Flussi di Sergio Benvenuto

Michel Foucault. Dire la verità sulla storia della verità28/mag/2022


 

 

Sergio Benvenuto, "Michel Foucault. Dire la verità sulla storia della verità", in Aldo Marroni e Ugo di Torno, a cura, Maestri ribelli. Pensatori e scrittori del conflitto, Ombre Corte, Verona, 2020, pp. 13-37. 

 

 

 

Negli ultimi anni, nei suoi seminari al Collège de France, Michel Foucault insisteva sulla nozione greca di parrhesìa: il parlar franco, il dire la verità senza peli sulla lingua. La distingueva da altri modi di dire la verità: il modo profetico, quello del saggio, quello dell’inse- gnante. Dire all’altro anche una verità sgradevole e rischiosa (perché l’altro può offendersi), questo è il nocciolo della parrhesìa. Penso che Foucault, oltre alla modalità del dire la verità dell’insegnante qual lui era, non cercato costantemente, nella sua opera, di praticare questa parrhesìa. Ovvero, anche pericolosamente dire la verità alle persone del proprio tempo.

Non a caso l’ultimo seminario che egli tenne, prima della morte, si chiamò Il coraggio della verità1. Qui si concentrò sul pensiero antico – nel quale era sprofondato negli ultimi anni – in particolare sulla parrhesìa come modo di dire una verità che però si salda a un modo di vivere rischioso, in rottura col modo comune di pensare e di vivere. Il discorso veridico, a differenza del discorso dell’insegnante, è un discorso che esige coraggio. Il coraggio - forse questo il vero lascito etico dell’opera di Foucault.

 

1.

 

Pochi pensatori come Michel Foucault hanno polarizzato la cul- tura occidentale come lui ha fatto, da decenni, tra suoi appassionati sostenitori e suoi decisi detrattori. Una opposizione paradigmatica che ricorda quella che si formò attorno a Voltaire, Rousseau, Marx, Freud...

1       Michel Foucault, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II (1984), Feltrinelli, Milano 2016.

 

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Per i suoi oppositori, Foucault è preso a modello del relati- vismo storico. Questo negherebbe una qualche essenza universale dell’umanità, e rigetterebbe in ultima istanza la nozione stessa di “na- tura umana”. D’altro canto, spesso i sostenitori di Foucault ne hanno fatto il teorico di una pura denuncia dello stato disciplinare, di un assetto politico contemporaneo che mirerebbe al controllo e alla sorveglianza – anche biologica – delle popolazioni. Lo si riduce a un pensiero militante di denuncia libertaria anti-sistema. Questa passione militante esisteva certo in Foucault. Anche se etichettato come “anti-umanista”, egli era di fatto un umanitario. si fece promotore di alcune battaglie “buone” per i diritti civili. Fu un intellettuale impegnato in varie lotte politiche, non meno della generazione sartriana precedente alla quale si era teoricamente contrapposto.  Si impegnò per le condizioni dei detenuti, contro la pena capitale, contro il razzismo e per gli immigrati. Fu più volte fermato dalla polizia e arrestato. Ma non mi sembra questo l’aspetto davvero originale di Foucault.

Dobbiamo evadere dall’opposizione anti- e pro-Foucault. In particolare dobbiamo liberare Foucault da molti foucaultiani – il che vale del resto per tutti i maestri, che vanno disincrostati dalla maggior parte dei loro seguaci e discepoli.

Ci sono due fasi del pensiero di Foucault, anche se tra le due non c’è separazione netta, ma scivolamento. Nei termini in cui Foucault stesso descrive questo mutamento, direi che egli passa da una storia dei saperi-poteri a quella che chiama una aleturgia – da aléteia, verità in greco. Foucault ha tentato niente di meno che una storia della ve- rità.

 

2.

 

Inizialmente Foucault è stato uno storico – lui diceva: un arche- ologo – di quelle che in Francia si chiamano “scienze umane”. In Le parole e le cose2 ricostruisce la storia, dal Rinascimento all’Ottocento, di come si sono formate le categorie moderne – i “quasi trascenden- tali”, come lui dice – di Lavoro, Vita e Linguaggio. Vale a dire, come si sono edificate in parallelo l’economia politica, la classificazione biologica, la linguistica, in quanto interrogazioni rispettivamente sul soggetto lavoratore, sul soggetto vivente, sul soggetto parlante. Ma

 

2       Michel Foucault, Les mots et les choses (1966), trad. it. Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1967.

 

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quel che gli interessava di più, in questa prima fase del suo lavoro, era mostrare come questi saperi che hanno per oggetto l’essere umano si confrontino con ciò che devia da una norma di umanità, come i folli, i malati, i criminali, i morti. Questa ricostruzione è scandita da lavori come Storia della follia3, Nascita della clinica4, Sorvegliare e punire5 e da altri ancora. In questi libri analizza come dal Rinascimento in poi si siano formate le discipline – ovvero saperi che sono anche poteri – che oggi chiamiamo rispettivamente psichiatria, clinica, giurisprudenza penale, tanatologia.

Questi saperi sono stati costruiti da esseri umani che si supppongono estranei al loro oggetto: gli psichiatri non sono folli, i medici non dovrebbero essere malati, i giuristi e la polizia non sono criminali, i vivi non sono morti. Si tratta di saperi che, come mostra Foucault, si legano sin dall’inizio a ”politiche” in senso lato, a diversi modi in cui la società decide di far fronte alla follia, alla malattia, alla criminalità e alla morte. Perché il presupposto fondamentale da cui parte Foucault è che i saperi, volti alla determinazione della verità, sono anche forme di potere sugli altri – e su sé stessi.

Così Foucault ha reso famoso il Panopticon di Bentham6, ovvero un modello di prigione circolare in cui c’è al centro un sorvegliante che non è visto, e che può vedere le celle di tutti i prigionieri girando semplicemente la testa. Tuttora si tende a identificare il pensiero di Foucault con questa denuncia di un Panopticon sociale, ovvero delle strategie da parte dello stato, o da parte di chi detiene un potere, per sorvegliare popolazioni. Non è proprio così, perché certamente Foucault ha interpretato i saperi sugli esseri umani come strategie di potere, ma in quanto essi volevano affermare delle verità – sulla follia, sulla malattia, sulla criminalità e sull’”uomo” stesso. Disse: “Là dove c’è potere, là dove occorre che ci sia potere, là dove si voglia mostrare effettivamente che è là che risiede il potere, occorre che ci sia del vero”7. Quel che interessa Foucault del potere non è la forza di una costrizione, non è la proclamazione di “stati di eccezione”  (come dirà poi Agamben ripendendo Carl Scmitt),  ma il legittimarsi del potere su una base di verità. Per cui, col tempo, al posto del termine potere – fin troppo abusato negli anni

 

3       Michel Foucault, Histoire de la folie à l’age classique (1961), trad. it. Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano 1973.

4       Michel Foucault, Naissance de la clinique (1963), trad. it. Nascita della clinica, Einaudi, torino 1998.

5       Surveiller et punir (1975), trad. it. Sorvegliare e punire, Einaudi, torino 1976.

6       In Michel Foucault, Sorvegliare e punire, cit.

7       Michel Foucault, Du gouvernement des vivants, EhEss Gallimard seuil, Paris 2012, p. 10.

 

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settanta – sostituisce i termini governo e governamentalità. A sapere, sostituisce il termine verità. Nella sua ultima fase, Foucault non parla più di sapere-potere, ma di “governo attraverso la verità”. Userà anche un altro termine che avrà poi molta fortuna: biopolitica.

            Mentre zoé è la vita in senso propriamente biologico, la vita animale, Foucault interpreta bios nel senso di ciò che si desidera, ciò che si vuol fare, ciò che si cerca.  Bisogna intendere quindi biopolitica nel senso di politica del desiderio, politica che incide sulle volontà anche individuali. È significativo che Foucault abbia iniziato i suoi seminari sulla biopolitica dedicando un anno all’esame del pensiero liberale8, includendovi quello che oggi si chiama neo-liberalismo, ovvero all’analisi di una dottrina in apparenza puramente economica, che punta sulla completa libertà del mercato dai lacci e lacciuoli dello stato. Anche un modello di organizzazione economica è una disciplina della vita, biopolitica intesa in questo senso lato.

In effetti, la parte più tardiva dell’opera di Foucault, incentrata sulla storia della sessualità in particolare nel mondo antico, mostra come il suo intento non si riducesse affatto alla denuncia del sapere come strumento di potere sugli altri.  D’altro canto, a differenza di molti altri storici del costume, Foucault non cerca di ricostruire i comportamenti sessuali effettivi degli antichi greci, romani, dei primi cristiani, ecc.; egli si occupa solo marginalmente delle usanze della gente reale. Foucault fa quasi sempre una storia alla seconda potenza; così, in questo caso, si occupa dei testi di coloro che hanno scritto e riflettuto sulla sessualità, dall’antica Grecia in poi.  I suoi sono testi su testi, non su usanze del passato.  Si interessa insomma a chi pretende di dire una verità sulla sessualità, e che indica i modi di dominarla e controllarla. La differenza, rispetto alle storiografie fou- cauldiane precedenti, è che chi scriveva della sessualità non si occu- pava di qualcosa che riguardasse altri, ma anche sé stesso: anche chi scriveva sulla sessualità aveva una sessualità. Oggetto della descrizione cessa, a questo punto, di essere il dominio sui comportamenti altrui, e diventa il possibile governo su se stessi, ovvero sui propri impulsi e atti sessuali, sulla base di una supposta verità del soggetto sessuato.

Spostando il proprio interesse da una storia del sapere-potere a una storia della verità e del governo di sé, Foucault si libera quindi dall’ipoteca pragmatista che ha dominato il secolo scorso.  Il pragmatismo (William James,  John Dewey,  Richard Rorty…) fa della veri-

 

8       Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli, Milano 2015. si veda la recensione di: Sergio benvenuto, Foucault e il governo liberale, in “MondO- peraio”, maggio-giugno 2005, pp. 94-102. http://www.sergiobenvenuto.it/communitas/ articolo.php?ID=134. Anche in S. Benvenuto, Il teatro di Oklahoma, Castelvecchi 2021.

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tà una funzione dell’utilità – “è vero ciò che ci serve”.  Ma questo non significa che Foucault torni a una visione oggettivista della verità in quanto garantita da un metodo scientifico, a una verità “innocente” immune da ogni progetto di potenza e di dominio.  Per lui ogni epoca ha cercato di dire la verità, non importa quale; anche la religione cri- stiana intendeva rapportare il soggetto alla verità.

Foucault non ci ha parlato dei disturbi psichiatrici né di singoli folli, ma soprattutto del modo in cui la medicina e poi la psi- chiatria li ha investiti col proprio sapere approntando apparati di controllo diversi a seconda delle epoche.  Non ci ha parlato tanto dei criminali9, quanto delle riflessioni di giuristi e riformatori sul modo più efficace e giusto di punire. E così via.  Foucault si è occupato per lo più dei discorsi di aristocrazie, delle verità che queste hanno voluto dire sui folli, sui malati, sui criminali, sulla sessualità. La sua storia è soprattutto una storia di progetti e di sogni, più o meno applicati, più che storia di chi era oggetto di questi progetti o sogni. Il che contrasta evidentemente con un’impostazione marxista. In par- ticolare, rigetta la nozione marxista di “ideologia dominante”, secon- do la quale in ogni epoca dominerebbe una certa ideologia (ovvero, una falsa coscienza) che permetterebbe a una élite che ha potere di controllare e sfruttare le masse. Ciò che interessa soprattutto Foucault è il potere della verità.

 

3.

 

Quel che disturba molti delle ricostruzioni del primo Foucault è la sua messa in evidenza delle differenze storiche. La storia del nostro rapporto a tutte queste devianze dalla vita – e alla sessualità in quanto matrice continua di possibili devianze da un vivere socialmente accet- tabile – è storia dei modi diversi di concettualizzare queste devianze. Si prenda quel che Foucault10 ha detto sull’omosessualità (egli stesso era omosessuale): che l’omosessualità, maschile e femminile, è un concetto connesso alla morale cristiana, non esistente nel mondo pagano11. Il

 

9       ha elaborato comunque la ricostruzione di un caso specifico, quello dell’assassino Pierre Rivière: Io, Pierre Rivière, ho sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello, Einaudi, to- rino 1976.

10     Michel Foucault, La volonté de savoir. La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1978. Mi- chel Foucault, Scelta e atto sessuale. Un’intervista a Michel Foucault di James O’Higgins, in “Illustrazione italiana”, 13, ottobre-novembre 1983. http://mpigreco.altervista.org/pu- blic/biblio/foucault-salmagundi.html.

11     Questo ha dato vita a una teoria ultra-storicista dell’omosessualità, che ne fa un’invenzione

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che ha irritato storici e omosessuali militanti che si battono per l’e- mancipazione di tutti gli omosessuali dando per scontato che “essere omosessuale” sia qualcosa che è sempre esistito, che lgbt+ sia una categoria coerente e “naturale”12. Eppure, in altre epoche non esisteva alcun termine corrispondente al nostro “omosessuale”, perché gli atti che oggi cataloghiamo come tali venivano concettualizzati diversamente. Nel mondo antico, non aveva alcuna importanza che un uomo facesse sesso con un uomo o con una donna, quel che contava era che l’uomo fosse attivo con entrambi. Quel che copriva l’uomo di vergogna era prestarsi in modo passivo (femminile) all’atto sessuale. La differenza pertinente non era quindi omo- versus etero-sessuali – come pensiamo oggi – ma uomini attivi versus passivi. Nel Medio Evo esisteva certo la nozione di “sodomita”, ma essa non è sovrapponibile a quella di omosessuale di oggi: “il sodomita era un recidivo, l’omosessuale ormai è una specie a sé”13.

Sono sicuro che, se Foucault fosse vissuto più a lungo, avrebbe trovato significativo il fatto che oggi a “omosessuale” si siano sostituiti i termini “gay” e “lesbiche”, che hanno entrambi una matrice lettera- ria.  Avrebbe forse detto che questo è il sintomo dell’ideale egualitario tra uomini e donne, dato che l’omosessualità vera, quella che contava sia per la religione che per la sessuologia fino a non molto tempo fa, era quella maschile.  All’omosessualità femminile non si dava alcuna importanza. Il concetto di “gay” esalta per distinzione anche l’omo- sessualità femminile, insomma le lesbiche sono diventate cose serie. Foucault evidenziava sempre la relatività storica dei concetti; il che gli è valso lo stigma di relativista.

In effetti il pensiero di Foucault è rampollo, in parte, della reazione storicista all’Illuminismo. Deriva cioè dalla svolta romantica moderna contro il culto illuministico delle invarianti della ragione. Lo storicismo moderno si è sviluppato come critica al giusnaturalismo, contro la presupposizione dì un’identità dì fondo natura-cultura; ragionevolmente, esso avrebbe dovuto portare a una teoria della relatività storica dei valori14. Eppure lo storicismo, da Giovan Battista Vico in poi, terrorizzato dalla propria stessa sfida, ha investito le proprie forze speculative nel ristabilire

 

molto recente. Cfr. Kenneth Plummer (a cura di), The Making of the Modern Homosexual, hutchinson, London 1981. David M. Halperin, One Hundred Years of Homosexuality, Routledge, New York-London 1990. David M. Halperin, How  to  Do  the  History  of Homosexuality, University of Chicago Press, Chicago 2002.

12     Come in Giovanni Dall’Orto, Tutta un’altra storia. L’omosessualità dall’Antichità al secondo dopoguerra, il saggiatore, Milano 2015.

13     Foucault La volontà di sapere, cit., p. 43.

14     ho sviluppato questo tema in: Sergio Benvenuto, La speranza di Foucault, in sergio ben-

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e rilegittimare la fede in valori assoluti trans-storici. Per lo storicismo c’è presenza dell’Assoluto nella storia. La miseria dello storicismo – secondo un modo di vedere poi detto post-moderno – è nel suo non essere stato storicista fino in fondo, nell’essersi impaurito dalla svolta che esso ha impresso al pensiero.

Rispetto a questo primo storicismo, la posizione di Foucault è di- versa. Mentre lo storicismo tradizionale scommette sul riconoscimen- to del senso della storia, quel che chiamerei post-storicismo coltiva il fiuto per la pura differenza storica, il senso delle eterogeneità incommensurabili tra culture e discorsi del passato e del presente.  Lo storicismo, hegeliano o marxista, basato su un’idea progressista, ottimistica, della storia e sul carattere umanistico della storiografia, pretende di riconoscere il senso di una storia guardata dall’alto. Invece, un autore come Foucault preferisce ridefinire i nostri problemi attuali più che alla luce, direi alla penombra delle opache pluralità storiche. Il particolare senso della storia di Foucault non è scindibile dal suo rifiuto di attribuire alla storia una direzione univoca, insomma, un senso. Ogni epoca elabora un governo di sé e degli altri basato su una strategia di verità, ma Foucault non vi vede una rotta unica.

Quindi Foucault non indietreggia rispetto alle conseguenze relati- viste? Nemmeno questo si può dire. C’è dell’assoluto anche in Fou- cault: non un senso ultimo al di là della storia, ma una forza al di qua di essa. La volontà di potenza.

 

4.

 

Il senso della relatività storiografica di Foucault ne ha fatto, dal punto di vista della vox intellectualis, un anti-umanista. In effetti, all’epoca impressionò molto la cultura non solo francese la chiusa di Le parole e le cose:

 

Una cosa comunque è certa: l’uomo non è il problema più vecchio e più costante, posto al sapere umano. Prendendo una cronologia relativamen- te breve, una circoscrizione geografica ristretta, possiamo essere certi che l’uomo vi costituisce un’invenzione recente. l’uomo è un’invenzione di cui l’archeologia del nostro pensiero mostra agevolmente la data recente e forse la fine prossima. se tali disposizioni dovessero sparire come sono appar- se, possiamo senz’altro scommettere che l’uomo sarebbe cancellato come sull’orlo del mare un volto di sabbia15.

 

venuto, Confini dell’interpretazione. Freud Feyerabend, Foucault, IPOC, Milano 2013. http://www.sergiobenvenuto.it/communitas/articolo.php?ID=148

15     Foucault, Le parole e le cose, cit., pp. 413-414.

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All’epoca predominava in Francia ancora la cultura in senso lato esistenzialista, che si affermava decisamente come un umanismo. Per alcuni (come Sartre) un umanismo ateo, per altri (come Gabriel Mar- cel) un umanismo cristiano. Questo riferimento alla relatività stori- ca del concetto di “uomo” venne inteso allora come una dichiarazione di guerra contro la cultura parigina allora ancora prevalente. È evidente che Foucault non metteva in questione la realtà biologica di Homo sapiens, metteva in questione una certa riflessione filosofica, un certo sapere, che metteva al centro dell’attenzione, e al centro della concettualizzazione sul lavoro, sul linguaggio e sulla vita (i tre ambiti di cui si occupava Le parole e le cose) la nozione di uomo.  Secondo Foucault, la centralità del concetto di “uomo” era nata nell’Ottocento quando a un certo punto dio si incarnò nell’umanità. Foucault respinge l’Uomo che ha preso il posto di Dio (si pensi a Feuerbach).  Anche qui, egli fa storia alla seconda potenza: non storia dell’uomo, ma storia di come si è concepito l’uomo. E in effetti oggi tende a essere abbandonato il termine “scienze umane” e prevale, nel mondo scientifico, il riferimento alle scienze cognitive, dove ciò che è tematizzato sono le capacità della mente, non solo di quella umana. Il potere di conoscere, le modalità del conoscere, hanno preso il posto di una riflessione che tematizzava prima di tutto l’essenza umana.

In modo quasi simultaneo rispetto a Foucault, in America Thomas S. Kuhn compiva un’operazione alquanto analoga. Quel che Foucault faceva nei confronti delle scienze umane, sin dal 1962 Kuhn16 lo faceva nei confronti delle scienze naturali. E non a caso Kuhn è accusato da molti epistemologi e scienziati di “relativismo”; in particolare, di non credere nel progresso scientifico, nell’accumulo di conoscenza col tempo. In effetti Kuhn nota che nelle scienze si passa nel corso del tempo da un paradigma all’altro, e che il sapere scien- tifico all’interno di un certo paradigma non vale più se si cambia di paradigma (“paradigma” in questo senso è entrato ormai nel discorso comune). Kuhn chiama scienza straordinaria le fasi rivoluzionarie in cui più paradigmi si confrontano sulla scena, e nessuno prevale del tutto. Per esempio, fu una fase di scienza straordinaria quella che caratterizzò la fine del xvi e l’inizio del xvii secolo quando si confron- tavano i due sistemi cosmologici, il tolemaico e il copernicano; e la fisica aristotelica con la nuova fisica galileiana; e poi quella cartesiana contro quella newtoniana. Kuhn chiama scienza normale quelle fasi,

 

16     thomas s. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, torino 2009.

 

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di solito molto più lunghe, in cui tutti i membri di una data co- munità scientifica accettano un paradigma comune, e si concentrano sui puzzles, ovvero su fatti e fenomeni che recalcitrano a rientrare nel paradigma accettato; insomma, bisogna spiegarli facendoli rientrare nel paradigma. Nella scienza non avviene un processo continuo di accumulazione di scoperte e teorie, ma si producono salti, attraverso cambiamenti anche drammatici di paradigma, che cambiano il senso stesso di “fatto” che una scienza deve spiegare.

In sostanza, la storia della scienza non ha una struttura molto diversa da quella della storia dell’arte, dove avvengono spesso salti (ad esempio, l’introduzione della prospettiva geometrica nella pittura europea del xiii secolo, oppure la svolta delle avanguardie artistiche a cavallo di Ottocento e Novecento). Questo però non porta Kuhn, come credono i suoi critici, a negare che ci sia un certo accumulo di sapere scientifico: questo avviene però sempre all’interno di un certo paradigma, ovvero è il prodotto dello sviluppo della scienza normale. Ma quel che è indigesto di Kuhn – e ancor più della radicalizzazione delle sue tesi operata da Paul Feyerabend17 – è questa rottura delle “magnifiche sorti e pro- gressive” che caratterizza la preponderante idealità scientifica.

Ritroviamo questo senso della discontinuità storica in Foucault. Egli sa che i mutamenti storici non si limitano a dare sensi e inter- pretazioni diverse a uno stesso oggetto che permane nel tempo – la follia, il crimine, la malattia, il lavoro, la sessualità, ecc. – ma cambiano il loro oggetto. Ogni epoca storica ha a che fare con “cose” diverse. Kuhn, ad esempio, parlava del lampadario che oscilla: prima di Galileo, quando la fisica era aristotelica, il lampadario era una sorta di pietra che cade; dopo Galileo, vi vediamo un pendolo.  Si capisce quindi quanto sia fuorviante l’accusa di relativismo rivolta sia a Kuhn che a Foucault. Kuhn non nega che ci sia un fenomeno fisico bruto – l’oscillare di qualcosa appeso a un filo – dice però che esso costituisce oggetti diversi di sapere a seconda dei paradigmi che si impongono in una scienza.  Analogamente, Foucault non nega che in ogni epoca ci siano dei folli, per cause su cui non si pronuncia, non nega che in ogni epoca ci siano state pratiche sessuali, non nega che in ogni epoca e società certi atti siano stati sanzionati come criminosi; ecc. Quel che gli interessa è mettere in evidenza la

 

17     Paul Feyerabend, Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, Feltrinelli, Milano 1979. Foucault ha elogiato pubblicamente il libro di Feyerabend in un suo seminario: Michel Foucault, Du gouvernement des vivants, cit., p. 77, p. 88 n. 6.

 

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differenza categoriale che assume la follia a seconda dei saperi e delle pratiche, e analogamente il crimine da punire, e così la sessualità...

Nel caso di Foucault parlerei piuttosto di relativismo relativo, il che potrebbe apparire un ossimoro. Foucault sapeva che lo stesso re- lativismo storicista è a sua volta relativo a una certa epoca storica, la nostra, che cerca di abolire ogni premessa assolutista. Foucault ha voluto praticare fino in fondo il relativismo che caratterizza la nostra epoca. La quale è nel fondo relativista anche quando nega recisamente di esserlo.

Foucault ci ha insegnato a non proiettare rozzamente le nostre ca- tegorie nel passato, ma a cercare di cogliere il momento delle svolte storiche. Per questo ci ha dato un grande aiuto a liberarci dall’inva- denza tentacolare del luogo comune, delle pigre e anacronistiche ripartizioni concettuali che ci fa comodo ritrovare nelle società passate o lontane. Egli ci ha raccomandato di cogliere l’altro non a partire dai tratti comuni con noi – da cui il tipico trompe-l’oeil storiografico – ma a partire dalle sue differenze con noi.

La passione discontinuista di Foucault non gli impedisce di vedere anche le continuità storiche. Non nega anche quelle che gli storici delle Annales (Marc Bloch, Lucien Febvre, Fernand Braudel e altri) avevano chiamato “le lunghe durate”, ovvero le continuità sotterranee di certe concezioni e costumi sotto la superficie di cambiamenti superficiali spettacolari di assetto etico o politico. Egli accetta il lavoro delle Annales che metteva in rilievo la lenta evoluzione delle tecniche e delle mentalità. Possiamo dire che da una parte abbiamo la storia propriamente detta che punta sulle continuità, e una storia delle idee che punta sulle discontinuità18. Ma più tardi Foucault coglie anche la continuità nelle idee. Nella sua Storia della sessualità, ad esempio, sottolinea che la morale anche sessuale cristiana, che noi consideriamo (fino a poco tempo fa) alla radice della moderna austerità sessuale fondata sulla coppia monogamica, non è stata una creazione del cristianesimo, ma era già stata perfettamente elaborata dagli stoici e da molti altri autori pagani. Le rotture avvengono, ma risultano più lente e meno radicali di quanto non appaia après coup.

5.

 

Di Foucault, non si accetta il suo anti-fondazionalismo. Molti intellettuali, soprattutto filosofi, pensano che sia loro dovere

 

18     L’archéologie du savoir, intervista di J.J. brochier, in “Magazine littéraire”, aprile-maggio 1969.

 

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dare un fondamento alle nostre credenze e passioni (politiche, reli- giose, estetiche), ovvero costruire una serie di argomentazioni che di- mostrino la validità delle proprie credenze e passioni. Foucault non crede che sia questa la sua funzione. Eppure Foucault aveva a suo modo delle convinzioni – era un uomo della sinistra radicale liberta- ria – ma si è ben guardato dal “fondarle”. Come nota lo storico Paul Veyne19, amico di Foucault, egli non ha mai detto «le mie preferenze politiche o sociali si basano su verità», egli si è limitato a dire: “le razionalizzazioni, con cui i miei avversari pretendono di affermare la verità delle loro preferenze, non si basano su niente”. Del resto anche la scelta degli avversari si basa su niente. In un seminario Foucault affermò: “Io non vedo, almeno per il momento, quali criteri permetteranno di decidere contro chi bisogna battersi, salvo forse dei criteri estetici”.

Precisa sempre Veyne:

 

Non bisogna opporre la verità eterna al tempo, e neppure identificare l’es- sere con il tempo; bisogna tranquillamente opporre, al tempo come all’eter- nità, la nostra attualità, cioè la nostra volontà valorizzante... La sola realtà è la volontà di potenza come volontà valorizzante, e tutto il resto è illusione razionalistica20.

 

Perché in effetti, almeno in una prima fase c’è un punto di riferi- mento assoluto anche per Foucault: la volontà di potenza.

Foucault disse che l’autore che lo aveva influenzato di più era stato Nietzsche, anche se non ne aveva trattato mai direttamente. Quella di Foucault è una teoria storiografica squisitamente nietzscheana. La Wille zur Macht di Nietzsche diventa con lui pouvoir, potere. I modi di esercizio del potere in Foucault sono un senso ultimo al di qua della storia.

Foucault non pensa che il potere sia concentrato in qualche luogo – che ci sia un tabernacolo del potere. Non crede che ci sia un qualche Palazzo d’Inverno da conquistare. Ritroviamo i rapporti di potere a tutti i livelli del sociale: potere dei genitori sui figli, degli uomini sulle donne, dei leader sui seguaci, degli adulti sui bambini, dei medici sui malati, e soprattutto, del soggetto su sé stesso (Freud direbbe: dell’Io sull’Es). Ma il potere non è qualcosa che si possiede, è qualcosa che si

 

19     Paul Veyne, È possibile una morale per Foucault?, in Pier aldo Rovatti (a cura di), Effetto Foucault, Feltrinelli, Milano 1986, p. 32.

20 Ivi, p. 31.

 

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esercita.  Se quello di Foucault è un relativismo della ragione, a esso si unisce, non contraddittoriamente, un assolutismo della volontà o della forza. In questo senso il suo lavoro – almeno in una prima fase – si inscrive in un progetto metafisico in senso lato.

Ma Foucault ha analizzato i rapporti di potere che permeano la vita sociale dall’angolazione particolare della verità. Ovvero, dall’angola- zione dei saperi che sono orientati ad affermare la verità. Questo rap- porto tra verità e potere (o governo) è il tema privilegiato dell’opera di Foucault. La sua tematica generale non è costituita dalla società, bensì dal discorso vero/falso nel suo rapporto con il potere. In un certo sen- so per Foucault c’è un palazzo d’inverno del potere, ed è la scienza. E in effetti, fare la storia delle scienze umane – della psichiatria, della linguistica, dell’economia, della medicina, della criminologia – è fare la storia delle strategie che le varie epoche hanno usato, in fondo, per dominare gli altri uomini e se stessi, in nome della verità.

La volontà di potere non è mai relativista; ogni vera volontà vuole assolutamente. Il relativismo invece è il corollario dell’atto malinco- nico di registrazione quasi contabile della pluralità irriducibile degli assolutismi delle volontà.

 

Quando Foucault vede in ogni sapere l’esprimersi di una volontà di potenza, ci poniamo allora la domanda: la sua opera è certamente una forma di sapere, allora, quale progetto di potere essa (anche se inconsapevolmente) esprime?  Se ogni sapere è un progetto di potere, non è credibile un’oasi di sapere oggettivo, contemplativo, staccato dalla dinamica del potere. Non ci può essere un luogo sovra-conflittuale dal quale poter giudicare, dall’esterno, il sound and fury dei conflitti sociali. L’opera di Foucault non può essere vista come una semplice denuncia dei rapporti di potere del passato o attuali, perché è essa stessa un modo di sapere. E quindi, in che senso l’opera di Foucault esprime a sua volta un progetto di verità-potere? Come rientrerebbe il suo stesso pensiero in quella “storia della verità” che egli intendeva scrivere?

Foucault ha giocato sempre in modo impeccabile il gioco della disciplina storiografica così come viene svolto nel mondo accademico. Ha intrapreso una brillante carriera scientifica; famoso da vivo, è stato ammesso al Collège de France, culmine del percorso accademico in Francia. Egli ha seguito sostanzialmente le regole della cultura storiografica e filosofica del proprio tempo. Persino la vita di Foucault è un modello – a parte la sua morte prematura

–   per tanti intellettuali, soprattutto di sinistra, di oggi, i quali deside-

 

rano da una parte contestare in modo radicale il sistema universitario ed educativo nelle nostre società occidentali, dall’altra fare una bril- lante carriera in questo stesso sistema. È un avere la botte piena e la moglie ubriaca che a Foucault riuscì perfettamente, ma che è anche il segno di una tensione irrisolta in quella che chiamerei “la cultura critica radicale”. Oggi sempre più la cultura di critica radicale del- la società si asserraglia nelle istituzioni accademiche, come se queste istituzioni fossero fuori, al di sopra, di quella società di cui esse stesse fanno parte.

E certo la sua opera ha prodotto delle trasformazioni nei paradig- mi universitari, nel modo di fare storiografia; nel mondo accademico Foucault ha fatto scuola. Insomma, Foucault non è mai stato un mau- dit.  Sarebbe questa allora la prova che, al contrario di quanto pensa Foucault, certe scienze umane – in questo caso la storiografia – godono di un’autonomia rispetto alle pratiche sociali di potere?  A meno di non riconoscere nell’opera stessa di Foucault una strategia di potere. Possiamo qualificare l’opera di Foucault di dionisiaca in senso nietzscheano. Ma, in fondo, i teorici del dionisiaco erano e sono professori severi che hanno speso anni chini sui libri, spesso noiosi e difficili. Il professore dionisiaco idealizza l’uomo e la donna che vivono seguendo la corrente istintuale, ovvero che fanno solo ciò che loro desiderano, ma si guardano bene dall’imitarli nella propria vita concreta.

Foucault non ha proposto riforme. Né della psichiatria, né dei si- stemi penali, né della pratica clinica, né della legislazione sessuale. Non solo perché proporre riforme, insomma fare politica, non era il suo mestiere.  Ma anche per una ragione più profonda: egli sapeva in fondo che fare riforme precise significa passare da una forma di governo a un’altra. Certo una forma più soddisfacente rispetto alle nostre esigenze etiche di moderni, meno repressiva, ma pur sempre forma biopolitica.  Ad esempio, con la legge 180  Franco Basaglia in Italia è riuscito a cambiare (in parte) il sistema di presa in carico psichiatrico eliminando gli ospedali psichiatrici (per lo meno quelli pubblici). Almeno in teoria, non esistono ospedali psichiatrici in Italia. Ciò non toglie che lo psichiatra basagliano sia chiamato anch’egli a governare la follia, ovvero ciò che nella follia è sociodistonico, ciò che nella vita sociale rende intollerabile il vivere folle.  Anche una psichiatria riformata deve comunque “governare i viventi”. Analogamente, possiamo anche ridurre al minimo la detenzione nelle prigioni come sistema essenziale di controllo dei comportamenti criminali, in ogni caso la società sarà sempre chiamata a dare una risposta agli atti criminali, insomma a governare ciò che il resto della società condanna e teme.

 

La mancanza di proposte riformatrici da parte di Foucault è quindi corollario della sua filosofia di fondo: non potremo mai uscire dalla biopolitica, ovvero dal governo degli umani, che avrà pur sempre, in qualche modo, una faccia contenitiva o repressiva. Cosa che abbiamo ben visto, nel 2020-1, con le costrizioni imposte alle popolazioni per combattere la pandemia di  coronavirus.

Foucault non poteva porsi da riformatore proprio perché il suo era un pensiero, e uno stile di vita, dionisiaco. La fine degli anni sessanta e gli anni settanta – in una stagione che gli americani hanno chia- mato post-strutturalista – hanno visto la fioritura di filosofie dionisiache. In Francia Deleuze, Guattari, Maffesoli, Sollers, Blanchot – in Italia Vattimo e Negri, in America Feyerabend – e molti altri, segnarono l’esplosione dionisiaca della cultura europea, e non solo, di quegli anni. Il dionisismo è un’estasi del presente, non è previgente, non propone ricette per il futuro: si vuole un atto di liberazione direi senza avvenire, bruciato nel godimento presente di questa liberazione.

D’altro canto, è incontestabile, l’opera di Foucault ha favorito dei cambiamenti nei campi di cui si è occupato: nella psichiatria, nella clinica medica, nel sistema penale, nei comportamenti sessuali.  Sono stati fatti da allora vari tentativi di sottrarre i prigionieri all’arbitrio dei carcerieri. Nella clinica molti valorizzano la relazione umana me- dico/paziente piuttosto che la pura oggettività dello sguardo medico. Quanto al comportamento sessuale, sono avvenuti grandi cambia- menti nel costume negli ultimi cinquant’anni, in particolare l’accet- tazione dell’omosessualità attraverso istituzioni come le unioni civili, a cui si accompagna il declino del matrimonio come modalità tipica della convivenza eterosessuale, ecc. Insomma, l’opera di Foucault non era inattuale – come pretendeva di essere il pensiero di Nietzsche – era del tutto attuale rispetto alla propria epoca (e ancora rispetto alla nostra). Foucault certamente non predicava nel deserto, anche se lui non predicava nulla. Ma allora, dobbiamo applicare all’opera stessa di Foucault quelle chiavi analitiche che lui ha usato nei confronti degli autori che ha analizzato?

Foucault ha insistito sull’attualità come criterio della propria strategia. È questo senso dell’attualità che, per esempio, gli fa dire “il marxismo sta nel pensiero del xix secolo come un pesce sta nell’acqua; cioè, cessa di respirare in qualsiasi altro luogo”21. Foucault ha seguito gli dei dell’attualità. Come disse lui stesso: “Diagnosticare il presente è

 

21     David Macey, The Lives of Michel Foucault, hutchinson, london 1993, pp. 173-177.

 

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dire che cosa è il presente, e come il nostro presente è assolutamente diverso da tutto ciò che non lo è, ovvero, dal passato. Forse questo è il compito della filosofia oggi”22.

Qui è la forza della sua opera. Egli si è occupato soprattutto del passato, ma consapevole dell’attualità di questo sguardo sul passato. Questa sua fedeltà agli dei dell’attualità è coerente con la sua ripulsa del dio escatologico cristiano, reincarnatosi negli umanismi filosofici e marxisti. Foucault accetta la parzialità storica del proprio approccio. Egli si vuole testimone viscerale della propria epoca. Perciò il suo non è riducibile al cosiddetto “pensiero critico”, sulla falsariga della protesta lagnosa della scuola di Francoforte.

 

 

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Ha contribuito all’alone sulfureo che circonda Foucault la sua indubbia attrazione non solo per i criminali e i pazzi, ma anche per certi “mostri”. In Io, Pierre Rivière..., Foucault23 ricostruisce un fattaccio di cronaca nera della Francia del xix secolo, quello di un contadino normanno che sterminò parte della propria famiglia. Indubbiamente Foucault è interessato a figure e situazioni ai limiti, che si collocano su quell’orlo in cui non riconosciamo più “l’umanità”. Questo persino in letteratura. Foucault ha dedicato un libro allo scrittore Raymond Roussel, psicotico seguito da Pierre Janet, iperbolico dandy, autore di romanzi enigmatici che espongono macchine assurde – siamo insom- ma quasi ai limiti della letteratura. Roussel è un affascinante “mostro del romanzo”24.

E non è un caso che gli ultimi seminari dati da Foucault, nel 1984, poco prima della morte, siano incentrati sui filosofi cinici, personaggi che certamente dovevano attralo. E in effetti il cinismo è un limite ra- dicale della filosofia, nel senso che esso elimina tutta la parte teoretica per dare spazio a un modo di vivere completamente “altro”, provoca- torio e scandaloso, opposto a ogni convenzione sociale. E di denuncia quindi di tutte le convenzioni sociali.

Foucault ci focalizza insomma su chi “manca di umanità”. Non esalta allora questi soggetti senza umanità? Questa simpatia per “i cat- tivi” era anch’essa in sintonia con l’epoca, anni sessanta e settanta.

 

22     Michel Foucault, Foucault risponde a Sartre, dialogo con J.-P. El Kabbach, in “la Quin- zaine littéraire, marzo 1-15 1968.

23     Foucault, Io, Pierre Rivière, ho sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello, cit.

24     Michel Foucault, Raymond Roussel, Gallimard, Paris 1963.

 

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Non a caso il film cult di quell’epoca fu Easy Rider di Dennis Hop- per, dove il pubblico è portato a identificarsi ai due protagonisti, corrieri della droga. Insomma, a due criminali. Anche Foucault puntava a creare simpatia per la marginalità morale.

Si sentiva forse lui stesso un marginale, un extra-umano?

Non esamineremo qui la vita personale di Foucault, non perché lo vieti la philosophical correctness, secondo cui non si deve evocare la vita privata dei pensatori. Foucault non avrebbe condiviso certo questa separazione ipocrita. Non connetto qui la vita e l’opera solo perché sarebbe impresa troppo complessa. Il fatto che suo padre fosse chirurgo non è estraneo forse al suo interesse per la storia della clinica. Il fatto che da giovane, attratto dal suicidio e dalle auto-mutilazioni, sia stato portato da suo padre in cura dallo psichiatra più famoso in Francia all’epoca, Jean Delay, può spiegare il suo interesse per la follia. Il fatto che si sia descritto come “un delinquente giovanile” può dirci qualcosa sul suo interesse per i criminali e le condizioni carcerarie. Comunque, la vita di Foucault è stata sempre improntata a una hybris, a un eccesso anche auto-distruttivo. Da giovane indulse a droghe e ad alcool, a pratiche sado-masochiste, e a una vita sessuale sfrenata e rischiosa che fu certamente causa della sua morte, dovuta ad aids. Non si può quindi trovare nella sua opera una temperanza teorica che striderebbe con la sua intemperanza vitale. Negli ultimi anni Foucault ha studiato molto le saggezze antiche, ma in un progetto teorico che separa saggezza e verità.

Pensare che il pensiero di Foucault esprima una personalità distur- bata è una ragione per rifiutare quel pensiero? Si pensi alla vita di Caravaggio, traversata da un’aggressività omicida. Non ne ri- fiutiamo l’opera per questo. Eppure è evidente che l’opera ne riflette la personalità: l’opera ha una qualità di violenza, di spietato sguardo quasi irato sul reale, che non può essere estranea a quel che Caravag- gio era come uomo. Eppure, anche se non siamo violenti e irascibili, amiamo Caravaggio. Perché ci attrae quel suo sguardo scabro sul reale, di cui rivela una dimensione a noi non palese.  Analogamente, anche se non abbiamo avuto i problemi personali di Foucault, ci attrae il suo sguardo sul reale. Non perché sia il nostro, ma perché ci attrae la forza di verità di questo sguardo.

Indubbiamente il richiamo che esercitavano su Foucault esseri ai limiti dell’umanità, od oltre questi limiti, è un sintomo filosofico. Foucault sa che ogni assetto sociale – nei suoi termini: ogni forma di governo dei viventi – non può accogliere tutti. Ogni assetto lascia fuori

 

qualcuno; non è detto che produca – come crede il marxismo – miseria, soprattutto esclude una fetta di umanità che imbarazza ogni progetto di potere fondato sulla verità. Folli, criminali, “mostri”, perversi, ecc. (ma anche fascisti, razzisti, putinisti ecc.), sono la prova che ogni governamentalità implica dei left over. Foucault si identificava a questi esclusi. Ma non ha mai sostenuto i progetti socialisti – e tanto meno i socialismi allora detti “reali” – perché sapeva che anche il socialismo produce degli scarti, degli esclusi, qualcosa fuori dei limiti dell’”umanità”. Come la storia ci ha mostrato.

 

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“Dalla malattia mentale non si guarisce mai. Perché non è una malattia”

(uno psichiatra nel film Hammamet di Gianni Amelio).

 

La Storia della follia di Foucault è stata messa in relazione con quella che all’epoca si chiamava anti-psichiatria, le cui maggiori figure furono Thomas Szasz in Us, Ronald Laing e David Cooper in Gran Bretagna. L’anti-psichiatria negava la realtà stessa della malattia mentale: da una parte questa sarebbe un certo modo in cui storicamente si sono classificati certi comportamenti; dall’altra essa non è malattia ma un trip (come si diceva degli effetti delle droghe allucinogene) che non andava bloccato, interrotto, ma che lo psichiatra doveva in qualche modo accompagnare. Foucault non   ha mai negato che esista qualcosa come la follia, anche se non l’ha mai definita; ogni epoca l’ha definita in modo diverso, e per lui non aveva senso aggiungere una nuova definizione, quella che sarebbe “la vera”. Quel che contava, per un pensatore dionisiaco come Foucault, era stabilire con il folle un nuovo rapporto che non lo riducesse a un oggetto di studio scientifico, sulla linea del positivismo. Foucault non dà alcuna indicazione su come curare bene la follia, si limita a ricostruire storicamente i modi in cui essa è stata concettualizzata e controllata attraverso misure diverse, di cui l’ospedale psichiatrico – ancora in auge all’epoca della pubblicazione della Storia della follia – era il dispositivo più recente, incentrato sul potere del sapere medico.

Non bisogna credere comunque agli agiografi di Foucault, i quali interpretano la sua opera come un ridare la parola ai folli. Scrive ad esempio Russ:

 

a questi internati che a migliaia popolano ancora i nostri ospedali psichia- trici, Foucault restituisce loro una voce, una parola e un discorso. Il folle, come la donna e il bambino, fu, per lungo tempo, privato del linguaggio e delle parole. Michel gli restituisce la parola25.

 

Ma se si legge il libro di Foucault sulla follia, si vedrà che non dà affatto la parola ai folli. Certamente Foucault evoca grandi scrittori e artisti psicotici, come Sade, Hölderlin, Nietzsche, Nerval, Van Gogh, Roussel, Artaud... Ma costoro non sono stati affatto silenti, anzi, han- no prodotto molte opere, e alcune di queste sono ormai classici della letteratura e della pittura. Di tanti folli, tutto si può dire tranne che siano rimasti zitti! E tanto meno che non siano stati ascoltati! Da que- sto punto di vista, possiamo dire che hanno dato la parola alla follia piuttosto autori come Freud26, Benjamin, Canetti o Lacan, quando hanno commentato dettagliatamente il libro autobiografico del presidente Schreber27, l’opera psicotica più chiosata nel xx secolo.

Foucault ha intitolato il suo libro Storia della follia e non Storia della psichiatria, è vero, ma di fatto analizza i dispositivi che dal Medio Evo fino al xix secolo hanno dato un luogo e un ruolo alla follia, e di cui la psichiatria, specialità medica, è un avatar recente, perché nasce alla fine del xviii secolo.  L’intento di Foucault è storiografico, quindi, in senso lato, scientifico.

Eppure non si può negare il legame di Foucault con l’anti-psichia- tria e con i movimenti riformatori che hanno portato al superamen- to dei manicomi quasi dappertutto28. Qui cogliamo un elemento di tensione fondamentale nell’opera e nella personalità di Foucault. Il fatto che da una parte egli utilizzi le regole della ricerca storiografica, che egli si rivolga agli storici della medicina e della cultura; dall’altra il fatto che egli sembri prospettare un’applicazione “militante” della sua ricerca, una contestazione degli apparati di potere  che  tendono al controllo di ciò che è ai limiti dell’umanità. Questa seconda faccia dell’opera di Foucault si prestava magnificamente ai

25     Jacqueline Russ, Histoire de la folie. Foucault, Harier, Paris 1979.

26     Sigmund Freud, Osservazioni psicoanalitiche su un caso di paranoia (dementia paranoides) descritto autobiograficamente (1910), in Opere, vol. 6, boringhieri, torino 1974, pp. 339- 406.

27     Daniel Paul Schreber, Memorie di un malato di nervi (1903), adelphi, Milano 1974.

28     Il movimento intellettuale, e poi riformatore, che mise sotto accusa il sistema manicomiale inizia con lo studio celebre del 1961 di Erwin Goffmann, Asylums: Essays on the Social Situation of  Mental Patients and Other Inmates (1961). I libri di Goffmann e Foucault furono tra i maggiori riferimenti delle riforme psichiatriche nei vari paesi.

 

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discorsi delle correnti politiche e ideologiche degli anni sessanta e settanta, così Foucault divenne tra i maggiori riferimenti culturali dei movimenti di contestazione di quegli anni ruggenti. Ma possiamo leggere Foucault, e apprezzarne le intuizioni, anche senza derivarne conseguenze militanti. Perché, come abbiamo detto, la stessa opera di Foucault non può sfuggire alla chiave di fondo che lui applica alla storia: come si costruiscono rapporti di potere in relazione a un sapere che punta alla verità. Qui è il problema, perché Foucault non parteggiava per alcun sistema di potere.

 

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Famosa è la disputa che oppose Foucault a Derrida a proposito di alcune pagine di Storia della follia.

Qui Foucault rievocava un passaggio di Descartes nelle Meditazioni a proposito del dubbio metodologico, quello che lo portava alla certezza del “cogito ergo sum”: Descartes sembra escludere le false percezioni dei folli dalla sua argomentazione. Foucault interpretava questa esclusione della follia dalla considerazione filosofica come espressione teoretica di un processo che si svolgeva nella società, in particolare in quella francese, e che ha descritto come il Grand Renfermement (il Grande Confinamento) dei folli. Prima del xvii secolo, i folli erano fatti in qualche modo cir- colare, in una sorta di nomadismo forzato, ad esempio su “navi dei folli”.  A partire dal Seicento, invece, i pazzi vengono rinchiusi assieme a molti altri devianti e “immorali” in istituti specifici. Ci sarebbe insomma una omologia tra il costituirsi cartesiano del razionalismo e certe misure amministrative prese alla stessa epoca.

Derrida29, che pure ammirava Foucault, obietta che in realtà il per- corso argomentativo di Descartes si misura con un dubbio che ha la radicalità della follia: con le illusioni indotte dal supposto Demone Maligno che ci inganna su tutto, anche quando facciamo di conto e argomentiamo razionalmente. Lungi dall’escludere la follia dall’argomentazione filosofica – fa notare Derrida – Descartes si confronta con la déraison (sragione) come punto di partenza fondamentale del discorso filosofico verso la verità. Non a caso Descartes considera le illusioni di chi sogna, in quanto costui, in qualche modo, è più folle del folle. In effetti, dice Descartes, se credo che il sogno che sto facendo

 

29     Jacques Derrida, Cogito et histoire de la folie, in L’écriture et la différence, Points, Paris 1967.

 

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sia una realtà, posso pensare che la realtà che vivo sia anch’essa tutta un sogno. “Il ricorso all’ipotesi del Demone Maligno renderà presen- te, convocherà la possibilità di una follia totale [corsivi di Derrida], di un panico (affolement) totale che non saprei padroneggiare dato che mi è inflitto, per ipotesi”30.

Inoltre, Derrida cerca di mostrare che sin dai propri inizi la filo- sofia, lungi dall’espellere l’esperienza del folle come impertinente alla propria meditazione, ha sempre tematizzato la follia come possibilità con cui fare i conti. Per Derrida, il “cogito, sum” vale anche per il pazzo, e, del resto, è un atto filosofico in sé stesso pazzo, in quanto stabilisce un punto, point – e une pointe, punta, arguzia, pizzico, frecciata - che si situa al di là della totalità degli enti. Il Cogito sarebbe una “frecciata” di hybris filosofica che in altre forme accade in ogni atto di vera filosofia, atto che porta con sé una sfida alla ragione determinata, quindi atto sempre al limite della follia.

Foucault rispose a queste obiezioni31, ma se la prese a male, e in- terruppe l’amicizia con Derrida per nove anni.

Non ha più senso oggi schierarsi con Foucault oppure con Derrida. Molta acqua è passata sotto i ponti. Certamente Derrida aveva ottime ragioni per criticare la ricostruzione del testo cartesiano da parte di Foucault, dato che questi non considerava la fase del testo detta del “dubbio iperbolico”, l’incertezza totale dovuta al Demone Maligno. Va detto però anche che, senza rendersene conto, Derrida ricalcava quelle che poi saranno le critiche tipiche che molti, soprattutto stori- ci, faranno alla Storia della follia e ad altre storiografie foucaultiane32. Queste critiche, basandosi anch’esse su documenti storici, sostanzial- mente criticano l’idea che dal Medio Evo – anzi, dall’Antichità - a oggi, ci siano stati fondamentali cambiamenti di atteggiamento sociale nei confronti della follia. Contestano, ad esempio, che la psi- chiatria medica abbia preso il totale controllo della follia solo nel xix secolo, con l’istituzione dell’ospedale psichiatrico.  Le obiezioni a Foucault vanno quasi tutte, insomma, nel senso di rigettare le discontinu-

 

30     Derrida, Cogito et histoire de la folie, cit., p. 81.

31     Nel 1972, nella riedizione di Histoire de la folie.

32     Cfr. Gladys Swain, Le Sujet de la folie, naissance de la psychiatrie, Privat, Toulouse 1977. Gladys swain e Marcel Gauchet, La pratique de l’esprit humain. L’institution asilaire et la révolution démocratique, Gallimard, Paris 1980. Pierre Morel e Claude Robert Castel, Les aventures de la pratique, in “le Débat”, 41, 1986. Quétel, Médecines de la folie, hachette, Paris 1985. Gladys Swain, Chimie,  cerveau,  esprit, in “le Débat”, 47, 1987. Claude Quétel, Faut-il critiquer Foucault?, in aa.Vv. Penser la folie. Essais sur Michel Foucault, Galilée, Paris 1992, pp. 79-105.

 

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ità storiche che egli mette in evidenza: esse sostengono un continuum nel trattamento della follia, da Ippocrate, che dedicava passaggi alla cura della pazzia, fino alla psichiatria di oggi. Per questi critici, c’è progresso e non discontinuità.

Possiamo trovare inesattezze, errori, in qualsiasi grande testo te- orico su base storica. Ma questo lavoro di correzione documentaria si rivela disarmato quando esso punta a rovesciare la decisione teorica di fondo di un testo.  Ammettiamo che i critici di Foucault abbiano ragione, che storiograficamente le cose non siano andate così come le ricostruisce Foucault. Ma quel che conta è che Foucault introduca nella ricostruzione storica lo sguardo discontinuista. È l’adozione o meno di questo sguardo quel che conta. I dati storici possono essere interpretati diversamente, a seconda del tipo di paradigma che si adotta. Il punto è: si adotta o meno lo sguardo relativista di Foucault?

Per non averlo adottato, i critici di Foucault non resteranno nella storia, e invece Foucault sì.  Anche se fattualmente i suoi critici po- trebbero avere ragione. In un certo senso, si resta nella storia per i propri errori – dopo tutto, è quel che Foucault ha cercato di dirci.

Come abbiamo visto, la scommessa di Foucault nella prima fase del suo lavoro consiste nel mettere in rilievo le rotture storiche, le svolte, i cambiamenti di paradigma in termini kuhniani.  Abbiamo an- che detto che Derrida invece minimizza la svolta cartesiana in filoso- fia. Pensa che la filosofia sia sempre stata inquietata dalla possibilità dell’illusione psicotica, del delirio, senza vere rotture al proprio inter- no. È vero che le filosofie importanti, sin dall’Antichità, cozzano in qualche modo contro il senso comune (mentre Descartes lo esaltava: diceva che il buon senso è quello più egualmente distribuito) e quin- di per le persone di buon senso c’è sempre un alone di follia nella filosofia. Invece, Descartes vuol dimostrare che il buon senso vince filosoficamente sulla follia anche quando questa è filosofica. Fluttua un discredito benpensante della filosofia che Descartes intende ro- vesciare. Perciò la nascita del razionalismo (e della scienza moderna) proprio nel xvii secolo segna anche un cambiamento di atteggiamento generale nei confronti di ciò che oggi chiameremmo “l’irrazionale”. Per esempio, le corti europee alla stessa epoca bandiscono indovini e astrologi che erano figure fisse del mondo cortigiano, ora re e imperatori preferiscono circondarsi di scienziati e di dotti. Derrida sottovaluta le discontinuità nella storia della filosofia, e anche le relazioni, che Foucault svela strette, tra riflessione filosofica da una parte e governo dei viventi dall’altra. In fondo, Foucault pensa che la storia non venga

 

fatta tanto dalle masse, come si dice democraticamente, ma prima- riamente dai filosofi.  Sono costoro a offrire alla propria epoca le concezioni del mondo e della vita che poi diventeranno paradigmi del governare, anche da parte di mediocri. Il razionalismo ha implicato un renfermement non solo delle forme di follia, ma anche di tutto ciò che nella società esprime forme di vita irrazionali.

Derrida toglie quindi al Cogito cartesiano il suo essere evento sto- rico, ovvero atto istitutivo del razionalismo scientifico. Il razionalismo partiva da una premessa precisa, che non si ritrova nelle filosofie pre- cedenti: fondare la verità sulla certezza. È vero solo ciò di cui si può essere certi. Il “cogito ergo sum” è una pointe in cui il pensare si ri- vela certo. Ovvero certifica l’essere.  Tutta la pars destruens del dub- bio metodologico – che giustamente Derrida vede come un confronto drammatico con la pazzia in quanto possibilità sempre presente alla ragione – trova il suo senso nella pars costruens dello stesso testo carte- siano, quello di riaffermare le verità che allora occorreva mettere al si- curo: l’esistenza di Dio, l’immortalità dell’anima, la costruzione di una scienza vera perché basata su certezze. E che il cogito abbia una sua storicità – non meno di certi atti amministrativi riguardanti i folli – è dimostrato dal fatto che viviamo in un regime di pensiero del tutto di- verso, dato che la scienza non si basa oggi affatto sulla certezza ma sul- lo sfruttamento abile dell’incertezza, delle probabilità, delle possibilità. Ora, lo ammette anche Derrida, questa pars construens del pensiero di Descartes – che consideriamo oggi storicamente superata – esclude quella follia che sembrava invece integrata nel cogito. Integrata perché anche un folle – nota Derrida – può dire “penso dunque sono”.

(Ecco lo spunto per una lettura foucauldiana del nostro presente: c’è una relazione tra l’epistemologia contemporanea – che oggi si basa per lo più sul criterio popperiano di falsificazione – e le riforme della psichiatria che di fatto hanno smantellato gli ospedali psichiatrici?)

Ma è proprio vero, come dice Derrida, che anche un pazzo può convenire che “penso dunque sono”? Sappiamo invece che uno psicotico può essere addirittura certo della propria non esistenza. Sin dal xix secolo conosciamo la sindrome di Cotard, detta anche “sindrome del cadavere ambulante”, quando certi soggetti affermano di essere già morti, di non esistere... Il fatto di pensarsi morti, non impedisce loro di essere certi del loro non-essere. E del resto è quello che pensava un filosofo psicotico come Louis Althusser33, il quale era convinto di

 

33     Louis Althusser, L’avvenire dura a lungo, Guanda, Parma 1992, p. 289.

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non essere. E temeva, ogni volta che un suo libro veniva pubblicato, che prima o poi qualche lettore scoprisse il proprio segreto: la sua non-esistenza.

Insomma, non è detto che l’atto del cogito includa la follia. Perché l’intento cartesiano era quello di mostrare che un atto di pensiero ga- rantisce l’esistenza, era garantire che qualcosa esiste grazie al Cogito, garanzia che viene appunto meno nella follia.

 

9.

 

Derrida34 si è anche interrogato sull’ambivalenza di Foucault nei confronti di Freud e della psicoanalisi, “vuole sia accreditare, sia di- screditare Freud” (Derrida, cit. p. 149). Foucault (1969) ammette che il suo pensiero deve molto alla moderna trinità – Marx, Nietzsche, Freud – ma prende le distanze dalla visione marxista della storia, così come dalla teoria-pratica di Freud. In Storia della follia scrive:

Freud riprendeva la follia al livello del suo linguaggio, ricostituiva uno degli elementi essenziali di una esperienza ridotta al silenzio dal positivismo; non aggiungeva alla lista dei trattamenti psicologici della follia una addizione maggiore; restituiva, nel pensiero medico, la possibilità di un dialogo con la sragione [déraison]35.

 

Ma d’altra parte nello stesso libro scrive:

 

ancora sarebbe più giusto dire che [la psicoanalisi] ha raddoppiato lo sguardo assoluto del sorvegliante della parola indefinitamente monologata del sorvegliato – conservando così la vecchia struttura manicomiale dello sguardo non reciproco, ma equilibrandolo, in una reciprocità non simme- trica, con la struttura nuova del linguaggio senza risposta.

 

Da una parte insomma riconosce la mutazione che la psicoanalisi ha apportato alla psichiatria prendendo sul serio il discorso del folle e cercando di interpretarlo. Ma, d’altra parte, l’asimmetria del rapporto analista/paziente, in cui l’analista interpreta mentre il paziente è interpretato, prosegue, pur nell’innovazione, il rapporto psichiatrico in cui c’è chi sa e chi viene saputo. Insomma, la psicoanalisi è pur sempre un dispositivo di potere che si fonda sulla pretesa di un sapere scientifico – an-

 

34     ‘Etre juste avec Freud’. L’histoire de la folie à l’âge classique, in aa.Vv., Penser la folie. Essais sur Foucault, cit.

35     Foucault, Storia della follia nell’età classica, cit., p. 411.

 

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che se non positivista – sulla follia. (Oggi molti direbbero che questa immagine che Foucault ha della psicoanalisi è superata. La corrente “relazionista” in psicoanalisi mette l’analista e l’analizzante sullo stes- so piano, almeno in teoria. Ma non lo era ai tempi di Freud.)

Credo però che questa ambivalenza di Foucault nei confronti della psicoanalisi sia un corollario del suo atteggiamento di fondo, almeno nella prima fase, nei confronti di ogni sapere. Da storiografo, rileva la differenza del modo in cui la psicoanalisi si relaziona al discorso folle rispetto alla psichiatria precedente, che lui vede legata strettamente all’istituzione manicomiale. La psicoanalisi non è prodotto del manicomio, ma della professione privata, liberale. Il paziente dello psicoanalista non è un malato che occorre tutelare, è un cliente. Invece, nella misura in cui Foucault si vuole, obliquamente, un critico di ogni sapere-potere, non può non rilevare che anche nella psicoanalisi c’è un’asimmetria, quella tra l’analista che interpreta e “il cliente” oggetto del lavoro interpretativo, tra l’analista che dirige la cura (in termini lacaniani) e l’analizzante diretto. Eppure è ben noto che, nella professione privata, “il cliente ha sempre ragione”.

Mettiamo che Foucault si fosse occupato del modo in cui gli psi- chiatri italiani, sulla scia di Franco Basaglia,  hanno impostato il loro lavoro in Italia dopo la legge 180, che ha chiuso gli ospedali psichiatrici. Da storico, avrebbe rilevato certamente la novità di una psichiatria nel territorio, community care come si dice nei paesi anglofoni, ma da critico anarchico di ogni sapere-potere non avrebbe potuto non rilevare che anche quello basagliano è un “governo della follia”, certamente meno repressivo di quello precedente, ma comunque è un certo modo di esercitare potere su chi impazzisce. E in effetti allo psichiatra italiano resta sempre la possibilità del TSO (trattamento sanitario obbligatorio), di ricoverare un malato in fase critica contro la sua volontà.

Col tempo, Foucault sembra rendersi conto che una critica anar- chica a ogni sapere-potere che si afferma storicamente non porta da nessuna parte: ogni società si fonda su un certo modo di governa- re i viventi, non esistono culture anarchiche, ma ogni società deve confrontarsi con la malattia, la follia, il crimine, e con la sessualità quando essa crea problemi (e tutti sappiamo che ne crea!).  La carica critica di Foucault col tempo tende in effetti a stemperarsi, anche nei confronti della psicoanalisi. Più che una critica dei saperi-poteri, quel che gli interessa ormai è capire come ogni epoca si costruisca una forma di vita a partire da una scommessa di verità.

Scrive Deleuze36: “se il potere è costitutivo di verità, come con- cepire un ‘potere della verità’ che non sia più verità di potere, una

 

36     Gilles Deleuze, Foucault, Editions de Minuit, Paris 1986, p. 101.

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verità che deriverebbe dalle linee trasversali di resistenza e non più dalle linee integrali di potere?”  Ma il punto è proprio questo:   che per Foucault potere della verità e verità di potere non sono due istanze contrapposte, ma si intrecciano sempre in modo al limite indissolubi- le. E le linee di resistenza al potere di una certa epoca – le opposizioni culturali - anche se fanno emergere delle verità, tendono a loro volta a costituirsi come verità di potere. È il destino di ogni Rivoluzione, che significa, come è noto, tornare al punto di partenza.

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