio Angelo Ducas Comneno De Curtis di Bisanzio Gagliardi, altezza imperiale, conte palatino, cavaliere del sacro Romano Impero, esarca di Ravenna, duca di Macedonia e di Illiria, principe di Costantinopoli, di Cicilia, di Tessaglia, di Ponte di Moldavia, di Dardania, del Peloponneso, conte di Cipro e di Epiro, conte e duca di Drivasto e Durazzo. Questa colata lavica di titoli nobiliari, che dovevano farne un principe bizantino, rimuoveva il fatto che Antonio De Curtis fosse nato in uno dei quartieri più miserabili di Napoli, la Sanità, da una ragazza-madre male in arnese.  Divenuto ricco come attore, si era fatto adottare come figlio da un marchese squattrinato, a cui aveva assicurato un vitalizio. In effetti, gran parte dei napoletani sono convinti di discendere da famiglie nobili, anche se le loro origini sono del tutto ignobili. Conosco filosofi e intellettuali napoletani di oscure origini che preferiscono passare il loro tempo a chiacchierare nei salotti con vecchie contesse e marchesi rimbambiti piuttosto che frequentare i loro pari. Napoli è rimasta sempre impermeabile alla propaganda giacobina, che ormai fa associare al nobile una bieca alterigia e perversioni sadiane: per il napoletano, il nobile è anche un cuore nobile. Del resto, i martiri famosi della Repubblica partenopea del 1799 erano nobili: il duca Francesco Caracciolo, ammiraglio della Repubblica; la marchesa Eleonora Pimentel Fonseca; la duchessa Luisa Sanfelice; il duca Gennaro Serra di Cassano; ecc. A Napoli, lo straripante Lunpenproletariat era monarchico, bigotto, conservatore e reazionario, mentre i nobili erano piuttosto repubblicani e rivoluzionari. L’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano è un commoner, eppure i napoletani lo adorano proprio “perché è un signore”.

Di solito, i grandi comici si specializzano in un solo personaggio. Buster Keaton, Chaplin, i Marx Brothers, Stan Laurel e Oliver Hardy, Peter Sellers, Benigni, ‘sono’ sempre lo stesso carattere. Di solito incarnano un poveretto che, imbranato dalla sua meschinità sociale, ha molti problemi a sedurre la bella. Totò invece ha impersonato qualsiasi personaggio, buono o cattivo, furbo o idiota – sempre Totò restava. L’attore trascendeva sempre il personaggio. Del resto, la sua faccia - asimmetrica, storta - faceva ridere al solo guardarla. O piuttosto faceva piangere, in quanto sembrava il volto di un burattino triste, ma travolto dalle passioni più francamente umane. In effetti, un suo numero da virtuoso era muoversi e camminare come una marionetta; nella faccia furbesca del napoletano guitto innestava il fascino metafisico della marionetta, che von Kleist aveva già equiparato alla coscienza infinita della divinità. Volto realista e interprete della mimica popolare, eppure macchina capace di torcere ogni angolo della faccia e ogni arto del corpo; non a caso Pasolini gli fece interpretare il ruolo di un burattino, rappresentante Iago, in un gioiello del cinema, Cosa sono le nuvole?

Eppure il principe della risata trascina con sé un’aura mesta se non tragica. Ogni napoletano ‘del popolo’ conosce il suo libro di poesie La livella: ciò che livella tutti gli esseri umani è la morte. Col tempo, Totò divenne quasi completamente cieco, anche se questo non gli impedì di girare molti altri film. Compose una canzone entrata ormai nel Pantheon delle canzoni più celebri: Tu sì na malafemmina, una dolentissima invettiva contro la sua bella infedele, un grido di dolore sui disperanti paradossi dell’amore - “io t’amo e t’odio…” Un alone di tristezza snob dà al suo genio farsesco una dolce-amara nobiltà.

Napoletano come si deve, Totò, straccione e dandy, intreccia in sé quelli che altrove appaiono poli che si escludono: la furbizia del sotto-proletario e l’ingenua arroganza dell’aristocratico. Totò esprime i bisogni più elementari – trovare casa, fare soldi, truffare il prossimo, copulare con una donna, salvarsi la pelle – e allo stesso tempo una altera e principesca ironia.

          Ma come hanno fatto i non italiani a vivere un’intera infanzia, e poi gran parte della vita, senza aver riso con Totò?

 

Fossili viventi

 

          Abitavamo al Vomero, quartiere allora medio-borghese e collinare. Nel quartiere, mio padre aveva inscritto alcuni santuari dove andava regolarmente in visita. Due di questi erano la libreria Maone e la casa del famigerato professor Turiello.

          Famigerato non per mio padre né per me, ma per i nostri parenti e amici. Mario Turiello era già forse settantenne quando andavo a trovarlo con mio padre. Questo professore di francese aveva il vezzo di pubblicare i suoi libri in Italia ma solo in francese. Aveva tradotto e pubblicato – in Italia - Leopardi in francese. Alla fine degli anni ‘50 scriveva nella lingua classique di Boileau e di Molière. Di una scheletrica magrezza, aveva l’aria di un assemblaggio di ossicine rivestite da abiti sdruciti, da cui emergeva un volto sempre un po’ accigliato dal quale non ho mai visto, a quel che ricordo, sorgere un sorriso, tutt’al più qualche esclamazione sardonica. Su internet è citato per una corrispondenza che ebbe con Jules Verne quando lui era ragazzino.

I Turiello erano una famiglia gloriosa. Il padre di Mario, Pasquale, partecipò da garibaldino alla Spedizione dei Mille e poi si dette alla politica e alla saggistica. Pubblicò Governo e governati in Italia nel 1882, considerato dagli storici capostipite della Questione Meridionale; da oltre un secolo e mezzo si scrive sulla Questione Meridionale, senza ovviamente che questa massa di carta incida minimamente sull’arretratezza del Sud. Il ritratto austero di questo padre illustre, vestito di nero, solenne, era appeso nello studio antiquato del professor Turiello.

Turiello era andato precocemente in pensione, verso i 45 anni. Egli aveva vinto la cattedra universitaria in lingua e letteratura francese all’Università di Napoli, ma dopo i due anni di prova non fu riconfermato. Perché? Non certo per carente conoscenza della letteratura francese. Mio padre aveva un atroce sospetto: perché il professor Turiello era troppo sporco. Per questa ragione era malfamato: la sua sporcizia era leggenda. Parte del lascito del secolo precedente era la sporcizia. Da sempre associo al passato un mondo sontuosamente sozzo. Penso sempre che Napoli sia sporca perché è rimasta una città antica, un anacronismo storico nel mezzo di un mondo modernizzato.

Turiello era un eccentrico trafitto da una pletora di ghiribizzi nevrotici; per dirne una, nei viaggi in treno ogni volta che si entrava in una galleria, si buttava un giornale aperto sul volto e restava immobile, come folgorato, finché non si usciva dalla galleria. Non si è mai sposato e certo è rimasto pulzello fino alla morte. Una sorta di prete delle Lettres Françaises, tormentato peraltro da un eterno eczema che doveva proteggerlo dalle tentazioni della carne. Che non sia mai stato spulzellato lo si deduceva dal modo in cui parlava della sessualità. Confidò a mio padre: “Benvenuto [lo chiamava per cognome], lei sa, fare quella cosa con le donne… proprio non me la sento. E’ che ho una dignità!” Come i catari, pensava che anche il coito coniugale fosse indegno.

I tre fratelli Turiello vivevano nella stessa casa, tutti celibi, il fratello di Mario era un professore noto pederasta, la sorella zitella. Me la ricordo quasi sempre sdraiata su letto o sofà dolcemente paralizzata da una pigrizia altolocata, e mi chiedeva sempre dei miei viaggi, quelli che ogni estate facevo con mio padre in giro per città d’arte italiane. Ma gli occhi le brillavano e diventava fresca e cinguettante come una fanciulla quando parlava di Firenze, gira e rigira parlava sempre di Firenze, e guardava il soffitto (il cielo) quando parlava delle Cascine. In verità le Cascine di Firenze non mi avevano entusiasmato, erano solo prati all’epoca già presidiati da prostitute, non capivo come quella dama da giovane avesse potuto essere commossa da un luogo senza capolavori d’arte. Poi, da grande, appresi che a inizio secolo le Cascine erano come il bois de Boulogne a Parigi, dove debuttavano amori e si facevano passeggiate romantiche, divenute con l’evoluzione dei costumi sempre meno romantiche. Una canzone nota all’epoca diceva che in primavera alle Cascine si trovavano tante forcine per capelli sui prati in fior… Con ogni probabilità la signorina Turiello (allora si era chiamate “signorine” anche a 80 anni, purché nubili) aveva vissuto alle Cascine di Firenze una per lei indimenticabile, e forse unica, romance, cosa che spiegava quei bagliori nelle sue pupille parlando con un bambino.

          Mio padre diceva “con Turiello, è come conversare, oggi, con un uomo del Settecento”. La casa di Turiello non evocava però un rococò settecentesco, era una vecchia, fatiscente, accigliata grande casa ottocentesca, con tanti libri spesso ingialliti e pezzi di mobilio che dovevano essere l’ultimo grido della moda nel 1880. Turiello in casa portava ostentatamente in testa uno chapeau-mêlon nero, “il tubo”, come quelli che portavano i signori perbene a inizio Novecento. I suoi vecchi abiti frustri erano di taglio risorgimentale, sdruciti e sporchi, fumava i toscani e la pipa. La sua pipa mi attraeva perché il fornello era di argilla rossa e vi era infilata dentro una lunga canna ricurva – la pipa rozza, primaria, dei contadini.

Un giorno, mossa da compassione, mia madre provò a tagliargli le unghie che, a dire di mamma, erano spesse e nere, quasi pietrose, con una forbice. Dopo i primi impervi tentativi, Turiello ritirò atterrito la mano ossuta ed esclamò “signora, ma come siete flemmatica!” La decurtazione delle sue unghie lo metteva in profonda crisi. Del resto non era aggiornato sulle scoperte sanitarie del secolo: una volta, a casa nostra, prese il bidet per la tazza del cesso e vi defecò dentro.

          Ma mio padre gli voleva un gran bene, anche per la sua anacronistica spigolosità. A me piaceva Turiello soprattutto perché aveva conosciuto Verne, autore che allora divoravo, anche se, da piccolo, non potevo capire gli argomenti delle ottocentesche conversazioni letterarie tra mio padre e lui. Parlavano quasi sempre di letteratura francese, italiana o inglese. Lui viveva in un mondo di Letteratura, che però si fermava a metà Ottocento – per lui Flaubert era già la decadenza, anche se aveva pubblicato in francese, ma in Italia, un libretto proprio su Flaubert e Leopardi, rivelandone le segrete affinità. Gli scrittori allora alla moda, Camus, Sartre, Genet, Beckett, Robbe-Grillet, dovevano essere per lui dei marziani, pura barbarie modernista. I suoi gusti letterari erano insomma in perfetta sintonia con il suo vasto ma vetusto appartamento e con i suoi abiti lisi. Isolato dal mondo, orgoglioso, caustico, fine dicitore di ghiaccio. Mio padre aveva ragione: era una sorta di fossile vivente, affascinante per chi ama la paleontologia umana. Era uno dei resti di una Napoli nobile, arcaica, erudita, francofona, fiera e perdente. Nessuno dei fratelli Turiello ha voluto riprodursi per non riconoscersi infedele al passato sublime di cui erano i rejetons fondamentalisti, esempi di radicale fedeltà alla Storia, da cui il futuro, per definizione, va defalcato.

 

          Spesso poi mio padre e io andavamo alla libreria Maone in via Scarlatti. Era uno stanzino zeppo di libri, che aveva sempre almeno tre seggiole per gli aficionados come mio padre, e che colà facevano salotto. I Maone erano vari fratelli tutti librai, ma all’epoca la bottega era tenuta da due. Un Maone era magro e alto, dall’aria triste, passava tutto il tempo a scrivere sul suo banco – conti? cataloghi? parole crociate? Interveniva poco con poche parole disincantate e sentenziose. L’altro fratello invece era rotondetto, stempiato, facondo, un disc jockey da libreria, intratteneva i clienti con conversazioni spumeggianti e colte sui temi più vari, dalla politica alla letteratura alla filosofia.

          Esistono ancora librerie come Maone? Nulla a che vedere con le librerie Feltrinelli di oggi, supermarket patinati e asettici della carta stampata. I Maone “interagivano”, erano a loro volta avidi lettori, conoscevano i gusti dei clienti, consigliavano e criticavano libri. All’epoca il libraio era come il medico di famiglia, a cui si potevano confessare anche gusti e passioni segrete. Oggi, all’epoca di Amazon, molte delle funzioni di un Maone vengono svolte dal computer: è questo ormai, avendo classificato i tuoi gusti, a proporti nuovi libri che potrebbero interessarti, certi sconti, certe chicche…  Chi avrebbe mai potuto immaginare che delle macchine potessero svolgere una consulenza personalizzata come quella di librai ironici e colti?

I Maone chiusero all’inizio degli anni ‘70, il vecchio Vomero è finito con loro.

 

 

Lussi di poveri       

          I miei mi avevano insegnato che “noi non siamo né ricchi né poveri: siamo modesti”. Allora pensai che “essere modesto” fosse il saggio equilibrio tra gli eccessi, in medio stat virtus, come la perfezione discreta della sezione aurea, che insomma la mia famiglia stesse nel rango sociale giusto. Mi ci volle del tempo per capire che “modesto” significava, di fatto, quasi-povero, che è un aggettivo contiguo alla mediocrità. E in effetti – almeno finché mio padre non cominciò a guadagnare bene come professore privato – ricordo la mia famiglia come appunto “modesta”. Eppure, come tante altre famiglie squattrinate, anche la nostra aveva i suoi lussi.

Allora, solo una minoranza di uomini si radeva da sé, di solito si andava al salone, ovvero dal barbiere e parrucchiere, riservato a uomini e bambini maschi. Mio padre ha imparato a radersi da solo a tarda età, quasi ogni giorno andava dal suo barbiere. La rasatura era una performance lunga e pignola. Il barbiere insaponava a lungo la faccia col pennello, che usava come un pittore informale astratto all’epoca usava il suo, con gesti disinvolti e competenti tracciava ghirigori solo in apparenza casuali. Questi Pollock del rasoio usavano una serie di strumenti di edonistica sofisticazione, ad esempio dopo la rasatura massaggiavano la faccia con una pietra, l’allume, che ha speciali poteri disinfettanti, e che spande sulle guance arrossate un adorabile e secco pizzicore.

Quando andai a vivere a Parigi a 19 anni, un giorno mi si ruppe il rasoio elettrico e cercai un barbiere, come avrei fatto a Napoli. I vari coiffeurs mi rigettarono indispettiti, uno mi disse “In Francia ognuno si rade da sé!” Finalmente alla fine trovai un maghrebino che si degnò di radermi: fu una tortura. Capii che radere alla napoletana non è qualcosa che si trovi in ogni angolo del mondo, che era una specialità inimitabile, come il gusto e il profumo del caffè napoletano, l’umida rigonfiatura della pizza napoletana, il mirabile equilibrio tra solido e cremoso della mozzarella napoletana.

          Anche se “modesti”, ci facevamo vestire dal sarto, che ci confezionava il vestito su misura. I sarti erano poveri o “modesti” né più né meno dei loro clienti. I vestiti che si compravano al negozio erano chiamati “bell’e fatti”, ed erano considerati un po’ eccentrici, pretenziosi. Il vero vestito era quello che ti faceva il sarto per te.

Un altro lusso diffuso era avere in casa una cameriera. Noi l’abbiamo sempre avuta, e abitava con noi. La sua presenza permetteva ai miei genitori di continuare a lavorare pur dovendo tirar su tre figli. Si trattava per lo più di giovani donne, alcune adolescenti; la loro funzione era di pulire la casa, fare i letti, sparecchiare la tavola e lavare i piatti. Di fatto “la donna” viveva in simbiosi con la famiglia, solo un pomeriggio e sera – il giovedì – aveva la “libera uscita”. Si occupava anche dei bambini, quindi pure di me. Quando divenni più grande, la simbiosi diventò anche sessuale: il mio primo coito completo, a sedici anni, fu con Concetta di diciotto. Concetta era maturata sessualmente a casa nostra, e fu mia fortuna avere il primo amplesso con lei perché non era più vergine – altrimenti trovare il passaggio vaginale ostruito mi avrebbe inflitto un’esperienza di scacco e forse di impotenza. Solo dopo seppi che non era più vergine da bambina grazie alle attenzioni di un fratello, laggiù a Frignano – orrendo paese dell’entroterra - dov’era nata. In effetti, queste ragazze molto spesso portavano le cicatrici non solo di un mondo rurale povero, ma di un magma di incesti, pedofilie, concepimenti illeciti.

Queste ragazze non venivano, come le domestiche di oggi, da paesi lontani come la Moldavia o la Romania, né da altri continenti, ma da paesotti a qualche chilometro da Napoli. Figlie di contadini, nelle loro contrade imperversava il tifo, ci si spostava su carri di legno trainati da cavalli o asini. Per quanto Napoli fosse una città povera e plebea, aveva il suo terzo mondo a contatto di gomito – come scrisse un bambino napoletano in un tema (Io speriamo che me la cavo), “il terzo mondo è più terzo di noi”. Venivano da paesi rurali e mortiferi come Frattamaggiore, Casal di Principe, Marano, Bosco Reale, oggi conosciuti in tutto il mondo, grazie a Gomorra di Saviano, come Quartieri Generali della Camorra e dei suoi affari internazionali. Allora si parlava di camorra come di qualcosa quasi del passato, mentre tutti a Napoli dicevamo – in una tonalità ambigua tra disprezzo e fierezza – “i paesi del Casertano hanno il tasso di omicidi più alto del mondo!” Si ammazzava non tanto, come oggi, per danaro, ma per onore e guapparia. Oggi diremmo: per futili motivi. Per uno sgarbo fatto al bar, per aver fatto il cascamorto a una ragazza, per aver detto una parola sbagliata a chi non si doveva. La camorra imperialista di oggi sembra aver riciclato in funzione imprenditoriale un’aggressività litigiosa e permalosa, un culto straccione delle armi da fuoco, che affonda le sue radici nella cavalleria rusticana.

Molto più popolare del camorrista, all’epoca dedito soprattuto al mercato ortofrutticolo, all’epoca era o’ guappo – dallo spagnolo guapo, bello. Era personaggio eminente nei quartieri popolari di Napoli e nei paesi di provincia: caporione violento ed elegante, notabile di quartiere privo di scrupoli, controllava affari e rapporti umani; ai limiti sempre della criminalità, senza necessariamente oltrepassare troppo questi limiti. Onore, donne e spavalderia erano per il guappo, all’epoca, il sale della vita.

          Tra le nostre domestiche, una mi è rimasta particolarmente impressa: Maria Nuñez. Aveva quindici anni, io forse sette, funzionava per me da sorella maggiore. Il cognome spagnolesco mi impressionava, anche perché all’epoca leggevo dei Conquistadores – Cortèz, Pissarro – e Maria mi sembrava venire da quel mondo di storia illustrata. In realtà veniva da una famiglia altamente disastrata – la madre, una donna magra e ossuta segnata da una sorta di stanca libidine, aveva avuto dieci figli da più uomini. Allora non capivo il sottofondo losco della storia di Maria – mi pare che non sapesse chi fosse suo padre. O era stata molestata da un patrigno pedofilo? Un giorno si presentò da noi un giovanotto chiacchierone che si diceva suo fratello germano, e se la portava a passeggio, ma i miei si resero conto che quelle uscite fraterne erano l’occasione per provarci. L’incesto mi è apparso sempre un costume banale dei ceti poveri del Sud. Mio padre ogni tanto esclamava con orrore: “nei vicoli di Napoli, nei vasci e nelle stamberghe, quante ragazze sono incinte dei propri padri!”

Maria Nuñez esercitò su di me un influsso culturale profondo che rivaleggiò con quello di mio padre e mia madre. Maria mi iniziò a quello che all’epoca era il mass medium più plebeo: i fotoromanzi.  Due erano i settimanali di fotoromanzi che preferiva, “Sogno” e “Grand Hotel”. Erano storie amorose a puntate, eppure, anche se pargolo molto castigato, mi appassionavano. Maria era riuscita a trasmettermi suoi gusti e interessi di quindicenne, che avevano a che fare ovviamente con l’amore sessuale – lei era più grande di me, le nostre passioni culturali sono sempre quelle che ci trasmettono i Grandi. Se oggi mi occupo di Lacan e di Agamben non è perché alcuni Grandi me ne hanno trasmesso il gusto? In fondo, in qualsiasi vita quel che conta è chi sia stato il tuo più grande.

          Molto prima che fossi conquistato – per via paterna – al tifo politico, Maria mi iniziò al tifo divistico: era una fan di Gina Lollobrigida. A quell’epoca due erano le dive che si contendevano in Italia il primato dei cuori: Sofia Loren e la Lollo. Di solito la nostra cultura funziona per dicotomie: nel ciclismo si era per Coppi oppure per Bartali, negli anni ‘60 per Mina oppure per Milva, in politica, prima che comparisse Grillo, si era per la destra o per la sinistra, e solo per pochi tertium datur. In questo aut aut, Maria aveva scelto la Lollo, e anch’io mi arruolai al suo partito. Sia mia madre che mio padre sbeffeggiavano questa nostra partigianeria, per loro Gina e Sofia erano due attricette del cinema italiano di serie B. E si sbagliavano, soprattutto per Sofia.

 

 

Violenze a scuola

 

Alle elementari le classi di maschi e di femmine erano rigidamente separate. Le classi miste erano rare, “sperimentali”. Al fondo, c’era il presupposto, credo, che alle bambine non si dovessero insegnare le stesse cose elementari che si insegnavano ai bambini maschi.

In prima la mia insegnante fu la Scalera, donna di mezza età. La maestra tendeva a dicotomizzare la sua scolaresca in due insiemi ben distinti, mutualmente esclusivi: da una parte “i bravi e buoni”, dall’altra “gli asini e cattivi” che a me apparivano anche brutti. Gli asini, nella mia prospettiva, erano di solito più grandi, sembravano quasi adulti, perché erano ripetenti, o forse perché il loro occupare, di solito, gli ultimi banchi dell’aula li ingigantiva ai miei occhi. Appartenevano a un continente oscuro, perché la loro distanza da me era a un tempo topica (io ero tra i primi banchi), longitudinale (erano più alti di me), di profitto (io ero il primo, loro gli ultimi) e socio-economica. Non sapevo, allora, che “gli asini brutti” erano i poveri; loro stavano imparando a leggere e a scrivere, ma forse i loro genitori erano analfabeti. La maestra ci parlava in italiano, ma la loro lingua era il napoletano. La loro esistenza in classe non era molto visibile per me, era piuttosto un vago e confuso pulsare dietro le mie spalle, come spifferi di un vento freddo che, di tanto in tanto, mi si infilava tra il collo e la camicia.

          Un giorno, la maestra annunciò: “Adesso chiamerò uno a uno tutti i bravi della classe, e questi verranno attorno alla cattedra”. Io fui chiamato tra i bravi: ci mettemmo tutti impettiti, in fila ordinati, rigidi e solenni, incarnazione plastica del Bene. Poi ci rimandò ai nostri banchi e disse: “Ora chiamerò gli asini della classe, che verranno attorno alla cattedra”. Un colpo d’occhio comparativo illustrava bene la differenza: i cattivi e asini formavano un rigagnolo irregolare e scomposto, sbilenco. Alcuni membri dell’orda Cattivi, umiliati dalla loro messa alla berlina, ridacchiavano inebetiti, a confermare con le loro facce stupideggianti lo stigma di cui erano portatori.

In seconda elementare cambiammo insegnante, subentrò Napoleone Pezzano. Era un uomo di mezza età, tarchiato, un po’ balbuziente. Aveva un’aria vagamente contadina. Me lo sorbii per tre anni. Di solito la prima parte della mattinata parlava a lungo, aggiornandoci sugli ultimi miracoli di padre Pio; ma tesseva anche commenti politici in senso lato, in chiave per lo più anti-comunista. Oggi in milioni di case e negozi delle classi meno prestigiose è esposto il ritratto di padre Pio, con la sua faccia severa, ispidamente barbuta e irascibile. E’ il campione supremo del Kitsch religioso italiano. Il culto di padre Pio in Italia è oggi forse ancora più vivo di quanto non lo fosse allora, insomma la fede provinciale di Napoleone Pezzano si è rivelata più storicamente longeva della passione di mio padre filosofo per Benedetto Croce o Giovanni Papini.

All’epoca i bambini dovevano stare almeno quattro ore praticamente sempre seduti sui banchi lignei come paraplegici, ci si alzava solo per andare al gabinetto, a cui ci si recava collettivamente, in fila ordinata. Niente sport, niente giochi, niente corse né insensate agitazioni infantili. La scuola Vanvitelli, come la maggior parte delle scuole, evocava la caserma: i bambini con il grembiule nero con su cucito, in rosso, il numero romano della classe – da I a V – e sempre in fila; enormi corridoi giallastri, austeri, gelidi d’inverno.

Trovavo indegno che uno dovesse chiedere il permesso per andare al cesso – a casa mia non si chiedeva questo permesso. Non sempre il nulla osta veniva accordato, difatti una volta uno scolaro grassottello si alzò e andò accanto alla cattedra per chiedere di andare al bagno, mentre un getto di pipì gli zampillava prepotente dai calzoncini corti. Un’altra volta un nostro compagno magro e timido si cacò completamente sotto in aula, scatenando l’ilarità della classe.

Talvolta dicevo esasperato ai miei genitori “a scuola, col maestro, soffoco!” Trovavo la disciplina di Pezzano, per quanto non strenua, già soffocante. A nove anni assaporavo già le rivolte del ’68, che vissi appunto come la realizzazione collettiva di mie privatissime e violente fantasie infantili. Nella mia prospettiva, il ’68 mi appare come la rivolta di una generazione contro la scuola Vanvitelli.

Pezzano prendeva generosamente a ceffoni i miei compagni un po’ asini o un po’ discoli. Non me, che ero bravo. Ma il fatto che i brutalizzati fossero altri non diminuiva il mio raccapriccio. La vittima preferita delle sue sberle era l’indimenticabile Bruzzese.

          Non so se Bruzzese fosse un caratteriale o uno psicotico o un borderline. Era un po’ bombolotto, con una faccia rotonda, occhialetti, occhietti talvolta “ridenti e fuggitivi”, talaltra perduti in pensieri enigmatici e mesti. Diciamo che era indisciplinato: parlava quando nessuno doveva parlare, si alzava dal banco senza autorizzazione e passeggiava per l’aula, ne faceva di tutti i colori. Anche il profitto era disastroso, ma non per carenza intellettuale: negli intervalli più sereni poteva fare ottimi lavori. “La cosa più buona è la mortadella!” esclamava spesso – e lui stesso mi faceva pensare un po’ alla mortadella. Ricordo una scena in prima elementare: Bruzzese con in mano il panierino con la merenda deambula nervosamente da un lato all’altro dell’aula farfugliando non so che cosa, e la maestra Scalera pietrificata in cattedra guarda impotente il Nostro passeggiare nel silenzio generale.

          Un giorno, il maestro Pezzano ci aveva dato un problema aritmetico alla lavagna che metteva in scena un mendicante, il quale riceveva tanto da uno, tanto da un altro, e bisognava trovare il saldo finale. Alla fine, quando l’introito finale del povero emerse, Bruzzese esclamò ad alta voce, come spesso faceva, con tono soddisfatto: “Eh però, o’ puveriello s’è fatta ‘a jurnata!” [“Però, il poverello è arrivato a farsi la sua giornata!”, espressione napoletana a proposito di chi vive, appunto, alla giornata.] Un commento calzante e spiritoso, a cui il maestro reagì in modo furibondo. Prese a colpire le guance paffute di Bruzzese con ripetuti e violenti schiaffoni. Questi schioccavano sulla pelle soda dell’enfant terrible come colpi di tamburo, ne veniva fuori un ritmo vibrante ed estasiante. Poi Bruzzese frignò in modo sguaiato per molti minuti – ma io pensai che, dopo tutto, malgrado i singhiozzi non soffrisse poi tanto. Il filosofo Alain si chiedeva se quando si dà uno scappellotto a un bambino questi pianga per il dolore o per l’umiliazione - in Bruzzese leggevo più la reazione al dolore fisico che all’umiliazione. In un certo senso, Bruzzese mi appariva invulnerabile: il maestro aveva voglia di malmenarlo, lui perseverava nella sua indomabile impertinenza. Molti anni dopo me lo ritrovai, timido e rinsavito, compagno di partito comunista, e allora seppi che era figlio di un severo carabiniere.

          Le flagellazioni di Bruzzese devono aver corrotto sin da allora la mia sensualità. I miei neuroni specchio ‘sparavano’ su un doppio versante. Evidentemente io ero Pezzano che “paccheriava” la mortadella: sentivo a fior di pelle il godimento rabbioso che lo dominava, il piacere muscolare di suonare su quella faccia sfacciata e rubizza. Ma ero anche Bruzzese, oggetto di altrui umiliante godimento, singolarizzato dallo spettacolo sadomaso offerto alla scolaresca raggelata.

 

Lo stupro del cieco

          Un giorno, quando ero in seconda elementare, riunirono la nostra classe e altre in un grande stanzone della Vanvitelli. Eravamo tutti maschietti, ci dissero di spogliarci lasciando addosso solo le mutandine. Venivo da una famiglia pudibonda, per cui quel carnaio di nudi puerili che mi includeva mi faceva arrossire. Un medico scolastico ci visitava uno a uno su un lettino e, come atto finale della visita, ci abbassava le mutande e verificava – davanti agli occhi sgranati di tutti – se la pelle del pene scivolasse giù. Oggi so che era verificare se qualcuno avesse una fimosi, ma allora quella manovra mi apparve, oltre che enigmatica, uno sfregio al pudore. Quando venne la mia volta, tremavo, chiusi gli occhi quando sentii le dita del medico operare per la prima volta un gesto che avrei riscoperto anni dopo, per mio conto, per procurarmi piacere. Un mio compagno ci propose la sua teoria, in dialetto: “Fanno così per vedere se da grandi possiamo fare i soldati”. Legava strettamente una virilità da verificare al servizio militare. E in effetti quella denudazione indiscriminata preannunciava la visita di leva, che all’epoca si faceva in fila tutti completamente nudi.

          Rientrato a casa, non dissi di quella visita infamante. Mia madre notò però che non mi ero rivestito come si deve – ancora mi aiutava a vestirmi, ogni mattina – e mi chiese “ma vi hanno fatto spogliare?” Spudoratamente negai. Da allora, ho capito qualcosa di essenziale del pudore degli inermi: che quando si commette un abuso o forzatura sessuale su qualcuno, bambino o adulto che sia, la vittima si vergogna dell’atto patito. Per questa ragione, per secoli, le donne erano restie a denunciare gli stupri di cui erano state vittime. C’è un livello arcaico, immorale, viscerale, dell’etica sessuale per cui si è svergognati per aver partecipato a un atto sessuale non ammesso, non importa se come agente o come patente. Perciò un tratto di molte società ‘arcaiche’ che oggi ci appare infame: che quando una ragazza veniva violentata, la vergogna si abbatteva su di lei, e il suo destino, spesso, era la prostituzione. Da bambino, in un certo senso sentivo, anche se non pensavo, allo stesso modo.

          Come spesso accade, quel trauma mi disinibì sessualmente. Dopo un po’, sedussi la mia sorellina di cinque anni (io ne avevo sette) in un gioco sessuale che si svolse in un appartamentino che i miei avevano costruito sul terrazzo, zona franca in cui noi bambini da soli potevamo scatenare i nostri giochi e fantasie. Il tutto, credo, si limitò a una sorta di spogliarello parallelo. Ma anche in questo caso mia madre si accorse che ci eravamo maldestramente rivestiti. Questa volta però fui rimproverato aspramente – mio padre era socialista, ma la sua morale sessuale era molto cattolica conservatrice. Leggeva Jung ma non Freud, la sessualità infantile per lui non era sdoganata.

          Resta però che non mi sarei dato a giochi sessuali precoci se non fossi stato umiliato e offeso – ovvero sedotto – dalla sbrigativa visita di massa a scuola. Come se l’emozione sessuale fosse sempre, all’origine, il modo di rendere piacevole un trauma, di trasformare in delizia il delitto che l’adulto compie su di te.

          Ma credo che la doppia esibizione – quella subita e quella voluta – mi abbia dato oltre che delizie, anche tormenti. L’aver visto troppo, e l’esser stato visto troppo, allora mi inflissero – credo – la bizzarra certezza che sarei diventato cieco.

Siccome – pensavo - sarei divenuto cieco, mi bendavo gli occhi per molte ore, in modo che cominciando a non vedere più il mondo sarei riuscito a non vedere quando sarei diventato davvero cieco. Nella mia ferrea logica infantile, mi accecavo preventivamente per evitare di diventare cieco.

          Del resto, ho sempre pensato che Napoli comportasse una sorta di cecità - forse per questa ragione il romanzo popolare più letto e famoso nell’Ottocento era il polpettone La cieca di Sorrento di Mastriani. E poi la frase proverbiale: “Vedi Napoli, e poi muori”, Napoli è come la Gorgone. Mio padre, che non amava particolarmente il paesaggio del golfo di Napoli, diceva: “Sono bellezze troppo opulente, mi accecano”.

          Nel romanzo Il mare non bagna Napoli, la Ortese descrive la Napoli del Dopoguerra. Una bimba del popolino, quasi cieca, ha un’immagine ridotta e confusa del mondo. La madre riesce poi, con grandi sacrifici, a comprarle un paio di occhiali; e quando la ragazza attraverso le lenti nuove può vedere finalmente la realtà che la circonda, si rende conto in quale squallore lei vivesse. Miseria, case cadenti, rovine belliche non ancora demolite, pezzenti. La città stracciona che oggi Elena Ferrante descrive nei suoi romanzi. La Città Più Brutta del Mondo.

Prima pensavo che i ciechi non avessero occhi, che avessero buchi neri entro le orbite. E mi stupii quando conobbi una signora cieca che non solo aveva gli occhi, ma li aveva addirittura aperti… Eppure una mattina, mentre camminavo con mia madre per i vicoli di uno dei quartieri più fatiscenti, Materdei, mi volsi e vidi un vecchio con un cappellaccio che ci seguiva lento con un bastone, e sembrava sorridermi con tetra dolcezza: ero convinto che al posto degli occhi avesse due fosse nere al di sopra del naso. Mi rigirai di scatto, atterrito dall’orrore di chi mi guardava senza vedere.

 



[1] Pubblicato inizialmente come “Der Müll von Neapel. Meine Kindheit und Jugend in der hässlichsten Stadt der Welt”, Lettre International, 96, 2012, pp. 78-85.

[2] “Testa rapata, come-melone / Metti la testa nel buco, / Che ora viene lo scarafaggio/ che ti morde il melone.”

[3] “Tu vuoi far l’americano!/ americano, americano/ ma dammi retta: chi te lo fa fare?/ Tu vuoi vivere alla moda/ ma se bevi whisky and soda/ poi ti senti di vomitar./ Balli il ‘roccorol’/ giochi al ‘baseball’/ Ma i soldi per le Camel/ chi te li dà?/ La borsetta di mammà./ Come può capirti chi ti vuol bene,/ se tu le parli mezzo americano?/ Quando si fa l’amore sotto la luna/ come ti viene in testa di dirle: ‘I love you’?”

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