Flussi di Sergio Benvenuto

Il coraggio di amare. Lo scacco delle personalità “come se”09/dic/2021


 

Sergio Benvenuto

Sommario:

L’autore riprende il concetto psicoanalitico di “come se” elaborato da Helen Deutsch per descrivere alcuni casi clinici tratti dalla sua pratica di psicoanalista. Ma più in generale, lo riprende per descrivere un tipo di personalità caratterizzata dalla mancanza di coraggio e quindi dall’impossibilità di amare veramente qualcuno o qualcosa, dato che ogni amore implica un atto di coraggio. Il soggetto "come se" perde la nozione del proprio vero desiderio in quanto non osa realizzarlo e nemmeno esprimerlo a sé stesso. Infine, l’autore si chiede fino a che punto la maggioranza delle persone non siano personalità “come se”, e in particolare analizza una certa attrazione che la professione di psicoanalista esercita sul “come se”, e sul perché lo psicoanalista appaia una figura così attraente per il “come se”.


Abstract
The author takes up the psychoanalytic concept of "as if" developed by Helen Deutsch to describe some clinical cases drawn from his own practice as a psychoanalyst. But more generally, he uses it to describe a type of personality characterized by a lack of courage, and thus the impossibility of truly loving someone or something, since all love implies an act of courage. The "as if" subject loses the notion of his true desire insofar as s/he does not dare to realize it or even express it to himself. Finally, the author questions to what extent most people are "as if” personalities; in particular, he analyzes a certain attraction that the psychoanalytic profession exerts on the "as if", and why the psychoanalyst appears so attractive a figure to them.

 

 

 

« Del partner, l’amore può realizzare solo quel che ho chiamato con una sorta di poesia, per farmi capire, il coraggio, nei confronti di questo destino fatale…”

Jacques Lacan[1]

1.

             Una mia analizzante cinquantenne più di una volta ha evocato una scena del film di Ingmar Bergman Scene da un matrimonio, che l’aveva molto colpita. La protagonista è consulente di coppie che vogliono divorziare. Viene una signora più che matura, sposata da decenni e con figli ormai grandi: vuol divorziare. Perché? “Perché non ho mai amato mio marito”. Lo ha rispettato, stimato, certo, ma non amato. E’ stata sempre una moglie irreprensibile, ottima madre, ma ora sente di voler vivere secondo verità. La mia analizzante si sentiva in una posizione simile: da vent’anni “felicemente sposata”, con due figli ormai grandi che le danno soddisfazioni, suo marito la ama, non hanno problemi economici, nessun dramma familiare… Eppure un senso di vuoto, soprattutto, l’aveva convinta a fare un’analisi. Era agitata da un’inquietudine che la spingeva ad andarsene via dalla famiglia felice… Andarsene dove? Non lo sapeva. Solo via… Verso un vuoto senza oggetto.

             Questo sentimento di vivere come se si recitasse una parte fu magnificamente descritto dalla psicoanalista Helen Deutsch in un saggio del 1934 sulle personalità che lei chiamò “als ob”, “come se”[2]. I pazienti “come se” danno un’impressione di “completa normalità”, eppure chi li frequenta, e l’analista stesso, ha la sensazione che “manchi” loro qualcosa.  In particolare, essi sembrano mancare di calore e veri sentimenti, anche se apparentemente essi coltivano rapporti affettivi e di amicizia ricchi e variegati. Spesso loro stessi non si rendono conto di questa propria “differenza”, un po’ come il daltonico non sa di essere cieco a certi colori e crede di distinguerli come i vedenti normali.

             Scrive Deutsch:

“Dall’esterno, la persona ha l’aria normale. Nulla indica un disturbo di qualche sorta, nulla di insolito nel suo comportamento, le sue facoltà intellettuali non sembrano colpite, le manifestazioni delle sue emozioni sono controllate e appropriate. Ma, malgrado tutto, qualcosa di difficile da cogliere, di indefinibile, si interpone tra questa persona e gli altri e fa sorgere invariabilmente la domanda: ‘Che cosa c’è che non va?’” (p. 154)

 

             Molto probabilmente si è ispirato a questo saggio Woody Allen quando ha girato il “mockumentary” (documentario beffardo) Zelig nel 1983[3]. Zelig è un uomo che assume automaticamente la personalità e le fattezze delle persone che gli sono più vicine: non ha un’identità propria, la prende in prestito dagli altri. Se si trova accanto a rabbini diventa un rabbino, se si trova accanto a gangster diventa un gangster, quando si trova accanto a una psicoanalista – la quale cerca di curarlo appunto da questo conformismo coatto – diventa psicoanalista… Quest’ultima “presa in prestito”, che può sembrare buffonesca, in realtà era stata già descritta da Deutsch. Scriveva che sebbene "una forte identificazione [del paziente] con l’analista possa essere usata per esercitare un’influenza attiva e costruttiva” su questi pazienti, i “come se” spesso sviluppano la “vocazione” a diventare loro stessi psicoanalisti. Ovvero, prendono in prestito dall’analista ciò che a loro manca: la passione di essere analisti. Ma prendere in prestito una passione è viverla?

             Ho potuto constatare comunque che spesso le personalità “come se” sono attratte dalla psicoanalisi anche prima di cominciare la loro analisi; anzi, chiedono un’analisi proprio perché spesso sono veri e propri cultori di psicoanalisi. Accade che essi o esse abbiano letto miei saggi e libri, e che per questo mi abbiano scelto come analista. Alcuni vorrebbero iniziare un training analitico. Questo godere della psicoanalisi mi sembra un elemento fondamentale per capire, forse, il fondo della personalità “come se”.

 

2.

             Non entrerò qui nelle disquisizioni analitiche successive a Deutsch, che vertono molto spesso sulla classificazione nosografica di questo tipo di personalità. Alcuni ne fanno un esempio di personalità borderline, una categoria elaborata successivamente, che ha però contorni sfumati e confusi (in realtà, dà una categoria a vari casi che non quadrano con le altre categorie). In particolare, i “come se” rientrerebbero in uno dei quattro tipi borderline, quello detto “scoraggiati” (quiet borderline)[4]. Deutsch aveva notato che molti schizofrenici avevano vissuto in maniera “come se”, e si chiedeva se questo tipo di personalità non fosse un terreno fertile per la schizofrenia, o se non fosse già, addirittura, un inizio di schizofrenia silente, dolce[5]. Altri hanno messo in rilievo l’affinità con le personalità depressive e quindi con il narcisismo così come concettualizzato da Freud[6]. Heinz Kohut ne parlava come casi di “disturbi del Sé”[7].

Gli psicoanalisti francesi più che di borderline parlano di “états limites” (stati limite), di stati psichici a metà strada, per dir così, tra nevrosi e psicosi. Jacques-Alain Miller e la sua scuola, sulla scia di Lacan, rigetteranno la categoria di borderline ed elaboreranno il concetto di psicosi ordinaria per inquadrare le personalità “come se”, ovvero una forma di psicosi che non sfocia in una follia in senso clinico, ma resta come soffusa[8].

Non entreremo in queste diatribe, perché spesso le etichette nosografiche sono usate non per capire veramente certe forme di vita, ma per credere che dare loro un luogo in uno schema sia anche un modo di spiegarle. Così, per esempio, spesso si spiega un comportamento auto-punitivo involontario col masochismo; ma il masochismo a sua volta è definito come una tendenza auto-punitiva…. L’oppio fa dormire perché ha virtus dormitiva. Non è parafrasando qualcosa con termini “scientifici” che la si spiega veramente.

 

3.

             Ho l’impressione che in realtà il mondo sia pieno di personalità “come se”: sono tutti coloro che, per dirla come Lacan, non sono fedeli al proprio desiderio[9]. Sono talmente infedeli al proprio desiderio, che non sanno più che cosa desiderano. Spesso perdono completamente la nozione del loro oggetto. Essi tendono a seguire la corrente, e a scegliere situazioni e percorsi che richiedono il minimo sforzo. Posti di fronte ad alternative nella vita, scelgono sempre “il più basso profilo”. Vivono come chi debba trovare un rifugio, uno qualsiasi, in una tempesta. Trovare rifugio significa anche essere mantenuti economicamente da qualche altro (genitore, sposo o sposa, amico…).

             Da bambini, tendevano a fare quel che proponevano loro i genitori – il tipo di sport, lo strumento musicale da suonare, l’hobby – e non quello che personalmente avrebbero preferito. Quando devono scegliere un iter scolastico, sceglieranno non quello che piace loro di più ma quello “più pratico, più facile”, quello che secondo loro porta più presto a trovare lavoro. Se si propone loro un viaggio in un posto che desiderano conoscere, finiranno col dire no trovando varie scuse (“costa troppo”, “devo occuparmi della casa”, “devo prima finire degli esami”…). Nella vita erotica e sentimentale più che scegliere l’amato, sono scelti da lui o lei. Tendono a dire sì a chi li ama non perché li amino a loro volta, ma perché l’essere scelti dall’altro evita loro la pena di cercare l’amore e dell’eventuale rifiuto o scacco. Per evitare i fiaschi dei loro progetti, non provano nemmeno a elaborare progetti. Si dicono sicuri di fallire se intraprendessero qualcosa che amano, perché hanno paura appunto di fallire quell’impresa. Preferiscono che i loro sogni restino tali, perché realizzarli significherebbe… essere altri da quello che sono. L’idea di “realizzarsi” li minaccia, pensano di sgretolarsi…

Se devono fare qualcosa, preferiscono lavorare in équipe. Oggi viviamo in un’epoca in cui il lavoro in équipe è esaltato di contro al lavoro solitario, individuale, per cui queste persone si sentono socialmente convalidate. In realtà tendono a “imboscarsi” nel team in cui decidono di lavorare. Hanno bisogno di un gruppo che li trascini… Se si chiede loro di scrivere qualcosa, per studio o per lavoro, preferiranno sempre collaborare con altri. Accodarsi a chi già fa, mai promuovere cose da fare. Piuttosto che cercare un lavoro, aspettano che il lavoro trovi loro: che venga proposto da parenti, amici, amanti. Di solito evitano ogni forma di conflitto, con la moglie, il marito, i figli, i parenti stretti… Se si adirano con qualcuno per qualche ragione, preferiscono non vederlo anziché dirgli le ragioni del loro risentimento. Per loro non è importante fare il lavoro che piacerebbe loro fare – del resto, spesso hanno perso la nozione di ciò che a loro piacerebbe – l’importante è avere un lavoro, un lavoro qualsiasi, anche se lo detestano. Più che perseguire il proprio piacere, cercano di compiacere gli altri. Cercano di fare contenti un po’ tutti, e quindi esasperano chi sarebbe disposto ad amarli, il quale si aspetta ben altro che l’arrendevolezza. Persino il sesso, lo fanno per far contento il partner designato.

Il “come se” viene in analisi quando a un certo punto, per varie contingenze, si rende conto che finora non ha veramente vissuto, è solo sopravvissuto. Da qui un impulso di fuga da tutto ciò che lo ha scelto.

 

4.

             Ma cosa lo spinge a questa passività? Perché non tiene fermo il proprio desiderio?

             Deutsch aveva avanzato l’ipotesi che molti di questi “come se” sarebbero il prodotto di genitori che non hanno dato loro calore. Lei sostiene che il bambino, per essere in grado di sviluppare una normale vita emotiva, debba sperimentare il calore del corpo materno e la corrente libidica dei genitori che fluisce nella costellazione edipica; questi soggetti sarebbero stati carenti proprio di questo, e quindi non sarebbero in grado di sviluppare un normale complesso edipico[10]. In effetti Deutsch descrive I genitori di una sua paziente “come se”: erano remoti e non coinvolti dalla figlia. Non mostravano alcuna emozione né tenerezza nei suoi confronti. L’allevamento della figlia era delegato a una serie di balie e governanti.

             In effetti in molti casi possiamo far risalire la passività del soggetto a una certa indifferenza di uno e di entrambi i genitori. La madre, in particolare, sarà anche stata irreprensibile come madre, ma “non era là” con la testa e col cuore… Resta il fatto che altri fratelli o sorelle manifestano tipi diversi di personalità. Non è credibile che questi genitori abbiano avuto un atteggiamento così profondamente diverso da figlio a figlio (anche se nemmeno questa ipotesi può essere esclusa). Comunque possiamo interrogarci sulle origini di questa personalità solo après coup, quando ormai il soggetto “è già fatto”, per cui della sua infanzia abbiamo solo il suo racconto, che è in ogni caso un’interpretazione soggettiva della propria storia.

             Comunque sia, un elemento ricorrente mi sembra cruciale. Queste persone non hanno mai avuto una vera passione amorosa per qualcuno. Oppure l’hanno avuta, in origine, ma non è stata soddisfatta: il grande amore è rimasto solo un sogno. Essi sembrano privi di desiderio – o meglio, non sostengono ciò che dicono essere il loro desiderio – perché non hanno mai veramente amato qualcuno o qualcosa. Oppure hanno subito un’atroce delusione amorosa, uno scacco da cui non si sono più ripresi.

             Porterò un caso del secondo tipo.

 

5.

             Arman è un giovane armeno di 28 anni che ha passato la gioventù in Siria, all’interno però della propria comunità armena. La guerra civile siriana lo ha spinto a venire a vivere in Armenia, dove non era mai stato prima, seguito poi dal resto della famiglia. Arman ha preso una laurea in ingegneria, ma da anni non lavora. O meglio, lavoricchia per il padre, un imprenditore agiato. Ma aiuta il padre di malavoglia. Comunque Arman ha una passione: legge molta filosofia e psicoanalisi. Perciò mi ha “trovato”. Da tre anni sta con una ragazza americana di origine armena, che a stento parla armeno. La ragazza ha deciso comunque di restare in Armenia per lui, almeno per il momento. Ma confessa che questa ragazza non gli piace, non la trova abbastanza bella. Teme di fare una brutta figura con gli amici. Tra loro due ci sono spesso litigi, perché lei gli dice “non ti impegni abbastanza!”, ed è vero. Ma lui non ha il coraggio di rompere con lei. Né quello di trovare un serio lavoro. Diciamo che tende a compiacere il padre e la fidanzata, che gli offrono prospettive nel fondo alternative. La ragazza è di New York, città dove potrebbe studiare filosofia o psicoanalisi…

             Dice che i suoi problemi sono cominciati a sedici anni, quando ebbe un attacco di panico. Cominciò a essere ipocondriaco; da che era un ottimo studente, divenne uno degli ultimi della classe. Questa fase critica durò a lungo, poi si riprese, ma da allora è divenuto scettico, disinteressato, poco vivo, si lascia trascinare. Che cosa era accaduto a sedici anni?

             Allora si era innamorato di una ragazza armena che viveva in Siria, Dalita. Lui le si dichiarò, ma Dalita reagì con indifferenza. Da allora ebbe “il crollo”. Dopo ebbe altre storie, l’ultima con l’americana, ma senza entusiasmo. Insomma, da 12 anni egli è innamorato di questa Dalita. La quale poi è rientrata anch’essa in Armenia per fuggire la guerra, talvolta si vedono. Dopo il rifiuto di Dalita, vive da “come se”.

Dopo il gran rifiuto, ebbe i suoi primi rapporti sessuali con una ragazza armena, ma non l’amava: stava con lei solo per il sesso, e la tradiva. In realtà, non ha mai amato veramente una donna con cui è stato. Mi pare che Arman viva all’ombra nostalgica della storia mancata con Dalita. Il prezzo è una sorta di ignavia timorosa e timorata, da “come se”.

             Faccio notare ad Arman che in fondo il suo atteggiamento nei confronti della filosofia e della psicoanalisi è simile: gode nel coltivare queste due discipline, ma non fa nulla per trasformare questa passione in professione. Quando si sceglie una professione per passione, per seguire il proprio godimento intellettuale, è un po’ come quando uno si sposa la donna o l’uomo che ama. Ci sono tante persone che fanno il lavoro che capita loro, e tante persone che sposano le persone che capitano loro. Arman non ha pensato seriamente (talvolta, ma ha vergogna nell’ammetterlo) che potrebbe fare un corso di filosofia e divenire professore di questa materia. E anche se in Armenia ci sono scuole di psicoanalisi, non ha mai pensato di cercarne una per fare un training. Il mondo della passione (sia essa erotica o intellettuale) appare del tutto scisso dal mondo della vita quotidiana. Diciamo che il suo piacere di coltivare filosofia e psicoanalisi è masturbatorio. Arman “segue la corrente”, non cerca di realizzare i propri sogni.

             A un certo punto, mi viene spontaneo dirgli “Su, Arman, abbi più coraggio!”

             Viene il dubbio: Arman vive da insoddisfatto perché non ha potuto soddisfare il suo amore per Dalita, oppure ama Dalita proprio perché non ha potuto soddisfarsi di lei? Lo scacco inaugurale – quello di Arman con Dalita – è una garanzia per non rischiare più. E in effetti Arman dice “Sto male perché ho paura di soffrire. Così non soffro”. Per “star male” intende il nostro “essere come se”. E aggiunge: “In fondo, non voglio essere guarito.” Essere indifferenti, apatici, lasciarsi trascinare a rimorchio, è una efficace difesa contro la sofferenza. Accettare di amare è avere il coraggio di accettare di godere e di soffrire, ma per molti godere e soffrire sono troppo.

             Ora, mi sembra che la sofferenza che Arman e altri simili a lui vogliono evitare è la sofferenza dell’amore. Non la sofferenza dell’amore mancato, della nostalgia per ciò che non c’è stato – simile a quel che i portoghesi chiamano saudade – ma la sofferenza dell’amore consumato direi, nel doppio senso di “consumo”, come quando si dice “consumare un rapporto sessuale”, ma anche nel senso in cui si dice “le mie scarpe si sono consumate”. L’essere blasé protegge dal consumo dell’amore nel doppio senso: pericolo che l’amore venga vissuto fino in fondo, ma anche che, col tempo, si possa consumare, logorare. L’amore mancato si eternizza nella sua non-consumazione, ma getta la sua ombra sull’intera vita, che così viene vissuta senza passione. Questi soggetti sembrano difendersi dall’amore rischioso per qualcosa di definito che, come ogni cosa definita, finita, non vale la pena amare. Meglio non iniziare nemmeno ciò che dovrà finire. È l’orrore, descritto da Freud, per la Vergänglichkeit, caducità[11]. Perché le cose de-finite si possono perdere, sia perché vengono a mancare, sia perché siamo noi stessi spesso a lasciarle. L’amore consumato non è eterno. L’insoddisfazione invece, impedendoci di godere e soffrire, è eterna.

 

6.

             Sono “come se” alcune personalità ossessive. L’ossessivo è spesso una persona gelida, anancastica, iper-controllata, poco spontanea, perché deve sempre tenere a bada impulsi contraddittori, dilanianti.

Un mio analizzante ossessivo aveva avuto alcune esperienze con donne, ma senza vero trasporto amoroso. A 35 anni corteggiò una donna che descriveva come il suo opposto. Certamente non ne decantava la bellezza. Lui era un intellettuale interessato alle arti, lei invece era una donna “comune” senza vera cultura. Lui era materialista ateo, lei invece cattolica, rampolla di una famiglia conservatrice e benpensante. Lui aveva fantasie feticiste perverse, lei invece aspirava a rapporti sessuali molto corretti. Lui voleva mollarla, ma a un certo punto lei gli confidò che le era stata diagnosticata la sclerosi multipla, anche se non aveva sintomi. Dopo questo, lui non poté lasciarla. Altrimenti si sarebbe sentito un vile. Fu lui stesso a proporle di sposarsi, anche se aveva sempre deriso il matrimonio come istituzione borghese. Gli chiesi perché. E lui: “Perché sapevo che era quello che desiderava lei”. Appunto, l’ossessivo deve sempre obbedire al supposto desiderio dell’Altro. Ha finito con lo sposarsi in chiesa – lui che mi portava sogni in cui il papa appariva un despota mostruoso – per accontentare la sposa e i suoceri. Diceva che non gli interessava avere figli, ma subito si prodigò per avere un figlio. Lei era sterile, per cui andò alle Isole del Capo Verde per praticare la fecondazione in vitro eterologa (Fivet), l’inseminazione artificiale di un ovulo di altra donna, il quale poi venne inserito nell’utero della sua sposa. Comunque lui mi ha sempre ripetuto, fino alla fine dell’analisi, che non amava sua moglie.

             Chi era il vero soggetto? Nella personalità ossessiva il “come se” diventa più intricato, vertiginoso. Il true self (come lo chiamerebbe Winnicott[12]) è quello che derideva il matrimonio o quello che ha proposto alla donna di sposarlo? Era il soggetto perverso e materialista o l’ottimo marito e padre di famiglia che di fatto divenne? In questo caso il “come se” si sdoppia: il soggetto spaccia come “vero sé” un sé a cui non resta fedele, che lui abiura, per dir così, facendo il contrario di quel che desiderava, ma che coincide col supposto desiderio dell’Altro. Nella nevrosi ossessiva vediamo in gioco due falsi sé, anche se diversamente falsi.

             Ma come imputargli una mancanza di coraggio? Dopo tutto, non aveva indietreggiato quando aveva saputo della malattia della sua donna, anzi, potremmo dire che è stato eroico. Ma non abbastanza eroico per amare. Eroico nel compiacere l’altro. Il vero coraggio sarebbe stato quello di lasciare una donna che non amava, non darle tutto quello che, secondo lui, lei desiderava, compreso un figlio che lei non poteva avere. Egli si comporta “come se fosse innamorato pazzo” della moglie, ma nega di amarla. Fa atti coraggiosi, ma non ha coraggio.

 

7.

             La mia analizzante che citava il film di Bergman diceva di aver perso il tram che si chiama Desiderio. Per questa ragione non poteva portare a termine il training professionale che voleva intraprendere, il training che lei diceva di desiderare: c’erano sempre intoppi per non portarlo a termine. Ma a un certo punto la corressi. Le dissi: “Lei ha perso il tram che si chiama Amore”.

             Da dove viene tutta questa paura di amare? Sono i “come se” persone che non amano veramente nulla, e che per questo fanno finta di amare vivendo una vita sociale irreprensibile? E perché non riescono ad amare? L’amore non è qualcosa che ci sorprende, che ci prende alla sprovvista, che si impone a noi dall’esterno? In effetti, quando queste persone si trovano a rischio di amore, fuggono nelle scelte convenienti, in quelle che richiedono il minor costo. Insomma, essi mancano del coraggio di amare. Di amare qualcuno, qualcosa.

 

             Mi chiedo se il desiderio frequente dei “come se” di diventare psicoanalisti, o il loro amare la psicoanalisi, sia semplicemente una presa in prestito all’analista della sua passione, alla Zelig. E se fosse invece il contrario, se ci fosse del “come se” in molti psicoanalisti, o in una certa psicoanalisi?

             Ha avuto molto successo la prescrizione di W.R. Bion, secondo cui l’analista deve mettere da parte memoria e desiderio[13]. Ma questa è la tipicità del “come se”: sospende anch’egli memoria e desiderio. Non che egli manchi di ricordi, ma questi sono come avvolti in una nuvola mesta, grigia, senza sprazzi. Ora, l’analista spesso idealizza se stesso proprio come qualcuno che non desidera, e quindi non ha memoria desiderante del passato, non ha Sehnsucht direbbero i tedeschi. E dal canto loro molti lacaniani esaltano l’imperturbabile apatia dell’analista, la sua quasi-indifferenza, il contrario insomma dell’empatia. Se oggi è di moda tra tanti analisti dire che invece conta l’empatia, è proprio per spezzare una lunga tradizione che fa della neutralità dell’analista, del suo ”fare il morto” attraverso un silenzio ferreo, il suo connotato essenziale. L’analista, per parafrasare Freud[14], è una figura per molti così affascinante perché certamente attraversa l’Acheronte e si misura con l’infernale sound and fury delle pulsioni, ma si suppone che lo attraversi da superus, con una divina serenità per cui non si sporca d’Inferno. Il fatto che questo analista sia una figura mitica non ne diminuisce il fascino, soprattutto agli occhi dei “come se”.

             La letteratura psicoanalitica, forse più della psicoanalisi stessa, genera spesso l’illusione di un’istituzionalizzazione del “come se”.

 

8

Ci coglie un terribile sospetto: e se una vasta proporzione (la maggioranza?) degli esseri umani fossero “come se”?

Agli occhi degli analisti i “come se” possono apparire relativamente pochi, ma è probabile che la stragrande maggioranza dei “come se” non vengano in analisi. Dopo tutto, sappiamo che i leader, i condottieri in imprese civili e militari, chi ha iniziativa, chi è creativo, chi rischia nella vita e nel lavoro…., sono una minoranza tra gli umani. Per lo più la massa li segue. Quante “brave persone”, invece di identificare davvero il loro desiderio, la Cosa che li polarizza, hanno invece seguito l’onda, si sono conformati ai gusti e ai valori ambientali. Quanti insomma “fanno gregge”? In questo senso i “come se” non sarebbero una patologia – del resto, per la psicoanalisi niente è veramente patologico – ma la condizione umana predominante. Dovremmo chiederci piuttosto come è che alcuni non si accontentano di essere “come se”.

             E’ un mio sospetto, non una teoria. Come abbiamo detto, il “come se” non ama nessuno in particolare, si affeziona – per così dire – a qualcuno che gli è vicino, i figli, i genitori… Ma, si dirà, la maggior parte delle persone non ama qualcuno? Questo è tutto da vedere. La maggior parte delle persone è capace veramente di grandi amori? In effetti, amare è rischioso. E’ bello amare, ma è anche un modo di mettersi in guai seri.

             D’altro canto, ci si chiede, si può essere veramente amati se si è “come se”? Perché in effetti, per riprendere la provocazione di Lacan, che cosa si ama nell’altro se non, appunto, il coraggio? Intendo qui il coraggio nel senso del termine greco antico ανδρε?α, il coraggio, la prodezza. Ανδρε?α viene da ?ν?ρ, e difatti si applicava soprattutto al valor militare. Si suol dire che questo coraggio nel senso di ανδρε?α è soprattutto quello che le donne amano negli uomini, ma oggi, in un’epoca in cui si punta a considerare entrambi i sessi come moralmente e psichicamente eguali, direi che anche gli uomini cercano nelle donne questa ανδρε?α. Le donne proposte oggi come modelli culturali sono in effetti, per lo più, donne combattenti, donne coraggiose non meno degli uomini. Ma anche se non sono donne che rischiano la vita come Rosa Luxenburg o Aung San Suu Ky, oggi la donna va amata per il suo coraggio nel far fronte, anch’essa, al compito della vita. E il compito della vita è quello di sfidarla. 

             Ma allora, l’analisi, denunciando al soggetto il suo essere “come se”, non naviga in senso opposto alla tendenza dei più, quella di adattarsi a una posizione “come se”? In sostanza, la psicoanalisi, anche senza teorizzarlo esplicitamente, anche senza esserne consapevole, non punta a una conversine aristocratica dei propri clienti? Spingendo tacitamente ciascuno ad avere il coraggio di amare, di rischiare se stessi amando, non propone alle persone qualunque che vengono in analisi un progetto, persino eroico, di andreia? Forse, una certa ironica diffidenza generale non solo della gente, ma di tanti psicologi e psicoterapeuti, nei confronti della psicoanalisi – come snob, chic, pretenziosa, fatta per pazienti affetti da sindrome YARVIS[15], ecc. – non coglie una verità, che l’analisi è così lunga e faticosa perché cerca di dare coraggio alla gente, il coraggio di amare qualcuno perché ha coraggio? E se la psicoanalisi fosse destinata a essere sempre esperienza per pochi (se riesce), ovvero per una élite che sa di avere coraggio? Allora le altre psicoterapie, soprattutto quelle cognitivo-comportamentali, sarebbero destinate alla massa di chi non vuole osare.

             Questo sembrerebbe il contrario di quanto detto prima, che la figura dello psicoanalista attrae particolarmente il “come se” proprio perché si suppone che l’analista non ami il suo paziente, che come analista non ami né odi nessuno, che sia insomma apatico, impenetrabile. Ma forse quest’immagine che l’analista cerca di dare di sé è proprio il contrario di quel che fa: in un certo senso, prima o poi, l’analista mette il proprio analizzante di fronte a un bivio, e gli dice che non può restare nello stallo, nel punto morto as if in cui si è accomodato. Talvolta l’analizzante non si rende nemmeno conto di essere stato posto di fronte a un bivio, ma di fatto compie la scelta rischiosa: si lascia appassionare. Non perde più il tram, appassionato.

 



[1] J. Lacan, Le Séminaire, vol. 20. Encore, Seuil, Paris 1975, p. 131.

 

[2] H. Deutsch (1934) “Über einen Typus der Pseudoaffektivität”, Internationale Zeitschrift für Psychoanalyse XX 1934 Heft 3, p. 323-335.

 

[3] O forse si è ispirato al saggio di: P. Greenacre (1958) “The impostor”, Psychoanalytic Quarterly27 (3), pp. 359-382.

 

[4] Vedi V.R. Sherwood & C.P. Cohen (1994) Psychotherapy of the Quiet Borderline Patient: The as-if Personality Revisited, Jason Aronson, New York.

 

[5] La relazione tra la personalità schizoide e i “come se” è stata approfondita da Masud Khan: M. Khan (1960) “Clinical aspects of the schizoid personality: Affects and technique”, International Journal of Psycho-Analysis41, pp. 430-437.

 

[6] O. Kernberg (1975) Borderline conditions and pathological narcissism, Jason Aronson, New York.

 

[7] H. Kohut (1986) Potere, coraggio e narcisismo, Astrolabio-Ubaldini, Roma.

 

[8] J.-A. Miller, a cura di (1997) IRMA. La conversazione di Arcachon. Casi rari: gli inclassificabili della clinica (Roma: Astrolabio, 1999). J.-A. Miller, a cura di (1997) IRMA. Il conciliabolo di Angers. Effetti di sorpresa nelle psicosi (Roma: Astrolabio, 1999). J.-A. Miller, a cura di (1999) La psicosi ordinaria. La convenzione di Antibes (Roma: Astrolabio, 2000).

 

[9] Tema sviluppato in particolare in: J. Lacan (2008) Il Seminario, vol. 7. L’etica della psicoanalisi, Einaudi, Torino.

[10] P. Roazen (1985) Helene Deutsch: A Psychoanalyst's Life, Anchor Press/Doubleday, New York.

 

[11] S. Freud (1915), “Caducità”, Opere Complete di Sigmund Freud, vol. 8, Bollati-Boringhieri, Torino, p. 173 agg. Si veda: S. Benvenuto, « Freud, il fine e la fine », Agalma. Rivista di studi culturali e di estetica, 19, aprile 2010, pp. 47-60. https://www.sergiobenvenuto.it/ilsoggetto/articolo.php?ID=165. E. Fachinelli, “Freud, Rilke e la caducità” in Su Freud, a cura di L. Boni, Adelphi, Milano 2012.

 

[12] Winnicott distingue il “falso sé” dal “vero sé”. D. W. Winnicott (1965) “Ego distortion in terms of true and false Self” in The maturational processes and the facilitating environment, Hogarth and the Institute for Psycho-Analysis, London, pp. 140-152.

 

[13] W.R. Bion (1970) Cogitazioni, Armando, Roma 1996, pp. 315-316. Cfr. S. Benvenuto, “Memoria e desiderio”, Rivista Italiana di Gruppoanalisi, vol. XX, n. 3, 2006, pp. 13-18, https://www.torrossa.com/en/resources/an/2217005

 

[14] “Flectere si nequeo superos, Acheronta movebo”, S. Freud (1900), Interpretazione dei sogni, Opere Complete di Sigmund Freud, vol. 3, Bollari-Boringhieri, Torino, p. 1.

[15] Chi soffre del fatto di essere Young, Attractive, Rich, Verbal, Intelligent, Sophisticated.

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